domenica 19 aprile 2015

PAROLE CHIARE SULL'IMMIGRAZIONE: SOLIDARIETA' E LEGALITA' / Dossier



DOSSIER
PAROLE CHIARE SULL'IMMIGRAZIONE: 
SOLIDARIETA' E LEGALITA'
Contributi di riflessione e documentazione







Copertina e indice del volume, pubblicato a cura del Ministero dell’Interno, contenente gli Atti del primo convegno nazionale sull’immigrazione araba in Italia e in Sicilia, tenutosi a Palermo nel 1981.







                                                     







(Alcuni miei articoli degli anni 2000)


LA MODERNA SCHIAVITU

di Agostino Spataro

Seguendo i giornali, i telegiornali e le truculente dichiarazioni dei rappresentanti del governo, sembra che lo stupro sia divenuto la prima emergenza nazionale. Più degli effetti della crisi economica e morale, delle efferatezze della criminalità organizzata.
L’allarme, seguito da severi provvedimenti, scatta soprattutto quando il delitto è commesso da giovani immigrati. Se commesso in famiglia, come nella maggioranza dei casi, o da un giovane connazionale al massimo diventa bullismo, disadattamento o cosucce del genere. 
Con ciò non si vuol negare la necessità di misure adeguate di prevenzione e di repressione per scoraggiare e punire gli autori di tali episodi obbrobriosi, ma rilevare l’enfasi eccessiva che si è voluto dare a questi episodi che, per altro, porta a  trascurare fenomeni ben più gravi e diffusi.
Qual è la riduzione in schiavitù che, anche in Italia, tormenta l’esistenza di decine di migliaia di donne e di bambini.
L’ultimo caso, l’altro giorno, ad Alcamo: una ragazza rumena, con l’aiuto della polizia, è riuscita a liberarsi, speriamo per sempre, dalle grinfie dei suoi aguzzini i quali per costringerla a prostituirsi la tenevano praticamente in condizioni di vera e propria schiavitù.
Eppure, consumata la notizia, non è successo nulla. Nessuno ha proposto un decreto contro gli schiavisti italiani e stranieri che controllano un traffico enorme di uomini e donne.
Non è scattata nemmeno quell’indignazione istintiva che è (era?) la controprova della sanità morale di un popolo, di una nazione che, per altro, si professa cattolicissima e devota.
Come se in queste nostre società “opulente” anche il sentimento della pietà umana si stia spegnendo nelle nostre menti alienate e terrorizzate da certa propaganda, a contatto con l’arido deserto creato intorno a noi da egoismi sfrenati e devastanti.  
E questo un’altro aspetto, forse il più inquietante, di questo nuovo ciclo mondiale delle migrazioni che, oltre a creare nuovi dissesti sociali e morali nelle società d’origine e di destinazione, produce forme diverse di schiavitù che, abolita ufficialmente dalla convenzione di Ginevra del 1926, oggi ritorna e si afferma anche nelle nostre civilissime contrade.
Chi pensava che fosse definitivamente scomparsa deve ricredersi alla luce di quanto avviene nei mercati del lavoro e dell’emigrazione clandestina che è una variante tragica del primo.
Secondo tali meccanismi, gli individui, soprattutto i più emarginati e discriminati, non sono più esseri umani, ma merce da acquistare e da vendere per pochi euro, bestie da sfruttare e spedire su camion piombati, da traghettare su battelli precari verso i paesi di questo Occidente immemore ed ipocrita.
Una condizione drammatica che i nostri occhi non vedono forse perché abbagliati dal luccichio che promana il dio-mercato che sta stravolgendo il sistema delle relazioni umane e  portando il mondo sull’orlo della catastrofe.
Una logica folle che - nel migliore dei casi- considera le persone “capitale umano”, “risorsa umana”. Una fraseologia “moderna” che, in realtà, serve per edulcorare una concezione abietta che giunge a giustificare, a tollerare, anche la tratta, su vasta scala, di uomini, donne e bambini.
Un commercio turpe, lucroso e criminale che non potrebbe continuare a svolgersi senza la complicità di settori importanti preposti ai controlli e il beneplacito dei grandi utilizzatori finali della “merce”.
Una moderna schiavitù che si diffonde in barba alle leggi nazionali e alle convenzioni internazionali e in aperto spregio dei valori umanitari e di libertà che stanno alla base delle nostre Costituzioni e  società.
Tutti lo sanno, ma nessuno fa nulla, sul serio. Lo sa anche il Parlamento italiano che, negli anni scorsi, ha promosso un’interessante indagine sulla “Tratta degli esseri umani” che documenta l’estensione e l’abiezione del fenomeno e contribuisce a ridefinire il concetto stesso di schiavitù alla luce della citata Convenzione di Ginevra e della più recente normativa europea: “La schiavitù è il possesso in un uomo e l’esercizio da parte di questo, sopra un altro uomo, di tutti o di alcuni degli attributi della proprietà. In tal modo, dunque, la schiavitù è identificata come l’espressione suprema della reificazione umana.”
Non so quanti dei nostri parlamentari, ministri, alti funzionari, imprenditori, amministratori locali, operatori del diritto,  giusvaloristi  abbiano letto le risultanze di questa indagine. Non molti, visto che non ha avuto alcun seguito. Tuttavia, il documento parla chiaro e nessuno può chiamarsi fuori. La tratta, infatti, esiste e colpisce diverse categorie di persone ridotte in stato di schiavitù.
In Italia, in Europa non nella repubblica centro-africana di Bokassa!
A cominciare dal mercato del sesso, per l’appunto, che - secondo le stime dell’Interpol- solo in Italia supera le 50.000 unità “tutte trattate come schiave.”
In Europa, sono almeno mezzo milione le donne, di diversa nazionalità, avviate al mercato della prostituzione che (cito dal documento conclusivo) “si traduce in un vero e proprio business del valore oscillante fra i 5-7 miliardi di dollari l’anno e ciascuna donna “trattata” vale 120-150 mila dollari l’anno. Questo denaro- continua il citato documento- nelle mani della criminalità organizzata, alimenta la corruzione e consente- ed allo stesso tempo impone- una capillare gestione di questo mercato”.
Il triste fenomeno non riguarda soltanto decine di migliaia di donne immigrate (africane, asiatiche, sudamericane ed anche europee) in gran parte minorenni, ma anche migliaia di schiavi-bambini costretti ad elemosinare, a rubare, quando non sottoposti all’espianto di organi da trapiantare.
Queste ed altre pratiche rientrano perfettamente nella tipologia della schiavitù come definita dalle leggi e dalle convenzioni internazionali vigenti. Eppure nessuno si scandalizza, interviene adeguatamente. Quasi per il (falso) pudore di dover ammettere di convivere con una realtà così tragica che invece di affrontare si preferisce occultare, rimuovere. Esattamente il contrario di quanto avviene per i casi di stupro enfatizzati al massimo per deviare contro gli immigrati l’esasperazione dei cittadini e la violenza indiscriminata di gruppi di giustizieri metropolitani.

            18 febbraio 2009 (In: www.infomedi.it)



L’EMERGENZA PROSSIMA FUTURA
di Agostino Spataro

La politica, la diplomazia nulla possono contro la meteorologia: con la bonaccia , infatti, sono ripresi gli sbarchi di clandestini dalla Tunisia verso Lampedusa.
E’ questo un risvolto diretto delle rivolte arabe, soprattutto nordafricane, che si materializza in Sicilia come una nuova emergenza che mette a dura prova le strutture d’accoglienza e le miopi politiche migratorie del governo Berlusconi.  
Per altro, è prevedibile che l’esodo si estenda a Egitto, Libia, Algeria.
Insomma, una fuga di massa che è una prima avvisaglia di un più grande dramma sociale e politico che, secondo gli esiti politici delle rivolte, potrebbe infiammare le sponde sud ed est del Mediterraneo.
La Sicilia potrebbe ritrovarsi al centro di tensioni e di conflitti, anche devastanti, per la ridefinizione degli assetti dei poteri in queste regioni vitali del mondo, in aderenza ai nuovi equilibri della globalizzazione. Perché, a occhio e croce, di questo si tratta.
In quest’area, infatti, insistono grandi risorse energetiche, fenomeni ideologici irriducibili (islamismo radicale e terroristico) e conflitti sanguinosi che sembrano essere divenuti insolubili, fra cui quello israelo – palestinese che, presto, potrebbe ri-diventare arabo - israeliano.
In caso di estensione di tali conflitti la Sicilia potrebbe restarne coinvolta. Direttamente. Per la sua prossimità geografica e per essere divenuta la piattaforma più avanzata degli Usa e della Nato proiettata verso gli scacchieri mediterraneo e mediorientale.
Non è un mistero svelato da Wikileaks (l’abbiamo già scritto in “La Repubblica” del 6/5/2005) che a Sigonella sono concentrate le più sofisticate capacità di dispiegamento rapido per la cosiddetta
“lotta al terrorismo”.
Scenari imprevedibili si possono avverare e trovare impreparate l’Italia e l’Europa le quali, a differenza degli Usa, non hanno elaborato verso questi paesi una dottrina, una politica autonoma di pace e di cooperazione reciprocamente vantaggiosa.
Ma torniamo all’emergenza emigrazione che, in pochi giorni, ha visto sbarcare in Sicilia quasi 6.000 persone; un dato allarmante e anche un po’ strano poiché non si capisce come mai da un paese finalmente liberato i giovani fuggano invece di restare per ricostruire l’economia e consolidare la democrazia.
Evidentemente, qualcosa non quadra in queste “rivoluzioni incompiute” che hanno detronizzato i rais, ma lasciato il potere ai loro colleghi militari e agli esponenti dell’ancien regime.
I siciliani hanno accolto con spirito umanitario la nuova ondata migratoria, tuttavia non hanno gradito la volontà del governo di concentrare nell’Isola i flussi in arrivo.
Diversi sindaci, specie quelli di Lampedusa, Mineo e Caltagirone, hanno espresso alcune comprensibili preoccupazioni.
Ovviamente, il disagio non è solo locale, ma riguarda l’intera Sicilia che certo non può fronteggiare, da sola, un’emergenza di dimensioni nazionale ed europea, nemmeno con gli aiuti promessi. Questo- a me pare- il punto politico principale su cui la Regione deve puntare i piedi.
Un’insistenza sospetta quella del governo delle “eterne emergenze” nelle quali- sappiamo- anche i sentimenti più genuini vengono travolti da manovre e interessi spudorati.
Specie se in ballo ci sono contratti milionari che facilmente accendono appetiti affaristici e clientelari.
Come quelli che si profilano con l’operazione “villaggio della solidarietà” di Mineo dove Berlusconi e Maroni vorrebbero concentrare sette mila rifugiati regolari.
Una proposta che farà la gioia del cavaliere Pizzarotti, ma non quella dei sindaci della zona e delle stesse associazioni dei profughi che la considerano un marchingegno, per altro molto costoso, che, invece di favorire l’integrazione, isolerebbe i rifugiati in una sorta di ghetto a quattro stelle.
Come mai una proposta simile non è stata avanzata a una regione del Nord dove i profughi e gli immigrati desiderano andare perché troverebbero più opportunità di lavoro?
Forse per tenerli lontano dalla “padania” ed evitare problemi elettorali alla Lega?
Solo così si può spiegare tanta sospetta benevolenza nei confronti dell’Isola e degli immigrati che è  un’amara conferma del ruolo subalterno assegnato all’Isola nella prospettiva strategica dell’Italia.
Anche in questo caso, si riscontrano un approccio detestabile e un'iniqua suddivisione dei ruoli derivati dallo sviluppo del paese: i benefici, il valore aggiunto al centro-nord, le conseguenze negative, i problemi al sud, in Sicilia. Gli esempi sono tanti, antichi e recenti.
Valga per tutti l’anomalia degli scambi commerciali con i Paesi arabi rispetto ai quali le regioni del centro-nord sono le principali esportatrici di beni e servizi, mentre la Sicilia si deve far carico dell’importazione di enormi e inquinanti quantitativi d’idrocarburi, destinati a incrementarsi con la costruzione dei due rigassificatori.
Spiace rilevarlo, ma la concentrazione nell’Isola di questa massa d'immigrati e di rifugiati ha tutto il sapore di una nuova azione discriminatrice e, anche, un po’ razzistica.

(*Pubblicato in “La Repubblica” del 23 febbraio 2011)




MIGRAZIONI: LA SICILIA IL COLLO DELL’IMBUTO

di Agostino Spataro

Col ritorno a Lampedusa di Silvio Berlusconi l’emergenza immigrati sparirà, come d’incanto.
Seguendo la parola d’ordine della vigilia, tutti si son sbracciati per far trovare al premier l’isola ripulita degli immigrati e perfino delle orme del loro passaggio.
E. dunque, via alla festa, alle parate, a nuove promesse di rinascita per l’isola pelagica dove il premier ha comprato la sua 29° villa che taluni vedono come specchietto per attirare quel bizzarro mondo che gli gira intorno.
Tutto risolto, dunque? Parrebbe proprio di no. Visto che, stanotte, sulla piccola isola sono approdati altri barconi con un carico di oltre 600 disperati.
Ma, davvero, si pensa d’affrontare con simili espedienti un dramma così grande e intricato come quello che, da anni, si sta svolgendo intorno e dentro Lampedusa?
A me pare solo una trovata stravagante in contrasto con la dura realtà della posizione italiana, stretta fra una Francia “ostile” che chiude le frontiere, un’Europa scarsamente solidale e altre masse di disperati che premono per entrare.
Perciò, la gente è preoccupata e vuol sapere quando durerà questo fenomeno, a dimensione addirittura intercontinentale, che quasi per intero transita attraverso le Pelagie e la Sicilia.
Lo ha confermato alla Camera il ministro Maroni: nell’ultimo trimestre sono sbarcate in Italia (in verità in Sicilia) 25.867 persone delle quali circa 23.352 a Lampedusa e il resto su altre coste siciliane.   
Una vera esplosione di arrivi a conclusione di un periplo penoso di gente disperata che alimenta fenomeni laceranti di sradicamento, di travaso di masse umane da un continente a un altro di cui la Sicilia rappresenta il collo dell’imbuto.
Credo che questa immagine renda di più l’idea del ruolo attuale della Sicilia come principale, unica via di sbocco dei migranti clandestini che dal grande raccoglitore nordafricano premono per passare nel contenitore - Europa che li dovrebbe accogliere.
Dai porti tunisini e libici partono immigrati provenienti da vari Paesi africani della costa nord-orientale: Tunisia, Somalia, Eritrea, Abissinia, Egitto e da quella atlantica (Nigeria, Camerun, Ghana, Senegal, Marocco, ecc) e asiatici (Sri Lanka, Cina, Iraq, Palestina, Filippine, Indonesia, ecc).
La situazione potrebbe aggravarsi nei prossimi giorni a causa del conflitto in Costa d’Avorio dove, grazie all’interventismo di Sarkozy (ancora lui!), si potrebbero creare un milione di profughi i quali, certo, non andranno a cercare pace e lavoro nel confinante poverissimo Burkina Faso, ma, come gli altri, saranno indotti a seguire la via contorta verso il nord-Africa e quindi a tentare lo sbarco in Sicilia.  
Prima i flussi andavano per rotte diverse, oggi convergono quasi tutti su Lampedusa.
Perciò, sarebbe il caso che le autorità preposte cominciassero a indagarne le misteriose ragioni per offrire risposte rassicuranti alle tante domande della gente.
Una prima: perché gli immigrati provenienti dai Paesi atlantici africani non intraprendono la via costiera, meno pericolosa, da dove potrebbero raggiungere agevolmente la Spagna o sbarcando sulle isole Canarie o attraversando lo stretto di Gibilterra (34 km di mare)?
Invece, preferiscono sobbarcarsi diverse migliaia di km di arido deserto per giungere nella Libia del “feroce” Gheddafi e qui consegnarsi ai trafficanti di carne umana, ai quali pagano passaggi salatissimi, e sperare d’arrivare salvi a Lampedusa dopo circa 300 km di mare e/o oltre 400 km  sulla costa siciliana. 
I barconi potrebbero approdare sulle isole di Malta (anche questa è Europa) che incontrano 100 km prima di quelle siciliane, ma non vi sbarcano quasi mai.
L’ultima tragedia (si parla di almeno 150 vittime) è illuminante dell’assurdità di tali percorsi.
Com’è noto, il barcone, era in acque territoriali maltesi (entro 18 km dalla costa) quando ha lanciato l’allarme captato dalle autorità maltesi. Queste, invece d’inviare i loro mezzi di soccorso, lo hanno smistato a quelle italiane che hanno spedito le motovedette da Lampedusa ossia da una distanza di 70 km dal luogo, perdendo tempo preziosissimo.
Se i maltesi, invece di seguire questa contorta procedura, fossero intervenuti direttamente forse si sarebbe evitata la strage.
Infine, un’altra stranezza: perché la gran parte d’immigrati provenienti dall’Africa orientale e dai vari Paesi asiatici vengono a sbarcare sulle coste siciliane e meridionali? Potrebbero approdare più agevolmente a Cipro, a Creta oppure sulla terraferma in Grecia e in Bulgaria? Anche questa è Europa.
Se rischiano la vita per venire in Sicilia una ragione deve esserci o forse più d’una.
Al governo la risposta e soprattutto la responsabilità di operare, con politiche nuove di cooperazione e di contenimento, per giungere a uno sforzo condiviso degli oneri e degli interventi sia sul piano nazionale sia europeo.
Non si può continuare con la politica “dell’immigrato dove lo metto”. Un po’ di qua un po’ di là, mai nelle regioni del nord per non irritare il ministro leghista Bossi che li vuole “fora de bal”. Ma che razza di governo è questo?
La Sicilia ha già fatto, continua a fare il suo dovere di solidarietà umana, ma non può, certo sopportare l’intero fardello, Sarebbe, oltretutto ingiusto e poco funzionale e si configurerebbe come un ripiego razzista inaccettabile.
L’Italia e l’Europa darebbero, netta, l’impressione di volersi sbarazzare di un’emergenza così vasta e sconvolgente relegandola alla Sicilia e al Sud.

                                Agostino Spataro


(* pubblicato, con altro titolo, in “La Repubblica” del 9 aprile 2011)




MINARETI E CROCEFISSI, UNA PERICOLOSA MISTIFICAZIONE

di Agostino Spataro


Due minoranze prevaricano  due stragrandi maggioranze- Sicurezza: chi specula e chi la difende- Un precedente illustre: la grande moschea di Roma - Dal dialogo nasce la prosperità condivisa, dalla guerra solo morte e nuove povertà-  Quando l’Italia aveva una politica estera- Il Nobel per la pace che… prosegue la guerra- L’import italiano d’idrocarburi: una dipendenza eccessiva da Russia e Libia - Conflitto fra religioni: un’indegna mistificazione- Cristo non ha bisogno di nuovi crociati-  Se un non-credente collabora alla costruzione di un luogo di culto.



Due minoranze di fanatici prevaricano due stragrandi maggioranze
Ci risiamo. Di nuovo minareti e crocefissi branditi come spade in questa guerra di simboli che può  degenerare in guerra vera. E’ accaduto in passato, anche in Europa, accade, oggi, in tante parti del mondo.
Ancora una volta, Occidente, sempre meno cristiano, e Oriente, sempre più islamico, si guardano in cagnesco a causa di due rumorose minoranze, fanatiche quanto ipocrite, che usano i simboli religiosi per imporre un nuovo “scontro di civiltà” a due sterminate maggioranze silenziose, già ingravidate dei semi malefici dell’odio e dell’intolleranza.
E, alla fine, il mostro nascerà e porterà distruzione e morte fra i nostri popoli impauriti e confusi.
Ma, davvero, non c’è nulla da fare per fermare il fanatismo?
Più il tempo passa più il pericolo si accresce, anche perché dietro questo agitar di simboli spirituali  si celano interessi molto materiali, economici e politici.
Tuttavia, le due maggioranze, recuperate alla ragione, sono ancora in grado di sconfiggere i fomentatori di odio e ricacciarli negli anfratti da cui provengono.
La ragione, che stiamo smarrendo, è l’antidoto più efficace contro il fanatismo.
Una luce si vede in fondo al tunnel, ma prima di uscirne c’è tanto da fare, da lottare. Non occorrono armi né altre violenze, ma una generale presa di coscienza e una volontà determinata per ripristinare, in uno spirito di pace e di cooperazione, un dialogo fra popoli e Stati che era stato avviato con successo, non molto tempo fa.    

Sicurezza: chi specula e chi la difende
Dopo questo necessario preambolo, andiamo all’attualità, alle ultime polemiche provocate dai  leghisti che vorrebbero usare la vittoria del referendum svizzero anti-minareti  per scatenare in Italia la caccia all’islamico, dopo quella all’immigrato e a tutti i circolanti “diversi” rispetto al prototipo umano che pretendono di rappresentare.
Nessuno disconosce che la presenza islamica può comportare qualche problema alle comunità d’accoglienza. Si tratta, in gran parte, di problemi risolvibili con la conoscenza e la tolleranza reciproche. Secondo le leggi dell’ospitalità.
Nei casi più ostici, quali possono essere gli atti di terrorismo e i comportamenti delittuosi più allarmanti, è ovvio che il “buonismo” non basta e sono necessarie misure adeguate di prevenzione e di repressione. Secondo la legge penale. Come avviene, del resto, con tutti i delinquenti italiani o di altre nazionalità.
Agli immigrati che vivono in Italia regolarmente bisogna riconoscere gli stessi diritti e doveri dei cittadini italiani. Su questo principio, umanitario e giuridico, si basavano le nostre richieste, in giro per il mondo, a tutela delle comunità d’italiani emigrati non solo meridionali, ma molti veneti, piemontesi, lombardi, friulani, liguri che fuggivano dalla miseria, dall’ingiustizia, dalla guerra. Esattamente, come fanno oggi i migranti provenienti da diverse aree del pianeta.
In Italia, tutti abbiamo almeno un parente emigrato. C’è da sperare che di fronte a un immigrato, nessuno dimentichi questa speciale parentela.
Nemmeno il peggior razzista poiché nell’angolo più recondito del suo animo c’è sempre un barlume d’umanità che, quando s’accende, l’atterrisce.
Anche perché la ruota della storia continuerà a girare e non sappiamo se quelli che oggi rifiutiamo domani potranno essere nostri fratelli di sventura o magari qualcosa di più.  
Anche i capi leghisti devono ricordare e riflettere e convincersi che la sicurezza dei cittadini è una cosa seria, una condizione sociale e morale molto più complessa e pertanto una preoccupazione di tutte le forze democratiche italiane e non di loro esclusivo appannaggio.
La divisione non corre fra chi la difende e chi no, ma tra chi agisce in buona fede e chi sopra ci specula, per un pugno di voti.  

Un precedente illustre: la grande moschea di Roma
Il divieto d’erigere minareti in Svizzera che si vorrebbe importare in Italia, mi ha riportato alla mente un precedente illustre: la costruzione, negli anni ’80 e 90, della moschea di Roma ovvero la più grande d’Europa sorta nella Città eterna, a poca distanza dal Vaticano cuore pulsante della cristianità.
Qualcosa di più vistoso, monumentale dei tanti magazzini adattati a luoghi di culto. Eppure, non si registrarono posizioni d’intolleranza, di rigetto sia negli ambienti religiosi sia tra le forze politiche e culturali. Certo, ci furono discussioni e polemiche insorte, soprattutto, intorno al problema- anche allora- del minareto. Nel senso che il progetto dell’architetto Paolo Portoghesi prevedeva la costruzione di un minareto più alto della cupola di S. Pietro.
Alla fine prevalse il buon senso e il progetto fu modificato nel senso richiesto e il  cupolone continuò a primeggiare sopra i cieli di Roma.
Da notare, che il terreno (30.000 mq ai piedi di Monte Parioli) fu donato dal Comune di Roma al Centro islamico d’Italia ossia l’ente morale incaricato di curare i lavori di costruzione.
Ci vollero tempo ed enormi finanziamenti (sauditi) e un incessante lavorio politico e diplomatico, sovente dietro le quinte, prima di giungere all’inaugurazione, nel 1995.
Oggi, la moschea di Roma convive in pace col quartiere e con la città come luogo di culto per i tanti mussulmani presenti nella capitale e come simbolo di dialogo e di reciproca comprensione fra religioni ed anche fra popoli e Stati.


Dal dialogo nasce la prosperità condivisa, dalla guerra solo morte e povertà 
Un fatto, oggi, impensabile in Italia. Altri tempi, si dirà. In realtà, sono trascorsi soltanto una ventina d’anni durante i quali sono cambiati (in peggio) l’approccio, la concezione e la sostanza delle relazioni internazionali dell’Italia, dell’Europa e anche del mondo arabo,
Si è passati, infatti, dal dialogo alla sfiducia, alla provocazione, al conflitto.     
Altri tempi. Certo. Allora, era possibile realizzare moschee al centro di Roma, di Parigi, di Oslo, di Berlino, senza scandalo anzi nella più generale concordia.
Erano quelli i tempi di un’Italia solidale e popolare che aveva una politica estera, ampiamente condivisa in Parlamento, aperta al dialogo e alla cooperazione economica, in primo luogo con i Paesi dello scacchiere arabo e mediterraneo.
Una politica di pace che generava nuove occasioni d’incontro, nuovi mercati e commesse importanti per le imprese italiane.
Le buone relazioni politiche e culturali italo - arabe erano la chiave di volta per accrescere il volume degli scambi economici e commerciali.
Insomma, lo sforzo per una convivenza pacifica assicurava all’Italia un ruolo primario nell’area arabo-mediterranea, anche in campo economico.
Oggi, invece, la nostra politica estera verso questo scacchiere si è, di fatto, militarizzata e i risultati sono doppiamente in perdita. Alle ingenti spese per finanziare missioni militari in zone di guerra bisogna, infatti, aggiungere la crescita del deficit commerciale. Oltre, naturalmente, i nuovi rischi, in termini di sicurezza, cui si espone il Paese. 

Quando l’Italia aveva una politica estera
Basterebbe fare qualche conto e alcuni confronti fra le bilance commerciali di allora e di oggi per capire le cause dell’attuale svantaggio italiano e scoprire la differenza che corre fra il dialogo e la chiusura razzistica. O se si preferisce fra la cooperazione pacifica e lo scontro di civiltà.
La tanto biasimata “prima Repubblica” era riuscita, in quegli anni, a produrre una politica estera equilibrata, lungimirante e unitaria di cui va dato merito ai tre grandi partiti popolari (Dc, Pci e Psi) e ai loro più prestigiosi dirigenti: Aldo Moro, Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer, Giancarlo Pajetta, Bettino Craxi, Riccardo Lombardi, ecc.
Abbiamo sostenuto il diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli del mondo e quello del popolo martire di Palestina ad avere uno Stato sovrano, senza mai deflettere dalla difesa del diritto all’esistenza d’Israele entro i confini riconosciuti dalle Nazioni Unite. Ovviamente, non si potevano, non si possono, difendere le mire espansionistiche e le sistematiche violazioni delle risoluzioni dell’Onu dei governanti israeliani. 
Seguendo la linea della giustizia e della legalità internazionali, abbiamo contribuito a rafforzare la pace nello scacchiere, tutelato il nostro Paese da rischi micidiali e, al contempo, creato importanti occasioni di scambio, reciprocamente vantaggiosi.
In questo nuovo contesto, si era perfino delineata una prospettiva seria di crescita del nostro Mezzogiorno, oggi ricacciato ai margini dello sviluppo, assillato dalla criminalità e ridotto a mero deposito di risorse energetiche al servizio del centro-nord ipersviluppato.
Insomma, ieri l’Italia, col concorso di tutte le forze di progresso, dei lavoratori e degli imprenditori, riuscì a raggiungere primati davvero eccezionali, fino al punto di figurare fra le prime otto potenze industriali del pianeta.
Oggi, il populismo e il “patriottismo” di bottega, per altro molto costoso, stanno vanificando gran parte di quei risultati e avviato il Paese su una china molto preoccupante sia sul terreno politico e democratico sia su quello della coesione sociale e della prospettiva economica.

Il Nobel per la pace che… prosegue la guerra
I fatti parlano da soli e chiaramente. Mentre in Italia si chiudono scuole, ospedali, centri di ricerca si continua a finanziare costose missioni militari all’estero, soprattutto in Medio oriente.
E segnatamente in Afghanistan dove, storicamente, nessun esercito d’occupazione ha mai vinto una guerra. Ci addolora la decisione del presidente Usa, Barak Obama, la cui elezione avevamo salutato con speranza e simpatia, d’inviare altri 34.000 soldati, più altre 6-7 mila dei paesi alleati, fra cui mille nuovi effettivi italiani che Berlusconi si è affrettato a promettere d’inviare.
Da notare che col nuovo incremento il contingente italiano in Afghanistan salirà dal sesto al quarto posto per consistenza numerica.
Dopo otto anni di combattimenti disastrosi quanto inconcludenti, Obama giustifica l’invio “per finire il lavoro” e presto rientrare. Ma quando? In realtà, l’invio è certo, mentre il rientro è solo una promessa aleatoria che nessuno può dire se, e quando, si potrà realizzare. Intanto la guerra farà registrare altre, nuove micidiali impennate.
Meraviglia persino l’aberrante linguaggio di Obama, anche se usato per esigenze di propaganda, che chiama “lavoro” una guerra così terribile e spietata che miete decine di migliaia di vittime militari e, soprattutto, civili.
Così come bizzarra e sconcertante appare la sua decisione di proseguire la guerra, assunta alla vigilia del suo viaggio a Oslo dove andrà (10 dicembre p.v.) a ritirare il premio Nobel per la pace. Boh!

L’import italiano d’idrocarburi: un’eccessiva dipendenza da Russia e Libia.
Ma non divaghiamo, torniamo all’Italia, alla sua politica estera militarista e mercantilista che- come già detto- produce gli alti costi delle missioni e un saldo sfavorevole  dell’interscambio globale con i paesi del Medio oriente e dell’area mediterranea.  
Particolare preoccupazione dovrebbero destare i dati concernenti l’import d’idrocarburi sempre più elevato (in valore) e concentrato in pochi paesi esportatori con alla testa la Russia di Putin (col 21,8%) seguita dalla Libia di Gheddafi (col 21,2%).
Insieme i due Paesi coprono il 43% dell’import italiano (dati 1° semestre 2009) e, forse, meglio spiegano il senso dell’attuale politica estera italiana.
Insomma, mentre prima la costante di ogni politica estera economica era la diversificazione degli approvvigionamenti, negli ultimi anni la lista dei fornitori si sta restringendo e modificando a favore di alcuni Paesi non propriamente affidabili sotto diversi profili.
Di questo passo, l’Italia rischia una dipendenza eccessiva da governi che, in caso di crisi, potrebbero esercitare pesanti condizionamenti sull’economia del nostro paese.
Quando si dice la sovranità!
Se partiti e Parlamento, ed anche i media, invece che di leggi ad personam, di prostitute, di trans e ruffiani, si occupassero di questi problemi e d’altri consimili certamente avremo una rappresentazione più veritiera del dramma che sta vivendo l’Italia e magari si troverebbe qualche soluzione per uscirne. 

Conflitto fra religioni: un’indegna mistificazione
La moschea, i minareti, i crocefissi, le nuove crociate leghiste…tutto è utile per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica, sempre più frastornata e impaurita, dai suoi problemi di vita e di lavoro a quelli presunti o comunque ingigantiti provocati, qua e là, dagli immigrati la cui colpa, forse, è quella di assicurare un importante contributo alla barcollante tenuta della nostra economia. In primo luogo di quella dei “territori leghisti”.
Il rischio più grande che, oggi, corre l’Italia non è dovuto alla presenza degli immigrati, che certo va regolamentata, controllata e anche aiutata, ma l’infiacchimento della democrazia, del ruolo dello Stato causato da queste indecorose risse mediatiche, dalle odiose campagne xenofobe scatenate da certi “politici” che, per dimostrare la loro (in)utilità, devono mostrare in tv la bava delle loro rabbiose provocazioni.
Alieni, gente estranea alla tradizione politica e culturale repubblicana che vorrebbero far passare un’immagine falsata, irriconoscibile dell’Italia: lacerata e impotente, e soprattutto egoista e timorosa del progresso. Anche se il momento è opaco, intimamente ciascuno di noi sa che l’Italia repubblicana non è stata, non è, come la si vorrebbe rappresentare o ridurre a colpi di machete.   
La gente è stanca di questa manfrina e desidera un cambiamento capace di recuperare e valorizzare tutte le risorse e le grandi potenzialità esistenti. Per riallinearsi all’Europa e per ridare speranze agli italiani e, in primo luogo, ai giovani i quali, però, dovrebbero darsi una mossa per non restare oggetti passivi di certa politica e conquistare un ruolo da protagonisti nell’opera immane di costruzione di un nuovo futuro. Del loro futuro.

Cristo non ha bisogno di nuovi crociati
Infine, qualche considerazione sull’ipocrita campagna sanfedista a difesa del “crocefisso” cavalcata da taluni politici e sindaci e presidenti provincia che vorrebbero imporlo nelle scuole e in tutti gli uffici pubblici, anche mediante la minaccia di multe salate e provvedimenti coercitivi.
I leghisti perfino sulla bandiera che per anni hanno dileggiato, oltraggiato.
Credo che la gente avrà capito il vero intento di cotanta, interessata premura. Tuttavia, è sempre utile richiamarne l’attenzione per far fallire la manovra portata avanti da partiti e individui che hanno ben poco da spartire con quel Cristo che si pretende di difendere da chissà quali attacchi. Anche il clero cattolico, pur difendendo legittimamente i suoi valori e simboli, ritengo abbia ben compreso il fine di questa rumorosa “improvvisata” e non consentirà a costoro di trascinare la Chiesa nell’anacronistica diatriba.
Anzi, prima o poi, potrebbe richiamare i troppo zelanti politici e amministratori a curarsi degli affari di loro pertinenza. Magari con più efficienza e onestà.
Sarebbe, infatti, molto imbarazzante che il crocefisso fosse difeso da gente che lo calpesta ogni giorno, trasgredendo gli insegnamenti del Cristo dei vangeli per ubbidire ai più bassi istinti del potere. La figura del Cristo è da molti accettata e universalmente rispettata, anche da noi non credenti. Non c’è, davvero, bisogno d’imporla d’autorità, a colpi di multe. Specie in un Paese dove vige una Costituzione laica e tollerante.

Se un non-credente collabora alla costruzione di un luogo di culto
Chiudo con un aneddoto, con un fatto capitatomi a margine della vicenda della moschea di Roma alla cui realizzazione contribuì, soprattutto sul piano dell’iniziativa politica e parlamentare, la nostra Associazione italo - araba, composta dai rappresentanti dei tre principali partiti (Dc, Pci, Psi) e più volta presieduta dall’ex ministro dc Virginio Rognoni.
In questa come in altre importanti vicende, l’associazione svolse una funzione politico/diplomatica parallela a quella del governo e dei partiti che rappresentava.
Un giorno fui invitato per un colloquio dal principe Abdelghassem Amini, un aristocratico afghano, persona di fiducia dei sauditi e, in quanto tale, presidente del Centro culturale islamico d’Italia curatore del progetto della moschea.
Solitamente lo incontravo in delegazione o in qualche convegno. Quella volta m’invitò da solo.
Lo andai a trovare al Centro e dopo il caffè e un po’ di convenevoli, mi rivolse alcune domande a bruciapelo. “Lei è un deputato del Pci? ”- “Certamente”, risposi. “Perciò è un marxista?” – “Sicuro” “Voglio dire ateo?”Si, sono ateo”.
Domande pleonastiche le sue (sapeva chi ero) propedeutiche a quella più impegnativa: “Allora –mi spieghi- perché un ateo, com’è lei si dichiara, si è tanto adoperato per consentire la realizzazione della moschea? “
Il principe non si capacitava di tanta (mia) “incoerenza” o forse immaginava i comunisti come orde di barbari dediti alla distruzione dei luoghi di culto.
Gli risposi che, in quanto comunista e cittadino di questa Repubblica, mi ero semplicemente adoperato per garantire ai lavoratori di religione islamica, come di altre, il diritto ad avere un luogo di raccoglimento e d’incontro. Esattamente come postula la nostra Costituzione per tutte le religioni, purché non s’ingeriscano nella politica e negli affari di Stato.
Il principe mi volle insignire di una medaglia e mi regalò un bellissimo esemplare del Corano che vergò con una dedica riconoscente: “All’on. Agostino Spataro…per tutto l’aiuto che ha dato all’Islam”. Insomma, c’eravamo capiti.
                                                            
7 dicembre 2009
                                             




Agostino Spataro / Bibliografia
Giornalista, già membro delle Commissioni Affari Esteri e Difesa della Camera dei Deputati,  direttore di “Informazioni dal Mediterraneo” (www.infomedi.it), collabora con “La Repubblica” e con altri giornali e riviste. Biografia: http://it.wikipedia.org/wiki/Agostino_Spataro

Ha scritto vari saggi, fra i quali:

Per la Sicilia”, (presentazione di Giorgio Napolitano), Agrigento, 1982

Missili e mafia(con Paolo Gentiloni, Alberto Spampinato) Editori Riuniti, Roma,1985

Oltre il Canale- Ipotesi di cooperazione siculo - araba”, Ed. Autonomie, Roma, 1986 (tradotto in arabo)

I Paesi del Golfo”, Edizioni Associate, Roma, 1991

Il Mediterraneo” (con Bichara Khader), Editrice Internazionale , Roma, 1993

La notte dello sceicco”-Reportage dallo Yemen- Edizioni Associate, Roma, 1994

Il Pianeta unico (con Naom Chomsky, Ricardo Petrella, ecc), Eleuthera, Milano, 1999

Le tourisme en Méditerranée”, Editions l’Harmattan, Paris, 2000

Il fondamentalismo islamico- Dalle origini a Bin Laden”, (presentazione di Yasser Arafat )  Editori Riuniti, Roma, 2001

“El fondamentalismo islamico- El Islam politico”, Editora Rosario, Argentina, 2004

Sicilia, cronache del declino”, Edizioni Associate, Roma, 2006

“Petrolio, il sangue della guerra- Da Badgad a Tripoli: lo stesso disegno neocoloniale”, Ed. CSM- Ilmiolibro, Roma, 2012

Sicilia, il decennio bianco”, Ed. CSM- Ilmiolibro, Roma, 2012

“Nella Libia di Gheddafi”, Ed. CSM- Ilmiolibro, Roma, 2013

I giardini della nobile brigata, Ed. CSM- Ilmiolibro, Roma, 2014





  


mercoledì 8 aprile 2015

ITALIA IN VENDITA, LA BORGHESIA "VENDEDORA"

(Foto da "Il Sole 24 ore")




















di Agostino Spataro





1… L’ITALIA IN VENDITA
C’era una volta in Italia una borghesia “compradora” oggi divenuta “vendedora”.
Ho usato questo incipit non per il vezzo di parafrasare il titolo del bel film di Sergio Leone *, ma solo per evocare quell’atmosfera e narrare la “favola” triste di tale mutazione, in primo luogo ai giovani che, spesso, non comprendono le ragioni per le quali nel nostro Paese si continua a privatizzare, a vendere a stranieri pezzi pregiati della nostra industria, quartieri e alberghi di lusso, società di calcio e anche ristoranti, esercizi commerciali, ecc.
Si vende e si compra come un tempo avveniva nei paesi colonizzati e/o neo-colonizzati, soprattutto dell’America latina, da parte di una borghesia compradora, un mix di capitali metropolitani e locali, che si accaparrava di tutto a prezzi vili; un ceto sociale molto speciale che svolgeva una funzione predatrice delle risorse endogene (terra, manifatture, miniere, trasporti, banche, servizi, ecc) e, al contempo, di mediatrice fra masse sfruttate e oligarchie coloniali.
Oggi tale “modello” (ovviamente riverniciato) comincia a prendere piede anche in taluni paesi sviluppati dell’Europa, specie in quelli più deboli della fascia sud-mediterranea (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, un po’ anche Francia) e meno sviluppati del centro-est di recente, e frettolosa, incorporazione nella U.E.
Non c’è più il colonialismo (che, a ben pensarci, fu una delle prime forme d’internazionalizzazione capitalistica dell’economia), ma la globalizzazione neo-liberista che abbatte le barriere dei mercati di beni e servizi, viola i confini degli Stati per importare (illegalmente) pezzi di terzo mondo nel primo ossia decine di milioni di “nuovi schiavi” usati per destrutturare i “mercati” del lavoro a suo vantaggio; ora punta al grande shopping d’imprese produttive, società finanziarie e calcistiche, anche fra le più rinomate e longeve.
In misura diversa, l’intera Europa sta subendo l’assalto del capitale extracomunitario, anche di dubbia origine o frutto di scandalose rendite finanziarie e parassitarie..
La chiamano “libera circolazione dei capitali e degli investimenti”. Troppo libera- direi- poiché imperversa senza limiti e regole trasparenti e per fini non sempre lineari e dichiarati.
Come si può intuire dalla sottostante lista, l’Italia è uno dei paesi maggiormente presi di mira:
 
2… L’ESPANSIONISMO ECONOMICO E LA DITTATURA DEGLI INVESTIMENTI
 Oltre questa lista, gli acquisti sono continuati. Recentemente, altri “gioielli” dell’economia nazionale sono stati venduti astranieri: buon ultima la “Pirelli” ai cinesi.
Che triste destino per questo nostro Paese! Da un lato ha visto partire, de-localizzare decine di migliaia d’imprese verso i territori poveri U.E. ed extra U.E, (specie Cina, India, Brasile, ecc) e dall’altro lato arrivare compratori provenienti da quelle stesse realtà.

“Todo cambia” dice una bella canzone di Mercedes Sosa. Anche questa borghesia fedifraga che, in nome della “patria”, trascinò il popolo italiano in due disastrose guerre mondiali, e che oggi, immemore del suo spirito borghese e patriottico, da “compradora” diventa “vendedora”.
Insomma, si stanno mischiando le carte, arrivano capitali freschi. Nessuno li vuole demonizzare, poiché non ci sfugge l’importanza degli investimenti esteri per la nostra economia in affanno.
Vorremmo solo che fossero leciti, puliti e non ri-puliti; sapere come si vuole giocare la partita: se col trucco o con regole certe e trasparenti, senza ledere gli interessi strategici nazionali e quelli sociali dei lavoratori coinvolti loro malgrado.
Ovviamente, bisogna anche salvaguardare altri "valori" quali l’immagine, la vocazione produttiva del paese, al limite la stessa sovranità economica nazionale ed europea.
Siamo in presenza di una situazione inedita, caotica, per alcuni versi imprevedibile, che fa insorgere interrogativi angoscianti nella coscienza dei popoli europei messi all’angolo da governi incapaci e servili.
Si tratta di libero mercato o di una moderna dittatura degli investimenti?
L’U.E. dei banchieri e del dirigismo neo-liberista riuscirà a superare la crisi (non solo economica) o l’Europa diventerà preda di pericolose incursioni e di un espansionismo strisciante di varia provenienza?
Il pericolo dell’espansionismo esiste, forse è già operante, mentre di nuovi ne vediamo comparire all’orizzonte. In primo luogo, il  progetto di trattato TTPI (in fase negoziale fra Europa e Usa) che potrebbe sfociare in una sorta di “dittatura” degli investimenti, a tutto danno delle prerogative di sovranità degli Stati nazionali e dei diritti dei lavoratori.
Perciò, è bene parlarne, responsabilmente, per avviare una riflessione e una lotta decisa per un futuro, ancora possibile, di pace e di prosperità condivisa. Non si può continuare con una UE tentennante, divisa e un’Italia che naviga a vista e non intravede una via d’uscita, e nemmeno conl’attuale meccanismo decisionale molto accentrato e deresponsabilizzato.
In ogni caso, chi ha sbagliato non può continuare a decidere. Le scelte programmatiche di fondo non possono essere appannaggio esclusivo dei decisori di Bruxelles, ma vanno assunte dai parlamenti e dai popoli europei, anche mediante un voto referendario. 

3… PROGRESSO NELLA LEGALITA’. I COMPITI DELLA NUOVA SINISTRA
  Siamo di fronte a una realtà ostica, incandescente che potrebbe costituire il principale banco di prova della “nuova sinistra” da più parte invocata e che non può nascere da un glorioso raduno di reduci, ma da un nuovo pensiero, da un movimento politico altrettanto nuovo, organizzato e strutturato.
Per risultare credibile il nuovo soggetto politico dovrà analizzare i fenomeni sociali, gli assetti di potere, le nuove tendenze con rigore scientifico e coerenza sociale, con la ragione e non con il sentimento che è la commozione del pensiero. E, per non sbagliare, deve mantenere come punto di riferimento costante il progresso e il benessere delle larghe masse popolari.
In particolare, si richiede una lettura della crisi mondiale senza tabù e accanimenti ideologici, sapendo che la nuova sinistra, da sola,non potrà farcela e pertanto deve ricercare le necessarie alleanze, programmatiche e politiche, con i ceti sociali (anche di tendenza nazional-popolare) vittime dei processi di “globalizzazione” selvaggia che non si fa scrupolo di favorire l’entrata in Europa di capitali, merci e organizzazioni criminali.
Nell’indifferenza e/o nell’accondiscendenza dei governi e della stessa UE.
Insomma, il varco è stato aperto e ognuno s’infila, come può. I nuovi “compradores” agiscono senza freni: acquistano tutto quel che luccica sul mercato con la complicità di una borghesia “vendedora” che (s)vende al migliore acquirente, mentre continua a trasferire, illegalmente, capitali all’estero e obsoleti impianti di produzione nei paesi emergenti.
Una vera e propria deriva che provoca erosione del potere d’acquisto di salari e stipendi, disoccupazione(specie giovanile), illegalità e insicurezza diffuse, corruzione, evasione fiscale, ecc.
Da qui, l'acuirsi della crisi, il crescente malcontento popolare che la sinistra non può lasciare gestire alla destra e ai demagoghi di turno che lo sfruttano a loro vantaggio.
La sinistra ha il compito di combattere queste piaghe in prima persona e in nome della legalità che è un valore fondante e ineludibile della democrazia, per le forze progressiste e di sinistra.  

4… PIU’ STATO, MENO MERCATO
A fare le spese di questo disinvolto turismo di capitali e d’impianti sono le fasce sociali più deboli, soprattutto lavoratori e giovani inoccupati europei, doppiamente fregati in termini di disoccupazione e di attacco ai loro diritti contrattuali.
Questo clima ha reso possibile in Italia il varo del “Jobact”.
A pagare sono anche gli Stati che devono sobbarcarsi ingenti oneri a copertura della maggiore spesa sociale derivata.
Tutto ciò è anche il risultato della teoria del “Meno Stato e più mercato”, uno slogan efficace che sintetizza una grossolana filosofia revanchista delle relazioni sociali, da cui prese avvio il disegno neo-liberista che ha portato i popoli al disastro economico e sociale e accelerato il processo di decadimento dell’Europa.
A fronte di ciò serve poco lo scatto d’orgoglio. Fra le tante cose da cambiare, da fare, servono una nuova politica economica e una svolta nella politica estera euro-mediterranea nel senso di una cooperazione pacifica, reciprocamente vantaggiosa.
Gli arabi, l’intera regione euro-mediterranea, il Medio Oriente hanno bisogno di pace, di scambi culturali e commerciali e non di guerre, di missioni “umanitarie” che, invece di spegnere, alimentano i conflitti tribali e religiosi.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di far convergere, a sostegno di un grande programma di rinascita,  tecnologie e saperi italiani, europei e capitali e risorse dei paesi arabi per creare uno spazio economico comune, da intendere come primo nucleo di un nuovo polo dello sviluppo mondiale. **
Una prospettiva ancora possibile nella quale gli Stati, le istituzioni democratiche europee hanno da giocare un ruolo importante. Altro che “ meno Stato e più mercato”!
Anzi, visti i pessimi risultati, è tempo d’invertire la formula e propugnare “Più Stato e meno mercato”.
Non per innalzare il vessillo del socialismo (ir)reale o per mera rivendicazione ideologica (che pure cista), ma per assicurare al settore “pubblico”, allo Stato, risanato e ammodernato, un ruolo di equilibrio, di compensazione, di orientamento programmatico e, quindi, di tutela degli interessi sociali e strategici nazionali.
Qualcosa del genere accadde in Italia ai (bei) tempi del boom economico(anni ‘60 e ’70) realizzatosi in un contesto di economia mista in cui la componente pubblica e cooperativistica si attestava intorno al 40 %.

9 aprile2015                                       (Agostino Spataro)

Note:
* “C’era una volta in America”