martedì 5 giugno 2012

IL CAMILLERI CHE NON TI ASPETTI di Agostino Spataro




home page



L'infanzia, il sesso, il santo nero (ecco il Camilleri che non ti aspetti)



Figlio cambiato:
Come Pirandello, anche Camilleri da piccolo subi' il trauma del figlio cambiato: "Mamma e papa' per punire le mie 'vastasate', mi dissero che ero figlio di un ignoto carrettiere col quale, per errore, si erano scambiati i figli neonati"


Festa del patrono:
"Nel mio paradiso, deserto e privo di santi, c'e' solo S. Calogero, l'eremita giunto dall'Africa, nero e povero in canna. E forse non e' un caso se uscivo dal ventre di mia madre nello stesso momento in cui S. Calogero usciva dalla chiesa madre"






Porto Empedocle:
E' la vigata dei suoi romanzi, qui Camilleri e' nato nel 1926: "Per quanto piccolo era pur sempre un luogo piu' avanzato rispetto a Girgenti, poiche' le citta' portuali sono sempre un passo avanti rispetto a quelle dell'entroterra"



Per la prima volta, Andrea Camilleri si racconta, e per intero, davanti alla telecamera di Diego Romeo che ha realizzato un interessante documentario televisivo (Tra Vigata e Montelusa - Il racconto del figlio cambiato), in questi giorni trasmesso da alcune emittenti siciliane. La scena è quasi sempre dominata dal faccione rassicurante di Camilleri mentre fuma avidamente e parla, con dire flemmatico e suadente, dell´infanzia e della giovinezza, vissute appunto tra Vigata (ovvero Porto Empedocle, dove è nato nel 1926) e la vicina Montelusa (alias Agrigento, dove ha fatto il liceo) e dei ritorni frequenti in Sicilia a trovare gli amici, a respirare gli odori densi della sua Marina: «Odore del porto, poiché - sottolinea lo scrittore - ogni porto ha un suo odore fatto di nafta, di cordame marcito, d´alghe fradice: cattivi odori che, fra loro mischiati, formano un buon odore». Il racconto si scioglie in una sorta di confessione, a tratti pudica, che ci svela un´intimità gelosamente conservata, per 76 anni: la scoperta incidentale del sesso attraverso le visioni della pensione Eva, chiusa di giorno e animata soltanto la sera, dove si «affittavano» corpi nudi di donne a uomini che li guardavano con lascivia, come faceva lui quando, di soppiatto, spiava sotto le gonnelle delle cugine. Come Pirandello, anche Camilleri da bambino subì il trauma del figlio cambiato: i genitori ricorsero a questo espediente per punirlo delle sue vastasate, gli dissero che era figlio di un ignoto carrettiere col quale, per errore, s´erano scambiati i figli neonati. Sì, perché il giovanotto era talmente vivace da indurre la famiglia a internarlo presso il Convitto vescovile di Agrigento dove «non facevo altro che piangere, perché dalla finestra della camerata si vedeva il porto». Per uscirne ricorse a una trovata alquanto empia: tirò un uovo contro il crocifisso e con questo gesto, enormemente blasfemo e imperdonabile, si assicurò l´espulsione da quella sorta di anacronistico reclusorio. In questo vanto degli errori infantili, probabilmente, c´è il tentativo di «non morire di quella specie di buon senso progressivo... quando si scopre, troppo tardi, che le uniche cose che non si rimpiangono mai sono i propri errori» (Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray ). Racconto intenso, sincero, umanissimo che svela un radicato sentimento d´appartenenza alla terra natia, il suo sentirsi figlio di questa provincia marginale, ancor oggi assetata e sfigurata da tante ingiustizie e dal predominio di poteri occulti e minacciosi. Ci riferiamo alla provincia di Agrigento così segnata da contraddizioni e asperità sociali e culturali da renderla prolifica di scrittori di successo (Pirandello, Sciascia, Camilleri, per citarne alcuni). Qui - come altrove in Sicilia - gli artisti non hanno bisogno di essere molto immaginifici, poiché la realtà stessa è immaginazione e rappresentazione, anche se la gran parte di questi talenti riescono a sbocciare soltanto lontano dai luoghi natii. Anche Camilleri per affermarsi è dovuto emigrare. Eppure - come lui racconta - è stato baciato da una sorte felice, fin dalla nascita. È l´unico sopravvissuto dopo due fratelli morti in tenerissima età e venne alla luce in una fausta coincidenza: precisamente, alle ore 13 della prima domenica di settembre, giornata dedicata alla festa di San Calogero: «Uscivo dal ventre di mia madre nello stesso momento in cui San Calogero usciva dalla Chiesa matrice per la processione; per la gioia la levatrice mi espose dal balcone, nudo come m´aveva tirato, alla visione della moltitudine che seguiva il fercolo del santo». Lo scrittore, che si proclama ateo, ammette che nel suo personale paradiso «deserto, privo di santi» c´è solo San Calogero, il «santo nero» il cui culto strambo (descritto nel romanzo Il corso delle cose) è tuttora vivissimo in molti paesi e città della fascia meridionale della Sicilia. In realtà, la sua non sembra essere devozione, ma sincera affezione per questa singolare figura di eremita, giunto dall´Africa in un tempo remoto, nero e povero in canna, la cui santità è stata imposta alla gerarchia cattolica a furor di popolo. Quando può, Andrea Camilleri ritorna alla Vigata dei suoi strabilianti successi editoriali, ma non ritrova più il paese ordinato e pulito della sua giovinezza, delle scorribande felici con gli amici, delle fabbriche operose, dei pescatori e dei commerci di sale e di zolfo, estratti dalle viscere di questa terra ingrata e ammassati sui moli del porto empedoclino che, per quanto piccolo, «era pur sempre un luogo più avanzato rispetto a Girgenti, poiché le città portuali sono sempre un passo avanti rispetto a quelle dell´entroterra». Oggi le fabbriche sono quasi tutte smantellate e il porto commerciale langue nella perenne stasi. Invece che bastimenti a Porto Empedocle arrivano traghetti carichi d´immigrati clandestini e carrette strapiene di disperati che vengono a morire sugli scogli. Camilleri non ritrova la sua Vigata, quella che chiama «la prima Porto Empedocle», perché è stata cancellata dalla tremenda alluvione del 1971. Della seconda, quella della mafia spietata cresciuta all´ombra dei «grattacieli ignobili della Lanterna», nemmeno ne parla. Lui, che si definisce «un siciliano di scoglio» (espressione coniata da Vittorio Nisticò per indicare quella categoria di siciliani che non osano avventurarsi in mare aperto), a questa seconda città volta le spalle e preferisce restarsene seduto sopra uno scoglio della vecchia, cara Marina ad assaporare l´odore del porto e a scrutare le profondità del mare africano.
Agostino Spataro - La Repubblica (ed. di Palermo), 24.10.2002


Nessun commento:

Posta un commento