domenica 13 marzo 2016

UN VIAGGIO A TRIPOLI

di Agostino Spataro

Tripoli, il castello del Bey


Oggi, 14 marzo 2016, dalle parti di Agrigento è spuntata una bellissima giornata, inondata da  un sole tiepido, brillante, dallo squittio delle rondini, dalle vocine stridule dei bambini... 
Mi affaccio alla finestra e guardo il mare, il Mediterraneo, nostro padre silente e carico di problemi e sofferenze, e non posso che pensare ai popoli dell’altra sponda, alla Libia ridotta a un cumulo di macerie e di malefatte.
Penso, con terrore, alla nuova guerra che si sta apparecchiando e da “profeta” disarmato ho selezionato alcuni brani  di un mio libro,( http://www.lafeltrinelli.it/libri/spataro-agostino/osservatore-pci-nella-libia-gheddafi/9788891054913) per offrire uno piccolo squarcio del clima politico che caratterizzava, negli '70 e '80, i rapporti molto speciali dell'Italia con la Libia, per dire che altre vie sono possibili.
Prima che distruggano completamente Tripoli, i popoli della Libia, a noi tanto cari, desidero far notare agli scettici e ai guerrafondai che, nonostante le difficoltà, le provocazioni, i ritardi e le incomprensioni, l'Italia, l'Unione Europea riuscivano a gestire le relazioni con il regime del colonnello Gheddafi nella pace e nella cooperazione economica reciprocamente vantaggiosa.
Spero che se ne ricordino, soprattutto i nostri “decisori” che si apprestano ad assumere scelte gravi, forse irreversibili. 
Prima d'incendiare e distruggere la Libia, scrissi che la Nato poteva vincere la guerra ma perdere il dopoguerra. Così è stato, è.
Oggi, si sta apparecchiando una nuova guerra che potrebbe risultare catastrofica. Per tutti. In primo luogo per la Libia, per l'Italia, per la Sicilia. 
Altra cosa sono, nei casi estremi, le "operazioni" di polizia internazionale decise, e gestite direttamente, dalle Nazioni Unite. 
Invece che accendere nuovi conflitti bisognerebbe spegnere quelli in corso e provare a capire le ragioni degli altri, ad amare tutti i popoli del Pianeta (la nostra casa comune), nel rispetto della dignità umana e della sovranità degli Stati, nella solidarietà e nella legalità.
Con questo libro ho cercato di evidenziare una verità oggi difficile da percepire: l'Italia della “prima Repubblica”, spesso con la convergenza fra maggioranza governativa e opposizione del PCI, realizzò con il regime di Gheddafi risultati economici davvero invidiabili ( effettivamente invidiati da certi nostri alleati), riuscì a risolvere crisi gravi, problemi difficili insorti con la Libia e con altri Paesi arabi mediante il dialogo, mai con la guerra!  (a.s.)


(Ecco alcuni brani del "viaggio" effettuato dal 28 agosto al 3 settembre 1984)

"A cena col “senatore” Susanna Agnelli

1... Il giardino della residenza (dell'ambasciatore italiano a Tripoli  n.d.r.) è illuminato a giorno. Susanna Agnelli è già arrivata e conversa con Eric Salerno del Messaggero. L’ambasciatore Alessandro Quaroni fa le presentazioni. Seguono i soliti con­vene­voli, ma la conversazione soffre, stenta a decollare.
Essendo l’unico deputato in carica presente, mi sento in obbligo di rompere quell’atmosfera e chiedo al sottosegretario:
Senatrice, quando pensa d’incontrare Triki?” (ministro degli esteri libico)
Lei, prima di rispondere nel merito, mi corregge sull’appellativo “Senatore, prego…”, al maschile.
Un piccolo vezzo, forse, per sentirsi in sintonia con certo rivendicazionismo femminista che intende l’emancipazione come imita­zione dei ruoli virili ossia volgendo al maschile la personalità della donna.
“Triki, ha detto? Oh, sì. Spero d’incontrarlo domani o dopodo­mani. Chissà? Siamo qua. Insciallah!”
Si cena a lume di candela, al fresco ricreante del giardino.
“Più tardi - promette la signora ambasciatrice- potremo ammirare lo spettacolo dei fuochi d’artificio. Veramente grandiosi, suggestivi direi. Speriamo anche quest’anno…” guardò il marito e ammutolì.
Forse, aveva azzardato un’inopportuna previsione dubitativa, incompa­tibile col suo ruolo di consorte. 

2... A sistemare le cose per il meglio ci pensa il cuoco, naturalmente italiano, che si presenta seguito da un paio di camerieri recanti piatti di spaghetti, odorosi e fumanti, sui quali mancava soltanto la bandierina tricolore. Graditissimi.
Dopo giorni di sorbire “ciorba” (la locale zuppa agrodolce a base di pomodoro, non male ma eccessivamente riproposta) e monta-gne di cous cous a base di carne di pecora, vedersi davanti un bel piatto di spaghetti, insaporiti dall’odoroso parmi­giano, è come giungere in un’oasi ubertosa dopo una lunga traver­sata nel deserto.
Specie all’estero, questa pasta riesce a unificare le delegazioni ita­liane anche le più eterogenee e controverse. Su tutto si può pole­mizzare, ma sugli spaghetti, generalmente, si converge.
Per il caffè ci spostiamo in un altro tavolo, sotto la veranda. Sa­ranno stati l’ottimo vino, il buon caffè, fatto sta che, finalmente, la conversazione si sciolse.
La senatrice, pardon il senatore, Agnelli, che probabilmente prefe­rirebbe evitare domande sui colloqui che avrà con Triki, ci parla dei suoi guai di sindaco dell’Argentario.
Uno sfogo indignato contro la speculazione edilizia, l’abusivismo, a suo dire, dilaganti anche in quel pregiato promontorio.
Deve lottare, da sola, contro una ciurma agguerrita di costruttori senza scrupoli che trovano appoggi in tutti i settori del consiglio comunale. Sola contro tutti: una lotta impari.
Tanto da indurla a rassegnare le dimissioni da sindaco che notificherà nei prossimi giorni.

La notte di Tripoli: i cavalieri berberi e i fuochi della rivolu­zione

3... L’Argentario è interessante, ma siamo a Tripoli e sarebbe molto più interessante parlare di relazioni italo libiche, delle condizioni di stabilità, delle prospettive del regime di Gheddafi.
La conversazione si stava avviando su questo crinale, quando si odono i primi botti dei fuochi d’artificio. L’ambasciatore coglie la balla in balzo e ci invita a salire sul terrazzo per ammirare lo spet­tacolo.
Il gioco delle luci e l’esplosione dei mortaretti in cielo svelano la bellezza nascosta di questa città. Bella di notte Tripoli, un po’ meno di giorno quando la luce abbagliante del sole, avvol-gendola, la riduce a un biancore liquido, indistinto.
Di notte, invece, il gioco delle luci, i bagliori dei fuochi ne esaltano la visione, le fattezze, lo splendore della sua “corni­che”, l’allegro fluire della gente per le vie.
Sì, di notte, Tripoli ap­pare più viva e più bella.
Più mediterranea, direi.
Dall’alto della terrazza, anche il panorama della città appare grade­vole, a tratti perfino ammaliante.
Laggiù il lungomare, il porto, i grattacieli, il castello, la città intera sono un’immensa luminaria fantasmagorica.
La serata è quieta e rinfrescata da una leggera brezza di tramon­tana. Aria buona, di casa nostra, che lenisce le estenuanti calure provenienti dal sud, dall’immenso Sahara.
Il cielo nero è squarciato da conturbanti inflorescenze; i fuochi della rivoluzione cadono, a cascata, sopra il mare.
Eh, eh! Il colonnello ha fatto le cose in grande, anche stavolta” sospirò l’addetto militare, stretto nella sua divisa d’ordinanza, il quale durante la serata non aveva spiccicato una parola.

4... Ma la vera sorpresa della festa ci attendeva sulla via del ritorno in hotel.
Sul piazzale antistante al porto è in corso un raduno di centinaia di cavalieri berberi, beduini giunti dalle più remote regioni della Li­bia. 
Tripoli, piazza Verde. 1984
Si esibiscono sul pianoro di sabbia in corse e caroselli davvero sfrenati, fra due ali di folla entusiasta. Montano cavalli snelli e agili come il vento. Le gare sono a batteria: gruppi di otto o di dieci ca­valieri per parte corrono intabarrati nei loro barracani bianchi e celesti, e sparano in aria con i loro fucili a canna lunga, simili ai vecchi archibugi.
Più che partecipanti a un palio, sembrano guerrieri di un’antica battaglia raffigurati nelle vecchie stampe coloniali.
Mezzanotte è passata, ma la festa si anima. Da ogni quartiere, da ogni via di Tripoli arriva gente. Nessuno si vuol perdere la disfida dei cavalieri berberi.
Negli occhi di tutti quei “cittadini” un po’ rammolliti, figli, ben protetti, dello stato sociale diffuso, creato dalla “rivoluzione”, si legge una nota di malinconia, forse di atavica nostalgia per quegli uomini duri, dai volti essiccati dal vento e dal sole, che corrono, con i loro mantelli bianchi, a dorso di cavalli indomiti che evocano il deserto infinito, le notti d’amore al chiaro di luna, la libertà di scorazzare per gli spazi infiniti, il senso più autentico della vita.
Per i beduini il deserto è la patria, la libertà. Non solo perché sono liberi di muoversi con le loro famiglie e tribù, con i loro armenti, ma perché nel deserto non sono mai penetrati gli eserciti invasori.
L’unico che vi si addentrò, nei primi anni ’30, fu il generale fasci­sta Rodolfo Graziani il quale, per corrispondere all’ordine di Mus­solini, perpetrò un genocidio.

(1° settembre)
1...      Finalmente, il gran giorno. Quindici anni come oggi, il ventiset­tenne Muammar Gheddafi, con altri undici giovani uffi­ciali, tra i quali il maggiore Jallud e il generale Karrubi, detroniz­zavano il vecchio re Idriss, un fantoccio nelle mani degli anglo- a­mericani.
La vera abilità di Gheddafi non consiste solo nell’avere ideato e attuato il colpo di stato, quanto nell’avere saputo mantenere il po­tere per tre lustri, sfidando serie difficoltà all’interno e resis-tendo a una congiura internazionale davvero pericolosa, micidiale.                                   
Le più grandi potenze, con ogni mezzo e senza badare a scrupoli, hanno tentato prima di comprare il colonnello e dopo, non essen­dovi riuscite, di eliminarlo fisicamente.
I petrolieri angloamericani non potevano accettare di perdere il controllo su circa il 4% della produzione petrolifera mondiale.
Seppure con molti errori e ondeggiamenti, Gheddafi è ancora in sella, è il leader della “rivoluzione di Al Fatah” e questa mattina, dalla tribuna della Piazza Verde, si godrà la sua colorita e rumo-rosa parata militare.
Nella piazza, accostati al bastione orientale del castello, sono stati eretti due palchi con tettoia.
Uno riservato alle delegazioni straniere e un’altro a Gheddafi e al suo più stretto entourage del Comando della rivoluzione (il vero centro di potere della Jamahiriya) e ad altri dignitari del regime e a qualche ospite straniero di particolare riguardo.
Quest’anno, il colonnello ha voluto accanto a se il generale Ramadan, il vicepresidente siriano, i due ministri nicaraguensi e il “presidente” della repubblica islamica degli Stati Uniti d’America.
Gheddafi con Arafat, 1977
Che bella soddisfazione per Gheddafi!
Nel 1979, a Bengasi, per far dispetto agli americani, volle al suo fianco lo squattrinato Bill Carter, fratello del presidente (in carica) Jimmy, oggi, addirittura, un futuro “presidente”Usa.
Noi osserviamo la “scena” dal palco delle delegazioni straniere. La guida ci dice che quest’anno il senso di marcia della parata va da occidente verso oriente, per indicare, idealmente, la via alle armate maghre­bine unite (a partire dal Marocco) verso Gerusalemme, verso la li­berazione della terra di Palestina.  

2...      Il Colonnello osserva attentamente i reparti dietro un paio di occhiali neri (come vuole la migliore tradizione dittatoriale), truc­cato come un attore che si prepara ad affrontare la scena madre, mentre sorseggia una bibita fresca spaparanzato sopra un’enorme poltrona di pelle.
Al passaggio dei reparti femminili da una gomitata a Ramadan, come per dire “guarda cosa ho io!”.
La Libia è l’unico paese arabo ad avere introdotto questa sconvol­gente novità.
Le donne, che la tradizione vuole chiuse in casa, schiave dei padri e dei mariti, il Colonnello le ha portate nell’esercito, innalzandole, formalmente, alla dignità di combattenti al pari degli uomini.
E, per sottolineare la bontà della scelta, ha voluto che metà della sua scorta personale fosse formata da prestanti ragazze in grigio­verde.
Per le donne il servizio militare non è obbligatorio. Possono ar­ruolarsi volontarie dietro consenso del padre o del fratello mag­giore. Comunque sia, a parte questa novità, bisogna dare atto al re­gime di aver fatto molto per migliorare la condizione della donna in Libia nei vari campi della vita sociale.
Dopo i reparti appiedati, vengono i mezzi corazzati, soprattutto carri armati. In gran parte ferraglia venduta dall’Italia, a prezzi stracciati. Ogni tanto, i governi occidentali, quando decidono di ammodernare gli arsenali, fanno di queste svendite.
Per la fortuna delle nostre orecchie, ne sfilano soltanto un centi­naio. A Bengasi furono migliaia. Un vero strazio ossia sette ore di assordante sfilata avvolti dentro una nuvola di sottile polvere bian­castra che i panzer sollevavano al loro passaggio.

3...      Sotto lo spietato sole tripolino, ora è la volta dell’esibizione dei reparti missilistici. Passano camion carichi di missili di varia grandezza e gittata.
Alcuni, molto lunghi, sono trasportati da appositi tir mimetici.
Il nostro pensiero corre agli SS12 sovietici, ordigni particolarmente temuti poiché, avendo una gittata di circa mille chilometri, possono agevolmente raggiungere la Sicilia e l’Italia meridionale.
Di questa nuova minaccia al fianco sud della Nato si è molto par­lato in Italia, anche nel quadro del rafforzamento del dispositivo mediterraneo e dell’installazione dei missili nucleari a Comiso.
La questione, dunque, è molto delicata e controversa. C’è chi so­stiene che i libici siano già in possesso di tali sistemi d’arma e altri che lo escludono.
Personalmente, confido nel senso di responsabilità dei sovietici i quali non possono, davvero, permettere di far dipendere da Ghed­dafi la scelta di scatenare un conflitto contro la Nato, nel cuore del Mediterraneo.
D’altra parte, se i libici possedessero questo tipo di missili è im­probabile che li avrebbero esposti in una parata.
L’ambasciatore Quaroni, che ci sta di fianco, esclude che quei be­stioni siano gli SS12.

4...      Allontanatisi le armi e gli armati, è il turno del popolo fe­stante. La piazza è invasa da masse vocianti che inneggiano al Co­lonnello e alla rivoluzione.
Invocano il nome di Gheddafi il quale, senza tanto farsi pregare, va sul podio e attacca a parlare.
Come il solito, i toni del discorso sono duri, sprezzanti. aggressivi, in sintonia con le attese della piazza.
Parla per oltre un’ora, molto meno delle precedenti celebrazioni. Parata corta, discorso breve: si vede che il colonnello avrà adottato un nuovo stile o rivisto il suo personale senso delle misure.
Il passaggio più arduo è quello in cui ha dovuto spiegare al popolo la bizzarra unione della Jamahirja con il regno del Marocco di Has­san II, fino a qualche mese addietro odiato nemico e indicato al pubblico ludibrio come servo dell’imperia-lismo franco- americano in Africa.
Le masse addestrate plaudono anche a questo accordo, tanta è la fede nella nuova “spada dell’Islam”.
Tripoli, presidenza conferenza mediterranea: da sin. A. Spataro, O. Di Liberto, segretario gen. libico

Tuttavia, malgrado gli applausi e gli apparenti entusiasmi, il colon­nello non è risultato molto convincente.
In privato, alcuni dirigenti libici me ne hanno parlato con un certo imbarazzo.
Anche Shahati, che è una delle persone più sagge dell’entourage di Gheddafi, pur dichiarandosi d’accordo, teme che la scelta non possa essere capita dagli altri Paesi fratelli (fronte del rifiuto) e dai movimenti di liberazione dell’Africa e in generale nel mondo.
“Quando una decisione necessita di troppe spiegazioni…tu capisci cosa voglio dire”
La propaganda ufficiale, invece, sostiene che l’unione è il primo passo verso la creazione del grande Maghreb. Una buona idea in se, da tempo, proposta dagli algerini anche al Marocco, ma senza i convitati francesi e americani.
La Tv diffonde in continuazione le immagini della parata, del co­mizio di Gheddafi e quelle del Congresso generale dei Comitati popolari, svoltosi nel tardo pomeriggio, che in pochi minuti ha rati­ficato il trattato d’unione col Marocco. Nelle stesse ore, il 99% dei marocchini rispondeva “Sì” al referendum indetto da Hassan II. L’esito del referendum è lampante, ma resta il mistero delle moda­lità e dei tempi del suo svolgimento e, soprattutto, del suo plebi­scitario consenso. 

(2 settembre)
Leptis Magna: una civiltà resuscitata

1...      Sveglia alle 6,00. Oggi abbiamo un programma molto denso: una visita a Leptis Magna e ai cantieri Impregilo a Homs. Viene a prelevarci il dottor Tornetta, secondo consigliere della nostra am­basciata. Passiamo al “Grande Hotel” dove è alloggiata Susanna Agnelli che farà parte della comitiva.
Siamo sul punto di avviarci verso Leptis, quando dal ministero de­gli esteri libico arriva la comunicazione che il ministro Triki ha fis­sato l’incontro con la Agnelli per le 10,30 di quella mattina.
Si con­ferma il fattore imprevedibilità, specie nella gestione del tempo, che qui è una caratteristica dominante nelle relazioni anche proto­collari.
E così, noi partiamo per Leptis e “il senatore” per il ministero degli esteri. Ci raggiungerà dopo l’incontro con Triki.
L’autostrada che da Tripoli giunge a Bengasi è un rettifilo nero che si snoda fra il blu intenso del mare della Sirte e il verde cupo degli orti e degli uliveti.
Da Tripoli a Leptis vi sono circa 120 km. L’auto va veloce. In poco più di un’ora ci porterà a Leptis, la meta da me agognata, detta “magna” dai romani per distinguerla dalla Leptis minor, fondata da mercanti fenici in Tunisia, nei pressi dell’attuale Sousse.
Il paesaggio è gradevole, addolcito dalla vegetazione della cosid­detta “fascia utile” ovvero un’ampia striscia di terra irrigata che corre lungo la costa, dove crescono, ubertosi, uliveti e giardini di agrumi, orti di verdure e, naturalmente, distese di palme.
“Fascia utile”, evidentemente tutto il resto si considerava “inutile”. Un  errore per la politica coloniale italiana che concentrò i suoi im­pegni nella fascia costiera (attività agricole) e trascurò la “fascia inutile”(deserto) dove saranno rinvenuti immensi giacimenti di pe­trolio e di gas. E perfino di acqua!
Il simpatico dottor Tornetta, siciliano di Piazza Armerina, ritiene suo dovere darci alcuni chiarimenti su taluni aspetti della realtà politica libica.
Dalle prime battute (talune veramente esilaranti!), s’intuisce che non ama il regime e per indicare Gheddafi dice sempre “Pieri­no”. Non si capisce se lo faccia per precauzione diplomatica o per un chiaro intento spregiativo. Il suo dire è spesso intercalato da espressioni tipo “come ha detto Pierino, come ha fatto Pierino”.

2...      Giungiamo a Leptis Magna prima di mezzogiorno. Ci atten­dono tre ragazzi (due maschi e una donna) della missione archeo­logica dell’università di Roma impegnati nei lavori di restauro del sontuoso arco di Settimo Severo.
Leptis Magna (foto Unesco)
Ai nostri occhi si presenta uno spettacolo davvero unico, esaltante.
La maestosità e l’ottimo stato di conservazione degli edifici e delle vie consentono di ammirare, in tutto il suo splendore, una grande città romana.
“Questa città, una vera perla incastonata fra il deserto e il mare, è una testimonianza del passaggio di Roma verso il nord Africa; ma­estoso monumento, fondato dai fenici, che deve il suo splendore all’impero dei Cesari e di Settimo Severo, suo figlio diletto… In poco più di un secolo e mezzo, furono costruiti: il calcidicum, il tempio di Roma ed Augusto, il vecchio Foro, gli archi di Tiberio, Vespasiano, Traiano, Settimo Severo e Marco Aurelio; i templi de­gli Augusti, del Libero Padre e di Ercole, della Grande Madre o Cibale, gli acquedotti, le terme di Adriano e il santuario in onore dell’imperatore Antonino Pio.” [1]
E ancora, il nuovo foro, il mercato, il teatro, il ginnasio, la basilica e tanto altro.
Tutto si è salvato sotto le sabbie del deserto giunto fino al mare. Erette o per terra, le rovine sono ancora qui. Intatte o quasi. Come in altre regioni dell’immenso Sahara, la sabbia, da nemico mortale della natura e delle genti, si è trasformata nel migliore custode de­gli splendori di civiltà sepolte che diversamente non avremmo po­tuto ammirare.
Penso anche ai templi della civiltà sabea, dove officiava e gover­nava Bilqis la celebre regina di Saba, di Palmira in Siria, ai tanti tesori dell’antico Egitto, della Mesopotamia, ecc.
Grazie a queste sabbie, bionde e sericee, Leptis si è conservata e oggi, in gran parte, è stata riportata alla luce dagli scavi con-dotti, in oltre mezzo secolo, da varie missioni archeologiche italiane.
Il risultato, davvero brillante, è sotto gli occhi di tutti: credo non sia esagerato dire che per vedere l’antichità romana più auten­tica bisogna venire a Leptis Magna.

3...      Domando al capo missione quali fossero i rapporti con le auto­rità libiche.
Risponde che, all’inizio, non mostrarono grande interesse per la ricerca archeologica poiché consideravano quelle rovine estranee alla loro civiltà, perfino come simboli di un’antica oppressione.
Una visione, d’altra parte, in sintonia col manicheismo islamico secondo cui tutto quello che era prima della Rivelazione (a Mao­metto) è “jahaliya”ossia il caos, il male, mentre è bene tutto quello che è venuto dopo.
Per aggirare l’ostacolo e suscitare l’interesse delle autorità, gli ar­cheologi italiani, testi alla mano, dimostrarono che al tempo dei romani qui viveva la tribù dei “Libo” dalla quale discendono i li­bici contemporanei. Lo stesso imperatore Settimo Severo nacque nato a Leptis Magna da una famiglia libo.
Pertanto, un libo/libico assurse alla più alta magistratura di Roma imperiale.
Sulla base di tali argomenti, pare che Gheddafi si sia convinto a prestare l’assistenza necessaria alle missioni italiane. Oggi esiste una proficua collaborazione fra i due Paesi: l’Italia fornisce i tec­nici, gli archeologi e la Libia i mezzi finanziari e il personale di scavo. L’area centrale della città è già tutta alla luce, ma la gran parte è ancora da scoprire.
Visitiamo la grande piazza del mercato. È molto interessante, per­fino commovente osservare i banchi di pietra dove si vendevano il pesce, le carni, i tessuti, ecc.
Di fianco, c’è una lapide sulla quale sono intagliate le unità di mi­sura dell’epoca: il braccio punico e il piede romano.
Due arti importantissimi, due simboli, qui, riuniti in un mirabile esempio di fusione di due civiltà così distinte e contrapposte.
Lungo i cardi e i decumani, davanti alle abitazioni si notano tavo­lette con sopra incisi enormi simboli fallici che  la guida ci dice gli antichi esponevano contro il malocchio.
Più avanti i resti di un abbeveratoio e le relative condutture di ad­duzione dell’acqua provenienti da una cisterna.
Il teatro è di rara magnificenza. E’ tutto un grande spettacolo di eleganti architetture armonizzate con la natura circostante: il mare, le dune di sabbia finissima, i frutteti.

4...      Terminata la passeggiata archeologica, i ragazzi della mis­sione ci invitano nel loro appartamento, ricavato nei locali sovra­stanti il piccolo antiquarium.
L’edificio è immerso nella fresca quiete di un giardino di frutta e di verdure. Con fare circospetto, i tre archeologi ci introducono in un ripostiglio nascosto da una tenda, promettendoci una piacevole sorpresa. Pensai a un pezzo raro o comunque a una curiosità legata al loro lavoro. Invece…
Aprono la tenda e appare un rudimentale meccanismo per la fabbricazione della birra. Una piccola fabbrica clandestina, s’intende. Assaggiamo volentieri. Da una settimana, beviamo soltanto acqua minerale e una specie di gassosa insipida, perciò la birra fredda de­gli archeologi è davvero una squisitezza da pub inglese.
Arrivano Susanna Agnelli e l’ambasciatore Quaroni, reduci dall’incontro con Triki. Il sottosegretario ha poco tempo a disposi­zione.

Teatro di Leptis Magna. Da sin. S. Agnelli, A. Quaroni, A. Spataro

Una visita veloce al teatro e all’agorà e via, di corsa, verso Homs, al cantiere del consorzio italiano “Impregilo” di cui è capofila la madre Fiat.
Qui si sta costruendo un nuovo grande porto militare. Un ingegnere ci accoglie tutto emozionato. Non capita tutti i giorni vedere sul posto di lavoro uno dei titolari della ditta, per giunta nelle vesti di rappresentante ufficiale del governo italiano.
Ci illustra le caratteristiche del progetto, davvero ambizioso ri­spetto alla consistenza della marina militare libica.
Forse, pensano di ricevere “ospiti”. I sospetti si appuntano sulle mire sovietiche ad avere, dopo quello di Tartous in Siria, un altro buon approdo nel Mediterraneo centrale.
I lavori sono a buon punto: dal mare affiorano i lunghi bracci, i moli e le altre infrastrutture del grande porto.
Al pranzo (ottimo) partecipano i dirigenti e i tecnici del consorzio con le rispettive consorti che hanno seguito i mariti in questo lembo d’Africa.
Vita difficile per le signore, costrette a vivere, isolate, dentro roventi prefabbricati metallici, un po’ simili a quelli dei terremotati dell’Irpinia.
Questi, però, sono dotati di tutti i confort, in particolare, dell’impianto di aria condizionata, di vitale importanza.
L’ambasciatore freme per rientrare a Tripoli dove, nel pomeriggio, la signora Agnelli è attesa a casa di Triki per il tè, probabilmente per continuare, al riparo da occhi indiscreti, i collo­qui della mattina.
A fronte di tali incombenze, non resta che prendere atto e ripartire.
Durante il viaggio di ritorno, il dottor Tornetta ci intrattiene piace­volmente con le sue salaci battute su “Pierino”.
È una miniera inesauribile di simpatica maldicenza: fatti e misfatti, anche minimi, bizzarrie del sottobosco politico libico che tutti sus­surrano, ma che mai diventeranno notizie di cronaca."


* Brani tratti dal mio libro “NELLA LIBIA DI GHEDDAFI” in vendita presso le librerie Feltrinelli e Amazon:
http://www.amazon.it/NELLA-LIBIA-GHEDDAFI-Centro-Mediterranei-ebook/dp/B00DSQ1WEG



B.Aires- ottobre 2015- presentazione del libro al circolo de "La campora"
PS. Per il lettore e per il "Grande fratello" (in ascolto), desidero precisare- come ampiamente spiego nel libro- che i miei rapporti con personalità e organismi ufficiali libici si sono svolti, sempre nell'ambito della mia attività di parlamentare della Repubblica italiana, per conto del PCI , dell'Associazione nazionale di amicizia italo-araba e, sovente, d'intesa col nostro Ministero degli Affari esteri. Da quando, nel 2003, i dirigenti libici si accollarono la terribile responsabilità dell'abbattimento di due aerei civili, che condannai pubblicamente, ho conseguentemente interrotto ogni residuo contatto. Su questa come su altre vicende mi limito a dare qualche (inascoltato) consiglio. . 


[1] H. Calderon, op. cit.

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