martedì 29 marzo 2016

IL PIACERE DEL PLAGIO. "SOLO GLI ERRORI SONO NOSTRI"





di Agostino Spataro


Talvolta, il plagio può risultare gradito poiché può far piacere scoprire che qualcuno ricalca le tue orme, anche se, intenzionalmente, le cancella.





Il fatto.
Al giorno d’oggi, mediante Google e altri motori di ricerca, è facile scoprire certe scopiazzature anche ben travestite. Pensavo di non averne, di plagiari. Invece, con la più viva sorpresa, ho scoperto di averne alcuni. Pochini  in verità ai quali in genere non do importanza. Anzi, in certi momenti di sconforto, mi possono risultare perfino graditi poiché fa piacere scoprire che qualcuno ricalca le tue orme, anche se, intenzionalmente, le cancella.  
Tuttavia, meglio evitarlo, il plagio. Non solo perchè è un reato ma per una questione di onestà intellettuale, di rispetto di se stessi, giacchè annulla il valore dell'opera e la credibilità dell'autore. 

L'ultima "scoperta", forse la più clamorosa, l'ho fatta nei giorni scorsi e ve la segnalo anche a rischio di farle immeritata pubblicità.

Un confronto necessario.
Per voi averne contezza e valutare, propongo un confronto fra la “storia n. 40” di questo e-book pubblicato nel luglio del 2015 in :
http://www.newtoncompton.com/libro/101-storie-su-palermo-che-non-ti-hanno-mai-raccontato
( la "storia" si trova cercando su Google.it : alli traina palermo buenos aires borges)
e questo mio articolo del 29 dicembre 2005 cui l'autrice ha attinto, a piene mani, senza citarlo:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/12/29/buenos-aires-la-palermo-degli-artisti.html
L' e-book contiene 101 storie di Palermo che - si sostiene nel titolo - “non ti hanno mai raccontato”. Cattivoni!

Non so dire delle altre 100 (che ho rifiutato di leggere), ma la n. 40 penso di averla raccontata io dieci anni fa sulle pagine di “La Repubblica/Pa”, citando le fonti cui ho attinto, con date, titoli delle opere e nomi e cognomi dei rispettivi autori.
Per altro, ritengo che per uno scrittore , anche in erba, citare le fonti non sia un fattore riduttivo, semmai un segno distintivo di correttezza professionale e di dotta maturazione culturale.

Scrittori o cosa.
Con ciò- sia chiaro- non voglio rivendicare orgogliose primazie o chissà cosa, ma solo sperare di suscitare una riflessione.

Pur avendo scritto una ventina di libri (alcuni tradotti all'estero) e migliaia di articoli, provo sempre un certo imbarazzo, pudore a autodefinirmi scrittore. Mi basta e avanza l'ultratrentennale iscrizione all'ordine dei giornalisti. Non aspiro a premi, alle alte tirature, a riconoscimenti e a prebende varie. Se posso, mi sottraggo al "rito" delle presentazioni, poiché sono persuaso che i libri si presentano da se stessi. Ovviamente, se qualcuno si prende la briga di leggerli. Quindi niente orgoglio o lesa maestà: noi ci nutriamo di cose semplici e di acqua pura di fonte.
Che altro aggiungere? A parte il problema dei diritti dell’autore e dell’editore (Gruppo La Repubblica- Espresso), desidero ricordare che per scrivere quell’articolo ci sono voluti tanto impegno, tanta fatica. Ho dovuto fare diverse ricerche in Argentina, in particolare presso la Biblioteca nazionale di Buenos Aires dove ho trovato, e letto, libri, documenti, per altro citati nel pezzo.
Per quanto mi riguarda, non mi sembra il caso di farne un "caso" (scusate il bisticcio intenzionale), nè una questione personale, legale, ma solo un esempio per evidenziare la gravità del fenomeno, sempre più diffuso nell'era del web, dell' improvvisazione, della scopiazzatura, dell'attribuzione indebita del lavoro intellettuale degli altri.

"Solo gli errori sono nostri"
Prima di tutto, la questione é deontologica, morale e chiama in causa la responsabilità dello scrittore, o sedicente tale, poiché scrivere può essere una fatica piacevole, ma sempre fatica è: i giorni, le nottate, i caffé amari, gli scatti d'ira davanti un libro, un PC, gli archivi, le biblioteche, le "sacre note" di citazione e soprattutto l'umiltà, il rispetto verso il lettore e verso la fatica altrui. 
E visto che siamo in argomento ci resto per fare un invito all'umiltà, che è la virtù dei grandi e il contrario della vanità che è il vizio della stupidità, e richiamare un acuto concetto di Jorge Luis Borges- ripreso da Domenico Porzio*- "La prestidigitazione di Borges va oltre: una pagina o un verso fortunato non devono inorgoglirci: sono il dono del Caso o dello Spirito; solo gli errori sono nostri." 
Sperando che qualcuno non vorrà attribuirsi anche questo!  (a.s.)

* D. Porzio in "Introduzione" a "Borges. Tutte le opere" Ed. Mondadori, 2003







lunedì 21 marzo 2016

LA LIBIA E’ VICINA… PERICOLOSAMENTE VICINA ALLA SICILIA



di Agostino Spataro
Scusate se insisto, ma ritengo che, nonostante alcune, opportune precisazioni del presidente del consiglio, Matteo Renzi, non siano state del tutto fugate le preoccupazioni, le paure per un’eventuale nuova guerra (o intervento militare italiano che dirsi voglia) in Libia.
Per la cronaca, è opportuno rilevare che questa eventuale guerra sarebbe la terza (dopo quelle del 1911 e del 2011) in cui l’Italia parteciperebbe, da sola o in coalizione, e che sarebbe combattuta, quasi interamente, a partire dalla Sicilia.
Una guerra che né i libici né i siciliani (e gli italiani) vogliono, ma che sarebbero costretti a sobbarcarsi per via delle tanti basi militari italiane, della Nato e degli Usa dislocate sull’Isola. 
In questa crisi anomala e terribile, sta passando un messaggio falso che dipinge i libici come fanatici assassini. Ovviamente, vengono confusi, scambiati con le milizie dell’IS, in grandissima parte, formate da stranieri mercenari.
In genere, i libici sono gente pacifica, tollerante, gioiosa perfino. Come ebbi modo di costatare
nei miei viaggi in Libia, negli anni ’70 e ’80 per incarico del mio partito (Pci) o del Parlamento, quando il  Paese era praticamente chiuso al mondo.
Conobbi un pò da vicino il mite popolo libico, alcuni suoi dirigenti e intellettuali nei quali, nonostante il triste passato coloniale, riscontrai sentimenti di amicizia e propositi di collaborazione con l’Italia.
Soprattutto con la Sicilia, dove abbiamo lavorato, per lungo tempo, unitariamente, per rafforzare la pace, per trasformare l’amicizia con l’intero mondo arabo in progetti di cooperazione economica e culturale, reciprocamente vantaggiosa.  

Palermo, 1978. Un vecchio manifesto per il convegno siculo-arabo a Palazzo dei Normanni

Perciò, questa nuova, eventuale guerra ci disturba assai. Anche perché la Libia è vicina, pericolosamente vicina alla Sicilia. Lo dico- se mi è consentito- muovendo dal punto di vista del popolo siciliano ossia di 5 milioni e 300mila persone (quanti gli abitanti della Libia) separate dalla costa nordafricana solo dalla linea dell’orizzonte marino.  
Desidero anche ricordare ai guerrafondai che la prima guerra alla Libia (1911) fu presentata dal governo Giolitti come una “passeggiata” che, poi, durò più di vent’anni e fu conclusa con un genocidio ordinato dal regime fascista  e attuato, con ferocia, dal generale Rodolfo Graziani il quale, per piegare la resistenza delle diverse tribù libiche, ricorse alle stragi, alle deportazioni, all’uso di gas letali. 
Una brutta pagina per la storia italiana, una macchia che i libici ancora ricordano. Da qui, anche, la loro contrarietà a un nuovo intervento militare italiano e/o della Nato.
Per altro, c’è da notare un particolare curioso: delle prime due guerre furono protagonisti due ministri siciliani, entrambi originari di Paternò. Casualità, mera casualità, s’intende, ma così andarono le cose, come ho cercato di ricostruirle nel seguente articolo:   (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/05/13/ministri-di-paterno-in-guerra-con.html)  e nel libro “Nella Libia di Gheddafi” del quale accludo il capitolo XII, relativo alle relazioni (storiche e recenti)  fra la Sicilia e la Libia.
Il primo fu il senatore Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano, ministro degli Esteri di Giolitti (dal 1910 al 1914), il “principe Consalvo Uzeda di Francalanza” de “ I Vicerè” del grandioso romanzo di Federico De Roberto.
Il San Giuliano legò il suo nome all' occupazione coloniale italiana della Libia e delle isole del Dodecaneso, pattuita con Francia e Gran Bretagna. Memorabile rimase l'ultimatum (del 27/9/11)  con il quale s’ingiungeva al governo ottomano di abbandonare il Paese entro 24 ore e senza condizioni, affinché «giunga a fine lo stato di disordine e di abbandono in cui la Tripolitania e la Cirenaica sono lasciate dalla Turchia...»
Insomma, buoni propositi e cattive maniere: l' Italia occupò la fascia costiera della tripolitania per far rispettare l' ordine pubblico. Il San Giuliano, ritenendo (a torto) di avere “conquistato” l’immenso territorio desertico libico, annunciò alla Camera, e al mondo, il “nuovo ordine” mediterraneo, ridefinendo, in forma tutto sommato passabile, l’espressione “mare nostrum”,  coniata ai tempi di Giulio Cesare: “Nessuno, d’ora in poi, avrà il diritto di chiamare il Mediterraneo “mare nostrum”. Esso è, e deve restare, libera via delle genti, delle quali, però, niuna deve averne il dominio; e tutte devono averne il godimento, e tra le quali uno dei primi posti è stato conquistato e sarà conservato dall’Italia.”  (Atti Camera Deputati, 22/2/1913)
A cento anni esatti, nel 2011, ecco avanzare sulla scena bellica e mediatica un altro prode paternese: l' onorevole Ignazio La Russa (ex MSI) , il quale, da ministro della Guerra, pardon della Difesa, dell’ultimo governo Berlusconi, definì la Sicilia “portaerei del Mediterraneo”, mettendola a disposizione dei micidiali (e politicamente inconcludenti) attacchi della coalizione Nato che ha vinto la guerra ma- come vediamo- ha perduto il dopoguerra.
Altri tempi, altri uomini. O forse no. A mio parere, fra la guerra del 1911 e quella del 2011 la differenza sta in un "neo", nel senso che la prima fu una guerra coloniale, mentre la seconda è stata di stampo neo-coloniale. La terza… speriamo non accadrà mai!
(21 marzo 2016)

Se vi aggrada, date un'occhiata al sottostante capitolo:






Cap. XII



LA SICILIA E LA LIBIA


I libici in Sicilia: un’illusione mediterranea


1...     C’era un tempo, non molto remoto, nel quale Sicilia e Libia si guardavano con grande simpatia reciproca.
L’Isola, la più grande del Mediterraneo, ha sempre attratto gli arabi per il suo splendido passato islamico e per il suo inquieto presente autonomistico.
Attrazione che nasce da fattori diversi, soprattutto di carattere sto­rico, culturale, etnico.
C’è, addirittura qualche imam “nostalgico” che, ogni tanto, vaneggia un‘assurda rivendicazione sulla Sicilia e sull’Andalusia le quali, avendo fatto parte della “Dhar al Islam” ossia delle terre dell’Islam, sono considerate territori irredenti.
Per quanto ci risulta, questo non fu mai il pensiero di Gheddafi e di altri leader nordafricani, ma solo di alcuni “benpensanti” che affol­lano le conferenze dell’Organizzazione degli Stati islamici..
L’interesse libico “ufficiale” per la Sicilia fu eminentemente cultu­rale, propagandistico direi, e si mate-rializzò mediante l’apertura a Palermo di un consolato e di un centro culturale  editoriale.
Nel versante orientale dell’Isola, a Catania, agiva, in solitudine, l’avvocato Michele Papa, presidente di un’associazione di amicizia siculo- libica con annessa una modestissima moschea, che teneva  contatti diretti con taluni ambienti del governo di Tripoli.    
Fra Sicilia e Libia l’interesse era reciproco. Tuttavia, era più evi­dente nelle classi dirigenti isolane le quali, avendo bruciato le spe­ranze suscitate dall’Autonomia speciale, cercavano nella Libia di Gheddafi una sponda nuova (non più la “quarta”, per carità) per capovolgere le coordinate dello sviluppo: dal nord, che aveva de­luso, al sud dei paesi rivieraschi e soprattutto alla Libia che galleg­giava sopra un mare di gas e di petrolio.
Dalla Jamahirja si aspettavano capitali e commesse miliardarie e lavoro per gli operai e i tecnici siciliani.

2...     Soprattutto, dopo il viaggio (1977) a Tripoli del presidente della Regione siciliana, on. Angelo Bonfiglio, da entrambe le parti s’intensificarono i contatti, si svilupparono le iniziative per mettere in atto alcuni progetti concordati durante la visita.
Le nuove relazioni erano incentrate sul rapporto diretto tra la Re­gione e l’ambasciata libica di Roma e il governo di Tripoli.
Meno sul consolato libico di Palermo che, a differenza di quello tunisino molto presente sulla scena siciliana, non mostrava un grande interesse per le potenzialità esistenti sul terreno della collabora­zione siculo -  libica.
Anche gli imprenditori preferivano trattare gli “affari” con l’ambasciata a Roma o direttamente con Tripoli.
Insomma, un comportamento anomalo, a tratti inspiegabile, che non siamo riusciti a decifrare.
Ovviamente, tale difetto di relazioni in terra sicula non ci impedì di fondare a Palermo, la sezione regionale dell’Associazione di ami­cizia e cooperazione italo-araba che intratteneva rapporti con tutti gli Stati arabi e quindi anche con la Libia.
Promotori furono i rappresentanti dei tre principali partiti Pci (Spataro, Pernice, Ino Vizzini ), Dc (Pumilia, Rino Nicolosi), Psi (Giacinto Lentini) e alcuni docenti dell’Università di Palermo.
Fra questi ultimi, oltre al prof. Umberto Rizzitano, eminente orien-talista, si mostrò molto interessato il prof. Gianni Puglisi, pre­side della facoltà di Magistero, (attuale rettore della Iulm di Mi­lano) che un giorno ritrovai a Tripoli fra i partecipanti a un simpo­sio sul Mediterraneo, dove notai, con piacere, che si trovava a suo agio anche negli ambienti tripolini.
L’Associazione siciliana promosse alcune importanti iniziative, fra cui la prima “Conferenza nazionale sull’immigrazione araba in Sicilia e in Italia”, svoltasi a Palermo e patrocinata dal Ministero dell’interno che prov­vide anche a stamparne e a diffonderne gli atti.
Subito dopo, organizzammo, una “Conferenza sulla cooperazione siculo-araba”, presieduta da Pancrazio De Pasquale e da Piersanti Mattarella, rispettivamente presidenti dell’Ars e della Regione, alla quale parteciparono gli ambasciatori della Lega degli Stati arabi e dei più importanti paesi arabi rivieraschi del Me­diterraneo (fra i quali Farouk Al Shara, attuale vicepresidente della Repubblica si­riana) e le principali autorità siciliane, politiche e di governo, imprenditori e associazioni sindacali, rappresentanti delle università isolane.


Un’ottima iniziativa internazionale che metteva la Sicilia al centro di una nuova prospettiva di pace e di cooperazione, senza fughe in avanti e rifuggendo da ogni tentazione “indipendentista”, nell’ambito dei quadri d’indirizzo del governo italiano e della Cee.
Questa, e altre iniziative (di cui diremo) fece storcere il naso alla Farnesina che riteneva di dover esercitare l’assoluto monopolio delle attività internazionali.
Era quello il tempo in cui si diceva, così per celia, che “la Sicilia aveva finalmente una sua politica estera”.

Un controverso accordo tra Sicilia e Jama­hirya

Si creò un clima di speranzosa attesa, un fervore propositivo che indusse il presidente della Regione, il democristiano An­gelo Bonfiglio, a intraprendere, nel novembre del 1977, una visita ufficiale a Tripoli nel corso della quale fu sottoscritto un protocollo d’intesa e costituita una commissione mista si­culo- libica per il coordinamento e l’attuazione delle diverse  ipotesi di cooperazione individuate.
Come si legge nel comunicato finale:“L’incontro avvenne a Tripoli il 28 Dul al Kahadda 1397 H. corrispondente al giorno 8 novem­bre 1977…fra una delegazione della Jamahiriyah Araba Libica socialista presieduta dal Fratello colonnello Younes Belgasem, se­gretario degli interni, e la delegazione del Governo regionale sici­liano presieduta dall’onorevole Angelo Bonfiglio, nella sua qualità di Presidente della Regione…”
Le parti hanno esaminato le varie possibilità per rinsaldare e svi­lupparla cooperazione al fine di conseguire il comune vantaggio per i due popoli amici ed accrescere al contempo i reciproci vin­coli di amicizia…” [1]
Segue una lunga lista di proposte da rea­lizzare nei settori indivi­duati nei quali dovrà dispiegarsi lo sforzo di cooperazione: dalla società mista di pesca ad altre per la produ­zione di magnesio, soda, maglieria, vetro, ecc; dalla collaborazione nel settore agricolo a quello dei trasporti marittimi e aerei, dalle relazioni culturali alla partecipazione delle imprese siciliane ai programmi del Piano di sviluppo libico delle infrastrutture.
Il viaggio provocò un certo clamore sulla stampa e una severa re­primenda pubblica del governo di Roma che non riconosceva alla regione la potestà di firmare un trattato con uno Stato estero.
La polemica continuò, ma non fermò le visite di delegazioni di autorità e di operatori economici.
Tutto pareva andare a gonfie vele. La Libia, uno dei più importanti paesi petroliferi del mondo, posta a poche centinaia di miglia dalle coste siciliane, si proponeva come partner privilegiato della Sicilia per cooperare in diversi settori economici e culturali. Una nuova prospettiva si apriva per la Sicilia, questa volta in dire­zione sud.

La “guerra del pesce” nel Canale di Sicilia

Buoni propositi e progetti ambiziosi, forse troppo, che, sul fi­nire degli anni ’70, subirono una forte frenata a causa dello scoppio nel Canale di Sicilia della cosiddetta “guerra del pesce” tra l’Italia e la Tunisia e, dopo, anche con la Libia.
In realtà, la “guerra” era tra pescherecci mazaresi e autorità costie­re tunisine le quali, sovente, sequestravano natanti ed equipaggi perché ritenuti colpevoli di pesca abusiva in acque di pertinenza tunisina. Talvolta, lamentavano gli armatori mazaresi, i sequestri avvenivano anche in acque “internazionali” a tutti acces­sibili.
Una lunga e tormentata controversia funestata da episodi tragici di cui furono vittime diversi pescatori, molti tunisini immigrati, alcuni colpiti a morte dagli uomini delle motovedette tunisine.
Nonostante i contatti, gli incontri, le telefonate, anche ad alto livel­lo, non si riusciva a venirne a capo. La guerra continuava con nuovi sequestri.
C’era sempre qualcosa che non quadrava. Quasi mai, per esempio, si riusciva a stabilire con precisione il “punto nave” per individuare le eventuali responsabilità dei siciliani o gli abusi dei tunisini.
E così la “guerra” continuò per anni secondo un andazzo ben speri­mentato, quasi un rischio calcolato: i tunisini sequestravano un pe­schereccio e i mazaresi pagavano una multa per il rilascio. Intanto, il buon pesce del Canale continuava a sbarcare a Mazara e da lì raggiungere i principali mercati italiani.   
Più che una multa appariva una sorta di “tassa sul pescato” imposta dai tunisini, in aggiunta alle provvidenze concesse dal governo ita­liano con il trattato bilaterale di pesca.
La situazione precipitò dopo la scadenza (giugno 1979) dell’accordo di pesca, col quale lo Stato italiano praticamente comprava da quello tunisino una certa quantità di permessi di pe­sca.
I sequestri, gli inseguimenti delle motovedette erano all’ordine del giorno. Tuttavia, i mazaresi continuavano a battere le coste tunisi­ne. Erano costretti a farlo poiché quelle siciliane erano state de­va­state e pertanto erano poverissime di pesce.
Gli esponenti del governo tunisino desideravano rinnovare il proto­collo scaduto su basi più avanzate ossia superando il tratto mera­mente monetarista per giungere a un accordo di vera e propria coo­perazione.
Per conto del Pci, dell’associazione di amicizia, proponemmo di costituire una società mista di pesca tra enti e operatori italiani (mazaresi) e tunisini che sarà costituita successivamente, accenden­do grandi speranze e qualche investimento.
Ma la “pace del pesce” stentava ad affermarsi.
Portammo la questione all’attenzione del governo e del Parlamen­to, delle diplomazie.
Articoli, interrogazioni, mozioni, grandi di­battiti alla Camera e al Senato, all’Assemblea regionale siciliana, incontri politici e tecnici ad alto livello, ma con risultati molto mo­desti, quasi nulli.
Ogni tanto, mi assaliva un dubbio atroce: e se nessuna delle due parti desideri un vero accordo, una composizione controllata del contenzioso?
In fondo, quella “guerra”, dichiarata, ma solo raramente combat-tuta, conveniva un po’ a tutti: ai mazaresi che potevano spingersi a pe­scare fin sotto le pescose coste tunisine (e libiche) e alle autorità tunisine che, attraverso le multe, imponevano ai mazaresi una sorta di tassa sul pescato.
A conti fatti, questo modus vivendi soddisfaceva entrambi le parti, salvo poi, in caso d’incidente, richiedere l’intervento politico e as­sistenziale dello Stato italiano.

Il "fronte" si sposta nella Sirte

1...     Nel frattempo, il fronte della “guerra” si era esteso alle acque della Libia, dove si diceva “i pesci muoiono di vecchiaia”. 
Era successo- come scrissi sul “Corriere della Sera”- che: “I pesche­recci siciliani, sottoposti alla severa vigilanza delle motove­dette tunisine, si sono spinti sempre più nelle acque libiche perché at­tratti da zone molto ricche di pescato, non sempre adeguata­mente sfruttate.”
L’armata (di pesca) mazarese, la più grande d’Italia e del Mediter­raneo, si spinse fin dentro le acque del golfo della Sirte dove, per altro, insisteva un vecchio contenzioso politico e militare a carat­tere internazionale.
Gli armatori mazaresi, forse, pensarono di poter replicare in Libia il “modus vivendi” sperimentato in Tunisia. Così non fu. Il 1979 sarà un anno nero per la marineria mazarese.
I libici procedettero, con metodi sbrigativi, a una serie di sequestri di pescherecci (uno o più di uno il mese), di arresti e relativi pro­cessi con condanne anche pesanti a carico dei capitani e degli equipaggi.
Le famiglie dei pescatori trattenuti in Libia vennero a Roma, a ma­nifestare davanti al Parlamento a chiedere l’immediato intervento del governo e delle forze politiche per far tornare a casa i loro con­giunti.
La destra neofascista profittò del clima di tensione e di polemiche per riproporre il suo vecchio, sciagurato ritornello dell’intervento delle Forze armate per liberare i prigionieri e dare una lezione al “pazzo di Tripoli”.
Il contrario di quanto la situazione richiedeva. Anche perché non era escluso che i pescherecci avessero, effettivamente, oltrepassato i limiti delle acque che i libici consideravano nazionali.
Più che per combattere la pesca abusiva, i libici reagirono con tanta severità poiché consideravano la presenza dei pescherecci mazaresi nel golfo della Sirte una violazione del loro “diritto” di sovranità, contestato sul piano internazionale. La qualcosa complicava enor­memente le cose.

2...     Non era per nulla agevole potere stabilire la verità dei fatti, poi­ché ciascuna delle due parti riteneva di essere con le carte in re­gola: i pescatori siciliani di pescare in acque internazionali e i libici di sequestrare i natanti perché erano sconfinati nelle loro acque na­zionali.
Ricordo che, in occasione di uno dei tanti sequestri, in una riunione ristretta svoltasi al Ministero della marina mercantile all’Eur, chiesi a uno degli alti ufficiali della Marina presenti se, in base ai loro ri­levamenti dei punti- nave, potevano considerarsi credibili le accuse libiche e tunisine di uno sconfinamento dei nostri pescherecci nelle loro acque nazionali.
“Quasi sempre, è così - rispose l’ufficiale- ma, certo, non possiamo comunicarlo ai giornali”
La situazione era dunque un po’ più complicata di com’era rappre­sentata dagli interessati, dai politici e dalla stampa locale.
Perciò, notai nel citato articolo sul “Corriere della Sera” che:
“per eliminare la pericolosa tensione nel Canale di Sicilia e resti­tuire ai pescatori la sicurezza nelle loro attività era da escludere il ricorso a misure di tipo militare e lavorare per allargare le basi della collaborazione…il governo italiano, la Cee, partendo dai problemi apertisi con la Tunisia, dovrebbero predisporre un’organica intesa di cooperazione nel campo della pesca, ricer­cando l’accordo con la Libia e con l’Algeria…” [2]
Il problema era drammaticamente aperto. In Libia, oltre ai pesche­recci sequestrati, restavano in carcere undici pescatori e due capi­tani (condannati in primo grado), mentre dieci  membri dell’equipaggio dell’ultimo peschereccio sequestrato (il “Francesco I”) erano agli arresti domiciliari nei locali attigui la sede della no­stra Am­basciata di Tripoli, in attesa di processo.

3...     Il governo italiano, lo stesso Presidente della Repubblica, San­dro Pertini, avevano svolto alcuni passi sulle massime autorità libi­che per ottenere il rilascio dei natanti e il rientro a casa degli equi­paggi trattenuti o in carcere.
Questo tipo d’intervento, che solitamente funzionava con le auto­rità tunisine in cambio di una multa esosa, con i libici non diede alcun risultato. Prima di concedere un' eventuale grazia, bisognava attendere l’esito dei processi. Questa era la risposta dei libici.
Come scrissero i quotidiani siciliani, l’ultima speranza per un pronto rientro era appesa al viaggio di alcuni parlamentari (Agos­tino Spataro e Giuseppe Pernice, ex sindaco di Mazara del Pci e Michele Achilli del Psi) in partenza, a fine agosto del 1979, per Tripoli per partecipare alle celebrazioni del X anniversario della rivoluzione. Le famiglie dei pescatori, che erano venute a prote­stare a Roma senza esito, rivolsero le loro speranze al nostro viag­gio. 
I media enfatizzarono la nostra missione, per altro meramente rap­presentativa, scrivendo che avendo noi “buone entrature” col re­gime, potevamo, in occasione di questa felice ricorrenza, convin­cere Gheddafi a fare un atto di clemenza.
“L’Ora” di Palermo scrisse che: “Due deputati comunisti  Spataro e Pernice andranno a Tripoli anche per parlare dei pescatori sici­liani che si trovano attualmente detenuti nelle carceri libiche. L’ambasciatore del paese africano a Roma ha assicurato i due de­putati comunisti circa la possibilità di un incontro con i pescatori detenuti”.
Nei giorni successivi (12/9), il “Giornale di Sicilia” si mostrò più fidu­cioso circa l’intenzione del leader libico di “liberare i 23 pe­scatori mazaresi detenuti, ma considera necessario legare tale passo ad un ulteriore sviluppo dei rapporti di cooperazione e di amicizia italo-libici…
Questo il succo di alcune dichiarazioni rilasciate dallo stesso Gheddafi e da altissimi esponenti libici nel corso di un ricevimento tenuto a Tripoli in occasione della celebrazione del decimo anni­versario della rivoluzione, alla presenza dell’ambasciatore ita­liano conte Aldo Marotta e di tre esponenti politici Giuseppe Per­nice ed Agostino Spataro del Pci e Michele Achilli del Psi”. [3]

4...     Per i giornali (anche loro adusi ai flessibili comporta­menti dei tunisini) la liberazione dei due capitani e dei 21 pescatori mazaresi era cosa fatta e imminente. Giunti a Tripoli, presto ci accorgemmo che le cose non erano così facili. I nostri in­terlocutori, ai diversi livelli di responsabilità, insistettero sulla ne­cessità della conclusione dell’azione giudiziaria in corso.
“Anche Pertini- sostennero- deve attendere la sentenza prima di concedere la grazia a un condannato.”
Rifiutarono anche la nostra richiesta di potere incontrare in carcere i due capitani e gli undici pescatori detenuti. Incontrammo i dieci pescatori più fortunati, posti agli arresti domiciliari presso l’ambas­ciata italiana.
Con loro parlammo più volte e appren­demmo delle dure condizioni di vita nelle carceri libiche. 
Ricordo uno di loro, che stava preparando gli spaghetti nei locali della dipendenza dell’ambasciata, il quale mi confidò:“Veda, qui siamo con una branda e una cucina da campo, ma mi sento in pa­radiso a confronto con il carcere libico, anche se vi sono stato per  pochi giorni. Questo è il paradiso, quel carcere è l’inferno! Guai a chi vi capita! Ti gettano in un gabbione sotterraneo, umido e af­follato – ci puoi trovare anche 20/25 detenuti e buttano la chiave. Vengono ad aprire due volte al giorno con una scodella di zuppa rancida…Signuri scansatinni!”

5...     L’argomento del rispetto dell’azione giudiziaria aveva un fon­damento, ma, forse, non era insormontabile. Dai colloqui con i di­rigenti libici (Shahati, Hamdi, ecc), l’’impressione che tra­emmo fu quella che stessero “usando” i 23 detenuti siciliani come punto di forza per esercitare pressioni sul governo italiano al fine di chiu­dere alcune questioni del contenzioso bilaterale. 
Tuttavia, il problema era stato posto, oltre che da noi, anche dai rappresentanti di altri partiti, dal governo, dal parlamento, dalla re­gione siciliana. I libici non avrebbero potuto far finta di nulla.
Una conferma di tale, ampia convergenza si ebbe nel corso del di­battito alla Camera sulle interpellanze e interrogazioni presentate da tutti i gruppi parlamentari.
Illustrai in Aula l’interpellanza del gruppo comunista (200010) a firma di Pio La Torre, Giuseppe Pernice e Agostino Spataro.
“È opportuno chiarire dinnanzi al Parlamento e al Paese, agli oc­chi delle famiglie dei 23 pescatori mazaresi detenuti in Libia, che da diversi giorni sostano davanti il portone del Palazzo di Monte­citorio, che la concessione, speriamo immediata, del provvedi­mento di grazia non eliminerà le tensioni e i pericoli di nuovi inci­denti con la Libia, la Tunisia e Malta. La questione di fondo, quella della sicurezza e della continuità delle attività della flotta peschereccia di Mazara del Vallo, la più importante d’Italia, resta drammaticamente aperta e irrisolta…Sotto questo profilo, l’azione dei Governi è stata carente e intempestiva e comunque inadeguata rispetto all’urgenza e alla gravità delle diverse questioni… Non si registrano risultati apprezzabili nemmeno sull’andamento dei la­vori della commissione mista italo  libica sulla pesca, insediata in occasione della visita in Italia del ministro degli esteri, Triki, che dovrebbe, fra l’altro, affrontare il problema della costituzione delle società miste per come richiesto, da tempo, dal governo li­bico...”
Sul fronte degli accordi di pesca le trattative con i paesi rivieraschi  (Tunisia, Algeria, Marocco e Malta) erano bloccate, mentre con la Libia non erano nemmeno iniziate.
 Questa situazione di stallo chiama in causa, direttamente, la re­sponsabilità della CEE e del governo italiano il quale, in assenza di una vera politica della pesca, ha consentito il saccheggio dei nostri fondali senza preoccuparsi di assicurare alla nostra flotta peschereccia quegli spazi che, solo attraverso nuovi accordi di co­operazione con i Paesi frontalieri, si possono ottenere”.
Il Mediterraneo, questo grande e generoso mare, punto d’incontro di grandi civiltà, sede feconda, da tempi immemorabili, d’importanti traffici e commerci, diventa sempre più piccolo e avaro di ri­sorse…Ogni Stato che vi si affaccia tende ad estendere il limite delle acque territoriali, il mare è sempre più una ricchezza con­tesa…”
“La strada che bisogna percorrere, con urgenza e coerenza, è quella di ricercare nuovi accordi di pesca con i paesi frontalieri, basati sulle società miste e improntati a spirito di leale coopera­zione, in cui possano convergere strutture, tecnologie ed espe­rienze italiane e ricchi fondali, mercati e capitali degli altri Stati contraenti…” [4]
Nonostante le manifestazioni popolari a Mazara, i viaggi della spe­ranza delle famiglie a Roma, il rilascio che pareva nell’aria sten­tava a…scendere in terra. I pescatori restavano in Libia, detenuti in attesa di processo.  Per quanto riguarda il Pci, continuammo a sol­lecitare un atto di clemenza (intervennero anche Pajetta e Berlin­guer) sia presso l’ambasciata libica a Roma sia presso le autorità politiche e di governo a Tripoli.
Dopo qualche mese, i pescatori furono rilasciati. Restarono in car­cere soltanto i due capitani.

6...     Durante questi mesi concitati, ebbi diversi incontri con l’ambasciatore Ammar el Tagazzi. In uno dei quali, tenutosi ai primi di novembre 1980, si parlò del rilascio dei due capitani e, più in gene­rale, di nuove ipotesi di cooperazione italo  libica nel campo della pesca.  
All’incontro fu dato un carattere di ufficialità e fu emesso un co­municato conclusivo congiunto che sarà pubblicato da vari quoti­diani, tra cui “l’Ora” di cui riporto alcuni brani:
“Le ipotesi di cooperazione italo  libica nel settore della pesca e i problemi connessi al rilascio dei due capitani mazaresi tuttora trattenuti in Libia sono stati al centro di un colloquio tra l’on. Agostino Spataro, membro del Comitato direttivo del gruppo par­lamentare comunista e della commissione esteri della Camera, e il signor Ammar el Tagazzi, segretario del comitato popolare libico di Roma (leggi ambasciata).
…Come aveva fatto qualche mese addietro, sempre su richiesta del deputato del Pci, per la liberazione dei 21 pescatori, il rappresen­tante libico ha assicurato il suo impegno per favorire il rilascio dei due capitani dopo che saranno esperite le procedure giudiziarie. Il signor Tagazzi ha espresso la fiducia che presto i due uomini po­tranno tornare in patria…” [5]
Dopo qualche tempo, anche i due capitani rientrarono a casa, ma il problema dei rapporti di pesca con la Libia rimaneva aperto, inso­luto.

A Palermo il primo periodico bilingue arabo - italiano

Questi erano il clima e i problemi che caratterizzavano i rap­porti siculo - libici negli anni ’70 e ’80.
La guerra civile ha mostrato il volto di un sistema morente, dege­nere. Ma non fu sempre così. Come detto, nel suo primo ventennio il regime non appariva così corrotto, dispotico e familistico, ma se­riamente impegnato, anche se con qualche eccesso, ad attuare gli ideali e gli obiettivi sociali della “rivoluzione”.
La gente apprezzava il suo carattere popolare, condivideva il pro­getto di radicale cambiamento basato su una distribuzione più equa della rendita petrolifera.
Insomma, grazie al petrolio (abbondante e di ottima qualità e di più agevole trasportabilità) la Libia presto divenne un enorme cantiere, un mercato interessante per le nostre manifatture, una grande op­portunità di sviluppo anche per la Sicilia.
Imprese, lavoratori e tecnici siciliani furono tra i primi a intuire quelle potenzialità e a tentare di cogliere le disponibilità dichiarate dai dirigenti libici. 
Tutti in Libia, dunque, e sempre accolti come ospiti graditi, anche quando si trattava di esponenti dell’indi-pendentismo.
Seppure con  la necessaria prudenza, per evitare confusioni con soggetti chiacchierati, la sinistra siciliana si mostrò interessata alla nuova realtà in fermento sulla costa sud del Mediterraneo, nella nostra ex colo­nia. Il quotidiano palermitano“L’Ora”di Vittorio Nisticò colse l’importanza di tale apertura e decise di accom-pagnare il processo di mutua comprensione politica e culturale e di sostenere i progetti di cooperazione economica tra la Sicilia e la Libia e, in generale, con altri Paesi arabi frontalieri con una serie di reportages, intervi­ste ai protagonisti di tale dialogo.
Per dare organicità e periodicità all’impegno editoriale, “l’Ora” realizzò un inserto bilingue (arabo- italiano), il primo in Italia e in Europa, curato dalla pasionaria Kris Mancuso, al quale collabora­rono diversi intellettuali arabi (fra cui Samir Amin, Bichara Kha­der, Magdi Allam, attuale deputato europeo, ecc) e alcune fra le più prestigiose firme dell’orientalismo italiano).
L’inserto palermitano aprì una finestra sul mondo arabo e diede un grande impulso allo scambio delle informazioni e alle iniziative economiche e culturali fra la Sicilia, la Libia e gli altri paesi rivie­raschi.

Lo squattrinato Billy Carter in  mano a due compari catanesi

Come sempre succede nelle situazioni un po’ caotiche, taluni profittarono del nuovo clima di amicizia siculo-libica per realizzare affari privati senza averne titoli e/o per dare sfogo in Libia a certe frustrazioni secessioniste che in Sicilia erano cadute in disuso.
Nell’apparato libico c’era, infatti, una corrente che dava corda a simili tendenze, inconsistenti quanto imbarazzanti, a personaggi che creavano equivoci e disagi sul piano politico.
Fra questi, l’avvocato Michele Papa di Catania. Un personaggio piuttosto colorito che svolse un certo ruolo anche nella famosa vi­cenda del “Billygate”ossia del rocambolesco viaggio a Tripoli, nell’ottobre del 1978, di Billy Carter, fratello di Jimmy, presidente in carica degli Stati Uniti d’America.
Tramite il Papa, la connessione Catania - Tripoli raggiunse la città di Atlanta (Usa), dove un certo Mario Leanza, un immobiliarista di origine catanese, riuscì ad adescare lo squattrinato Billy.
Il Leanza, intrigando con il compaesano avvocato, condusse Billy a Tripoli dove, in cambio di un prestito (non rimborsabile?), si abban­donò a elogi sperticati del regime libico che suo fratello presidente aveva duramente condannato e messo all’indice.
La presenza di Billy alle manifestazioni per il X anniversario della rivoluzione, svoltasi a Bengasi il 1° settembre 1979, fu un' occasio­ne troppo ghiotta per dimostrare ai libici e al mondo intero le con­traddizioni del potere imperialista della Casa Bianca, per ridi­coliz­zare le posizioni anti Gheddafi del presidente Carter.
L’agenzia libica Jana (Jamahiriya News Agency) segnalò l’arrivo, in pompa magna, di Billy indicato al primo posto della lista delle personalità e delle delegazioni straniere:
“A capo di una importante delegazione popolare americana, mister Bily (sic!) Carter è arrivato ieri sera all’aeroporto di Be­nina (Bengasi). M. Bily Carter e la delegazione parteciperanno ai festeggiamenti del 10° anniversario della rivoluzione del 1° set­tembre. La delegazione americana è stata accolta all’aeroporto dal segretario del Comitato popolare della municipalità di Bengasi e dai rappresentanti del segretariato degli affari esteri…” [6]
In quei giorni, a Bengasi, lo stravagante (ma non tanto, come ve­dremo) Billy ebbe il suo momento di gloria: rilasciò interviste ai giornali e alle tv, firmò autografi, si lasciò fotografare a ogni passo, incontrò importanti personalità del regime, gli studenti dell’univer-sità.
Ovviamente, partecipò alla parata militare, abbronzatissimo e col suo vistoso cappello da cowboy. Gheddafi lo volle accanto a se sul palco d’onore.

Billy Carter: da Atlanta a Tripoli, passando per Catania

1...     Sulle prime, dei viaggi di Billy in Libia un po’ tutti ci facemmo un’idea un po’ naif ossia quella di uno squattrinato, amante dell’alcool e della pubblicità a buon mercato, che andava da Gheddafi per fare un dispetto al fratello Presidente che non l’aveva aiutato a risolvere le sue difficoltà finanziarie.
In realtà, dalla ricostruzione di quei viaggi fatta da John K. Cooley viene fuori un ruolo meno folkloristico, perfino molto patriottico del fratello del Presidente Usa.
Secondo Cooley, tutto cominciò con “un viaggio (nel marzo 1978) di Mario Leanza, immobiliarista di origini catanesi operante ad Atlanta, a Catania dove “conobbe anche l’avvocato di una società siciliana, un certo Michele Papa, che era fondatore dell’associa­zione siculo  araba che aveva stretti legami con i libici sin dai pri-mi anni del regime Gheddafi. Papa propose che Leanza convin­cesse Billy Carter ad andare in Libia, perché la cosa avrebbe dato esiti positivi.” [7]
In ballo c’erano affari importanti fra Usa e Libia, fra cui la vendita di alcuni Boeing 727 la cui consegna era stata bloccata dall’amministrazione Ford.
Vigendo quel divieto, la nuova amministrazione (Carter) non po­teva intraprendere, per vie ufficiali e formali, relazioni con il re­gime di Tripoli per sbloccare gli affari pregressi.
Fu così che alla Casa Bianca pensarono di profittare delle relazioni del fratello del Presidente con alcuni alti funzionari libici per ten­tare di stabilire un contatto utile alla ripresa dei rapporti commer­ciali.
“Il presidente Carter insisté nell’affermare che non sapeva nulla di quel viaggio prima che Billy partisse. Il dipartimento di stato, però, era a conoscenza del progetto. Telegrafò, infatti, a William Eagleton, incaricato d’affari Usa a Tripoli, perché desse a Billy le opportune delucidazioni, al suo arrivo là [8]
All’aeroporto di Tripoli, a ricevere la delegazione americana, che aveva sostato a Roma per fare un po’ di baldoria e per incontrare i due promotori catanesi (Leanza e Papa), si erano scomodati Eagle­ton, reggente dell’ambasciata Usa, e il viceministro degli esteri libico Ahmed Shahati.  Più ufficiale di così!

2...     I colloqui di Billy con i dirigenti libici andarono bene, tanto che come nota Cooley “l’ignaro” presidente Carter passò un tele­gramma di Eagleton a Billy dopo che questi era tornato  a Washington, con una nota di suo pugno:“A Billy, sei stato bravo in condizioni di “astinenza”.
Tutto pareva andare per il meglio, quando, improvvisamente, in Uganda scoppiò la guerra civile.
Gheddafi, che parteggiava per Idi Amin, inviò a suo sostegno truppe e aerei, compresi alcuni vettori dell’aviazione civile per il trasporto di soldati e feriti.
A questo punto - scrive Cooley- “il dipartimento di Stato non poté fare altro che considerare i 727 per la Libia, che erano in costru­zione, come mezzi aventi applicazione militare potenzialmente im­portante. Nel maggio 1979, il dipartimento di Stato ne vietò l’esportazione e gli aerei non lasciarono mai gli Stati Uniti”.
Tuttavia, mentre ciò accadeva, si consolidavano i rapporti di Billy con i funzionari libici.
“Billy Carter e Shahati stavano diventando celebrità della televi­sione, poiché apparivano insieme nei programmi della ABC. Ma, come ricordava suo fratello presidente, Billy si era dato sempre più al bere, tanto è vero che dalla fine di febbraio 1979 dovette es­sere ricoverato diverse volte in ospedale per sottoporsi a terapie di disintossicazione…” [9]
Con questi precedenti e prerogative, Billy intraprese, alla fine di agosto 1979, un nuovo viaggio in Libia ufficialmente a capo“della delegazione popolare americana” per partecipare al 10° anniversa­rio, in realtà per “trattare un prestito di 500 mila dollari con la Lybian Arab Foreing Bank”.
Billy, rosso e pimpante come un ragazzino, sorridente sotto il suo cappello da cowboy, si presentò sul palco d’onore della parata mi­litare di Bengasi. Su quel palco c’ero anch’io e vidi la scena del suo arrivo “accompagnato dalla moglie Sybil, dal figlio Buddy e altri amici tra cui Coleman…In quell’ occasione il fratello del pre­sidente Carter fu fotografato accanto a Gheddafi e con altri ospiti ufficiali come Yasser Arafat e altri esponenti della guerriglia pale­stinese”.
Le foto con Gheddafi, le dichiarazioni di amicizia e di solidarietà col popolo libico del fratello del presidente Usa diedero la stura a una campagna mediatica internazionale molto imbarazzante per Jimmy Carter e per la sua amministrazione che cercavano, dispe­ratamente, di prenderne le distanze.
Tuttavia, ben presto, il presidente Carter avrà bisogno dell’aiuto dello squattrinato fratello che pregò d’intervenire presso i dirigenti libici al fine di convincerli ad esercitare pressioni su Khomeyni e sui dirigenti iraniani per liberare gli ostaggi americani sequestrati  dai “guardiani della rivoluzione” nei locali dell’ambasciata Usa di Teheran.
Era a tutti chiaro, in Usa e nel mondo, che sugli esiti di quel clamo­roso sequestro Jimmy Carter si giocava la rielezione. Perciò il suo staff esplorò tutte le vie per trattare un accordo onorevole con i go­vernanti della repubblica islamica d’Iran.
Si mobilitò perfino la moglie del presidente che: “Il 19 novembre la signora Rosalynn Carter telefonò a Billy da Camp David. Gli chiese se i suoi amici libici sarebbero  potuti intervenire  per far liberare i prigionieri americani a Teheran. Quindi la signora in­formò il marito che Billy aveva assicurato di poter fare qualcosa. Il presidente telefonò allora a Brzezinski, il quale a sua volta chiamò Billy…Non passò molto tempo e “la segreteria affari esteri a Tripoli emise una dichiarazione formale  in cui si diceva che “a nostro avviso gli ostaggi dovrebbero essere liberati…” [10]
Gli ostaggi non furono liberati. Non sappiamo se con quel rifiuto gli ayatollah vollero punire il candidato democratico Carter o favorire il suo avversario repubblicano Ronald Reagan.

Investimenti libici: vietati in Sicilia e benvenuti al Nord

1...     Il coinvolgimento di Michele Papa in questo oscuro episodio, ci indusse a prendere definitivamente le distanze da lui. Fino al punto che quando (1984) si trattò di  formulare i nomi della delegazione italiana per partecipare, a Tripoli, al XV anniversario, chiedemmo a Shalgam di non includere l’avvocato catanese.
Per altro, in quei giorni nella capitale libica, c’era la sen. Susanna Agnelli, sottosegretario agli affari esteri, in rappresentanza del go­verno italiano, con la quale la delegazione italiana ebbe diversi momenti di conversazione e di piacevole ristoro di fronte le incante­voli rovine di Leptis Magna.
Ovviamente, la senatrice era venuta anche per conto della famiglia Agnelli che aveva tanti interessi in Libia, tra cui, in quel momento, un cantiere dell’Impregilo (partecipata del gruppo Fiat) che stava costruendo a Homs un porto militare che ci parve troppo grande per le esigenze della marina libica.
Effettivamente, il nome di Papa non comparve nella lista degli in­vitati della delegazione italiana.
Per tutta risposta, l’avvocato approntò una sua delegazione che alla reception dell’albergo si dichiarò di nazionalità “siciliana”.
A parte questi episodi, le relazioni fra la Sicilia e la Libia prosegui­rono con altre visite tra cui quella del presidente della regione Rino Nicolosi, rimasta famosa più per il “bacio” a Gheddafi che per gli ac­cordi sottoscritti. Un’effusione molto contestata e inopportuna.
A conti fatti, i rapporti fra Sicilia e Libia furono intensi ma poco pro­ficui. Nessun progetto proposto dalla Sicilia sarà realizzato. Anche perché, c’era un’ostilità preconcetta da parte del governo centrale verso gli investitori libici (generalmente compagnie di Stato) che desideravano operare in Sicilia.

2...     I grandi investimenti libici potevano tranquillamente approdare al Nord (in Fiat e in alcune importanti banche italiane), ma non in Sicilia. Segnatamente, nell’isoletta di Pantelleria, dove la National Investment Company, una controllata della Libyan Arab Foreing Bank, aveva acquistato alcuni terreni, già dotati di concessioni edilizie, per la costruzione di alcuni alberghi e insediamenti turistici.
Mentre in Sicilia, a Pantelleria si festeggiava l’arrivo degli inve­stimenti della Libia e del Kuwait, da Roma giunse la doccia fredda che gelò ogni entusiasmo: quelle società non potevano realizzare i loro progetti, già approvati dagli organi amministrativi locali, per­ché avrebbero violato- questa fu la motivazione- le norme di una legge di epoca imperiale fascista del 1935 che vietava gli investi­menti stranieri nelle isole minori italiane.
Quasi che uno o più alberghi libici potevano essere comparati a in­sediamenti militari.
Un’imposizione che apparve da un lato prevaricante verso i poteri speciali primari della Regione siciliana e discriminatoria verso i libici e i kuwaitiani giacché in altre isole minori italiane erano pre­senti investimenti, turistici e d’altra natura, di capitali tedeschi, francesi, inglesi, ecc.
Perciò, presentammo interrogazioni ai governi di Palermo e di Roma per chiedere le vere ragioni del divieto e, se per caso, come a noi sembrava, non nasceva dal fatto che Pantelleria fosse destinata a diventare una piazzaforte militare italiana e della Nato e per tale  ragione non si consentiva agli investitori libici di potere realizzare i loro progetti.

3...     La vicenda divenne un nuovo elemento di contrasto fra Stato e Regione, di confronto fra le forze politiche ed economiche e, natu­ralmente, oggetto di polemiche sulla stampa locale e nazionale.
“La Repubblica” le dedicò un pezzo piuttosto allarmato nelle pa­gine economiche.
“I libici lasciano Pantelleria. I ripetuti dinieghi delle autorità ai loro progetti di sviluppo turistico li hanno convinti che è meglio portare i loro capitali in America, in Inghilterra, in Germania dove dicono ci fanno ponti d’oro.
Hanno avuto la netta sensazione di non essere graditi a Pantelle­ria. Le autorità italiane avrebbero fatto valere perfino una legge che fa divieto di edificare immobili nelle isole minori; una legge del 1935 che non viene applicata ad altri investimenti stra­nieri…Qualche sospetto più preciso ce l’ha il Pci. Alcuni deputati comunisti siciliani hanno interrogato il governo di Roma (il riferi­mento era  alla nostra interrogazione alla Camera, n.d.r.)  per sa­pere se le difficoltà frapposte ai libici potrebbero nascere dal fatto che all’isola è stato assegnato un futuro militare…” [11]
A causa di questa impuntatura, il progetto turistico abortì sul na­scere e i libici spostarono i loro investimenti verso le piazze tradi­zionali di Londra e Zurigo e, per quanto riguarda l’Italia, continua­rono a investire al Nord, sulla rotta Roma, Milano, Torino.
In Sicilia di libico ci sono rimaste tante illusioni e enormi quantità di gas e di petrolio che raffiniamo e trasportiamo al Nord per far girare l’economia di quelle regioni.

Galeotta fu la lettera di Gheddafi a Nicolosi…
Sui rapporti Sicilia - Libia si è tanto discusso e scritto, a propo­sito e a sproposito. In realtà, come già detto, non è successo nulla di veramente considerevole, salvo qualche scambio di delegazioni e qualche messaggio.
Nel clima di pregiudizio e di tensione, artatamente creato, anche tali banali attività facevano storcere il naso a ministri e consiglieri, a molti esponenti di centro-destra.
Clamoroso fu il disappunto manifestato dal ministro della Difesa, sen. Giovanni Spadolini, a proposito di una lettera, dai toni pacifici e collaborativi, inviata dal colonnello Gheddafi al presidente della regione siciliana Rino Nicolosi.
Spadolini, che rifiutava il dialogo con il mondo arabo progressista mentre accettava tutto quanto (anche le più truci rappresaglie) ve­niva dai governanti d’Israele, dichiarò al quotidiano “La Sicilia” che, a parte il merito del messaggio, Nicolosi “aveva il preciso do­vere di rimettere il messaggio al ministro degli Esteri”. [12]
Non era chiaro se, secondo la pretesa del ministro, il presidente della regione, letto il nome del mittente, avrebbe dovuto inoltrare la lettera alla Farnesina, senza nemmeno aprirla.
Un’assurdità che, come dimostrai con un articolo sullo stesso gior­nale (“La Sicilia” del 29 gennaio 1986), non stava né in cielo né in terra e tantomeno nell’ordinamento italiano vigente.
La polemica di Spadolini apparve talmente capziosa da indurre il titolare della Farnesina, l’on Giulio Andreotti, a intervenire pub­blicamente per placarla. Egli, infatti, se ne uscì con una delle sue solite battute ironiche, dal tono icastico: “non si può impedire a un presidente di regione di ricevere una lettera da un’autorità stra­niera”.
Nessuno capì la logica dell’intervento censorio del senatore Spa­dolini. Infatti, non si poteva contestare al presidente di una regione, per altro dotata di un’autonomia molto speciale, il diritto a ricevere un messaggio, di amicizia e di pace, da parte di un capo di Stato frontaliero col quale l’Isola intratteneva buoni rapporti sul piano economico e commerciale.
Probabilmente, il ministro della Difesa era rimasto seccato per que­sta missiva dai toni distensivi, amichevoli che contraddiceva i suoi frequenti sermoni per convincere il Parlamento e l’opinione pub­blica sulla necessità (non suffragata da fatti concreti) di rafforzare gli avamposti militari presenti in Sicilia, per mostrare anch’egli (nello stile reaganiano) a Gheddafi i “muscoli” che non aveva.
Il contorto ragionamento di Spadolini si basava sul timore che l’opinione pubblica italiana non avrebbe più capito la necessità del riarmo contro uno Stato vicino il cui leader si rivolgeva all’Italia e alla Sicilia con parole di pace e di cooperazione. 

Due ministri di Paternò che fecero l’impresa... libica
Nella storia ultrasecolare dei rapporti italo-libici un certo ruolo l’hanno giocato anche talune personalità politiche siciliane, in par­ticolare del catanese. Ovviamente, non mi riferisco all’avvocato Papa, di cui ho detto, ma a due esponenti politici originari di Pa­ternò, trovatisi ai vertici di dicasteri- chiave in occasione delle due avventure belliche italiane in Libia (1911 e 2011).
Insomma, due paternesi che fecero l’impresa…libica.
Il primo fu il sen. Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano, ministro degli esteri di Giolitti (dal 1910 al 1914, anno della sua morte). Nato a Catania (nel 1852) discendeva da un' an­tica famiglia originaria, come il cognome stesso suggerisce, di Pa­ternò.
Capostipite fu il nobile catalano Roberto D’Embrun che, nel 1070, partecipò alla conquista normanna della Sicilia ottenendo i feudi di Paternò e di Buccheri.
La figura del sen. Paternò caratterizzò talmente il post risorgimento siciliano da indurre Federico De Roberto a immortalarla nel suo grandioso romanzo politico“I Vicerè” sotto le spoglie del principe Consalvo Uzeda di Francalanza.
Il San Giuliano legò il suo nome all’occupazione coloniale italiana della Libia e delle isole del Dodecaneso. Memorabile rimase l’ultimatum trasmesso, il 27 settembre 1911, alla Sublime Porta col quale s’ingiungeva al governo ottomano di abbandonare la Libia entro 24 ore e senza condizioni.
Una dichiarazione di guerra pretestuosa, immotivata nella quale si annunciava l’occupazione italiana, da tempo decisa, affinché (cito dal testo) “giunga a fine lo stato di disordine e di abbandono in cui la Tripolitania e la Cirenaica sono lasciate dalla Turchia…”
Insomma, buoni propositi e cattive maniere. L’Italia occupò la Li­bia per far rispettare l’ordine pubblico in quel paese!
In realtà, il ministro siciliano, forte di un accordo spartitorio con Francia e Gran Bretagna, rifiutò ogni proposta di chiarimento, ogni offerta di concessioni da parte turca e puntò dritto alla guerra, inti­mando al governo imperiale di dare “gli ordini occorrenti affinché essa (l’occupazione militare n.d.r.) non incontri, da parte degli at­tuali rappresentanti ottomani, alcuna opposizione…” [13]
Il resto è noto. Il 4 novembre i contingenti italiani sbarcarono a Tripoli.
Ma, si sa, in guerra è facile entrarvi, ma è difficile uscirne. Difatti, quella guerra durò oltre venti anni. Per domare l’accanita resistenza delle tribù libiche, Mussolini, agli inizi egli anni ’30, diede carta bianca al generale Graziani il quale la spense ricorrendo ad azioni di straordinaria ferocia, compresi i bombardamenti con i gas letali.
Altri tempi, altri uomini! O forse no. È passato un secolo da quegli avvenimenti.
A distanza di un secolo, l’Italia è entrata di nuovo in guerra con la Libia. Questa volta senza dichiararla. Fra le due guerre (del 1911 e del 2011) la diffe­renza sostanziale sta in un “neo”, nel senso che la prima fu una guerra coloniale, mentre la seconda è stata di stampo neocoloniale.
E così, un altro prode paternese, l’on. Ignazio La Russa, ministro della guerra, pardon della difesa, rampollo di una dinastia neofa­scista che si è fatta a Milano, è venuto alla ribalta della scena bel­lica e mediatica per avere messo a disposizione degli interventisti della Nato le basi, le strutture logistiche, i reparti aerei di stanza in Sici­lia.
In questa veste marziale, in verità un po’ trasandata, gli italiani, in particolare i siciliani, l’hanno scoperto agli inizi della nuova av­ventura in Libia, quando annunciò al mondo che “la Sicilia è la portaerei del Mediterraneo”,che egli metteva a disposizione delle armate della triade interventista: Francia, Usa e Gran Bretagna. 
Due ministri, due personalità molto diverse, accomunate dalla conterraneità.
Solo una singolare coincidenza o c’è qualcosa che, a prima vista, sfugge?
A ben pensarci, tanta solerzia potrebbe anche essere spiegata dall’esistenza di un legame antico, ancestrale fra la Sicilia e la Li­bia, risalente addirittura al tempo della fondazione di Tripoli che, secondo Sallustio:“Oeaque trinacrios afris permixta colonos” cioè: “Oea, l’attuale Tripoli, sarebbe stata fondata da coloni sici­liani (evidentemente fenici) insieme ad africani”. [14]
Insomma, i due ministri siciliani, muovendo da questa mitica fon­dazione, avranno, forse, pensato di poter legittimamente accampare qualche pretesa sulla Libia.
Speriamo che così non sia. Anche perché credo sconoscessero lo scritto di Sallustio. Altrimenti, qualcun altro potrebbe ricordarsi della fondazione del Cairo che, secondo una fonte antica, fu pro­gettata da un architetto arabo- siciliano, e quindi aprire un conten­zioso con l’Egitto dell’ex rais Moubarak, lo zio di Ruby.





[1] A. Spataro in “Oltre il Canale- Ipotesi di cooperazione siculo-araba”, Edizioni delle Autonomie, Roma, 1986
[2] A. Spataro in “Il Corriere della Sera” del 24/7/1979
[3] in “l’Ora” del 28/8/1979
[4] A. Spataro, “Discorso alla Camera, seduta del 26/9/1979 in Atti Camera dei Deputati, Roma
[5] in “l’Ora” del 11/11/1980
[6] in “Agenzia Jana”, Tripoli, del 29/8/1979
[7] J. K. Cooley in “Muammar Gheddafi e la rivoluzione libica”, Editoria-le Corno, Milano, 1983
[8] J. K. Cooley, op.cit.
[9] J. K. Cooley, op.cit.
[10] J. K. Cooley, op.cit.
[11] G. Leuzzi in “La Repubblica” del 17/2/1980
[12] in “La Sicilia” (quotidiano) del 20/1/1986
[13] in “La Stampa” del 30/9/1911
[14] proff. Mastino e Zucca in www.infomedi.it