martedì 16 luglio 2019

CARO LEONARDO / CARO RENATO… Due lettere inedite di Guttuso e Sciascia su "L'affaire Moro" e sui rapporti con il Pci.



di Agostino Spataro


1975-Sciascia e Guttuso al consiglio comunale di Palermo  (Foto da Google/Repubblica-Pa)

Contiene: Sciascia e Guttuso, una bella amicizia, polemicamente vissuta. Trascrizione della lettera (manoscritta) di Renato Guttuso a Leonardo Sciascia. Fotocopia della lettera di Sciascia a Guttuso.  Post Scriptum: commento ai passaggi salienti delle missive. Fotocopia della lettera manoscritta di Guttuso a Sciascia. Documentazione / articoli collegati.

Sciascia e Guttuso: una bella amicizia, polemicamente vissuta.
1… Confesso che ho esitato prima di scrivere qualcosa a commento di queste due lettere, inedite, di Renato Guttuso e di Leonardo Sciascia.
L’esitazione deriva da un certo pudore che ti sorprende quando stai per entrare nell’intimità di due eminenti personalità della cultura che in queste lettere si parlano da amici veri ossia francamente e lealmente, fornendoci un ritratto, per molti versi, inedito della loro amicizia, delle loro opinioni.
D’altra parte, la pubblicazione non viola la loro sfera strettamente privata, personale, soltanto ci consente di conoscere taluni punti di vista, interessanti e ai più sconosciuti, di due intellettuali che con le loro opere hanno influenzato settori importanti dell’opinione pubblica.
Ho esitato anche perché, cadendo in quest' anno il 30° anniversario della morte di Sciascia, si rischia di essere intruppati in certi cortei dove taluni sfilano per mero desiderio di visibilità, sperando di essere illuminati dalla luce riflessa che emana l’illustre defunto.
Personalmente, non fui “amico” di Sciascia nel senso che con lui non ebbi mai un’intimità, una frequentazione intensa sul piano personale.
L’ho incontrato in qualche convegno. Una sola volta andai a trovarlo alla “Noce”, nella sua casa di campagna, a Racalmuto.Di più mi capitò d’incontrarlo alla Camera dove, di tanto in tanto, veniva quando era deputato radicale.
Incontri casuali, dunque, (per me molto graditi) come possono avvenire fra due compaesani che si ritrovano in una piazza di una città lontana.
Un caffè alla buvette e poi quattro chiacchiere, avanti e indietro, nel corridoio dei “passi perduti”.
Il mio approccio con lo scrittore era, prima di tutto, quello del lettore, dell’estimatore del suo stile letterario, del suo scrivere conciso ed efficace nella rappresentazione e nell’intuizione. Molta la stima, ma senza mitizzare alcunché. Del resto, quasi mai parlammo dei suoi libri e di letteratura in genere. Eravamo nel tempio della politica ed era giocoforza parlare di cose politiche sulle quali, per altro, non sempre si era d’accordo.

2… A farmi superare l’indecisione è stato soprattutto il contenuto intenso, “pepato”- direi- delle due lettere rinvenute, casualmente, presso l’archivio della Fondazione Istituto Gramsci di Roma che ringrazio per la cortese disponibilità accordatami.
La prima, manoscritta, del 20 ottobre (1978)  di Renato Guttuso è destinata a Leonardo Sciascia il quale, a sua volta, risponde da Racalmuto con una del 29 ottobre 1978 scritta “a macchina- si scusa lo scrittore- a causa di una piccola frattura alla mano destra.”
Due lettere di due grandi personalità siciliane, fra i protagonisti della cultura del ‘900, che ci presentano uno spaccato sorprendente di come e quanto un’amicizia vera- come fu quella fra Sciascia e Guttuso - possa reggere anche alle scosse più dirompenti.
Pur riconfermando la stima reciproca e l’affettuosa amicizia, i due si scambiano opinioni e giudizi, anche di natura personale, con una franchezza inattesa. La qualcosa non ci scandalizza, anzi rafforza la stima verso entrambi poiché dimostrano d’intendere l’amicizia non come giovevole accondiscendenza, ma come sincera espressione della libertà di pensiero.
Attenzione anche alle date! Si è nell’autunno del 1978 ossia cinque mesi dopo l’assassinio di Aldo Moro- e della sua scorta- da parte delle “Brigate rosse” e due settimane dopo l’uscita de “L’affaire Moro” il pamphlet di Sciascia edito da Sellerio.
Un tempo ancora lontano dalle querele fra Berlinguer e Sciascia che videro Guttuso nella imbarazzata parte di testimone a carico dell’amico scrittore.
Una vicenda che amareggiò tanto Sciascia e che, sicuramente, incrinò l’amicizia con Guttuso. Come mi disse, più volte, durante le nostre passeggiate alla Camera, fra i due capiva di più Berlinguer che certo non poteva ammettere d’aver detto quelle cose che avrebbero provocato conseguenze davvero disastrose. Lo ferì di più la testimonianza sfavorevole del suo amico Guttuso, che, da artista, aveva il dovere della verità facendola prevalere sull’appartenenza politica. (1)
A proposito del “dovere della verità”, Sciascia in una “lettera non spedita”, pubblicata dall’Espresso del 13 maggio 1980, ricorderà a Guttuso quel passo in cui Bernanos domanda (si é nel 1937) ad André Malraux che si era congratulato con lui per sua inflessibile sincerità: “Ma scusate, Malraux - gli dissi - voi non avreste fatto lo stesso come me? - Non è la stessa cosa - mi rispose - voi siete cristiano, voi agite da cristiano. Io invece sono comunista e non scriverò mai nulla che possa anche minimamente nuocere al partito...” (2)

3… A mio parere, l’importanza di queste lettere è data dal taglio franco e appassionato che evidenzia due sensibilità, due punti di vista differenti sulla tragedia di Aldo Moro e- aggiungo io- della democrazia italiana che da là inizia a declinare. Pericolosamente.
Sciascia, partendo dal suo istant-book ( “L’affaire Moro”), definito un libro “religioso” (“sono stato mosso a scriverlo dalla pietà per quell’uomo solo, abbandonato, tradito, relegato in un solo grido di paura, di viltà…”) , ci tiene a chiarire che la vicenda di Aldo Moro non può essere catalogata un “caso” come tanti, ma che trattasi di  un “affaire” ossia di un intrigo politicamente complesso e moralmente devastante che ha innescato una crisi morale dagli esiti imprevedibili.
Lo scrittore, forse. un po’ estremizza quando dichiara al “Nouvel Observateur” che “Il cadavere di Moro non appartiene ad alcuno, ma la sua morte ci mette tutti sotto accusa”; tuttavia, una certa inquietudine pervade un po’ tutti. Ancora oggi.
Nelle lettere non c’è solo il caso Moro. I due amici si “beccano”, si accendono, soprattutto, quando toccano taluni aspetti della politica e della vita interna del Pci e dei suoi rapporti con gli intellettuali “organici” quale fu Guttuso e meno organici o nient’affatto organici come fu Sciascia. Ma su questo diremo più avanti.

(2)  Sciascia continua a spiegare all'amico: “Ho voluto trascriverti il passo per dimostrarti la mia comprensione: tu sei comunista e non farai mai nulla che possa nuocere al partito. Nel momento stesso in cui - in commissione - mi passavano il comunicato Ansa con la smentita di Berlinguer, io ero certo che sarebbe venuta la tua…”   


Copertina "Oggi/7" magazine  di "Americoggi", New York

















TESTI E COMMENTI
Trascrizione della lettera (manoscritta) di Guttuso a Sciascia
(La data indicata è “20/10”- L’anno non è indicato, ma- come si evince dalla lettera di risposta di Sciascia -  sarà, certamente, il 1978)

(Prima pagina del manoscritto)
“Caro Leonardo,
Non è certo per indifferenza che non ti ho scritto, né cercato, dopo aver letto gli ampi stralci del tuo libro pubblicati nei vari settimanali. Prima di ogni cosa volevo leggere il libro, tutto intero, nelle sue sequenze e legamenti. Volevo scriverti, in verità, dopo aver letto il bellissimo pezzo sul Corriere, sulle lucciole di Pasolini e tue, e nostre.
Ma era l’idea del libro che volevo avere per intero. Solo ieri l’ho avuto e letto. Avevo appena letto il memoriale di Moro, lungo ripetitivo, e in definitiva assai poco illuminante.
Sono d’accordo con te sulla assoluta autenticità delle lettere e del memoriale. Molte osservazioni ci sarebbero da fare.
Per esempio il netto stacco tra la prima parte di violente invettive contro la segreteria del suo partito, e il resto. La differenza di trattamento riservata ad Andreotti e a Fanfani.  Ma i pranzi con Bo….? ( interrogativo mio) li aveva fatti anche Fanfani) e un

(seconda pagina del manoscritto)
po’ tutto il discorso, nel suo stile tipico, sui casi della DC, quasi che egli ne fosse stato estraneo.
E’ vero quel che tu dici: era un politicante, non uno statista. E anche in questi scritti si dimostra tale.
Più intelligente e più politico dei suoi carcerieri aveva in pugno la direzione della manovra per la propria liberazione.
Personalmente ho sempre creduto che la linea della non-trattativa non fosse (ins: del tutto) giusta.
Ma non si può dimenticare che sempre si parlò di tredici (cancellatura di: “sette”) brigatisti contro la sua persona. Il discorso dell’uno contro uno è accennato nell’ultima lettera (e apprezzo la finezza della tua analisi: taluno (uguale) uno). Ma non viene mai fuori mentre M. (Moro ndr) è ancora vivo.
Né Craxi, né Fanfani pongono la questione dell’uno contro uno. Se Craxi che si atteggiava a salvatore sapeva che questa era l’ultima richiesta della BR, perché non ha messo i partiti della magg.progr. parl. di fronte a questa responsabilità? Perché non ha…

(terza pagina del manoscritto)
detto, scritto, gridato: Fate fuggire all’estero Tizio e salverete Moro?
Moro è mediatore delle BR, ma chi è il mediatore tra Moro e i partiti? Craxi accenna a volerlo fare (c’è una cancellatura), ma non lo fa. Perché?
Di questa dolorosa vicenda, (cancellatura) mi pare tu veda solo un aspetto (anche se molto importante): il potere che uccide Moro. Ma Moro è lui stesso il potere, lo è fino al momento del suo sequestro, e cerca di (cancellatura) continuare ad esserlo pur da prigioniero; ma la vicenda ha molti altri risvolti.
In primo luogo l’attacco frontale alla attuale maggioranza, maggioranza che era inevitabile ma che non si sarebbe data senza l’azione determinante di Moro. Certo che lui aveva dubbi, e il ministero che varò qualche ora prima del sequestro ne è la prova.
M. volle cioè tranquillizzare, varando un ministero tutto fatto con gli stessi uomini, che non ci si doveva allarmare che ci sarebbero stati effetti repentini, ecc.

(quarta pagina del manoscritto)
Naturalmente anche la polemica di Craxi con la ripresentazione di Proudhon e con gli argomenti si sempre della socialdemocrazia liberale contro cui ebbe già a combattere Marx, quando Lenin non era ancora nato e, tantomeno, ovviamente, il “leninismo”, ne fa parte.
Credo che tu, cercando di penetrare nello spirito dei carcerieri, scoprendo una loro pietà, non voglia vedere cosa c’è sopra di loro ed attorno a loro, ma voglia vedere il come e il perché della rete di relazioni, delle infiltrazioni negli organi dello stato.
Tu dai valore al “mi dispiace” del brigatista che telefona, e certo ce l’ha. Ma in che punto del discorso si inserisce quel “mi dispiace”?
L’espressione indica forse un dato di classe, di abitudine, di buona educazione familiare.
E’ la telefonata, nel suo insieme, che denuncia una certa pietà nell’adempiere un’ultima volontà del condannato. Ma pietà è parola che deve essere costume di vita, quando è vera pietà.
I cinque uccisi di via Fani ( e, chissà, se tra gli assassini non ci fosse anche colui che dice “mi dispiace”), o magistrati, i giornalisti, non avrebbero avuto anch’essi diritto alla pietà?

(quinta pagina del manoscritto)
Durante la Resistenza, quella Resistenza sulla quale tu scrivi quel che scrivi, abbiamo avuto modo di vedere crudeltà e pietà. Qualcosa è capitato anche a me e io ho avuto sempre pietà, anche altri, molti, come me.
Potrei citare molti casi di cui sono a conoscenza. La pietà la sente colui che non può uccidere. Anche quando la ragione, il dovere, gli imporrebbero di farlo. Credo anche che la pietà sia legata all’immaginazione.
Tu dici parole ingiuste sulla resistenza. Lasciamo perdere la retorica e tutto il resto, il cui peso e noia sentiamo tutti, ma è solo retorica ricordare i massacri dei nazisti e dei fascisti, intiere famiglie dei contadini, intieri paesi distrutti, le speranze che ci furono in quella lotta?
Che poi le speranze non si sarebbero realizzate (c’è una cancellatura), i combattenti della resistenza non lo sapevano.
Solo col senno di poi si poteva spiegare loro “che non si trattava di una rivoluzione lasciata a mezzo…ma di un ritorno all’Italia prefascista”.
Il che non sarebbe neppure esatto, anche con la precisazione che tu fai dopo. Almeno quella correzione (cancellatura) avrebbe dovuto avere in te, nel tuo sentimento, più spazio, più giustizia.

(sesta pagina del manoscritto)
Scusami Leonardo. Tu sai il mio affetto per te, la mia stima illimitata, ma lo spirito critico, le  insoddisfazioni, le delusioni, i dubbi, non possono occupare tutto lo spazio della tua libertà di giudizio e farti trovare il male “sempre e dovunque” nei comunisti.- (nel P.C.I.)
Debbo dirti che questo fatto è per me causa di un grande dolore. So bene che il dolore non indebolisce l’amicizia, e che in qualche caso la rafforza, mai ciò non impedisce al dolore di essere tale ogniqualvolta, anche quando non c’è necessità (o io non ne vedo la necessità) tu dai un colpo al partito comunista. (in questo paragrafo ci sono varie cancellature)
In conclusione, caro Leonardo, il nostro rapporto di amicizia assomiglia (cancellatura) a quello che avevo con Vittorini, anche se tu da Vittorini sei diversissimo nel carattere e nel comportamento.
Con Vittorini litigavo e poi finivamo abbracciati; con te non ho mai litigato.
Ti ho difeso quando ho creduto giusto farlo, e ho taciuto quando dissentivo da certe tue posizioni (il libro tuo su Moro, la tua necessità di scriverlo subito, si spiega e si collega con quel tuo (cancellatura) intervento che provocò la polemica con Amendola) Ma

(settima pagina del manoscritto)
Vittorini dissentiva senza mai diventare un (cancellature) “anticomunista quotidiano”.
Con Vittorini (seguono alcune cancellature) io discorso era su “come” un artista poteva essere rivoluzionario e si rifiutava di”suonare il piffero per la rivoluzione”.
Vittorini però credeva alla mia lealtà di comunista, anche se sapeva i miei dubbi, le mie difficoltà, le mie arrabbiature (seguono diverse cancellature) il senso di solitudine che a volte mi buttava in un baratro, ma ciò nonostante sapeva che io ero (e sono) fiero di essere comunista e rispettava tale mia fierezza.
Con te ho, a volte, l’impressione (perché so che mi sei amico e credo tu abbia per me affetto e tanta simpatia (chista è a futtuta!) che tu sia amareggiato del fatto che io sono e resto, malgrado tutte le difficoltà, i problemi, ecc) un comunista.
Vorrei che così non fosse, vorrei che tu non fossi amareggiato di avere un amico comunista, che a volte è d’accordo con te e a volte non è d’accordo. Ma forse io mi  sbaglio

(ottava pagina del manoscritto)
e la mia impressione che tu mi vorresti diverso che quello che sono è sbagliata.
Quanto a me, nei tuoi confronti so benissimo che non potresti essere diverso da quello che sei.
Non so bene cosa sia questa lettera, se chiarimento, un intervento o cos’altro. So che avevo bisogno di dirti il mio pensiero di amico su questa faccenda che ha tanto impegnato i tuoi “amici” e i tuoi detrattori.
Un abbraccio da Renato.



Fotocopia del testo della lettera di Sciascia a Guttuso










 POST SCRIPTUM
Segnalo taluni passaggi salienti estrapolati dalle due lettere e accompagnati da qualche mia considerazione su notizie e fatti vissuti anche personalmente.

NON CI FU' UN MEDIATORE TRA MORO E I PARTITI 
(Da pagina 3 di Guttuso:
“Moro è mediatore delle BR, ma chi è il mediatore tra Moro e i partiti? Craxi accenna a volerlo fare (cancellatura) ma non lo fa. Perché?
Di questa dolorosa vicenda (cancellatura) mi pare tu veda solo un aspetto (anche se molto importante): il potere uccide Moro. Ma Moro è lui stesso il potere, lo è fino al momento del suo sequestro, e cerca di (cancellatura) continuare a esserlo pur da prigioniero; ma la vicenda ha molti altri risvolti.
Qui Renato Guttuso mostra, con acutezza di osservazione, un lato tuttora oscuro della tragica vicenda di Aldo Moro. Chi è il mediatore tra Moro e i partiti? Ma non c’è un mediatore. Guttuso chiude con un pesante “ Perché?” . Lasciando a Sciascia la facoltà di rispondere agli interrogativi e alla classe politica del tempo il dovere di chiarire i suoi, anomali comportamenti durante quei 55 giorni che cambiarono, deviarono la storia d’Italia, della democrazia repubblicana.
Una sottile annotazione- quella di Guttuso - che, ancora oggi, può essere usata come una chiave per aprire, e scoprire, uno scenario politico inquietante da cui i partiti si ritrassero. Volutamente.
Una sensazione che avvertii anch’io (deputato comunista senza galloni) per il fatto che durante la lunga prigionia di Moro (quasi 2 mesi!) il Parlamento, la più alta rappresentanza della sovranità e della volontà del popolo italiano, non svolse un ruolo, un’azione unitaria all’altezza del gravissimo dramma che si stava consumando, per la ricerca della verità e, soprattutto, del nascondiglio in cui era ristretto Moro. Per liberarlo.   
Il fatto sarà notato anche da Sciascia il quale- nella sua risposta a Guttuso- scrive: “Quel che leggo in questi giorni sui giornali, riguardo al cosidetto dibattito in parlamento, mi atterrisce: mai il parlamento italiano è stato così esemplarmente negato alla verità, così negativo nei riguardi della verità, come in questo momento…”

- A pagina 6 della sua lettera, (in un paragrafo sofferto segnato da diverse cancellature) Guttuso accusa Sciascia quasi di anticomunismo inveterato, preconcetto:
Debbo dirti che questo fatto è per me causa di grande dolore…anche quando non c’è necessità (o io non ne vedo la necessità) tu dai un colpo al partito comunista.
Sciascia così risponde all’accusa:
“Questa mia esperienza (elezione al consiglio comunale di Palermo -  n.d.r.), che è anche tua, è proiettabile sulle cose d’Italia.  Ed è la mia accusa al PC. E non solo mia…Io ho raccontato sul Corriere quel che mi ha detto il contadino, mio vicino qui, al principio dell’estate, dopo le elezioni del 13 maggio in cui per la prima volta il suo voto non era andato al PC…Di questa gente era fatto il PC: gente che voleva verità, giustizia, conoscenza. E dico era fatto perché anche se ancora molta ce ne sta dentro, è come se non ci fosse… Mai la politica di un partito è stata così astratta dalla realtà del paese, dalla realtà dei propri elettori, come quella del PC oggi…”



Corleone- Leonardo Sciascia parla a un comizio del Pci (foto da Google)













- Guttuso a Sciascia : “Chista è a futtuta!”
“Vittorini dissentiva senza mai diventare “anticomunista quotidiano”…Vittorini però credeva alla mia lealtà di comunista…Con te ho, a volte, l’impressione (perché so che mi sei amico e credo tu abbia per me affetto e tanta simpatia (chista è a futtuta!) che tu sia amareggiato del fatto che io sono e resto, malgrado tutte le difficoltà, i problemi, ecc) un comunista… Quanto a me, nei tuoi confronti so benissimo che non potresti essere diverso da quello che sei.

Sciascia a Guttuso: “Tu sei comunista così come io non lo sono”
Ed ecco che vengo al punto dei nostri rapporti. Mi dici di avere a volte l’impressione che io, nonostante la simpatica e l’affetto che ho per te, sia amareggiato dal fatto che tu continui ad essere comunista. Posso assicurarti di no. Tu sei comunista così come io non lo sono. Ho detto una volta, e mi è parso di renderti omaggio nel tuo essere comunista, che tu sei roso dalla certezza come io dal dubbio. Piuttosto, quel che mi amareggia di te è quel tuo non dare quel che la gente da te si aspetta: da te in quanto Renato Guttuso, da te anche in quanto comunista. Se, per esempio, tu ti levassi in parlamento a dire…”

A un certo punto,  Sciascia ricorda all’amico pittore “ Le ragioni per cui tu ed io eravamo stati chiamati ad occupare quegli scranni (nel consiglio comunale di Palermo - n.d.r.), praticamente non esistevano. Esistevano soltanto ragioni elettoralistiche: tanto è vero che tu sei stato spostato al senato e io- non dovendo al partito una obbedienza uguale alla tua- ho preso in diverso modo atto della mia inutilità al consiglio comunale, rifiutando la “promozione” al parlamento regionale o nazionale e dimettendomi…”

Da quel che ricordo, l’elezione al consiglio comunale di Palermo, nel 1975 nelle liste del Pci, fu la risultanza di un processo di avvicinamento di Sciascia sollecitato da Achille Occhetto che nel 1972 era subentrato a Emanuele Macaluso nel ruolo di segretario regionale del Pci.
In nome del rinnovamento, della lotta al notabilato “rosso”, Occhetto chiamò in segreteria e alla guida di alcune federazioni provinciali alcuni compagni “esterni”. Qualcuno parlò di “colonizzazione” del partito siciliano.
Leonardo Sciascia, invece- mi dirà alla Camera- vide di buon occhio il cambiamento, la “calata” in Sicilia di questi giovani dirigenti del nord, anche se rimase restio verso l’adesione a un partito-chiesa come un po’ gli appariva il Pci, verso il quale, per altro, aveva accumulato talune perplessità riferite a fatti antichi (la contrastata esperienza del milazzismo) e più recenti riconducibili alla segreteria di Macaluso.
Occhetto e i suoi inviati del Nord garantirono a Sciascia che quel tempo era finito, per sempre, che, con loro, si apriva una fase nuova, una sorta di rivoluzione copernicana della politica siciliana.
Lo scrittore- ammetterà- che un po’ si lasciò sedurre dai discorsi di questi giovani “colonizzatori” i quali, provenendo dal nord, erano immuni dai difetti mostrati dai dirigenti siciliani. Perciò ruppe gli indugi e nel 1974 partecipò attivamente alla campagna referendaria e l’anno successivo accettò la candidatura, come indipendente, a consigliere comunale di Palermo nella lista del Pci.
Ma, a pochi mesi dall’insediamento, presentò le dimissioni da consigliere e sarà seguito, a ruota, da Guttuso. Lo scrittore motivò la sua inattesa decisione con i lunghi ritardi sui tempi d’inizio delle sedute e in generale col confuso andamento dei lavori d’aula.
Tutto ciò era vero, ma oltre quelle motivazioni c’era un disagio politico che lo inquietava. Probabilmente, Sciascia, in quei pochi mesi d’impegno attivo nel gruppo consiliare del Pci, cominciò ad avvertire una certa delusione rispetto alle attese e alle promesse di cambiamento annunciate da Occhetto e dai suoi inviati.

Dal sale siciliano agli intrighi internazionali del terrorismo.
Giacché siamo in argomento mi sembra utile ribadire come e perché si giunse alla clamorosa polemica con Enrico Berlinguer, con lo stesso Guttuso. La vicenda, che avrà anche strascichi giudiziari, si originò, involontariamente, durante un incontro del 6 maggio 1977, a Botteghe Oscure, con il segretario generale del Pci. Detto incontro- come Sciascia chiarì all’Espresso (e disse a me nelle chiacchierate a Montecitorio) “era stato richiesto da me, tramite Guttuso, abbiamo parlato soprattutto di cose che riguardavano l’industria estrattiva siciliana, sulla base di un memoriale che aveva scritto un mio amico e che io consegnai a Berlinguer…  Esaurita la conversazione sul memoriale siamo passati al (tema del ) terrorismo…”.
(L. Sciascia, intervista a “l’’Espresso”)
Quali erano queste “cose che riguardavano l’industria estrattiva siciliana”? Che cosa era successo? Lo scrittore si riferiva, in particolare. alla fusione, realizzata negli anni ’70, fra la Realmonte-Sali (società dell’Ente minerario siciliano) e la Sams dell’avvocato Francesco Morgante, potente imprenditore del sale e intimo dell’ex presidente dc della regione on. Giuseppe La Loggia.
Sciascia conosceva bene la vicenda perché edotto dal prof. Antonio Lauricella, sindaco dc di Grotte, comproprietario di una miniera di salgemma in territorio di Petralia minacciata dal piano Ems-Sams.
Lauricella consegnò a Sciascia un dettagliato memoriale dal quale si evidenziavano la supervalutazione degli apporti privati (Sams) e i comportamenti quantomeno distratti dei partiti politici di maggioranza e d’opposizione.
Lo scrittore prese a cuore la questione e la girò ai suoi amici del Pci, facendone una sorta di banco di prova per verificare la loro coerenza politica.
Vista la sordità dei suoi interlocutori locali siciliani, pensò bene di rivolgersi direttamente a Enrico Berlinguer. E in questa circostanza nacque l’inghippo. Poiché – “Esaurita la conversazione sul memoriale siamo passati al (tema del ) terrorismo…”.

Renato Guttuso senatore del collegio di Sciacca
“Vedi, io parlo di te qualche volta, ogni volta anzi che vengono qui a trovarmi, con dei giovani di Sciacca che ti hanno dato il voto. Sono delusi, mortificati. Hanno votato Renato Guttuso: un grande pittore comunista, un grande intellettuale comunista. Ed è come se avessero votato quel Cipolla che ti ha preceduto nel loro collegio… Scusami di questa un po’ brutale conclusione della lettera; ma spero la metterai in conto dell’ammirazione che ho per la tua arte e per la tua intelligenza, della simpatia e dell’affetto che ho per te. Ti abbraccio. Leonardo.”  


Agrigento, giugno 1976. Manifestazione elettorale del Pci. Da sin: il poeta I. Buttitta, M. Figurelli, R. Guttuso (candidato nel collegio senatoriale di Sciacca), il prof. E. De Miro, A. Monteleone (candidato regionali), sen. T. Di Benedetto, A. Spataro (candidato alla Camera dei Deputati), prof. V. Tusa.

La candidatura di Renato Guttuso per il collegio senatoriale di Sciacca (il più ambito perché il più sicuro dopo di quello di Ragusa) ci venne proposta (io ero segretario provinciale del Pci) dalla direzione del partito- come al solito- con una telefonata autorevole. Alle nostre (timide) osservazioni ci fu risposto che “Guttuso è un grande artista siciliano, di respiro europeo, e che dovremmo essere orgogliosi di poterlo eleggere noi al Senato della Repubblica…”
Insomma, un privilegio che però- diciamo- non era pienamente compreso, apprezzato dai gruppi dirigenti delle sezioni del Pci del collegio e apertamente avversato da alcuni candidati in pectore o che tali si sentivano, dopo la poco edificante esperienza del senatore uscente Vincenzo Gatto.
Anche nel caso di Gatto la notizia ci arrivò tramite una telefonata di Armando Cossutta, membro della segreteria nazionale del Pci, il quale non volle sentire (le nostre) ragioni di gruppo dirigente, giovanissimo, che solo due mesi prima (febbraio 1972) era uscito bene, motivato e determinato, dal confronto- a tratti aspro- avutosi nel congresso provinciale. 
Cossutta fu inflessibile mi disse (al telefono): “Questa è la decisione che il Partito ha preso anche per onorare gli impegni assunti a seguito della confluenza nel Pci del Psiup (Partito socialista italiano di unità proletaria, di cui Gatto era vicesegretario nazionale). E tu, voi non potete mettere a rischio l’accordo…”
Tornando alla candidatura di Guttuso, ricordo che anche per disciplina di partito (vigeva il “centralismo democratico”) ci mettemmo al lavoro per convincere i bravi compagni delle sezioni del collegio di Sciacca (fino a Gatto rappresentato per lungo tempo e proficuamente da “quel Cipolla”, di cui parla Sciascia) ad accogliere e sostenere la candidatura -come sempre- calata dall’alto.
A parte un gruppo di giovani intellettuali che diedero la loro adesione alla candidatura Guttuso, la parte più consistente del partito e dell’elettorato era di chiaramente contraria o- nel migliore dei casi- titubante e, soprattutto, preoccupata per la tenuta elettorale del partito in un collegio dove l’elemento sociale dominante erano i contadini, i pescatori e le popolazioni terremotate del Belice.
Così per dare un saggio del clima, ricordo un aneddoto che capitò nel corso di un’affollata e appassionata assemblea di una sezione del Pci di Sciacca, consultata in ordine alla candidatura nel collegio del grande pittore e compagno Renato Guttuso.
Un vecchio compagno, che per tutta la serata aveva fumato nervosamente, si tolse di bocca la pipa di terracotta, s’alzò in piedi e ci interrogò: “Ma, insomma, compagni a Sciacca chi mancanu pittura ca l’amu a ghiri a pigliari di Roma?”
Evidentemente, il compagno aveva scambiato l'artista con l’imbianchino che qui chiamano pittore.
Comunque sia, Guttuso fu eletto senatore. Purtroppo, rarissimamente venne a Sciacca, nel collegio a incontrare i suoi elettori. Non per cattiva volontà, ma perché troppo preso dai suoi impegni artistici. Senza volerlo, si avverarono le preoccupazioni espresse in quelle assemblee.
Da qui le lamentale dei giovani saccensi che, andando a trovare Sciascia alla Noce, gli confessarono la loro amarezza per avere sostenuto quella candidatura.   (a.s.)
 

  
 Fotocopia della lettera manoscritta di Guttuso a Sciascia
 (del 20 0ttobre 1978) In Archivio Fondazione Istituto Gramsci- Roma - Fondo senatore Paolo Bufalini.


































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domenica 7 luglio 2019

I TEMPLI DI AGRIGENTO: OGGI LA SFILATA DI D&G, IERI SOTTO SCORTA ARMATA



di Agostino Spataro 

Oggi la festa per la bella sfilata di Dolce & Gabbana. Sta bene anche a noi. Purché questo tipo di manifestazioni siano rispettose della sacralità dei luoghi, dei monumenti, della sensibilità e della identità culturali locali che non sono in commercio. 
Ieri, ossia dopo la frana del 1966 e successive, questo grandioso patrimonio, lasciatoci dai greci antichi (tanto per precisare!), fu in serio pericolo e si era in pochi a difenderlo dagli eventi naturali e dagli assalti della speculazione edilizia e delle aree fabbricabili arrivata fin dentro la Valle, con la complicità di generazioni di amministratori e notabili democristiani e loro alleati di turno.
La frana del 1966 scoperchiò una realtà sconvolgente, disastrosa. I principali responsabili del "sacco di Agrigento" (documentato da lucide inchieste ministeriali e regionali e della stampa nazionale e internazionale), invece di andarsi a nascondere, passarono al contrattacco e misero a soqquadro la città, ordinando l'assalto, la devastazione degli uffici del Genio civile.
Qualcuno, oggi, dice che “la sinistra vorrebbe tenere mummificati i monumenti della Valle”. In realtà, si dimentica che la sinistra, in particolare il Pci, li difesero e li salvarono da pericoli e minacce ben concreti. E li valorizzarono con una serie di provvedimenti di legge (dalla creazione della Soprintendenza unica al Parco archeologico, ecc). 
E così, oggi, si possono fare le feste e anche una serie di attività culturali, di ricerca e di divulgazione di questo inestimabile patrimonio che é anche il principale volano per lo sviluppo economico. 
Desidero ricordare che in quel drammatico frangente (1966-67), il PCI, agrigentino e nazionale (l’on. Mario Alicata praticamente morì nell’Aula di Montecitorio mentre parlava del dramma di Agrigento e della sua Valle dei Templi), si contrappose, coraggiosamente, (poiché oltre alle ragioni ci voleva anche coraggio politico e personale) alle ruspe degli speculatori e alla demagogia dei suoi capi, anche professionisti di grido, i quali giunsero a minacciare di far saltare i templi con la dinamite.  
Non a caso, unitamente ai dirigenti della Soprintendenza, il Pci chiese (e ottenne) la vigilanza armata, la"scorta" ai monumenti. Infatti, per un certo periodo, la polizia di Stato vigilò sui Templi dorici di Agrigento. A questo si giunse! 
Poi vennero altre frane e altri pericoli, i processi e le assoluzioni per scadenza dei termini, ecc. 
Un periodo critico, denso di contraddizioni, di omissioni, di becere complicità, sul quale sarebbe interessante raccogliere un pò di carte, di testimonianze, per costruire una memoria da trasmettere alle nuove generazioni e che sia di monito a dirigenti e amministratori degli enti preposti cui sono affidate le sorti del nostro, inestimabile patrimonio.
L'impegno del PCI, ai diversi livelli, non si fermò alla denuncia, ma fu propositivo e portatore di riforme.  
Fra le quali, ricordo la famosa legge regionale n. 80 del 1977, (istituzione della soprintendenza unica) nata come proposta ad Agrigento a conclusione di un qualificato convegno nazionale interdisciplinare che qui tenemmo a seguito della frana del 1976 che interessò il costone orientale del tempio di Giunone. 
Per inciso aggiungo che, in breve tempo, riuscimmo a ottenere dal governo nazionale i finanziamenti necessari per intervenire sulla frana e salvare il tempio