giovedì 12 gennaio 2023

Nuovo libro del Comune di Ioppolo G. "NEMO POETA IN PATRIA- Il caso di Domenico Azzaretto"

 


                                                                                                                                                                                 Dalla presentazione del sindaco Angelo Giuseppe Portella

“Un clamoroso rinvenimento che, a 78 anni dalla morte, conferisce all’Azzaretto una sorprendente celebrità letteraria in Italia e, addirittura, negli Stati Uniti d’America. Un poeta, dunque, ritrovato, come resuscitato a nuova vita, la cui opera speriamo contribuisca ad arricchire il contesto socio-culturale di Ioppolo Giancaxio e il bagaglio di conoscenza dei nostri concittadini, degli alunni delle scuole primarie e in genere delle nuove generazioni.”                                                                             Ioppolo Giancaxio, gennaio 2023.

 Introduzione di Agostino Spataro

1… Questo piccolo libro prende spunto dal rinvenimento casuale di una bella poesia “La partenza dell’operaiu per l’America” di Dome­nico Azzaretto, a noi ignota, pubblicata nel 1908 dalla stamperia di Giuseppe Pennarelli di Fiorenzuola d’Arda, (Piacenza), recentemente segnalatami da Francesco Giuffrida studioso di tradizioni e di canti popolari siciliani.                                                                                           Un lavoro davvero interessante che mette in luce il talento di questo poeta di Ioppolo Giancaxio, come tanti emigrato negli Usa nel 1906. Zi Minicu da questa esperienza oltre oceanica trasse ispirazione per comporre due poemetti che, fatto raro per quei tempi, mettono al cen­tro il tema drammatico dell’emigrazione siciliana agli albori del se­colo trascorso (purtroppo, ancora in corso).                                                                              Una poesia semplice, spontanea ma penetrante che, per altro, s’intona con l’attuale fenomeno migratorio verso l’Italia, l’Europa e il nord – America, proveniente dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina.               Chi era Domenico Azzaretto?                                                                                                                             I pochi concittadini che lo conobbero- da me intervistati- lo ricordano come u zi Minucu Azzarettu, poeta e suonatore ambulante. Usava la sua poesia, la sua musica per vivere. Anzi, per sopravvivere- direi- non avendo altri mezzi idonei di sussistenza.                                                                                                            Oltre a questi rari e vaghi ricordi, mi piace richiamare il cenno bio­grafico che ne traccia Mimmo Galletto nella piccola antologia “Voci della memoria- Poeti popolari ioppolesi” (*) che rende bene il suo profilo umano e professionale.                                                                                                                                 “Egli nacque a Ioppolo il 29 maggio 1864 e vi morì il 7 gennaio 1944. Professione ufficiale dagli atti dell’anagrafe: suonatore am­bulante. Svolgeva anche la funzione di sagrista e il “mestiere” di poeta, nel senso che componeva versi su commissione e ne rice­veva un compenso. La sua poesia è al servizio di tutti per lodare o per biasimare, infatti da “occasioni” e da “commissioni”, trae ispirazione. Con facilità, con leggerezza quasi e spesso felice­mente…”                                                                                                          A Ioppolo si conoscono soltanto alcune composizioni di Azzaretto pubblicate nella citata antologia. Nessuno sapeva, sa, dei due poemetti gemelli: “La partenza dell’operaio per l’America” e “La miseria dell’operaio in America”.                                                                                                                                       Una gradita sorpresa che- a mio parere- si configura come un piccolo caso letterario nel più vasto panorama della poesia popolare, verna­colare siciliana e che ci fa conoscere un lato inedito di un poeta il quale trae ispirazione da una esperienza personale per delineare una condizione umana e sociale più ampia, segnata dal duro bisogno, dalla costrizione di emigrare alla volta del “mito” americano.

 2… In queste composizioni convivono talento e umiltà, virtù rare che, a tratti, raggiungono cime elevate, come con l’ausilio di taluni emi­nenti storici e studiosi tenteremo di valutare nel merito. Per meglio chiarire lo scopo precipuo di questo lavoro desidero for­mulare due domande a me stesso e al mio, improbabile lettore. La prima. Può un piccolo libro restituire a un poeta povero e incom­preso la sua dignità di uomo, il suo talento creativo, artistico? Ritengo di sì. Nel caso di Domenico Azzaretto come in altri.                            Non possiamo rassegnarci all’idea dell’ineluttabilità della povertà, per altro crescente, della “nuda povertà” che semmai dovremo pro­vare a “vestirla” di una nuova dignità morale e culturale, a darle una coscienza di classe e forza per ricominciare a lottare per lasciarcela, finalmente, alle spalle, in un mondo più giusto e solidale. Questo nostro libretto ha lo scopo di rendere onore al merito di Do­menico Azzaretto, di Giancasciu, autore di due poesie, in controten­denza, composte agli esordi del ‘900 e pubblicate e divulgate, a sua e nostra insaputa, negli ultimi decenni e riprese, citate da studiosi di alto profilo, italiani e stranieri.                Un rinvenimento postumo, clamoroso, figlio del caso, che, a 75 dalla morte, conferisce all’Autore una sorprendente celebrità letteraria in Italia e, addirittura, negli Stati Uniti d’America.                                      Un poeta ritrovato, dunque! Come resuscitato a nuova vita!

Mi piace precisare che qui il “caso” non é quella entità misteriosa, vagante e imprevedibile del pantheon romano, ma il signor Francesco Giuffrida, cultore di canti popolari siciliani, il quale con una telefo­nata, recente quanto inattesa, mi ha comunicato la notizia che ha messo in moto la mia curiosità, la mia ricerca. La seconda. Può accadere che un uomo poverissimo appartenente al cosiddetto “populu vasciu” (basso), dileggiato per la sua povertà, possa diventare (a sua insaputa) un riferimento letterario importante della cultura sociologica nazionale e internazionale?                                                                                          E’ ciò che accaduto a zi Minucu Azzarettu, poeta e suonatore ambu­lante, il quale non saprà mai (perché morto nel 1944) della “scoperta” fatta da Roberto Cavallaro, docente dell’Università “la Sapienza” di Roma, che nel 1982 pubblicò una dotta recensione della sua poesia sulla rivista “Studi Emigrazione/ Etudes Migrations”, edita dal Centro Studi Emigrazione di Roma, che sarà ripresa da altri studiosi italiani e stranieri.

 3… Davvero una felice, clamorosa scoperta che rende merito alla me­moria, al talento di Azzaretto.

Confesso che, commosso, mi sono buttato in questo lavoro, anche per rendere giustizia, moralmente s’intende, a questo uomo, pur­troppo, non apprezzato per la sua acutezza, per la sua creatività, tal­volta mal reputato dalla nostra stessa comunità.

Io, che provengo dalla povertà ossia dallo stesso ceppo sociale del poeta, che sono nipote di Agostino Cultrera, coevo di Azzaretto, e an­ch’egli povero e grande poeta dialettale, sono ben lieto di presentare al pubblico (spero anche ai più giovani) l’altra faccia del poeta nostro concittadino, autore di queste poesie in controtendenza (rispetto al mito americano) composte al suo ritorno da New York, dove incontrò la drammatica realtà dell’emigrazione.

Un riconoscimento al merito e, insieme, un atto di risarcimento mo­rale verso questo poeta che il caso ci ha fatto ritrovare sotto nuove spoglie.

Il mio pensiero è corso a zi Minicu il quale, ignaro di tale traguardo editoriale, continuò a trascinare la sua misera esistenza per le vie di Ioppolo Giancaxio a vendere la sua arte; a intonare, a richiesta, sere­nate, novene, musiche di matrimonio, accompagnandosi con il suo violino, a “improvvisare” poesie e strambotti, talvolta anche adulatori o di “sdegno”, secondo il bisogno, pur di strappare qualche soldo ai committenti e/o ai passanti.

A quel tempo, si é negli anni più tristi della prima metà del Nove­cento, quelli antecedenti e seguenti la prima guerra mondiale, a Iop­polo, come altrove, i poeti popolari dialettali proponevano al pubblico la loro poesia in cambio di qualche soldo, di un tozzo di pane. Per so­pravvivere in quella condizione misera nella quale mancavano ade­guati introiti e i più elementari diritti civili e umani.

Per l’opinione popolare Azzaretto non era un poeta autentico, come quelli illustri e celebrati nei libri di scuola o nei raduni politici, ma solo un poveraccio che chiedeva la questua.                                       Parafrasando un famoso detto latino, potremo dire: nemo poeta in pa­tria. A Giancasciu, non lo fu nemmeno Azzaretto. Seppure la sua poe­sia era assai conosciuta in paese e- come vedremo- si farà strada in Italia e all’estero, divenendo un punto di riferimento culturale per tanti studiosi.

Immagino quanto sarebbe stato contento u zi Minicu nell’apprendere dell’interesse suscitato dai suoi componimenti presso eminenti ricer­catori, docenti e sociologi di importanti istituzioni culturali e univer­sità italiane: dalla fondazione “Giovanni Agnelli “di Torino alle Uni­versità italiane di Roma e di Palermo; dalla “State University di New York” alla “University of Central Florida”, alla “Tennessee State Uni­versity” degli Usa.

 


4… Talvolta, il popolo, mal consigliato, scambia la povertà per una colpa e può diventare perfino spietato con i suoi figli più bisognosi. Quasi che la miseria fosse desiderata dalla sua vittima e non imposta dal potere dominante, locale o globale, come conseguenza del suo dominio.

Nulla di nuovo sotto il sole. Lo scrisse Karl Marx tanto tempo fa: la povertà estrema (il lumpen proletariat), attenua, mina la solidarietà fra gli oppressi, può essere manipolata e usata per rompere il filo che tiene uniti un ceto sociale, una comunità.

Invece di aiuto, di conforto, al malcapitato viene riservato dileggio, indifferenza, sospetto.

Effetto questo di una legge terribile e crudele, ancora vigente, che non siamo riusciti ad

abolire. Nel passato, tale “legge” era imposta dalla tracotanza dei ba­roni feudatari, oggi, nelle mutate condizioni economiche e dello spi­rito pubblico, dalla perfida genìa che comanda il mondo.

A quel tempo, la gente lavorava e viveva in condizioni di semi schia­vitù, malpagata e sfruttata fino all’osso, sempre sotto l’incombente minaccia delle più abiette angherie di aristocratici assenteisti e dei loro campieri e soprastanti che gli stavano col fiato sul collo.

Zi Minicu, per liberarsi di questa sorta di maledizione, tentò- come tanti altri poveri ioppolesi - la via dell’emigrazione nelle Americhe che richiedevano manovalanza europea per sviluppare e popolare i vasti territori sottratti ai popoli indigeni con la violenza, talvolta con pratiche genocide.

Il nostro poeta restò negli Usa per poco; il tempo necessario per ren­dersi conto della realtà povera e violenta che caratterizzava la vita nei quartieri degli immigrati di New York e, al ritorno, volle avvertire, con i suoi versi, i tantissimi candidati in procinto di partire.

Un’esperienza personale che però illumina di luce sincera, una realtà drammatica ben più ampia, di massa come fu l’emigrazione siciliana transoceanica, a cavallo dei due secoli (800-900)

 5… Per averne un’idea, basta scorrere taluni dati riferiti alle diverse fasi migratorie siciliane. *

Nel cinquantennio 1876-1925, gli emigrati siciliani diretti verso Paesi transoceanici (Usa, Argentina, Brasile e altri) furono circa 1 milione e mezzo, corrispondenti a circa il 18% del totale dell’emigrazione italiana orientata verso le stesse aree.

Una vera e propria fuga di massa dalla Sicilia verso gli Usa e il sud America che nel ventennio 1901-1919 si concentrò verso gli Usa (94%) e solo 3,7% verso l’Argentina, 0,5% verso il Brasile e 0,9% verso i restanti Paesi dell’America.

Un flusso crescente quello siciliano verso gli Stati Uniti d’America che nel cinquantennio (1876-19125) oscilla fra il 74,2% del 1876 e il 91,2% del 1925. Con una crescita del 17%.

Nel periodo considerato, l’incidenza % dell’emigrazione siciliana sul totale Italia fu:

- del 4,3% nel periodo 1876-1900, di cui transoceanici 7,7%

- del 12,9% nel periodo 1901-1914, di cui transoceanici 20,8%

- del 12,2% nel periodo 1915-1918, di cui transoceanici 22,3%

- del 11,7% nel periodo 1919-1925, di cui transoceanici 20, 8%

- del 10.0% nel periodo 1876-1925, di cui transoceanici 17,0%

(* da “L’emigrazione siciliana negli ultimi cento anni” di Francesco Brancato, Pellegrini Editori, Cosenza, 1995)

Anni duri, terribili che proseguirono anche nell’intervallo fra le due guerre mondiali, durante il periodo fascista, in cui si poteva emigrare oltre che in America, dove il “mito” doveva scontrarsi con una realtà davvero difficile e pregiudiziale, anche nelle colonie d’Africa.

Nel secondo dopoguerra, molti ioppolesi partirono anche a causa del fallimento della lotta per la riforma agraria vanificata da certe legge­rezze dei capi sindacali e, soprattutto, dalla minacciosa protervia dei suoi nemici. Il sogno della terra sfumò miseramente e riprese l’emi­grazione ancora verso le Americhe: Canada, Stati Uniti, Venezuela, Argentina e, fatto nuovo, verso alcuni paesi europei: Belgio, Francia, Germania e Svizzera. Una migrazione bi-direzionale di massa che as­sestò un colpo durissimo all’assetto demografico del paesino posto alle spalle di Akragante, svuotando campi e catoi e accelerando il suo declino socio-economico i cui effetti si vedono ancora oggi.

6… Il caso di Ioppolo Giancaxio è davvero emblematico della storia sociale e civile di tantissimi comuni dell’entroterra siciliano e meri­dionale. Per averne un’idea basta guardarsi intorno o consultare le statistiche più recenti secondo le quali Ioppolo rischia seriamente di perdere i requisiti fondanti di una comunità e quindi di scomparire come entità amministrativa autonoma.

Un pericolo evidente, anche fisicamente. Le case vuote, le vie deserte. Un giorno, camminando per una di queste vie, un vecchio contadino mi fece notare una contraddizione terribile, funesta.

“Onorè, prima avevamo poche e anguste case (catoi) piene di tan­tissime persone, oggi abbiamo le palazzine ma sono vuote. In questa via siamo rimasti in due. Com’è stu fattu?”

Un interrogativo inquietante da cui bisognerebbe partire per capire le cause effettive e, soprattutto, come agire per invertire la tendenza al declino e ridare un futuro degno ai nostri paesi.

In primo luogo, bisogna parlare chiaro. Guardare la realtà senza in­fingimenti, affrontarla e non aggirarla, esorcizzarla. Per non illudere noi stessi e i nostri concittadini residenti o emigrati. Purtroppo, nonostante certi sforzi lodevoli delle Amministrazioni co­munali, Ioppolo è al limite della sopravvivenza. La statistica, la fredda statistica demografica e socio-economica, ci condanna. I giovani con­tinuano a emigrare e con loro la nostra residua speranza di rinascita.

In questo paese si “vive” soltanto due mesi: luglio ed agosto. Solo d’estate. E mentre in piazza si balla e si canta, il paese lentamente muore…

 7…Le soluzioni? Ovviamente nessuno ha la ricetta in tasca. Sono da stu­diare, programmare e attuare, se ci sarà una decisa volontà politica di cambiamento, ai diversi livelli di responsabilità.

“Agire localmente e pensare globalmente”, secondo le nuove inter­dipendenze maturate o in formazione. Nonostante tutto, possiamo sperare, guardare in avanti, verso uno sviluppo basato su modelli eco-compatibili orientati in senso bidirezionale: verso l’Europa e verso l’area mediterranea.

Uno sviluppo auto-centrato che faccia leva sulla intelligenza di uo­mini e donne e sulle risorse naturali, agricole, alimentari, paesaggi­stiche, monumentali, ecc. Ogni uomo, ogni donna hanno diritto a vivere, a costruire il futuro nel loro ecumene, nel luogo di nascita. Esiste (o dovrebbe esistere) un diritto umano fondamentale che è quello di “non dover emigrare”.

Perciò, bisogna guardare in avanti non indietro come vorrebbero i vari Pino Aprile che ripropongono un improbabile Mezzogiorno bor­bonico idilliaco (per chi? per quanti?) omettendo di descrivere, co­scientemente, le condizioni disumane nelle quali vivevano le popo­lazioni meridionali sotto quel regno.

Tante sono le vere cause dell’emarginazione del Sud italiano, ma il discorso sarebbe lungo e non è questa la sede per svolgerlo. Forse, una fra le più antiche, si potrebbe individuare nell’alleanza subalterna del Borbone con gli interessi imperiali inglesi che blindarono la Si­cilia per impedire la propagazione delle idee dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese e, soprattutto delle armate e delle riforme di Na­poleone Bonaparte che cambiarono gli assetti del potere e delle so­cietà europee dell’ancien regime.

Nell’Isola continuò a dominare la triade mortifera, oppressiva della nostra dignità e libertà: lo Stato monarchico, l’oscurantismo religioso, il feudo e la delinquenza al suo servizio. Purtroppo, anche nelle mutate condizioni storiche post- unitarie, il popolo meridionale ha continuato a vivere in miseria, in semi schia­vitù. Una condizione inaccettabile da cui cercò una via di liberazione mediante l’emigrazione.

E così, a quasi 160 anni dall’Unità d’Italia, nonostante taluni innega­bili progressi, il dramma migratorio continua ad angustiare le fami­glie, i paesi del Meridione. E questa- a me sembra- la colpa più grave, ingiustificabile che portano i governanti unitari. Di ieri e di oggi.

Agostino Spataro