lunedì 23 dicembre 2019

"NEMO POETA IN PATRIA"- Il clamoroso caso di Domenico Azzaretto: da Giancaxio agli States.


Regalo di Natale
Copertina, collana " i Gufetti", 2019


Dall’introduzione di Agostino Spataro
1… Questo piccolo libro prende spunto dal rinvenimento di una bella poesia “La partenza dell’operaiu per l’America” di Domenico Azzaretto, a noi ignota, pubblicata nel 1908 dalla stamperia di Giuseppe Pennarelli di Fiorenzuola d’Arda, (Piacenza), recentemente segnalatami da . Francesco Giuffrida studioso di tradizioni e di canti popolari siciliani.
Un lavoro davvero interessante che mette in luce il talento di questo poeta di Ioppolo Giancaxio, come tanti emigrato negli Usa nel 1906.
Zi Minicu trasse da questa esperienza d’oltre Oceano ispirazione per comporre due poemetti che, fatto raro per quei tempi, mettono al centro il tema drammatico dell’emigrazione siciliana agli albori del secolo trascorso.
Una poesia semplice, spontanea ma intensa che, per altro, s’intona con l’attuale fenomeno migratorio in uscita da Ioppolo, dall’Italia e immigratorio proveniente dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina e orientato verso l’Italia, l’Europa e il nord – America.  
Chi era Domenico Azzaretto?
I pochi concittadini che lo conobbero- da me intervistati- lo ricordano come u zi Minucu Azzarettu, poeta e suonatore ambulante.
Usava la sua poesia, la sua musica per vivere. Anzi, per sopravvivere- direi- non avendo altri mezzi  di sussistenza.
Oltre a questi rari e vaghi ricordi, mi piace richiamare il cenno biografico che ne traccia Mimmo Galletto nella piccola antologia “Voci della memoria- Poeti popolari ioppolesi” (*) che rende bene il suo profilo umano e professionale..
“Egli nacque a Ioppolo il 29 maggio 1864 e vi morì il 7 gennaio 1944. Professione ufficiale dagli atti dell’anagrafe: suonatore ambulante. Svolgeva anche la funzione di sagrista e il “mestiere” di poeta, nel senso che componeva versi su commissione e ne riceveva un compenso. La sua poesia è al servizio di tutti per lodare o per biasimare, infatti da “occasioni” e da “commissioni”, trae ispirazione. Con facilità, con leggerezza quasi e spesso felicemente…”
A Ioppolo si conoscono soltanto alcune composizioni di Azzaretto pubblicate nella citata antologia. Nessuno sapeva, sa, dei due poemetti gemelli:  “La partenza dell’operaio per l’America” e  “La miseria dell’operaio in America”.
Una gradita sorpresa che- a mio parere- si configura come un piccolo caso letterario nel più vasto panorama della poesia popolare, vernacolare siciliana…
 
Migranti italiani in terza classe in arrivo negli Usa
2… Questo libretto ha lo scopo di rendere giustizia e onore al merito di Domenico Azzaretto, di Giancasciu, autore di due poesie, intense e in controtendenza, composte agli esordi del ‘900 e pubblicate e divulgate, a sua e nostra insaputa, negli ultimi decenni e riprese, divulgate da studiosi di alto profilo, italiani e stranieri.
Un rinvenimento postumo, clamoroso, figlio del caso, che, a 75 dalla morte, conferisce all’Autore una sorprendente celebrità letteraria in Italia e, addirittura, negli Stati Uniti d’America. Un poeta ritrovato, dunque! Come resuscitato a nuova vita!
…Può accadere che un uomo poverissimo appartenente al cosiddetto “populu vasciu” (basso), dileggiato per la sua povertà, possa diventare (purtroppo a sua insaputa) un riferimento letterario importante della cultura sociologica nazionale e internazionale?
Come vedremo, ciò é accaduto a zi Minucu Azzarettu, poeta e suonatore ambulante, il quale non saprà mai (perché morto nel 1944) della “scoperta” fatta da Roberto Cavallaro, docente dell’Università “la Sapienza” di Roma, che nel 1982 pubblicò una dotta recensione di una sua poesia sulla rivista “Studi Emigrazione/ Etudes Migrations”, edita dal Centro Studi Emigrazione di Roma, che sarà ripresa da altri studiosi italiani e stranieri.
Davvero una felice, clamorosa scoperta che rende merito alla memoria, al talento di Azzaretto.
Confesso che, commosso, mi sono buttato in questo lavoro, anche per rendere giustizia, moralmente s’intende, a questo uomo che in questi scritti dimostra di possedere acume e sensibilità, purtroppo non sempre apprezzato per la sua creatività, talvolta mal reputato dalla nostra stessa comunità. 
Io, che provengo dalla povertà ossia dallo stesso ceppo sociale del poeta, che sono nipote di Agostino Cultrera (coevo di Azzaretto) anch’egli povero e grande poeta dialettale, sono ben lieto di presentare al pubblico (spero anche ai più giovani) l’altra faccia del nostro concittadino che, al  ritorno da New York, dove incontrò la drammatica realtà dell’emigrazione, compose le due poesie  che fanno riflettere sul “sogno” americano.
Il nostro vuole essere una sorta di risarcimento morale verso questo poeta che- come detto- il caso ci ha fatto ritrovare sotto nuove spoglie…
Per l’opinione popolare Azzaretto non era un poeta autentico, come quelli illustri e celebrati nei libri di scuola o nei raduni politici, ma solo un poveraccio che chiedeva la questua.
Parafrasando un famoso detto latino, potremo dire: nemo poeta in patria. A Giancasciu, non lo fu nemmeno Azzaretto. Seppure la sua poesia era assai conosciuta in paese e- come vedremo- si farà strada in Italia e all’estero, divenendo un punto di riferimento culturale per tanti studiosi.
Immagino come sarebbe stato contento u zi Minicu nell’apprendere dell’interesse suscitato dai suoi componimenti presso eminenti ricercatori, docenti e sociologi di importanti istituzioni culturali e università italiane: dalla fondazione “Giovanni Agnelli “ di Torino alle Università italiane di Roma e di  Palermo; dalla “State University di New York” alla  “University of Central Florida”, alla “Tennessee State University” degli Usa.


3… Talvolta, il popolo, mal consigliato, scambia la povertà per una colpa e può diventare perfino spietato con i suoi figli più poveri. Quasi che la miseria fosse desiderata dalla sua vittima e non imposta dal potere dominante, locale o globale, come conseguenza del suo dominio…
…Invece di aiuto, di conforto, al malcapitato viene riservato dileggio, indifferenza, sospetto.
Effetto questo di una legge terribile e crudele, ancora vigente, che non siamo riusciti ad
abolire. Nel passato, tale “legge” era imposta dalla tracotanza dei baroni feudatari, oggi, nelle mutate condizioni economiche e dello spirito pubblico, dalla perfida genìa che comanda il mondo.
A quel tempo, la gente lavorava e viveva in condizioni di semischiavitù, malpagata e sfruttata fino all’osso, sempre sotto l’incombente minaccia delle più abiette angherie di aristocratici assenteisti e dei loro campieri e soprastanti che gli stavano col fiato sul collo.
Zi Minicu, per liberarsi di questa sorta di maledizione, tentò- come tanti altri poveri ioppolesi - la via dell’emigrazione nelle Americhe che richiedevano manovalanza europea per sviluppare e popolare i vasti territori sottratti ai popoli indigeni con la violenza, talvolta con pratiche genocide. 
Il nostro poeta restò negli Usa per poco; il tempo necessario per rendersi conto della realtà povera e violenta che caratterizzava la vita nei quartieri degli immigrati di New York e, al ritorno, volle avvertire, con i suoi versi, i tantissimi candidati in procinto di partire.
Un’esperienza personale che però illumina di luce sincera, una realtà drammatica ben più ampia, di massa come fu l’emigrazione siciliana transoceanica, a cavallo dei due secoli (800-900)

4… Per averne un’idea, basta scorrere taluni dati relativi alle diverse fasi migratorie siciliane.*
Nel cinquantennio 1876-1925, gli emigrati siciliani diretti verso Paesi transoceanici (Usa, Argentina, Brasile e altri) furono circa 1 milione e mezzo, corrispondenti a circa il 18% del totale  dell’emigrazione italiana orientata verso le stesse aree.
Il flusso migratorio siciliano si orientò, in misura crescente, verso gli Usa che nel cinquantennio 1876-1925 oscillerà fra il 74,2% del 1876 e il 91,2% del 1925. Con una crescita del 17%.
Una vera e propria fuga di massa dalla Sicilia verso gli Usa e il Sud America che nel ventennio 1901-1919 si concentrò prevalentemente verso gli Usa per il 94% e solo per il 3,7% verso l’Argentina, per lo 0,5% verso il Brasile e  per lo 0,9% verso i restanti Paesi dell’America.
Nel periodo considerato (1876.1925) l’incidenza % dell’emigrazione siciliana sul totale Italia fu:
- del 4,3% nel periodo 1876-1900, di cui transoceanici 7,7%
-  del 12,9% nel periodo 1901-1914, di cui transoceanici 20,8%
- del 12,2% nel periodo 1915-1918, di cui transoceanici 22,3%
- del 11,7%  nel periodo 1919-1925, di cui transoceanici 20, 8%
- del 10.0% nel periodo 1876-1925, di cui transoceanici 17,0%
(* da “L’emigrazione siciliana negli ultimi cento anni” di Francesco Brancato, Pellegrini Editori, Cosenza, 1995)
Anni duri, terribili che proseguirono anche nell’intervallo fra le due guerre mondiali, durante il periodo fascista, nei quali ci si poteva trasferire nelle colonie d’Africa e continuare a emigrare in America, sempre attratti dal “mito” del benessere che, per molti, si rivelò una realtà difficile e discriminatoria
Ioppolo non si sottrasse a questo “destino”. Nel secondo dopoguerra, molti ioppolesi partirono anche perché sospinti dal fallimento della lotta per la riforma agraria, vanificata da certe leggerezze dei capi sindacali e, soprattutto, dalla minacciosa protervia dei suoi nemici. Il sogno della terra a chi la lavora sfumò miseramente e incentivò l’emigrazione ancora verso le Americhe: Canada, Stati Uniti, Venezuela, Argentina e, fatto nuovo, verso alcuni paesi europei: Belgio, Francia, Germania e Svizzera. Una migrazione bi-direzionale di massa che assestò un colpo durissimo all’assetto demografico del paesino posto alle spalle di Akragante, svuotando campi e catoi e accelerando il suo declino socio-economico che continua ancora oggi.


Panorama di Ioppolo Giancaxio. primi decenni del ‘900.

5… Il caso di Ioppolo Giancaxio è davvero emblematico della storia sociale e civile di tantissimi comuni dell’entroterra siciliano e meridionale. Per averne un’idea basta guardarsi intorno o consultare le statistiche più recenti secondo le quali Ioppolo, soprattutto a causa di un saldo demografico negativo e di un flusso migratorio in ripresa, rischia seriamente di perdere i requisiti fondanti di una comunità e, pertanto, di scomparire come entità amministrativa autonoma.
Un pericolo evidente, anche fisicamente. Le case vuote, le vie deserte. ..
... Il futuro di ogni persona si dovrebbe realizzare nel suo ecumene, nel luogo natio. Prima del diritto di emigrare, c’è (o dovrebbe esserci) un diritto umano fondamentale che è quello di “non dover emigrare”.
Perciò, bisogna guardare in avanti non indietro come vorrebbero i vari Pino Aprile che ripropongono un improbabile Mezzogiorno borbonico e idilliaco (per chi? per quanti?) omettendo di descrivere le condizioni disumane nelle quali vivevano le popolazioni meridionali sotto quel reame.
Il discorso sulle cause dell’emarginazione del Sud italiano sarebbe lungo e non è questa la sede per svolgerlo. Forse, una fra le più antiche, si potrebbe individuare proprio nell’alleanza subalterna del Borbone con gli interessi imperiali inglesi che blindarono la Sicilia per impedire la propagazione delle idee dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese e, soprattutto delle armate e delle riforme di Napoleone Bonaparte che cambiarono gli assetti del potere e delle società europee dell’ancien regime.
Nell’Isola continuò a dominare la triade mortifera, oppressiva della nostra dignità e libertà: lo Stato monarchico, l’oscurantismo religioso, il feudo e la delinquenza al suo servizio.
Purtroppo, anche nelle mutate condizioni storiche post- unitarie, il popolo meridionale ha continuato a vivere in miseria, in semischiavitù. Una condizione inaccettabile da cui cercò una via di liberazione mediante l’emigrazione.
E così, a quasi 160 anni dall’Unità d’Italia, nonostante taluni innegabili progressi, il dramma migratorio continua ad angustiare le famiglie, i paesi del Meridione.
E questa- a me sembra- la colpa più grave, ingiustificabile che portano i governanti unitari.
Di ieri e di oggi.

Agostino Spataro


* (antologia pubblicata nel 1996 dal Comune di Ioppolo G.)


giovedì 12 dicembre 2019

LA POLITICA: IERI E OGGI - Toto Cacciato intervista Agostino Spataro



Il Partito, i successi, le sconfitte, le speranze, i problemi, i personaggi incontrati visti sotto una luce nuova, senza pregiudizi. 

Agrigento. 25/4/1974. Agostino Spataro introduce la grandiosa manifestazione pro-divorzio in piazza Stazione conclusa da Enrico Berlinguer                                                                            

Sommario:
Negli anni '70, il Pci lottò per la conquista di più avanzati diritti contrattuali e sociali dei lavoratori, 40 anni dopo gli "eredi" del Pci in gran parte li revocarono (abolizione art. 18 Statuto, ecc)-  Ad Agrigento, dopo il congresso provinciale del Pci del 1972, un crescendo di vittorie politiche ed elettorali (dal 25% del 1971 al 35,15% del 1976)- Ciò che non doveva cambiare era il sistema elettorale proporzionale, con il voto di preferenza che consentiva all’elettore di scegliere il candidato-  L“antipolitica” è una politica destrorsa ben orchestrata per creare confusione e  consentire a pochi di appropriarsi delle ricchezze e del potere pubblici- A Berlino non crollò il socialismo (mai realizzato), ma lo “statalismo socialista” e trionfò il “modello" neoliberista-  Si dice che il muro crollò sulla base di un’intesa raggiunta tra Gorbaciov e Reagan nel loro incontro nel mare di Malta del dicembre del 1987- Andreotti diede un contributo rilevante alla politica estera italiana. Andai ai suoi funerali-  La politica sull'immigrazione del Pci si basava su due principi essenziali: accoglienza nella solidarietà e lotta ai flussi clandestini- In America latina sembra essersi svegliato “il gigante dormiente“ ossia il variegato mondo dei  popoli indigeni. Questa é la novità.
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 (testo)

Agostino Spataro, fin da giovane militante del P.C.I./ Deputato per tre legislature con prestigiosi incarichi  parlamentari. A quel tempo, le piazze d’Italia erano piene di gente e le bandiere rosse sventolavano al vento, nell’aria le note e il canto “Compagni, avanti!. Il gran partito noi siamo dei lavoratori…”. Era la festosa attese di un comizio politico. Era lo              spaccato degli anni Sessanta, la comunicazione politica si affidava ai comizi in piazza e alle parole  dei più rappresentativi parlamentari del partito, come Gian Carlo Pajetta, Pietro Ingrao, Mario Alicata e altri. Fra gli applausi al comiziante c’era chi gridava "Pane e lavoro". 

1. Domanda.   Onorevole Agostino Spataro  nel 1968 lei aveva vent’anni,  E' passato tanto tempo, siamo ancora a “Pane e Lavoro”.

1. Risposta… Beh! Già nel ’68 il “pacchetto” rivendicativo dei movimenti dei lavoratori si era impinguato, evoluto.  Chiedevano non solo “pane e lavoro”, ma anche servizi, riforme e diritti sociali fino ad allora negati: salari e contratti migliori, statuto dei lavoratori, scuola, sanità, trasporti, pensioni, ecc. Fu quella una stagione di effettivo cambiamento, di progresso delle condizioni di vita e di lavoro. Grazie alla ritrovata unità sindacale, fu possibile ampliare il fronte di lotta e conquistare diritti che nella storia i lavoratori dipendenti mai avevano avuto, goduto.  

Poi arrivò il terrorismo, di destra e di sinistra, che diede la stura ai gruppi dominanti per scatenare una controriforma (ancora in corso) mirata a  modificare, annullare tali conquiste.  Nel primi anni ’80, il governo Craxi e la sua maggioranza di centro-sinistra imposero il taglio di alcuni punti della scala mobile salariale, cui il Pci si oppose decisamente (ostruzionismo in Parlamento), a distanza di quasi mezzo secolo il colpo più doloroso: l’abolizione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, voluta dal governo Monti, sostenuto anche dal PD ossia dagli “eredi” del Pci. 
Anche questo é "cambiamento"!        

2. D. I comizi erano la primaria forma di comunicazione, la televisione passava una striminzita Tribuna politica. Che ricordo ha di quelle folle, ha avuto occasione di ascoltare i grandi comizi, come  erano stati quelli di Togliatti, in tre ordini di palchi con tutti i rappresentanti del partito.

2. R….Data l’età, non ebbi occasione di partecipare all’unico comizio che Togliatti tenne ad Agrigento  nel 1953, in cui parlò a una piazza Stazione strapiena. Partecipai (16 enne), a Roma, ai suoi funerali (immortalati da Renato Guttuso) e mi ritrovai in compagnia di tre compagni dirigenti sindacali agrigentini di cui due (non di tradizione comunista) venuti per assicurarsi “ch’era morto per davvero” e un terzo che piangeva di tutto cuore per la grave perdita. Questo per dire che anche nei tempi “eroici” c’erano singolari contraddizioni.  

3. D. Verso la fine degli anni Sessanta lei era militante del P.C.I., sarà eletto, la prima volta, nel 1976, giovane parlamentare a 28 anni.

3. R Come si suol dire, feci tutta la gavetta politica: dalla militanza di base alla dirigenza, all’elezione in Parlamento nazionale. Dopo l’esperienza nella Federazione giovanile comunista, fui chiamato a un incarico nell’Alleanza contadini e quindi alla segreteria provinciale del Pci. Nell’estate del 1971, a seguito di uno scontro interno abbastanza duro (lo ricordo perché dovetti rinviare il matrimonio già fissato in Ungheria) fui inviato alla Cgil provinciale. Erano quelli tempi difficili per il Pci, in Sicilia e ad Agrigento, che nel 1971 aveva subito la controffensiva neofascista e perduto importanti posizioni elettorali.                            Nel partito c’erano smarrimento e disorganizzazione. Con un gruppo di giovani esponenti (fra cui Angelo Capodicasa, Federico Martorana, ecc) proponemmo una sorta di piattaforma per il rinnovamento del partito e per un nuovo modo di fare politica. Sulla base di tale programma, che aggregò tantissimi giovani dirigenti (in gran parte provenienti dal movimento studentesco), nel marzo de 1972, fui eletto segretario dal congresso provinciale del Pci. Un congresso memorabile, assai travagliato ma esaltante, che elesse un nuovo gruppo dirigente e avviò una svolta politica in provincia che sarà premiata da un crescendo di vittorie politiche ed elettorali.


Agrigento, 1976. Incontro con candidati  del Pci: R. Guttuso (Senato), A. Monteleone (Ars), A. Spataro (Camera)

Nel 1974 vincemmo il referendum abrogativo della legge sul divorzio; nel 1975 le elezioni amministrative; nelle politiche e nelle regionali del 1976 passammo dal 25% (del 1971) al 35,15%. 10 punti secchi. Lasciai la segreteria provinciale perché eletto alla Camera (come il più giovane deputato d’Italia), con un risultato mai raggiunto prima ossia il 35,15%, un dato superiore alla media nazionale (34%).    

4. D. Lei è giornalista ed ha una lunga bibliografia che apre nel 1985 con un testo impegnativo dal titolo “Missili e mafia”, scritto con Paolo Gentiloni e  Alberto Spampinato; poi una lunga sequenza di titoli  e argomenti  tra i più scottanti della politica nazionale e internazionale, argomenti ancora attivi e vivi. Ne ricordo tre: il Mediterraneo. “Popoli e risorse verso uno spazio economico comune”.1993. “Fondamentalismo islamico. L’Islam politico”.1995. “Sicilia, cronache del declino”.2006; altri temi riguardano l’immigrazione, l’America Latina. Tra i saggi più recenti  lei scrive di “Una bella amicizia polemicamente vissuta – Sciascia e Guttuso”. In apertura un capoverso titola: “Sciascia dovrebbe ‘lasciare’ Racalmuto per una vacanza”. Ce ne vuole parlare?

4. R…Da estimatore dell’opera di Leonardo Sciascia, con questa provocazione ho cercato di far capire che il suo lascito culturale, la gestione della Fondazione di Racalmuto non possono divenire oggetto di una contesa non proprio esaltante e per finalità improprie, a carattere locale. Poiché questo era, nei mesi scorsi, il clima creatosi intorno al futuro stesso della fondazione. Non si poteva continuare a strattonare Sciascia a destra e a manca. Da qui l’invito a prendersi una “vacanza” magari nella sua amata Parigi. Per una fortuita coincidenza, lo scrittore a Parigi c’è “tornato”, di recente, in occasione del 30° anniversario della sua morte, accompagnato dai dirigenti dell’associazione degli “Amici di Sciascia”.

5. D. Lei è stato parlamentare per tre legislature, (’76-‘79’-83), ed è stato anche componente di diverse commissioni parlamentare, ha, quindi, vissuto i rapporti e le evoluzioni politiche di quegli anni. La domanda è spontanea: quali differenze tra la classe politica di quegli anni e quella di oggi, quali differenze di costume e di comportamento sociale.

5. R…Non mi piace fare confronti con realtà, anche umane, fra loro diverse. Ciascuno vive il tempo che gli è dato. I nostri riferimenti erano la Costituzione repubblicana (una fra le più evolute al mondo) e l’idea della politica intesa come servizio per il bene comune, con particolare attenzione ai bisogni, ai diritti dei lavoratori, dei giovani, dei ceti più deboli della società.                                    
Da allora, sono cambiate tante cose. Ciò che- a mio avviso- non doveva cambiare era il sistema elettorale proporzionale, con il voto di preferenza che consentiva all’elettore di scegliere il candidato.                                                                                       Certo, talvolta i voti di preferenza si possono controllare, comprare, ma questo malcostume può essere ridimensionato, eliminato consentendo una sola preferenza numerica.                                               
E’ intollerabile che una cerchia ristretta di capi partito e di corrente possano nominare (non eleggere) i membri del Parlamento, espropriando gli elettori del diritto di selezionare, con il voto di preferenza, la classe dirigente del Paese. 
Di questo passo, anche il Parlamento sarà travolto dalla “antipolitica” che è una politica destrorsa ben orchestrata, camuffata e finalizzata a creare confusione, qualunquismo per consentire a pochi di appropriarsi delle ricchezze delle nazioni e delle leve del potere pubblico.

6. D. Con il crollo del muro di Berlino tutto è cambiato la politica, le relazioni fra gli Stati. Dove andiamo?

6. R… In realtà, in quegli anni, é crollato il primato della politica e dello Stato, soppiantati dalle oligarchie finanziarie che si sono impossessate del potere e della sua gestione, direttamente e/o mediante le grandi catene mediatiche, i “social” e talune associazioni “riservate” o addirittura segrete capaci di penetrare i livelli apicali delle società e delle istituzioni. Lo spartiacque si fa risalire al crollo del muro di Berlino nel 1989. A ben vedere, quel muro vergognoso non è crollato sotto i colpi di coloro che si fecero riprendere dalle tv col piccone in mano, ma fu semplicemente abbandonato dai suoi costruttori e gendarmi dell’Urss e della RDT, con l’accordo degli altri Paesi del Patto di Varsavia. Sulla base - si dice- di un’intesa raggiunta tra Gorbaciov e Reagan nel loro incontro a bordo di una nave nel mare di Malta nel dicembre del 1987. Un accordo parrebbe monetizzato: si parla di circa 40 miliardi di dollari che, però, a Mosca non arrivarono, provocando l’umiliante estromissione di Gorbaciov dal potere sovietico e la fine dell’Urss.  Il resto è noto…  
   
Roma. 1982- Conferenza stampa di Yasser Arafat. Da sin.: A. Spataro, G. Benvenuto, P. Carniti, L. Lama, E. Egoli, D. Valori.
Dunque, a Berlino non crollò il socialismo (mai realizzato), ma lo “statalismo socialista” dell’Est, reso possibile dagli accordi fra gli Alleati. Trionfò il “modello" neoliberista, già dominante in Gran Bretagna e negli Usa, basato sul primato della finanza, dei mercati e su due pilastri  fondamentali: la corruzione che genera ricatto e il terrore che genera paura; entrambi usati per tenere a bada i governanti e per garantirsi il necessario consenso legittimante.                                                                                                                 
Tutto ciò fu agevolato dalla sistematica liquidazione dei partiti di massa, del ridimensionamento dei sindacati, dei loro gruppi dirigenti. Un mutamento drammatico, a tratti brutale, che travolse i principi democratici e costituzionali della sovranità e della coesione nazionale e internazionale (europea) e prodotto un potere informe, senza regole, spesso senza volto, ormai dominatore nel mondo, soprattutto nelle società d’Occidente. Un potere de-responsabilizzato che sfugge al controllo democratico e che pertanto degenera nell’abuso, nel privilegio.

6. D. Gli uomini della politica. Quelli degli anni Settanta e Ottanta, sono nella memoria di tanti. Lei ne ha conosciuti parecchi, come erano i politici di allora, mi riferisco al comportamento sociale e impegno intellettuale.

6. R…Io ebbi la ventura di far parte di alcune importanti commissioni parlamentari (Bilancio e Partecipazioni statali, Affari Esteri,  Difesa, ecc) e della presidenza dell’Associazione nazionale di amicizia italo - araba (emanazione dei tre principali partiti italiani: Dc, Pci e Psi)  e  quindi di occuparmi di problemi, di dossier davvero importanti e, pertanto, d’incontrare personalità politiche e di governo (anche straniere) di un certo rilievo: da Arafat a Gheddafi, da Kadar a Ponomariov, da Ben Alì a Saddam Hussein, ad Hafez Assad, da Elias Sarkis a C. Weinberger (segretario difesa Usa), da Bani Sadr a Ignacio Lula, ecc.                                             
Com’erano? Il giudizio lo esprimemmo al momento e caso per caso. Personalmente, diffido dal pre-giudizio o dal post-giudizio, dal senso comune. In generale si può affermare che - pur con limiti ed abusi- il livello politico e morale della classe dirigente italiana (liquidata dai processi milanesi) era ben più elevato dell’attuale.                                                 
Di là dei nomi, si dovrà ammettere che quella classe politica (dentro cui ci metto anche il Pci all’opposizione) portò l’Italia, uscita sconfitta e distrutta dalla guerra, a divenire la quinta potenza economica mondiale, mentre quelle della “seconda” o “terza” Repubblica (non si capisce bene chi le manda) stanno facendo di tutto per indebolire l’autorità, l’efficienza dello Stato democratico e antifascista, per degradare, svendere pezzi importanti del nostro tessuto economico, per svilire, asservire la nostra politica estera a interessi estranei o concorrenti, ecc.

7. D…Durante la sua esperienza parlamentare lei ha conosciuto Giulio Andreotti. Che ricordo conserva della sua azione politica, quale eco trova oggi nella nostra storia?

7. R ..Fra i personaggi incontrati quello che non sono riuscito a decifrare fu proprio l’on. Giulio Andreotti con il quale convissi per quattro anni nella Commissione esteri di Montecitorio di cui egli era presidente. D’altra parte, chi può dire di averlo conosciuto fino in fondo?                                      
Il mio primo approccio con Andreotti avvenne nel 1979 e fu assai polemico poiché riferito a una ipotesi preoccupante di impiantare a Licata (Ag) una centrale nucleare del tipo "Candu" che- si diceva- avesse contrattato con il governo canadese.(doc/ne in: http://archiviospataro.blogspot.com/)  
L'intesa ci fu ma non se ne fece nulla. Dopo questo scampato pericolo, ci vedevamo due volte alla settimana in commissione esteri. Dico subito che non fui mai amico di Andreotti né di altri esponenti politici. L'unico mio amico fu il mio partito, il Pci al quale mi sento ancora iscritto.
In commissione esteri mi trovai davanti a due visioni contrastanti di Andreotti: una, più diffusa alla base del partito, influenzata dai sospetti, dalle accuse, vere o presunte, di suoi collegamenti con personaggi in odore di mafia e un’altra, accreditata ai vertici del partito, secondo la quale l’Andreotti del dopo-Moro ( non quello di prima!) era un abile statista che, soprattutto in politica estera, riusciva a rappresentare bene gli interessi nazionali dell’Italia e la causa della pace in Europa e nel mondo. 
In effetti, in quel periodo, era l’unico politico italiano che riusciva a parlare (senza irritarli) con i principali attori della scena internazionale, anche fra loro in conflitto. 



Dall’osservatorio della commissione esteri (dove mi occupavo di mondo arabo e di Paesi mediterranei), ho più volte constatato questa sua, positiva “versatilità”. 
Anche da ministro degli Esteri, Andreotti mantenne col Pci e con noi dell’Associazione italo-araba, presieduta dal ministro dc Virginio Rognoni,un rapporto fecondo di relazione, specie su taluni dossier relativi ai rapporti con i Paesi arabi.















8..D. Insomma un Andreotti “amico degli arabi” come molti hanno detto?

8. R. Negli ambienti politici e diplomatici arabi l’on. Andreotti godeva di grande considerazione, fino al punto da ritenere una persecuzione (ispirata da centri ostili alla causa palestinese e araba in generale) le sue vicende giudiziarie relative a fatti di mafia.       A tal proposito, ricordo una difficile discussione tra i dirigenti dell’associazione italo-araba e gli ambasciatori arabi in ordine alla preparazione della visita in Italia (1998) di Yasser Arafat e del pranzo in suo onore (presso l’Hotel Excelsior di Roma), al quale la parte araba proponeva d’invitare l’on. Andreotti, in quel momento nell’occhio del ciclone giudiziario. Noi suggerimmo di soprassedere, di non estendere l’invito per ragioni di “opportunità”. Gli ambasciatori minacciarono di annullare il pranzo. 
L’on. Andreotti, probabilmente informato dai suoi, fece sapere di essere “costretto a letto” per ragioni di salute.  Una provvidenziale malattia che chiuse il confronto nel migliore dei modi. 
Roma, 1998. Hotel Excelsior – Agostino Spataro accolto da Yasser Arafat
                                                                              
Qui mi fermo.  Aggiungo che, per quanto a me consta e sulla base degli atti, in quel periodo, Andreotti diede un contributo rilevante alla politica estera italiana e alla iniziativa di pace in Europa e nel mondo arabo/mediterraneo, dove c’era grande apprensione per l’installazione degli “euromissili" nucleari dell’Est e dell’Ovest. In Sicilia, a Comiso, erano stati installati i “Cruise”.  Anche per queste ragioni partecipai ai suoi funerali, seppure confuso tra la folla assiepata davanti la chiesa di San Giovanni de’ Fiorentini…”

9. D. Non possiamo tralasciare di commentare un grosso problema, un evento che sta ogni giorno sulle pagine dei giornali quotidiani: l’immigrazione. Esodi che pongono problemi sociali gravi. Si avverte anche, in molti, un senso di compassione per quanto avviene, di ansia, un stillicidio di tragiche notizie. Vi sono soluzioni?  Non possiamo rimanere a contare gli annegati e i salvati.

9. R….. Esatto. L’Italia e l’Europa appaiono come quelli cui è stato passato il cerino acceso e lo guardano bruciare, impotenti, anche a rischio di bruciarsi le dita.                                                        
Personalmente, seguo il fenomeno dell’immigrazione fin dai suoi inizi ossia dai primi anni ’80, sia a livello parlamentare sia con articoli e libri che ne hanno illustrato le caratteristiche, i problemi e proposto le soluzioni possibili che- a mio parere- dovrebbero essere basate su trattati bilaterali e multilaterali fra Stati e fra l’Unione Europea e i Paesi di provenienza per regolamentare, governare i flussi secondo le esigenze reciproche.                                                                                                                      Ovviamente, agivo per conto del Pci (allora diretto da Enrico Berlinguer) che fondava la sua politica dell’immigrazione su due principi essenziali: accoglienza nella solidarietà e lotta ai profittatori che gestiscono i flussi clandestini. 
La nostra proposta di legge (del 1981) era contraria all’immigrazione clandestina  e propugnava il pieno riconoscimento dei diritti degli immigrarti regolari e delle loro famiglie, per i quali chiedevamo gli stessi diritti (e doveri) richiesti per i nostri emigrati  sparsi per il mondo. La proposta non fu nemmeno discussa in Parlamento perché ritenuta “poco conveniente” dai ceti imprenditoriali che preferivano (come oggi del resto) l’immigrazione  clandestina onde potere sfruttare a sangue gli immigrati e ridurre, a questo modo, il costo del lavoro per acquisire una certa competitività sui mercati.                        
Parliamoci chiaro- come scrivo nel mio, recente “Immigrazione, la moderna schiavitù”- in Italia e altrove non si vogliono lavoratori immigrati regolari, ma “schiavi” clandestini da sfruttare oltremisura.

10 . D. Il suo  recente articolo, pubblicato su montefamoso.blogspot.com, apre con un magnifico incipit: “I popoli latino-americani sembrano aver preso coscienza dei loro diritti e delle loro ricchezze naturali, minerarie e agricole strategiche che vogliono mettere al servizio del loro sviluppo”. Praticamente c’è tutto. Vuole commentare?

10 .R…. Dall’inizio del nuovo secolo, lo scenario latino-americano (dal Messico all’Argentina) è attraversato da forti movimenti politici progressisti, etnici e culturali che hanno provocato la  crisi del  potere delle oligarchie neo-colonialiste e favorito un relativo recupero della  sovranità dei popoli (specie indigeni) sulle risorse strategiche nazionali.                                 Tale mutamento è avvenuto col voto democratico e non con la forza bruta delle dittature militari. Il caso della Bolivia di Evo Morales é davvero emblematico e per questo l'hanno fatto saltare.                 
Le oligarchie, non potendo reggere il confronto elettorale, pensano di riconquistare le posizioni mediante " colpi di stato” parlamentari ( come in Paraguay e in Brasile), con inchieste giudiziarie mirate (Argentina e Brasile) e con farseschi personaggi “auto proclamatisi”  presidenti (in Venezuela e recentemente in Bolivia) in nome della difesa dei “diritti umani e politici” che stanno violando e calpestando, impunemente.                                
Nell’ultimo trentennio del ‘900. l’America Latina fu trasformata in una tragica distesa di sanguinarie dittature militari generate e coordinate nell’ambito del famigerato “Piano Condor” elaborato dalla Cia e dai dipartimenti Usa: Cile, Argentina, Brasile, Bolivia, Uruguay, Nicaragua, Panama, San Salvador, Honduras, Guatemala, ecc.                          
Il crollo avvenne sull’onda delle lotte dei movimenti di resistenza popolari e del mutato scenario internazionale. Nel sub-continente si affermarono, con il voto libero e democratico, governi progressisti che tentarono (con buoni risultati) di rendere giustizia alle vittime (centinaia di migliaia) e di riappropriarsi delle loro risorse naturali (minerarie, agricole, idriche, ambientali, ecc).                
Fu avviata una nuova politica economica che produsse una crescita sostenuta del PIL, un buon rientro dal debito estero e, soprattutto, una più equa redistribuzione della ricchezza, a favore dei lavoratori e dei ceti più deboli.                                                      

11 D. Oggi, cosa sta accadendo di preciso in America latina?

11. R.  Purtroppo, è in atto la controffensiva neoliberista, di tipo reazionario. Le conseguenze sono già pesanti. La situazione é drammatica. Lo ha detto anche Papa Francesco - argentino e primo pontefice latinoamericano- di ritorno dal suo recente viaggio in Giappone- “ La situazione attuale in America Latina somiglia a quella del 1974-1980, in Cile, Argentina, Uruguay, Brasile, Paraguay con (Alfredo) Stroesner e credo anche Bolivia… (da  giornale "El Tiempo” di B. Aires)
     
Brasile 2012- A. Spataro relatore al Forum Social di Porto Alegre.
                                                                                                           
Certo, il pericolo di un ritorno a soluzioni autoritarie esiste, anzi è in atto, stavolta (fatto inedito!) con il sostegno delle varie chiese evangeliche (di emanazione nord-americana) che mietono enormi consensi in Paesi a fortissima tradizione cattolica.                                          Tuttavia, non sarà facile attuare il disegno reazionario. I popoli non si rassegnano al passo indietro, come dimostrano le recenti vittorie elettorali di Alberto Fernandez in Argentina e di Evo Morales in Bolivia. 
Inoltre, quasi a far da contrappeso agli "evangelici" sembra essersi svegliato “il gigante dormiente“ latinoamericano ossia il variegato mondo dei  popoli indigeni, i "nativi" che sono qui da almeno 30 millenni e che oggi che si ribellano agli eredi dei colonialisti spagnoli, portoghesi, ecc, che li dominano da mezzo millennio. 
E questa - mi sembra- la vera novità che si profila all'orizzonte, che  potrebbe segnare la liberazione definitiva dei popoli oppressi e discriminati in  questa importante regione  del Pianeta.   

Agrigento, 25/4/74- Veduta parziale della folla in piazza Stazione mentre parla E. Berlinguer






lunedì 18 novembre 2019

L’EUROPA DEI QUATTRO MARI

 Dall’Atlantico al Pacifico, dall’Artico al Mediterraneo.

di Agostino Spataro *

                                  L’Euro-Russia (in bianco)      

 L’utopia possibile
“L’esemplare di questa nostra Città sta forse nel cielo, e non è molto importante che esista di fatto in qualche luogo; a quell’esemplare deve mirare chiunque voglia, in primo luogo, fondarla dentro di sé.”  Platone in “La Repubblica”

Una Europa senza la Russia sarebbe debole e incompleta. Con Putin o senza Putin. Il problema non è personale (gli uomini passano), ma progettuale.  "Due Rome sono cadute, la terza resiste ma non ve ne sarà una quarta."                                            

1… Scusate se insisto, ma la questione che mi accingo a riproporre mi sembra ineludibile e anche matura per essere affrontata, in piena indipendenza politica e di giudizio, nell’esclusivo interesse della pace e della prosperità condivisa, in Europa e nel mondo.                                                             
Mi riferisco al futuro dell’Unione europea dalla cui crisi non si esce con meno Europa, ma con più Europa. Ossia con l’avanzamento e il riequilibrio del processo unitario sulla base di un progetto di riforma, politica, sociale e istituzionale, con l’allargamento possibile per realizzare un Terzo polo dello sviluppo mondiale, inteso non come una nuova entità egemone, ma come soggetto fautore di pace, di democrazia e di una crescita compatibile e diffusa nel mondo. E, in primo luogo, con l’allargamento (anche sotto forma di associazione) alla sterminata Russia che, prima o poi, dovrà scegliere fra Europa e Cina. A mio parere, un’Europa senza la Russia sarebbe debole e incompleta. Con Putin o senza Putin. Il problema non è personale (gli uomini passano), ma progettuale.                   
Un’ipotesi che, se attuata, potrebbe modificare radicalmente la prospettiva delle nostre relazioni con la Russia: dalle tensioni attuali, dal possibile conflitto (da evitare ad ogni costo) alla cooperazione, all’integrazione, all’unione.                                                                                                              
Ovviamente, la sua realizzazione va programmata e attuata nel medio/lungo termine e tenendo conto degli sviluppi, e delle conseguenze, degli accordi per il "Nuovo ordine internazionale" (quale?). E senza lasciarsi troppo influenzare dalle “contingenze” ossia dai personaggi, dai metodi e dalle circostanze politiche e militari attuali che in quella prospettiva verrebbero superati. In ogni caso, cominciarne a parlare aiuterebbe la distensione e la comprensione reciproca fra i diversi soggetti in campo.

 Gli Stati dell’Unione Europea

 2… Nel nuovo scenario (in formazione),  l’Unione europea, barcollante e squilibrata al suo interno, rischia di apparire un “continente” in bilico, alla deriva. Vincolata a una Nato sempre più rispondente agli interessi del pilastro Usa e, anche per questo, entrata in una fase di “morte cerebrale” come ha diagnosticato – nei giorni scorsi - il presidente francese Macron.                                                             
Il problema esiste, E’ inutile girarci intorno. D’altra parte, l’Europa, da sola, difficilmente potrà uscire da tale, precaria condizione e garantirsi la sicurezza e un futuro stabile; dovrà aggregarsi e creare un nuovo polo (il terzo) dello sviluppo mondiale.                                                                           
Aggregarsi a chi? Gli Usa sono lontani e i loro interessi non sempre comba­ciano con quelli europei; l’ipotesi del partenariato euro-mediterraneo (accordi di Barcellona del 1995) è stata fatta fallire per volontà degli Usa e per subalternità francese.                                                                                           
Non resta che la Russia, un Paese- continente, di prevalente cultura europea, che dispone di territori ster-minati e di enormi riserve energetiche e metallifere, di boschi, di acque, di terre vergini, di mari pescosi, ecc. Evito ogni riferimento agli arsenali militari nucleari che però esistono e vanno ridimensionati, liquidati in tutto il mondo mediante serie trattative che fermino la corsa agli armamenti e giungano a un disarmo generale e controllato.                                                                                                  
                                                                               
Risorse importanti, strategiche quelle russe che, unite al grande patrimonio europeo (tecnologie, saperi, scienze, professioni, tradizioni democratiche, ecc), potrebbero costituire il punto di partenza per dare vita a “EuroRussia” ossia a una nuova “macro regione” (dall’Atlantico al Pacifico, dall’Artico al Mediterraneo) che bandisca la guerra dalle sue prospettive e riesca a proiettare una forte iniziativa di cooperazione economica, di aiuto allo sviluppo eco-sostenibile, di difesa effettiva dei diritti umani, ecc.  In primo luogo verso l’Africa e il mondo arabo, realtà con le quali ci dobbiamo chiarire e riconciliare

3… L'obiettivo é quello di un mondo multipolare (a tre, a quattro, a cinque, ecc.) aperto, cioè, alle nuove realtà in formazione (economiche e demografiche) che si delineano anche nell'emisfero Sud (australe). 
Un obiettivo possibile a
nche se, allo stato, é prevedibile che per un certo periodo le superpotenze economiche e militari, i centri di comando del “nuovo ordine internazionale” saranno basati nell’emisfero boreale (Nord) del Pianeta. I Sud del mondo continueranno, in larga misura, a importare e a consumare prodotti delle multinazionali e a fornire braccia e materie prime, a basso costo, alle economie del Nord. 
Se così dovessero
restare le cose, il gioco sarà fatto da Usa e Cina che, nonostante le loro cicliche polemiche, sono vincolate da un legame assai forte d'interdipendenza commerciale e finanziaria e pertanto "condannate" a trovare un compromesso, anche a spese di altre regioni del mondo.                                                                  Addirittura, non è da escludere che, nel medio termine, possano giungere a un accordo strategico di bi-partizione del mondo, per aree d’influenza. La Cina sostituirebbe il vecchio ruolo svolto dall’URSS fino al 1991. Un nuovo bipolarismo!                                                                                                                              Questa"vecchia" Europa (come la chiamano certi esponenti del potere Usa) diventerebbe (già lo é) il terzo incomodo, un intralcio a tali disegni, perciò la vogliono indebolire, frazionare, liquidare come entità politica ed economica autonoma.                                     
Qualcuno vorrebbe eliminarla anche come espressione geografica, degradandola da continente a una mera appendice dell’Asia. Sarebbe la fine.                                                                                                                    Una fine drammatica come quella temuta dal monaco ortodosso Filofej che, nel 1523, chiamò Mosca la ”terza Roma”, (definizione usata anche da F. Braudel) ossia l’ultimo baluardo della cristianità, dopo Roma e Costantinopoli, quest’ultima da poco caduta in mano ai turchi ottomani, implorando il suo principe a reagire alla decadenza: “Due Rome sono cadute, la terza resiste ma non ve ne sarà una quarta”.                  Parafrasando le parole del monaco e applicandole alla breve storia dell’Europa comunitaria potremo dire che le prime due Europe (Mec e Cee) sono cadute, la terza (l’U.E.) resiste, ma- di questo passo- "non ve ne sarà una quarta”.


La Federazione Russa


                                  
Per l'Europa si delinea uno scenario fosco, drammatico che può essere ancora evitato, risparmiato ai popoli europei solo se vorranno rafforzare, completare, estendere la loro Unione. Sarebbe questo l'antidoto più efficace per vanificare gli insani progetti.                                                                                                             L' U.E si potrà salvare, e rilanciare, se saprà proporsi come entità autonoma di pace e di cooperazione solidale con i Paesi del Sud, anche per contenere i flussi migratori clandestini che- a lungo andare- potrebbero determinare situazioni assai critiche e difficilmente governabili. 
L’Europa dovrà accogliere i migranti legalmente ossia sulla base di accordi, multilaterali e bilaterali, con i Paesi d’origine.

4… Si potrebbe, dunque, schiudere un nuovo orizzonte per l’Unione Europea fondato sull’allargamento ad Est, a popoli e Paesi che vantano comuni basi e/o affinità culturali e mostrano interesse per una convivenza democratica e socialmente equa.                                                                                                                           L’alternativa a tutto ciò sono la frammentazione e la deriva  populistica/ nazionalistica.                                    Se dovessero dilagare le “uscite “ (alla Brexit per intenderci), gli “indipendentismi”, dichiarati e/o latenti, il nostro Continente verrebbe spezzettato in una miriade di micro stati che ne scardinerebbero la sua unità fisica, economica e culturale. La fisionomia acquisita con il trattato di Westfalia.                                               In pratica, sarebbe cancellata una civiltà che, più nel bene che nel male, dura da oltre tremila anni. Questo sembra essere l’obiettivo, ormai conclamato, di talune superpotenze (gli Usa di Trump in particolare) e delle forze anti-europeiste, sfasciste e destrorse, italiane ed europee.     
In questa fase, il vero pericolo per l’Europa non è il fascismo, ma lo sfascismo. Non é un gioco di parole. Se passa lo sfascismo può arrivare un nuovo fascismo.                                                                      
E’ superfluo ricordare che tali fratture provocherebbero gravi conseguenze per la convivenza pacifica e per il futuro dei popoli e dei livelli di benessere mai raggiunti prima.                                                                                 In particolare:                                                                                                                                                         1) segnerebbero la fine del progetto di Unione Europea che bisognerebbe accelerare, facendolo uscire dalle secche di una sudditanza alle politiche neoliberiste e  meramente mercantiliste ;                                                                  
 2) potrebbero trasformare l’Europa in uno sterminato campo di battaglia; dopo 75 anni di pace potrebbero tornare l’instabilità permanente, i conflitti locali, perfino la guerra;                                                                                                                                                                    3) l’Europa, divisa e indebolita, sarebbe percepita come una “pingue preda” che scatenerebbe i più ingordi appetiti e disegni di conquista.

5... Certo, nella UE vi sono tanti problemi irrisolti. Tuttavia, nessuno dei suoi popoli è oppresso: ci sono libertà, democrazia, autonomie, culture.                                                                                                                Pertanto, non abbiamo bisogno di staterelli consegnati nelle mani di piccoli satrapi locali, della criminalità organizzata, di magnati della finanza, cc.                                                                                                             
Per uscire dalla crisi più unita e più forte e socialmente più giusta, l’Unione deve darsi nuove politiche sociali armonizzate con i bisogni e i diritti dei suoi popoli e non con gli interessi delle oligarchie finanziarie.           Deve essere superata l’assurdità di un Parlamento europeo eletto dai popoli ma privo di effettivi poteri legislativi e di una Commissione, nominata dai capi di stato, che accentra quasi tutte le competenze di governo e di spesa e i poteri d’indirizzo politico.                                                                                                                                       Infine, uno sguardo ai territori più svantaggiati e/o trascurati, nei quali si gioca la credibilità del processo unitario. I vari Sud, le “periferie” d’Europa dovranno essere pienamente integrati sulla base di una seria riforma dei meccanismi di ripartizione delle risorse finanziarie e delle competenze che favorisca un rapporto più diretto fra l’auspicato “governo europeo” e le realtà regionali.

Budapest, 19 novembre 2019.