domenica 29 dicembre 2013

AUGURO A TUTTI, SOPRATTUTTO AI NEONATI, UN NUOVO ANNO DI API

AUGURO A TUTTI, SOPRATTUTTO AI NEONATI, UN NUOVO ANNO DI API. LA NOSTRA STUPIDA (IN)CIVILTA' DEL PROFITTO LE STA DISTRUGGENDO. E SENZA LE API NON CI SARA' VITA SUL PIANETA. Agostino Spataro (Ape impollinatrice dentro un fiore di cappero sulla terrazza di casa mia) Se ne avete voglia date un'occhiata a questo recente articolo del Corriere della Sera: http://www.corriere.it/scienze/13_novembre_15/api-rischiarano-fine-dinosauri-65-milioni-anni-fa-3d141374-4df9-11e3-a50b-09fe1c737ba4.shtml

sabato 28 dicembre 2013

IL KALASHNIKOV E' DI SINISTRA?

di Agostino Spataro 1… Lo scorso 23 dicembre è morto, all’età di 94 anni, Mikhail Kalashnikov inventore dell’omonimo fucile. Per tale “merito”, egli fu insignito per ben due volte del titolo di “eroe del lavoro socialista” dell’Urss e di “eroe della Russia” di Putin. Pur col rispetto dovuto al fervore patriottico del suo inventore, c’è da restare quantomeno perplessi per questo triplice riconoscimento che due regimi ideologicamente contrapposti hanno conferito all’ideatore di un terribile strumento di morte divenuto l’arma più diffusa nel mondo. Sul kalashnikov (AK-47) si sono dette e scritte tante cose. Taluni, muovendo dal fatto che essendo stato assegnato in dotazione alle forze dei Paesi ex socialisti e ai reparti di resistenza e/o di guerriglia, sono giunti a etichettare questo fucile come una sorta di “arma di sinistra”. Oggi, specie dopo il crollo del blocco sovietico, tale definizione appare, a dir poco, impropria poiché il kalashnikov, in parte superato da nuove tipologie e tecnologie, viene usato diffusamente anche dalla criminalità organizzata e da gruppi terroristici integralisti religiosi che con la sinistra non hanno nulla a che fare. Ovviamente, per sinistra s’intende quel complesso di partiti e movimenti che vogliono effettivamente cambiare lo stato di cose presente e non certa “robetta” scaduta, oggi prevalente in Italia e in Europa, ma anche in Cina, che vorrebbe contrabbandare come riformismo socialista la propria subalternità al dio mercato e al grande capitale finanziario che lo domina. E qui mi fermo, poiché desidero parlare del kalashnikov in base al ricordo di un’esperienza vissuta (nel 1981) nel deserto del Sahara Occidentale . 2… Fu qui, infatti, che vidi, per la prima volta, quest’arma cucita addosso ai guerriglieri saharoui che ci scortavano in quel viaggio, lungo e accidentato, intrapreso, in compagnia di altri parlamentari italiani, su invito del Fronte Polisario che lottava, (ancora lotta) per l’autodeterminazione del suo popolo. Il programma della nostra missione consisteva in visite ai campi profughi dov’erano ammassati decine di migliaia di saharoui (soprattutto donne, bambini e vecchi), in colloqui con i principali dirigenti del Fronte e in un sopralluogo a Guelta Zammur, una collinetta fortificata al confine con il deserto mauritano considerata strategica poiché sovrastava una sorgente (guelta) d’acqua chiara, l’unica in quella desolata regione. Sapevamo che per possesso di tale “guelta” si erano affrontati, un mese prima, le forze regolari marocchine che la presidiavano e reparti combattenti del Polisario che sostenevano di averla conquistata. Una vittoria contestata, negata (dalle autorità marocchine) che la delegazione parlamentare andava a certificare mediante una constatazione de visu. Nella battaglia erano caduti, da entrambi le parti, centinaia di combattenti a molti dei quali non fu data nemmeno una degna sepoltura. Vedemmo corpi, pezzi di corpi umani, affiorare, semisepolti, dal sottile strato di sabbia che li copriva. Migliaia di morti per una conca d’acqua che, quasi per una beffa del destino, non era più potabile poiché era stata avvelenata dai marocchini in ritirata. Noi stessi, per dissetarci, dovemmo raggiungere un pozzo posto a circa cento km di distanza. 3… Le jeep filavano dentro quel deserto piatto e brullo. A parte un paio di pastori, secchi e scuri come una carruba ragusana, non incontrammo in quel lungo cammino altre tracce d’umanità. La notte si dormiva all’addiaccio, sotto un tetto di vivide stelle, ognuno dentro un fosso ch’egli stesso s’era scavato nella calda sabbia per combattere gli effetti algidi dell’escursione termica. Ogni tanto una sosta per sgranchirci le gambe. Intorno al pentolino del the si fraternizzava con quei giovani guerriglieri che non si staccavano un attimo dal loro fucile d’ordinanza. Ci parlarono, con un entusiasmo quasi sportivo, della recente battaglia e del kalashnikov come del fucile più efficiente in circolazione: leggero, duttile e preciso “ riusciva a colpire- dissero- con micidiale precisione, un bersaglio posto a 700 metri”. Vista la nostra assoluta incompetenza in fatto di armi, i fedayn- per risultare più convincenti- ci proposero di provarlo. Quasi a dire: provare per credere. Anch’io tirai un colpo per curiosità, quasi per gioco. Una mattina, addirittura, imbracciai il fucile, così per celia, per indurre l’on. Tessari a fare le abluzioni mattutine. (vedi foto sotto) Tuttavia, per quanto nobili fossero le ragioni della loro lotta, quell’elogio un poco mi atterriva, specie dopo aver visto tutti quei corpi semisepolti. Immagini indelebili, ossessive che s’intrecciavano con quelle delle cataste di armi e di mine antiuomo e anticarro affastellate sul pianoro. La zona tutt’intorno alla sorgente, infatti, era minata. Gli sminatori avevano aperto un corridoio per consentire il nostro passaggio. Per tutto il tragitto di avvicinamento ci era stato caldamente sconsigliato di abbandonare lo stretto corridoio sminato da poco. 4… Tutti questi rischi per una conca d’acqua? Interrogativi intimi, pensieri nascosti, forse da tutti condivisi ma inespressi. Non riuscivo a liberarmi di quel funesto assillo, di quella mortifera relazione fra il fucile e quei corpi, quegli arti inanimati. Sentivo, forte, una sensazione di repulsione, di sgomento per l’infamia delle armi verso le quali nutrivo un’innata avversità. Contrarietà che diventerà rifiuto dopo aver percepito meglio, più distintamente, come membro della commissione difesa della Camera dei Deputati, gli intrecci perversi, spaventosi, e assai lucrosi, esistenti fra produzione, commercio e uso delle armi. Oggi, il tempo vissuto, le lotte pacifiste e le tragiche conseguenze delle guerre in corso mi hanno convinto dell’inutilità delle armi ai fini della lotta politica, del ricorso alle guerre anche quelle cosiddette “umanitarie” o “fraterne” e di ogni forma di terrorismo (rosso, nero, verde, ecc) che della guerra è la degenerazione più odiosa. Per progredire, l’umanità ha bisogno di pace e di solidarietà! Storicamente, la sinistra italiana edeuropea si è sempre ispirata alla pace, ha rifiutato la guerra e il metodo terroristico. A maggior ragione oggi in situazioni dove sono garantite le libertà fondamentali (di voto, di espressione, di associazione) l’unica “arma” è la scheda elettorale. Bisogna solo saperla usare. 5… Nel passato, talvolta, abbiamo sottostimato, perfino deriso, certe esperienze basate sulla “non-violenza”. A mio parere, oggi, è tempo di ricredersi e di assumere quel metodo di lotta politica come uno dei valori fondanti della nuova sinistra che, prima o poi, rinascerà dalle ceneri dell’impantanata sedicente sinistra attuale che, pur essendo al governo, non riesce (non vuole) a bloccare certe forsennate spese militari. Ovviamente, sappiamo che è difficile parlare di non-violenza a chi lotta contro un’occupazione straniera o contro una crudele dittatura per affermare i diritti all’indipendenza e alla libertà dei popoli. Tuttavia, secondo i casi, la non-violenza potrebbe essere la soluzione. La lotta dell’India di Gandhi è davvero emblematica. D’altra parte, il conflitto del Sahara Occidentale dura dal 1976 con i marocchini barricati dietro un lunghissimo muro di sabbia (un'altro muro di cui nessuno parla!)che segna il confine del cd. “triangolo utile” e i saharoui “padroni” della restante parte del Paese ossia del vasto ed arido deserto nel quale hanno insediato il loro simulacro di Repubblica araba saharoui democratica (Rasd). Da oltre 30 anni, nessuno dei due contendenti riesce a prevalere militarmente sull’altro, mentre la “comunità internazionale” cincischia, rinvia, non riesce a imporre una soluzione politica secondo i principi della Carta dell’Onu. Un conflitto dimenticato che dilania un popolo altrettanto dimenticato, nel quale si confrontano aspirazioni legittime e avide pretese sub imperialiste che stanno portando l’Africa alla deriva, alla completa rovina. Insomma, nel Sahara occidentale, come in tante altre realtà conflittuali, si è dimostrato che il kalashnikov non ha reso l’indipendenza al popolo saharoui. Checché se ne dica delle sue favolose virtù micidiali, il kalashnikov non è la soluzione. In ogni caso non può essere etichettato di sinistra o di destra, è solo un’arma che, al pari di tutte le altre, va bandita. (Agostino Spataro) 27 dic. 2013

venerdì 27 dicembre 2013

QUANDO I CLANDESTINI SICILIANI SBARCAVANO IN TUNISIA

di Agostino Spataro 1... C'era un tempo, non molto remoto, in cui erano i "disperati" siciliani ad attraversare le acque del Canale di Sicilia per emigrare nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo: in Tunisia, Libia, Egitto, Marocco, Algeria. Un percorso inverso rispetto all'attuale intrapreso dalle migliaia d'immigrati arabi e africani i quali, come i nostri di allora, fuggono dalla miseria e dalle guerre. Chi desidera documentarsi o semplicemente rinfrescarsi la memoria, può attingere una vasta e variegata bibliografia, inchieste sociologiche e giornalistiche, memorie e testimonianze di grande interesse. Sull'emigrazione siciliana in Tunisia, Stefano Savona, giovane regista palermitano, ha realizzato un cortometraggio "Un confine di specchi", premiato al 20° Torino Film festival edizione 2002. Esiste, inoltre, una letteratura (in gran parte in francese) dell'emigrazione europea e siciliana nel Maghreb. E ricercando fra questi materiali si trovano tantissimi riferimenti all'emigrazione siciliana nel nord Africa, in particolare in Tunisia, iniziata a partire dal 1835, in piena epoca borbonica, col trasferimento di alcuni gruppi di tonnaroti e di corallari (soprattutto trapanesi) in diverse località costiere tunisine e algerine, a pesca di tonni e del pregiatissimo corallo. (vedi: Giuseppe Bonaffini-"Sicilia e Maghreb tra Sette e Ottocento", Salvatore Sciascia Editore) Da emigrazione "specializzata" (che detto per inciso operava in condizioni di vita e di lavoro davvero disumane) i trasferimenti acquistarono le dimensioni di veri e propri flussi migratori; a partire dagli anni 70 dell'800, quando la presenza degli italiani, incoraggiata dal Trattato della Goletta (1868), veniva stimata fra gli 11 e i 25 mila. Anche allora era difficile censire gli immigrati, perché in maggioranza erano clandestini. Esattamente come accade oggi in Italia. 2... Nel 1870, il 94% dell'emigrazione siciliana era orientata verso la Tunisia- sostiene A. Grisafi.- I 4/5 della colonia italiana in Tunisia erano d'origine siciliana. Già nel 1860, nella sola città di Tunisi - rileva F. Arnoulet- su una popolazione stimata in centomila abitanti, vi erano fra 3 e 4 mila siciliani, 6-7 mila maltesi (anch'essi di origine siciliana) e solo 600 francesi. Un richiamo specifico va dedicato a Lampedusa, divenuta uno dei simboli di questo dramma universale, sperando di far riflettere quanti nella piccola isola pelagica manifestano disagio o aperto rifiuto rispetto all'emergenza immigrati che, in quanto tale, non dovrebbe durare in eterno. E va citato quel ristorante, pardon a quella titolare di ristorante che si è schierata a fianco dei leghisti Bossi e Borghezio in questa poco esaltante battaglia d'inciviltà. Anche se temo che sarà un'impresa ardua far riflettere un "ristorante" alla ricerca di clienti facoltosi. "Ad Hammamet, la popolazione italiana era composta unicamente d'emigrati originari dalle isole di Pantelleria e Lampedusa. Essi vivevano di pesca ed erano anche proprietari di frutteti e vigneti dai quali traevano un reddito apprezzabile?" Basterebbero queste poche righe, tratte dal libro dello storico tunisino Mustapha Kraiem ("Le fascisme et les italiens de Tunisie, 1918-1939") per aiutare a ricordare quanti non sanno, o fingono di non sapere, che negli anni venti e trenta del '900 erano lampedusani e, più in generale, siciliani, sardi, calabresi e perfino toscani e genovesi gli emigranti che sbarcavano sulle coste della Tunisia e d' altri Paesi del nord- Africa per sfuggire alla miseria, alle guerre e alle repressioni del fascismo imperante in Italia. "Gli immigrati italiani- si legge nell'inchiesta condotta, fra il 1918-20, da Arthur Pellegrin- sono circa 100 mila e appartengono in gran parte alla classe lavoratrice e analfabeta. La maggioranza sono originari dalla Sicilia e dalla Sardegna. I loro costumi, in particolare quelli dei siciliani, sono un po' rozzi e violenti. Nella loro evoluzione mentale sono più passionali che razionali?" (citato da Guy Dugas, Università Paris 12, www.limag-refer.org) 3... Come si vede anche i nostri erano classificati rozzi, analfabeti, violenti, sporchi ecc, ecc. Addirittura, la propaganda xenofoba francofona coniò un odioso slogan "le peril italien" per indicare la presenza degli immigrati italiani come un rischio per la convivenza pacifica di quelle popolazioni e perfino per la stabilità politica di quei regimi sotto tutela francese. In particolare i siciliani erano dipinti come "criminali incalliti, irascibili, imprevedibili, violenti e molto pericolosi nella loro maggioranza gli europei della Reggenza e la popolazione tunisina accettarono questa rappresentazione negativa dell'elemento siciliano. Il luogo comune del siciliano bellicoso, armato di coltello o di revolver, che uccide per futili motivi rimase fisso nel tempo" (Alì Noureddine: "Le cas de la "criminalità sicilienne"- Sousse 1888-98). Per altro, va dato atto a Noureddine di avere, col suo pregevole saggio, tentato di demolire la falsa rappresentazione del siciliano "violento e arretrato". Si trattava, infatti, di un'ingiusta generalizzazione, di uno stereotipo artatamente gonfiato e diffuso dalla propaganda razzista che fece presa sulla maggioranza della popolazione tunisina per un lungo periodo. A pensarci bene, quanti stereotipi anti-immigrati si stanno diffondendo in Italia, in particolare nelle regioni ricche del nord che sono quelle che più sfruttano, a loro esclusivo vantaggio, la presenza degli immigrati. In buona sostanza, la xenofobia, espressione di un egoismo gretto e ignorante solitamente al servizio d'interessi economici forti e sovente poco leciti, ha usato sempre e dovunque lo stesso linguaggio, le stesse immagini distorte e le medesime tecniche di comunicazione e di persuasione. Rileggere queste cose, dette e scritte più di un secolo addietro contro i siciliani, e come leggere oggi quanto scritto e detto dai giornali e dai massimi esponenti della Lega Nord contro gli arabi e gli africani immigrati in Sicilia e in Italia. Tuttavia, fra le due esperienze si può rilevare una differenza nella qualità del trattamento e nelle opportunità d'inserimento nella società d'accoglimento, certamente più favorevole ai nostri, allora, emigrati in Tunisia. 4... La numerosa colonia italiana, distribuita lungo tutta la costa tunisina, era adeguatamente tutelata da accordi di cooperazione bilaterali stipulati sia con le autorità ottomane sia, a partire dal 1870, con quelle francesi che esercitavano il "Protettorato". Gli italiani in Tunisia disponevano di una efficiente organizzazione economica e finanziaria, di una camera di commercio (fondata nel 1884), di alcune banche fra le quali la "Banca siciliana" e di una rete culturale e assistenziale di tutto rispetto: un quotidiano (l'Unione), teatri, librerie, cinema, un ospedale italiano, scuole di vario ordine e grado e numerosi enti di beneficenza. Non mancava nulla: persino una loggia massonica "Concordia" fu creata a Tunisi durante il ministero di Francesco Crispi, con l'intento di far fronte alla preponderanza francese. I nostri emigranti erano in gran parte braccianti e contadini poveri, pescatori, artigiani, minatori, manovali, piccoli commercianti, ecc; tutta gente di fatica che fuggiva dalla miseria e dalla disoccupazione del sud e delle isole. E qualcuno anche dalle patrie galere. Cercavano l'America in Tunisia e molti la trovarono fra i vigneti, nelle miniere di bauxite e nei fondali pescosi. Nonostante il fatto che il governo di Parigi incoraggiasse la "naturalizzazione" di migliaia di nostri emigrati in Tunisia, gli italiani erano molto più numerosi dei francesi: nel censimento del 1926, su una popolazione europea di 173.281 abitanti, figuravano 89.216 italiani, 71.020 francesi, 8.396 maltesi, ecc. (in Moustapha Kraiem, op.cit.). Una prevalenza anomala che fece scrivere a Laura Davi (nelle sue "Memoires italiennes en Tunisie") che "La Tunisia è una colonia italiana amministrata da funzionari francesi". A parte queste eloquenti statistiche, c'è da aggiungere che i siciliani in Tunisia, oltre ad essersi bene integrati nel tessuto economico, vissero quella esperienza in un clima di reciproco rispetto, di tolleranza e di solidarietà con i locali. Vi sono, ancora oggi, a Tunisi, a Sousse, a Madia, a Sfax, quartieri dove si possono riscontrare i segni di questa feconda convivenza, anche sul terreno difficile delle religioni. La Goulette, la cittadina balneare fra Tunisi e Cartagine, era chiamata "la piccola Sicilia" poiché era stata creata (un po' abusivamente in verità) dai siciliani provenienti dalle province di Trapani, di Palermo e di Agrigento i quali crearono un idioma tutto loro: un arabo infarcito di siciliano, tuttora usato come lingua locale. In questa bella e solare cittadina nacque, da genitori trapanesi, Claudia Cardinale che nel 1956, a Tunisi, fu incoronata reginetta italiana e in questa veste partecipò al concorso di Miss Italia, da dove spiccò il volo verso una fantastica carriera cinematografica. Memore di tutto questo e d'altro, la Sicilia, democratica e solidale, deve contribuire a risolvere il problema degli immigrati, anche per evitare che si affermi una pericolosa visione xenofoba, al limite razzista, che non rende onore al suo passato e al suo (purtroppo) presente di terra d'emigrazione. In "La Repubblica", Palermo 28.6.2003

lunedì 16 dicembre 2013

IL PAPA NON SI OFFENDE SE LO CHIAMANO MARXISTA, MOLTI (ex) MARXISTI INVECE SI

IL PAPA NON SI OFFENDE SE LO CHIAMANO MARXISTA, MOLTI (ex) MARXISTI INVECE SI 16 dicembre 2013 alle ore 19.52 Ma che strano! In Vaticano c'è un Papa, Francesco, il quale, pur considerando sbagliata l'ideologia marxista (e non potrebbe fare diversamente), dichiara, nella sottostante intervista, di non sentirsi offeso se qualcuno lo chiama marxista. In Italia, ci sono tantissimi (ex) marxisti che, invece, si offendono, anche di brutto, se qualcuno ricorda loro di essere o di essere stati marxisti e/o comunisti, magari esponenti di primo piano del Pci che- lo ricordo per gli smemorati- non era una marca di computer, ma l'acronimo di Partito Comunista Italiano. Questi comportamenti ci rattristano, ma non lasceranno traccia. Il tempo lavora per la verità e per la giustizia sociale. (fraterni saluti, a.s.) VATICAN INSIDER- La Stampa.it 15/12/2013 Dall’intervista di Andrea Tornielli a Papa Francesco suNatale, fame nel mondo, sofferenza dei bambini, riforma della Curia, donnecardinale, Ior e prossimo viaggio in Terra Santa “Alcunibrani dell'«Evangelii Gaudium» le hanno attirato le accuse degliultra-conservatori americani. Che effetto fa a un Papa sentirsi definire«marxista»? «L'ideologia marxista è sbagliata. Manella mia vita ho conosciuto tanti marxisti buoni come persone, e per questonon mi sento offeso». Le parole che hanno colpito di più sono quellesull'economia che «uccide»... «Nell'esortazione non c'è nulla che non siritrovi nella Dottrina sociale della Chiesa. Non ho parlato da un punto di vistatecnico, ho cercato di presentare una fotografia di quanto accade. L'unicacitazione specifica è stata per le teorie della “ricaduta favorevole”, secondole quali ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce aprodurre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. C'era lapromessa che quando il bicchiere fosse stato pieno, sarebbe trasbordato e ipoveri ne avrebbero beneficiato. Accade invece che quando è colmo, il bicchieremagicamente s'ingrandisce, e così non esce mai niente per i poveri. Questo èstato l'unico riferimento a una teoria specifica. Ripeto, non ho parlato datecnico, ma secondo la dottrina sociale della Chiesa. E questo non significaessere marxista».

sabato 14 dicembre 2013

ALDO MORO, IL VERO ARTEFICE DELLA SVOLTA VERSO IL MONDO ARABO

Cap. XI ALDO MORO, IL VERO ARTEFICE DELLA SVOLTA VERSO IL MONDO ARABO Dalla “questione d’Oriente” alla “questione araba” 1... La presenza di una nutrita e qualificata partecipazione democristiana nell’Associazione italo-araba aveva anche una spiegazione politica riconducibile al nuovo approccio della Dc verso il mon-do arabo. Una vera e propria svolta verificatasi, nella prima metà degli anni ’70, grazie all’intuizione che ne trasse l’on. Aldo Moro proprio a partire dalla presa del potere in Libia di Gheddafi e dall’inatteso cambiamento dei rapporti bilaterali che porterà all’espulsione degli italiani. Fu questo lo spunto, concitato e drammatico, per una presa d’atto del più generale cambiamento del mondo arabo post-coloniale che si caratterizzava per il suo nazionalismo panarabista, suffragato dal crescente ruolo economico strategico, soprattutto per la produzione di petrolio da cui l’Italia dipendeva quasi al 100%. Questi ed altri aspetti alimentarono una forte corrente d’interessi internazionali verso i paesi arabi, alla quale si associò, seppure con ritardo, anche l’Italia. Le tormentate vicende interne e i conflitti anticoloniali (Marocco, Tunisia, Algeria, ecc) e quello arabo- israeliano, che ancora oggi sembra insanabile, generarono movimenti popolari di liberazione che taluni, dimenticando quelli antifascisti europei, si ostinavano a definire sbrigativamente“terroristi”. Molti non si accorsero, o finsero, che, con la fine della seconda guerra mondiale e l’avvio del processo di decolonizzazione su sca-la planetaria, la “questione d’Oriente”, com’era intesa in chiave coloniale, era divenuta la “questione araba”. Stava nascendo, a due passi dall’Italia e dall’Europa, un “mondo nuovo”, carico di problemi e di potenzialità, che si estendeva dall’Atlantico al Golfo Persico, passando per il Mediterraneo. Un mondo che, dopo secoli di dominio coloniale, chiedeva un riconoscimento politico per la sua indipendenza, un posto dignitoso nella storia e nel libero con-sesso delle nazioni, un rapporto paritario con la nuova Europa in costruzione. Un processo interessante, a tratti controverso, di vitale importanza per i futuri assetti mediterranei e del mondo che, in Italia, soltanto la sinistra, in particolare il Pci, aveva colto e seguito e, in alcuni casi, aiutato concretamente. Il filo atlantismo commisto al pregiudizio antiislamico avevano impedito al mondo cattolico, ai suoi governi di assumere una posizione di comprensione, di solidarietà quantomeno politica. Come detto, la prima, vera occasione in cui i sommovimenti arabi destarono l’attenzione preoccupata degli italiani fu, proprio, la “rivoluzione” del 1° settembre 1969 in Libia ad opera del gruppo di giovani ufficiali guidati da Muammar Gheddafi. La presenza (e la sorte) di circa 20.000 italiani nell' ex colonia giustificavano la preoccupazione e inducevano il governo a intraprendere i passi necessari per tutelarla. 2... Contrariamente a quanto si pensa, non fu Giulio Andreotti a elaborare e a inaugurare la nuova politica estera italiana verso la Libia e, in generale, verso il mondo arabo. Fu Aldo Moro, nel 1969 ministro degli esteri, cui capitò fra capo e collo la responsabilità di gestire lo scottante dossier Libia, i rapporti col nuovo regime insediatosi a Tripoli, resi difficili dal rimpatrio forzato degli italiani. Una “rivoluzione” per tutti inattesa, svoltasi sulla falsariga di quella egiziana del 1952 attuata dagli “ufficiali liberi” guidati da Abdel Gamal Nasser. Gheddafi e i suoi commilitoni s’ispirarono alle idee e alle grandi opzioni politiche e sociali del “rais”, considerato il nuovo profeta della rinascita della “nazione araba” in chiave popolare e socialisteggiante, del quale si proclamarono seguaci… a sua insaputa. In sostanza, quei giovani ufficiali libici fecero la “rivoluzione” in nome di Nasser, senza preavvertirlo. Tanto che- nota Mino Vignolo nel suo citato libro “Gheddafi”- Muammar Heykal, inviato da Nasser per prendere contatto con gli autori del colpo di stato, atterrato a Bengasi cercò, invano, Abdulaziz: “Dov’è Abdulaziz? E’ convinto che il nuovo leader sia Abdulaziz Shalhi, il capo di stato maggiore dell’esercito con cui Nasser ha ottimi rapporti. Heykal non sa che il suo uomo che aveva preparato il putsch per il 4 settembre, è in carcere…” Evidentemente, ci fu un contrattempo nel calendario delle “rivo-luzioni”. Nel senso che Gheddafi anticipò di tre giorni la “sua” e, così, riuscì a fregare e, a incarcerare, il potente concorrente. Comunque, a parte tale inconveniente, i rapporti fra Gheddafi e il presidente egiziano furono intensi e proficui, fino al punto che Nasser, pochi mesi prima di morire, lo indicò come il suo “erede” politico più coerente e determinato. Aldo Moro, che era ben edotto sulla realtà di tali rapporti mediante le puntuali informative della nostra ambasciata del Cairo, colse il senso e la portata del mutamento politico avvenuto in Libia e in atto nel mondo arabo e, facendo di necessità virtù, impresse un approccio più ravvicinato e dialogante, di moderata autonomia (rispetto ai vincoli dell’Alleanza atlantica) alla politica estera italiana verso quelle realtà in ebollizione. La nuova impostazione nasceva, certo, dall’esigenza di tutelare gli italiani in Libia, ma anche da una prospettiva di collaborazione e di dialogo diretto, anche al di fuori della stringente logica dei blocchi contrapposti. Nell’ottobre del 1969 (a poco più di un mese dal colpo di stato di Gheddafi), in un discorso alla Camera, il ministro degli esteri Moro presentò le linee essenziali della nuova concezione dei rapporti politici con la Libia, indicando le principali direttrici di marcia per meglio affrontare i problemi specifici nel segno della collaborazione. Ecco un passaggio, commentato da Arturo Varvelli. “Il discorso di Moro aveva due valenze: era una chiara risposta alla sinistra, ma, non a caso, si rivolgeva direttamente a Gheddafi e ai nuovi governanti libici dopo gli attacchi alle potenze straniere dei giorni precedenti. Moro era preoccupato di delineare chiaramente la politica dell’Italia agli occhi della Libia. Quella del leader democristiano si profilava come una politica estera “etica”. Evidenziava l’anticolonialismo della Repubblica e si pronunciava a favore di un assoluto rispetto dell’indipendenza e dell’integrità di tutti gli Stati del Mediterraneo, e insieme tendeva una mano a quei Paesi, avendo probabilmente in mente la Libia, che desideravano agire in autonomia dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica.” Concludendo con un’ assicurazione e con un invito rivolto ai capi del nuovo regime: “Siamo pronti a cooperare con i nuovi dirigenti libici nel comune interesse che lega i nostri due Paesi, le cui popolazioni si comprendono e le cui economie si completano, come è dimostrato dall’andamento degli scambi commerciali…” 1 3... L’intuizione di Moro fu, in generale, apprezzata e sostenuta dalla gran parte dello schieramento politico e parlamentare e sarà verificata, confermata e sviluppata nel corso degli anni successivi, sia nei rapporti con la Libia sia con altri Paesi maghrebini e arabi: Tunisia, Algeria, Marocco, Egitto, Siria, Libano, ecc. Il punto più critico dei rapporti con i libici si raggiunse nel luglio del 1970, quando Gheddafi decretò l’espulsione dalla Libia di circa 20.000 1 A. Varvelli “L’Italia e l’ascesa di Gheddafi” Editori Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2009 italiani provocando un grave dramma sociale e umano e serissimi problemi al governo italiano. Moro, nell’impossibilità di bloccarla, se ne fece una ragione. Anzi, secondo un telegramma inviato il 6/9/70 da Tunisi ai Capi dello Stato e del governo italiani, ne diede un’interpretazione politica tendente a sdrammatizzare. “L'esproprio e la cacciata della comunità italiana servono in parte anche a coprire la ritirata ideologica di Gheddafi sul fronte della lotta a Israele, oltre che a ribadire il carattere rivoluzionario del regime. I Colonnelli han bisogno di gesti del genere (anche nel settore del petrolio, ove si contenteranno per ora dell'aumento del prezzo), così come continueranno ad avere bisogno di complotti, veri o falsi. A organizzare questi ultimi pensano i servizi speciali egiziani". (Alberto Custodero in “La Repubblica” del 9/8/2008). Se non proprio giustificativa, tale posizione appariva quasi comprensiva, tipica di chi non cerca vendetta ma un buon accordo. Una conferma indiretta di tale proposito si ebbe in quello stesso anno, quando l’opposizione libica, in combutta col governo ingle-se, mise in atto un piano per rovesciare Gheddafi. Aldo Moro avrebbe potuto aiutare i congiurati e punire chi aveva scatenato la campagna contro gli italiani. Invece, diede al generale Vito Miceli, capo del Sid, l’ordine di bloccare (a Mestre) la partenza della nave dei golpisti e così salvare Gheddafi e il nuovo regime da un attacco che poteva essergli fatale. Seguì, il 5 maggio 1971, un cordiale incontro tra Moro e il Colonnello nel quale il ministro degli esteri italiano si rese disponibile verso le richieste libiche, spingendosi addirittura- come sostiene Custodero - a promettergli la“fornitura di mezzi di trasporto navale ed aerei, in particolare elicotteri o aerei da addestramento ”. La nuova politica estera italiana verso l’area mediterranea e araba troverà la sua più solenne enunciazione nella Conferenza internazionale di Helsinki (1975) sulla pace e la sicurezza nel Mediterraneo. In quella eccezionale vetrina delle nazioni, Aldo Moro pronunciò un memorabile discorso nel quale ribadì ed ampliò la nuova strategia italiana, mirata a rinsaldare i legami di cooperazione pacifica con tutti i Paesi rivieraschi, alla ricerca di un ruolo dell’Italia, relativamente autonomo rispetto alle strategie Usa e Nato. Questo fu il vero punto di svolta della politica estera italiana che sicuramente sarà stato notato, e annotato, a Washington. Bisogna dare atto ad Aldo Moro di avere saputo, dal versante governativo, concepire e pilotare un processo fondamentale sul quale si baseranno le politiche dei governi successivi. A quel tempo, Andreotti, più volte ministro e capo del governo, giocava a fare il leader di una destra moderata, filo atlantica, che non disdegnava i voti della destra neofascista in Parlamento e i “consigli” provenienti dal Vaticano e dalla Casa Bianca. Soltanto nel 1976, col suo governo delle “larghe intese” e poi con quello di “solidarietà nazionale” (1978) nella cui maggioranza parlamentare figurava il Pci, l’on. Andreotti raccoglierà (quasi se la intesterà) quella ispirazione, dai comunisti molto caldeggiata, volta a costruire una nuova e unitaria politica araba e mediterranea dell’Italia. D’altra parte, è noto che l’on. Andreotti non fu un grande stratega ma, soprattutto, un diligente esecutore. A tale svolta contribuì, in misura rilevante, il Pci che, fin dalla fase delle lotte di liberazione nazionale dei paesi arabi, era stato l’unico partito italiano a prospettarla, a rivendicarla, facendo anche tesoro dell’esperienza di Enrico Mattei nel mondo arabo. Quando i capi della Dc (fra questi anche Amintore Fanfani) si accorsero della “questione araba”, il Pci aveva, da anni, maturato un patrimonio di contatti e di proposte, realizzato esperienze di solidarietà e collegamenti con movimenti e partiti arabi, la gran parte dei quali erano al governo nei rispettivi Paesi. Insomma, questa convergenza non fu un “inciucio”. Da entrambi le parti (Dc e Pci) si era consapevoli di aver operato una scelta responsabile, impegnativa, autonoma a difesa della pace e della cooperazione nel Mediterraneo, a tutela dei legittimi interessi economici italiani nel mondo arabo. Il generale Miceli in soccorso di Gheddafi 1... In questo nuovo clima, i governanti italiani, al pari di taluni altri leader europei, agirono per proteggere il regime del giovane Colonnello dagli attacchi e dai tentativi di golpe portati avanti dall’entourage del re Idriss in combutta con vecchie potenze coloniali. In diverse occasioni, l’Italia svolse un ruolo, addirittura, di tutela del nuovo regime di Tripoli. Abbiamo già detto del soccorso dato a Gheddafi, nel 1970, per far fallire “l’operazione Hilton”. La collaborazione tra i servizi continuò nel tempo. Ovviamente, Miceli non agì per simpatia personale verso il Colon-nello ma, come più volte mi raccontò, per ordine dei governanti italiani, in particolare di Aldo Moro, i quali, saggiamente, erano consapevoli che per tutelare gli interessi italiani in Libia bisognava salvare Gheddafi. Vicende arcinote anche perché oggetto di numerose inchieste gior-nalistiche e perfino d’indagini giudiziarie che, però, il generale, divenuto nel 1983 mio collega in commissione Difesa e vicino di ufficio nell’ex convento di Vicolo Valdina, ogni tanto mi raccontava, ripetendosi. Forse, pensando di farmi cosa gradita, poiché sapeva delle mie relazioni politiche con esponenti libici, palestinesi e di altri Paesi arabi. Del resto anche di lui si diceva che fosse “filo arabo”. Etichette, usate per sviare i problemi, per non affrontarli. Personalmente, non sono stato mai “filo” qualcosa o qualcuno, ma solo un sostenitore della giusta causa dei popoli arabi e in particolare di quello palestinese. Per questo mio impegno fui indicato, in un discorso alla Camera, da Giorgio Almirante (capo politico di Miceli) come “amico” di Arafat e dei gruppi “terroristi” palestinesi e arabi. Venendo da lui, considerai l’accusa un grande onore! 2... A scanso di equivoci, desidero precisare che col generale Vito Miceli non ebbi mai relazioni confidenziali, di vera amicizia. Eravamo collocati su sponde politiche contrapposte. Ci divideva il fiume della storia: lui sulla riva destra ed io su quella sinistra e non c’erano ponti a congiungerle. Fra noi ci fu solo un rapporto fra colleghi di commissione che si rafforzò a seguito di un episodio accaduto a New York, durante una visita negli Usa di una delegazione della commissione Difesa. Il fatto successe in una gelida sera di febbraio 1986, all’uscita dal teatro Broadway, dove eravamo andati a vedere il celebre musical “Cats”. Nella via c’era un freddo estremo, provocato da folate di vento glaciale provenienti dal nord. Eravamo in attesa del “verde” per raggiungere il ristorante posto nella parte opposta dell’avenue. Improvvisamente, vedemmo il generale accasciarsi a terra. In quel trambusto e nell’attesa di trovare un medico, pensammo di toglierlo dal gelo e di portarlo, a braccio, all’interno del ristorante. Al caldo, l’anziano generale si riprese; “niente, nulla di grave…” ci rassicurò. Non volle che chiamassimo un medico per un controllo. Partecipò al pranzo, come previsto. Dopo questo episodio, Miceli prese a guardarmi con una certa simpatia. Mi chiamava “paisà” per via della comune origine siciliana (era nativo di Trapani anche se mi disse che la famiglia paterna proveniva da Castronovo di Sicilia, in provincia di Palermo). Da vecchio volpone, con l’occhio allenato, più di una volta mi avvertì di “fare attenzione” alla bella interprete che spesso s’intratteneva con me. “Stai attento, paisà, quella è una tigre. Te l’hanno messa alle calcagna per controllarti”. Los Angeles, marzo 1986. Agostino Spataro e Vito Miceli durante il viaggio negli USA Lo diceva con un sorrisino appena accennato che lasciava trapelare tutta la sua esperienza in fatto di spionaggio e di controspionaggio. La cosa poteva avere anche un fondamento poiché ero uno dei tre comunisti approdati negli Usa, in deroga a un divieto di legge, che stavano visitando importanti basi militari americane, compresi i silos dei missili nucleari intercontinentali. 3... La visita della delegazione in Usa andò molto bene. Fu molto utile (almeno per noi) per conoscere taluni aspetti delle relazioni politiche bilaterali in campo militare e anche alcuni siti e infrastrut-ture di notevole importanza strategica. Il dato più rilevante, inedito, sul piano politico di quella visita era costituito dal fatto che, per la prima volta, alcuni esponenti qualificati del Pci erano stati invitati, ufficialmente, dall’amministrazione Reagan e ricevuti al Pentagono dal segretario della difesa in carica. Come scrissero diversi quotidiani nazionali (dal “Messaggero” al “Giorno”, da “l’Unità al “Il Tempo” ecc), “per la prima volta Weimberger ha ricevuto (al Pentagono) tre parlamentari comunisti italiani: gli onorevoli Vito Angelini, Giuseppe Gatti e Agostino Spataro.” Di là delle persone coinvolte, il fatto ebbe un certo rilievo per questa “prima volta” di tre esponenti del Partito comunista italiano che mettevano, ufficialmente, piede dentro il Pentagono. La preparazione della delegazione era stata molto laboriosa e accompagnata da una sorta di trattativa fra la Camera dei Deputati e la sede diplomatica Usa per aggirare, in qualche modo, il divieto di ingresso di comunisti negli States. Per altro, in base al programma della visita, i delegati comunisti avrebbero avuto contatti politici qualificati e accesso ad alcune importanti infrastrutture missilistiche (anche nucleari) e di comando e controllo. Alla fine, prevalse il buon senso. L’ostacolo fu aggirato sulla base di un escamotage secondo cui la nostra richiesta di visto non era avanzata da cittadini italiani iscritti al Pci, ma da membri del Parlamento italiano invitati, in delegazione, dal ministero della Difesa Usa. Strani questi americani! Avevano fatto tante storie per concederci il visto d’ingresso, ma, una volta entrati, ci hanno fatto visitare perfino una batteria di missili nucleari intercontinentali in una base dell’Ohio, vari sistemi d’arma, i laboratori di ricerca sulle “armi stellari” a Livermore (San Francisco) e il comando sotterraneo del Norad di Cheyenne Mountain, nei pressi di Colorado Spring. L’unico divieto al quale tenevano era quello di non fotografare gli impianti. E noi lo rispettammo! 4... Fummo ricevuti al massimo livello politico e militare: dal Segretario di Stato alla Difesa, Caspar Weinberger, e dall’ammiraglio William Crowe, presidente del comitato dei capi di stato maggiore delle forze armate statunitensi. Anche questo era un segno importante di considerazione politica per una delegazione parlamentare italiana che, per giunta, includeva alcuni deputati comunisti. Nei pourparler preparatori dei due incontri politici feci sapere ai colleghi della delegazione che ero intenzionato a porre al segretario di Stato e all’ammiraglio una domanda circa le voci, già circolanti in taluni ambienti in Italia, di un prossimo attacco Usa alla Libia. Fui vivamente sconsigliato dal porre domande del genere che avrebbero potuto turbare il clima di amicizia e l’ottima accoglienza riservataci, senza, per altro, potere sperare di ottenere una risposta appropriata. L’on. Attilio Ruffini, capo della nostra delegazione, me lo disse più di una volta: “Mi sembra una cosa inutile oltre che inopportuna. E poi, scusami, ammesso che ci sia qualcosa di vero, lo vengono a dire a te, a me?” Anch’io ero convinto che l’avrebbero negata o ignorata. Tuttavia, posi lo stesso la domanda per far sapere loro che la “cosa” già si sapeva in giro. Infatti, Crowe negò tale possibilità senza tentennamenti, mentre Weimberger, semplicemente, non rispose alla domanda. Salvo, 40 giorni dopo, scatenare il micidiale attacco contro la Libia. La super corrente “filo araba” della Democrazia Cristiana 1... Come detto, la svolta di Moro, proseguita da Andreotti, si trascinò dietro buona parte della Democrazia Cristiana, personalità eminenti del Vaticano, settori dei movimenti sociali e del sindaca-lismo d’ispirazione cattolica, enti a partecipazione statale, ecc. L’Eni aveva già una sua politica estera “filoaraba”. L’Associazione italo - araba prese atto, con soddisfazione, di tale cambiamento e, per tutta, risposta rielaborò la sua impostazione politica, rinnovò e ampliò la sua struttura dirigente, stabilì nuove relazioni con i partiti italiani di governo e di opposizione. Realizzò la sua piccola svolta col pieno accordo di Lelio Basso il quale lasciò la presidenza effettiva per favorire il “nuovo corso” e il più ampio processo di accorpamento politico unitario all’interno dell’associazione. Ai rappresentanti dei partiti e dei sindacati di sinistra (soprattutto del Pci e dell’ex Psiup) e di alcuni movimenti e centri d’ispirazione terzomondista, si aggiunsero autorevoli rappresentanti della sinistra democristiana, della Cisl, del Psi e qualcuno perfino del Psdi. Aderirono anche alcuni fra i più eminenti orientalisti e insigni esponenti del mondo accademico (fra cui: i professori Francesco Gabrieli, Umberto Rizzitano, Bianca Maria Scarcia Amoretti, Francesca Corrao, Franco Cardini, Giorgio Giovannoni; giornalisti di primissimo piano fra i quali Igor Mann (celebre inviato de “La Stampa”), Dino Frescobaldi, (inviato e acuto editorialista del “Cor-riere della Sera”), Eric Salerno (inviato de“Il Messaggero”), Giancarlo Lannutti (inviato de “l’Unità”), ecc. Insomma, il meglio che c’era sulla piazza. Queste personalità non furono inserite negli organi direttivi come elementi puramente decorativi, ma partecipavano attivamente al dibattito e alle iniziative dell’Associazione della cui presidenza nazionale erano membri. In questa veste, Dino Frescobaldi fu incaricato di curare i delicati rapporti col fondo arabo (Anaf) di Londra. Attorno all’Associazione si aggregò una buona compagine, amica della giusta causa araba e non nemica dei legittimi diritti d’Israele, rappresentativa dell’intero “arco costituzionale”, come, allora, si usava dire. Solo i repubblicani non vollero aderire. Credo per una sorta di pregiudizio verso gli arabi. Pazienza. In verità, nessuno sentì molto la loro mancanza. Molti, in Parlamento e sui giornali, scambiarono il sodalizio per una “lobby” araba da contrapporre a quella ebraico/ israeliana che, effettivamente, operava da anni con efficienza e senza tanti clamori. In realtà, la nostra non fu mai un’azione da lobby, né da “gruppo di pressione” a tutela d’interessi particolari o, peggio, illeciti, ma un’iniziativa politica pubblica a favore delle cause giuste (o da noi ritenute tali) e in generale tesa a migliorare le relazioni politiche, economiche e culturali tra il mondo arabo, l’Italia e l’Europa. 2... Per un accordo non codificato, presidente dell’associazione veniva eletto un esponente di primo piano della sinistra della Democrazia Cristiana, possibilmente membro del governo. Fra questi: Virginio Rognoni (più volte), Luigi Granelli, Franco Maria Malfatti, tutti ministri o ex ministri. Negli organismi direttivi figuravano diversi parlamentari di un certo prestigio, fra cui: Al- berto Aiardi, Gilberto Bonalumi, Paolo Cabras, Calogero Pumilia, Piero Bassetti, Guido Bodrato, Franco Foschi, Carlo Fracanzani, Giuliano Silvestri, Franco Salvi, Angelo Sanza, il sen. Giuseppe Orlando. Insomma, quella democristiana era una componente numerosa e molto attiva nell’Associazione. Gli unici due presidenti non democristiani furono il dottor Giuseppe Ratti, già presidente dell’Eni, e il dottor Rinaldo Ossola, ex direttore generale e vicegovernatore della Banca d’Italia, già ministro per il commercio estero. Ossola fu eletto, agli inizi degli anni ’80, in primo luogo, per le sue ottime referenze politiche e professionali, per il prestigio, anche internazionale, della sua personalità, ma anche- diciamolo pure - perché, essendo di area Pri, si sperava in un rapporto proficuo con il senatore Giovanni Spadolini, che, in quel momento, era il primo presidente del Consiglio non democristiano, dopo Ferruccio Parri. Rinaldo Ossola fu un ottimo presidente, competente, aperto e unitario. Il nostro obiettivo era di far valere i giusti diritti dei popoli arabi, in particolare di quello palestinese, senza contrapporli a quelli altrettanto giusti del popolo israeliano ad avere uno Stato sovrano e sicuro entro i confini sanciti dalle risoluzioni dell’Onu. Tutte le pretese che andavano fuori di tale contesto, non potevano essere da noi sostenute. Questa era la nostra regola. Purtroppo, chi la trasgrediva, collocandosi fuori del contesto legale delle Nazioni Unite, erano, in primo luogo, i governi israeliani che rifiutavano di applicare le diverse risoluzioni dell’Onu che impongono la restituzione dei territori palestinesi e siriani occupati dal 1967. Com’è noto, tale rifiuto persiste fino ai nostri giorni. La visita di Jallud a Roma 1... Durante la presidenza Ossola, accadde un episodio, a dir poco, singolare che i giornali enfatizzarono nei suoi aspetti più bizzarri per farne un caso di stravaganza protocollare e d’inaffidabilità dei dirigenti libici. Mi riferisco alla visita a Roma del maggiore Abdessalam Jallud, numero due e primo ministro del regime libico. E vera testa politica pensante, aggiungo io. Prima di raccontare il fatto, bisogna ricordare gli antefatti. Da anni, e da più parti, si lavorava per convincere il governo italiano a invitare, a Roma, Muammar Gheddafi, leader di un Paese con il quale l’Italia, oltre ai rapporti storici, intratteneva ottime relazioni economiche e commerciali. D’altra parte, già un Paese europeo, l’Austria, aveva ricevuto il Colonnello ai massimi livelli istituzionali. I diversi governi italiani, invece, non si decidevano a diramare l’invito per contrasti interni al blocco di maggioranza. Sapevamo che buona parte dei membri del governo, la stessa presidenza della Repubblica, avrebbero voluto invitarlo, ma c’erano forze potenti, interne e internazionali, che opponevano una sorta di veto politico. Figurarsi con l’arrivo a Palazzo Chigi di Spadolini. Manco a parlarne! A un certo punto, fu affacciata un’ipotesi subordinata: invece di Gheddafi, invitare Jallud, suo intimo amico e consigliere, il quale nella complessa macchina di governo libica svolgeva mansioni equivalenti a quelle di “primo ministro”. Pareva un compromesso accettabile, equo. Spadolini, però, non volle sentire ragioni: non si opponeva in linea di principio alla visita, ma dichiarò che non l’avrebbe ricevuto a Palazzo Chigi, come prescriveva il protocollo oltre che il buon senso politico. I libici dell’ambasciata di Roma erano furenti e, facendo eco alle reazioni di Tripoli, consideravano l’ulteriore rifiuto un grave errore per l’Italia e un modo rozzo e lesivo della dignità e della sovranità libiche. Effettivamente, Tagazzi aveva ragione di protestare. Spadolini era irremovibile, perfino alterato, nel trattare la questione. Dimenticando, oltre le buone maniere, che in ballo c’erano interessi davvero vitali dell’Italia e tanti importanti dossier che attendevano di essere esitati dalla Commissione mista italo-libica che non si riuniva da cinque anni. 2... Ecco allora affacciarsi una soluzione, eccepibile sul piano protocollare, tuttavia utile per evitare una crisi seria nelle relazioni fra i due governi. L’idea era la seguente: Jallud poteva venire in Italia per svolgere i vari incontri politici, ministeriali e istituzionali (sarà ricevuto da Ciriaco De Mita, da Enrico Berlinguer, dal presidente del Senato, Amintore Fanfani), mentre avrebbe potuto incontrare il capo del governo, Spadolini, (suo pari grado) in casa del suo amico Rinaldo Ossola, presidente dell’Associazione nazionale di amicizia italo araba, dove entrambi sarebbero stati invitati a cena. Spadolini si dichiarò possibilista. Non poteva dire di no anche a una cena in casa di un amico. I libici si sentivano insultati, discriminati poiché, negli stessi giorni della visita di Jallud, sarebbe stato ricevuto dai massimi rappresentanti istituzionali italiani un altro leader della “nuova”Africa, il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe. All’ambasciata della Jamahjrya mordevano il freno per non mandare tutto per aria. Alla fine, si concordò per la cena in casa Ossola, in via dei Due Macelli, a Roma, alla quale avrebbero partecipato Jallud e Spadolini e pochissime altre persone. Tutto pareva essere stato appianato, il clima si rasserenò, anche se qualche mugugno ancora circolava. 3... Venne la sera dell’incontro a cena. Il fatto mi fu raccontato da alcune persone bene informate. Spadolini si presentò in casa dell’amico Ossola, con un po’ d’anticipo sull’ora concordata, in attesa di Jallud il cui arrivo era stato confermato dall’ambasciata, qualche ora prima. Giunse l’ora ma non Jallud. Ma si sa- avranno pensato i commensali- gli arabi sono come i siciliani che fissano un appuntamento a un’ora quasi sempre approssimativa: “ci vediamo verso…”. Quasi che per arrivare all’ora stabilita ci fosse un cammino da fare nel…tempo. Trascorsero i minuti, la mezz’ora, l’ora, le ore e di Jallud nemmeno l’ombra. Non arrivò neanche una telefonata per giustificare il clamoroso ritardo. Da casa Ossola si cercò di contattare l’ambasciata ma, a parte il centralinista, nessuno dei funzionari era in sede. Spadolini diventò rosso in viso come un peperoncino indiano, indignato e infuriato, ruppe gli indugi e lasciò la casa dell’amico senza assaggiare nulla di quel ben di Dio che la gentile signora ospite aveva fatto preparare con certosina ricercatezza, tenendo conto del livello e dei gusti degli illustri commensali. 4... L’episodio, a dir poco imbarazzante, circolò negli ambienti diplomatici, in Parlamento, soprattutto tra gli addetti ai lavori. Ne parlai con Mufta funzionario dell’ambasciata libica, un amico personale col quale, talvolta, si poteva perfino ironizzare, senza nominarlo, su qualche marachella del Colonnello. Questi mi disse che la messinscena fu architettata, personalmente, dal maggiore Jallud il quale, pur essendo molto dispiaciuto di non potere onorare l’invito del dottor Ossola, decise di sabotare la cena per“indispettire Spadolini, per fargli provare cosa significhino la discriminazione, le cattive maniere”. Invece che a via dei Due Macelli, a casa di Ossola, Jallud e la numerosa delegazione libica, si diressero a un altro indirizzo nei dintorni, in via Veneto, in uno dei tanti locali della “Dolce vita” a fare bagordi. Per Sandra Bonsanti “Jallud ballava la danza del ventre, coperto solo di un pareo, in un grande albergo di Roma…” 2 Su questo particolare nulla mi fu riferito dal mio amico. Evidentemente, la giornalista invece di richiamare la grave responsabilità di Spadolini per avere discriminato il “primo ministro” di un Paese con il quale l’Italia intratteneva relazioni molto importanti, tese a ridicolizzare il “discriminato”. Vecchia e abusata tattica! Quell’episodio, con Spadolini furioso e i giornali che ci ricamavano sopra, rischiava di innescare una grave tensione nei rapporti fra i due Paesi. Per quel che si poteva dire, senza alludere all’episodio, feci una dichiarazione ripresa da “l’Unità”, nella quale ricordavo agli scandalizzati giornalisti e agli smemorati di Palazzo Chigi che “la Libia è uno dei rari Paesi Opec con cui 2 S. Bonsanti in “La Repubblica” del 15/5/1986 l’Italia mantiene, ormai tradizionalmente, rapporti economici e di scambio reciprocamente vantaggiosi, mentre con altri si registrano pesanti deficit a nostro sfavore…importanti forze politiche ed economiche, in Italia e fuori, da tempo lavorano per il deterioramento delle eccellenti relazioni economiche esistenti fra i due Paesi….Tali azioni di deterioramento si inquadrano nella“più generale manovra politica, pilotata dall’attuale amministrazione Usa, per strozzare Gheddafi e il suo regime”. Anche per questo il deputato comunista- aggiungeva l’Unità - critica, con particolare vigore il fatto che i nostri governanti rifiutano di invitare in Italia il colonnello Gheddafi, come hanno già fatto l’Austria e altri Paesi.” 3 5... Il comportamento di Jallud colpì anche noi, soprattutto per l’imbarazzo che avrà creato a Rinaldo Ossola che, gentilmente, si era prestato a organizzare l’incontro fra i due primi ministri. Nonostante la “marachella” anti- Spadolini, non mutò il nostro punto di vista su Jallud che, insieme con altri pochi, consideravamo uno dei più equilibrati e acuti dirigenti libici. La mia stima verso Jallud continuò nel tempo. Ricordo di averlo ascoltato in un discorso, del 10 giugno 1989, tenuto nella sala congressi della “Torre Imad” di Tripoli in occasione della conferenza sui diritti umani nell’area mediterranea organizzata dal PSOM, presieduto da Carmine Bonnici, ex primo ministro laburista di Malta. Una parentesi. In quell’occasione venne con me un giovane compagno sardo, di lontane origini siciliane, Oliviero Diliberto, studioso di diritto, che includemmo nella delegazione su segnalazione del comune amico on. Umberto Cardia. Diliberto fece una buona impressione agli organizzatori libici tanto che lo invitarono a presiedere, insieme a me, una sessione della conferenza. Credo che quell’esperienza internazionale sia stata quantomeno di buon auspicio per Diliberto che, di lì a qualche anno, sarà nominato “guardasigilli” ossia ministro di Grazia e Giustizia nel governo di Massimo D’Alema (1998- 2000) 3 A. Spataro in “l’Unità” del 22/5/1982 Tripoli, 1989. A. Spataro, O. Diliberto, dr. Miloud, segretario del PSOM, alla presidenza del Simposio sui diritti umani. Chiudiamo la parentesi e torniamo a Jallud che quella mattina alla conferenza era la “star”. Si capì subito, poiché i lavori iniziarono con circa due ore di ritardo, in attesa che arrivasse il “numero due”. Parlò circa un’ora e mezza e fece un buon discorso, ricco di argomentazioni, di dati, di riflessioni politiche e perfino filosofiche. Soprattutto, colpiva il suo modo di parlare, di atteggiarsi. Non era tronfio, pretenzioso, imperativo ma persuasivo, flemmatico, con alti e bassi intervallati da lunghe pause, talvolta, troppo lunghe che ci fecero temere un blocco del discorso. Di fronte a quell’uditorio internazionale egli, più che l’applauso, cercava il consenso. Quel giorno Jallud consegnò un premio di 250.000 dollari a Maki, la bellissima figlia di Nelson Mandela, venuta a ritirarlo per conto del padre ristretto nelle carceri segregazioniste del Sud Africa. Una bella cifra che, oltre al riconoscimento politico e morale dovuto al grande combattente antirazzista, contribuiva a finanziare la lotta dell’ANC contro il regime dell’apartheid sudafricano. Un aiuto importante alla lotta di liberazione dal razzismo che, sicuramente, qualcuno annoverò nella lista degli “aiuti di Gheddafi al terrorismo”. 6... Oggi, nel mondo, tutti corrono a rendere omaggio al vecchio Nelson Mandela, eroe della libertà e della dignità del suo popolo, dell’Africa nera finalmente liberati dal razzismo al potere. Tuttavia, mentre questa lotta si svolgeva, erano veramente pochini coloro che la sostenevano con donazioni e aiuti concreti. E tra questi pochi c’era Gheddafi. Di ciò non si sono dimenticati gli attuali dirigenti sudafricani i qua-li, nel corso della guerra civile del 2011, hanno tentato una mediazione per giungere a una soluzione politica nazionale e, credo, an-che per salvare la vita al loro, generoso benefattore. Insomma, ebbi l’impressione che Jallud fosse un “tipo in gamba”, anche perché, dopo vent’anni, era ancora il numero due del regime. A quel tempo, la cerchia dei numeri primi o interpari si era ristretta, pericolosamente. Dal Comando generale, composto di dodici membri, erano usciti (o fuggiti) circa la metà, ben presto rimpiazzati. Erano sempre in dodici, tuttavia i numeri che effettiva- mente contavano erano cinque o sei. Dall’esterno, si aveva la sensazione che in Libia il potere reale restava concentrato nel vertice ristretto del Comando generale della rivoluzione ossia di Gheddafi e di alcuni suoi fidati consiglieri, fra i quali, in primis, Jallud. Ai primi anni ’80, fu varata una riforma profonda del sistema di governo in base a un meccanismo articolato su due piani istituzionali: il primo, rappresentato dal comando della rivoluzione, formalmente deresponsabilizzato, che rispondeva solo a Gheddafi, il quale, a sua volta, sosteneva di essere solo una “guida” morale non più il capo politico del regime; il secondo, costituito dai Comitati popolari (a vari livelli) che rispondevano al Comando della rivo-luzione e al popolo che, certe volte, era più tiranno ed esigente del Colonnello. Un modello, a dir poco singolare, ambiguo che, però, favoriva un circuito di partecipazione popolare, sconosciuto in altri paesi arabi nei quali la tirannia era assoluta e personale.

martedì 10 dicembre 2013

MANDELA: AI FUNERALI CI SONO TUTTI, NELLA LOTTA A SUO FIANCO ERANO POCHINI

MANDELA: AI FUNERALI CI SONO TUTTI, NELLA LOTTA A SUO FIANCO ERANO POCHINI 10 dicembre 2013 alle ore 13.23 E' bello leggere che la gran parte dei Capi di Stato, non solo i soliti "grandi della Terra", sono oggi in Sud Africa a rendere omaggio a Mandela, all'Uomo che, con le sue idee, il suo sacrificio, il suo alto esempio, ha indicato al suo popolo la via della liberazione dall' odiosa politica segregazionista della minoranza bianca. Questo illustre e affollato corteo è, sicuramente, la sua più grande vittoria morale! Oggi, tutti considerano Mandela un Eroe, un benefattore dell'umanità, soprattutto di quella ancora vittima del razzismo, della miseria, della esclusione sociale. Ieri, purtroppo, così non era: molti trattavano Mandela e la sua ANC alla stregua di terroristi fanatici e sanguinari. Per queste ragioni è stato imprigionato e perseguitato così a lungo. Di questa "solitudine" ho fatto un cenno nel mio libro "Osservatore del PCI nella Libia di Gheddafi" (vedi foto) Ricordo queste cose non per ritorsione polemica, nè per orgoglio, ma solo per accendere una riflessione, per ricordare che Nelson Mandela non era un cherubino disceso dal cielo, ma un Compagno in carne ed ossa, un esponente di primissimo piano della sinistra sudafricana e mondiale che ha saputo gestire, con fermezza, intelligenza e realismo, una lotta memorabile ed anche la successiva, difficile fase di transizione. Insomma, un dono della sinistra più autentica per la libertà e la dignità dei popoli. Siamo consapevoli che nella sua prima esperienza storica la sinistra (al potere) ha compiuto errori anche gravissimi (specie nei Paesi dell'Est europeo) che dobbiamo condannare desisamente. Tuttavia, non possiamo subire un giudizio liquidazionista della sinistra che ha dato al mondo uomini come Mandela, Che Guevara, Allende, ecc., e idee e valori di giustizia sociale, di emancipazione politica e di progresso culturale.

mercoledì 4 dicembre 2013

"PORCELLUM", FINALMENTE LA SENTENZA: NO AL PREMIO DI MAGGIORANZA, SI AL VOTO DI PREFERENZA

Oggi, 4 dicembre 2013, la Corte Costituzionale ha finalmente emesso una sentenza che demolisce la vigente legge elettorale (cosidetta "Porcellum") soprattutto nei suoi due punti fondamentali: l'abnorme premio di maggioranza e la mancanza di una preferenza per garantire all'elettore il diritto costituzionale di scegliere il proprio candidato. Da anni, tali modifiche vengono proposte e suggerite. Purtroppo tutti i Partiti (tranne l'UDC) hanno preferito la comoda e autoreferenziale legge-porcata e fatto così degradare, pericolosamente, la funzione del Parlamento e dell'insieme delle Istituzioni democratiche. Occorre una nuova legge (anche un decreto legge), da approvasre subito con la maggioranza possibile, per far rispettare rigorosamente queste due indicazioni. Atale proposito, non convince la proposta, riaffacciata oggi da taluni esponenti del PD, del collegio uninominale (anche a doppio turno)poichè non è in linea con la decisiobe della Corte e con il pensiero della stragrande maggioranza del popolo italiano. C'è il concreto rischio di vanificare gli effetti di questa memorabile sentenza. Ogni cittadino dovrebbe far sentire la propria voce per ottenere il rispetto della sentenza per ripristinare il diritto di scegliere il proprio candidato. Noi lo facciamo da anni con gli scarsi mezzi che abbiamo: con interventi ed articoli (ne allego uno apparso su "Agoravox Italia" e altri siti web) che i quotidiani a grande tiratura hanno rifiutato perchè controcorrente.(a.s.) Il "PORCELLUM" MALE PEGGIORE. IL VOTO DI PREFERENZA PER FAVORE di Agostino Spataro Si farà la riforma elettorale? Come, quando, con quali forze? Credo che queste e altre domande consimili frullino nella testa della gran parte degli italiani, forse più di quelle che nascono dalla crisi economica, poiché il “porcellum” è, oggi, il male maggiore. Una legge disastrosa e anticostituzionale, come, ora, si accorgono anche le alte Corti che dovrebbero (di più) vigilare su tale delicatissima materia. Con questa legge, infatti, è stato espropriato al cittadino-elettore del diritto (costituzionale) di potere scegliere, col voto, il suo candidato al Parlamento. È stato compiuto un grave misfatto politico ai danni della democrazia e della sovranità popolare, trasferendo il potere elettivo dal popolo a un gruppo ristretto di capipartito (una diecina in tutto) i quali, di fatto, nominano i membri di Camera e Senato. E così, nelle liste bloccate, e quindi in Parlamento, si trova di tutto: mogli, figli, amanti, portaborse, avvocati e fiscalisti di fiducia e via via degradando… La “legge porcata” che a tutti piace Al “porcellum”, imposto a colpi di maglio dal centro destra, si sono assuefatti anche i capipartito del centro-sinistra che hanno goduto delle sue malefiche virtù. Insomma, inutile girarci intorno: la mancanza del voto di preferenza fa comodo a Berlusconi e ai leghisti, ma anche ai loro (ex) avversari i quali, per altro, durante l’ultimo governo Prodi potevano modificare la legge-porcata, ma non l’hanno fatto. E anche oggi, di fronte a tanto disastro, gli esponenti del centro-sinistra si guardano bene dal chiedere la re-introduzione di almeno una preferenza. Soltanto l’Udc- bisogna dargliene atto- si è battuta per le preferenze, anche se, alla fine, ha votato la legge-vergogna. Sappiamo che la preferenza comporta qualche problema, soprattutto quello della compravendita dei voti, superabile con una sola preferenza numerica (non nominativa) e, ancor di più, con l’introduzione del voto elettronico, come si fa in Usa, in Brasile e in tanti Paesi anche in via di sviluppo. Ridateci il voto di preferenza, per favore! Che Berlusconi non voglia le preferenze si può capire poiché senza il potere di nomina (dei parlamentari) il suo trono vacillerebbe. Invece, nessuno capisce la ritrosia del Partito Democratico che sembra condividere con il Pdl l’avversione per il voto di preferenza. E nemmeno convincono “le fughe” di taluni esponenti del PD i quali, pur di non re-introdurre il voto di preferenza, vorrebbero importare modelli elettorale da altri paesi (da Francia, Germania, Spagna, ecc). Ovviamente, su tale questione l’opinione pubblica desidera conoscere la posizione, pubblica e chiaramente motivata, di SEL, della Lega Nord e del Movimento di Grillo. In assenza di una motivazione convincente, si accrediterebbe l’idea, già abbastanza diffusa, che non si voglia dare agli elettori il diritto di scegliere il parlamentare perché - si teme- provocherebbe una “rivoluzione copernicana” nel sistema politico italiano: il sole non sarebbe più il capo-partito che nomina, ma l’elettore che sceglie, col voto, anche il capo partito. Infine, notiamo che la nomina, oltre a delegittimare i deputati e il ruolo del Parlamento, provoca un’incomprensibile disparità fra i diversi livelli della rappresentanza democratica: i deputati europei, i consiglieri regionali, provinciali e comunali sono eletti col voto di preferenza, solo quelli di Camera e Senato sono nominati dall’alto. Una condizione anomala che non sta né in cielo né in terra, ma solo nelle teste dei capi partito ossia di privati cittadini (perché tali sono secondo la Costituzione) i quali esercitano un diritto espropriato agli elettori. E così non si può continuare! di Agostino Spataro AGORAVOX Italia, lunedì 27 maggio 2013 -

martedì 3 dicembre 2013

ALCUNE FOTO DEL VIAGGIO IN MESSICO, ottobre 2013

Altre foto in questo link: https://www.facebook.com/agostino.spataro/media_set?set=a.444899998965696.1073741829.100003370983056&type=1

domenica 1 dicembre 2013

CO-INQUILINI INTELLIGENTI

Scene da un raduno aviario. Questa mattina alle 7,30, davanti casa mia, a Joppolo Giancaxio. Nel mondo, uomini e donne, bestie e piante siamo tutti locatari, inquilini e di...passaggio. L'unica che può dirsi davvero proprietaria è la Madre Terra che ci ha generati, la Pacha Mama come la chiamano gli indigeni dell'Amazzonia. La Terra sta morendo perchè gli uomini (soprattutto i sedicenti "più progrediti") la violentano ogni giorno, la stanno letteralmente divorando. Le bestie, invece, la rispettano e la rendono più bella e gradevole anche alle nostre aride coscienze tristi ed erratiche. Domanda: fra le due specie chi è più intelligente, razionale, lungimirante? Risposta: ciascuno la dia prima a se stesso e poi agli altri. Rispettiamo la Terra per vivere meglio noi e le generazioni che verranno. (a.s.)