sabato 14 dicembre 2013
ALDO MORO, IL VERO ARTEFICE DELLA SVOLTA VERSO IL MONDO ARABO
Cap. XI
ALDO MORO, IL VERO
ARTEFICE DELLA SVOLTA
VERSO IL MONDO ARABO
Dalla “questione d’Oriente” alla “questione
araba”
1... La presenza di una nutrita e qualificata
partecipazione democristiana nell’Associazione
italo-araba aveva anche una spiegazione politica
riconducibile al nuovo approccio della Dc verso il
mon-do arabo. Una vera e propria svolta
verificatasi, nella prima metà degli anni ’70,
grazie all’intuizione che ne trasse l’on. Aldo Moro
proprio a partire dalla presa del potere in Libia di
Gheddafi e dall’inatteso cambiamento dei rapporti
bilaterali che porterà all’espulsione degli italiani.
Fu questo lo spunto, concitato e drammatico, per
una presa d’atto del più generale cambiamento del
mondo arabo post-coloniale che si caratterizzava
per il suo nazionalismo panarabista, suffragato dal
crescente ruolo economico strategico, soprattutto
per la produzione di petrolio da cui l’Italia dipendeva
quasi al 100%.
Questi ed altri aspetti alimentarono una forte
corrente d’interessi internazionali verso i paesi
arabi, alla quale si associò, seppure con ritardo,
anche l’Italia.
Le tormentate vicende interne e i conflitti
anticoloniali (Marocco, Tunisia, Algeria, ecc) e
quello arabo- israeliano, che ancora oggi sembra
insanabile, generarono movimenti popolari di
liberazione che taluni, dimenticando quelli
antifascisti europei, si ostinavano a definire
sbrigativamente“terroristi”.
Molti non si accorsero, o finsero, che, con la fine
della seconda guerra mondiale e l’avvio del
processo di decolonizzazione su sca-la planetaria,
la “questione d’Oriente”, com’era intesa in chiave
coloniale, era divenuta la “questione araba”. Stava
nascendo, a due passi dall’Italia e dall’Europa, un
“mondo nuovo”, carico di problemi e di
potenzialità, che si estendeva dall’Atlantico al
Golfo Persico, passando per il Mediterraneo. Un
mondo che, dopo secoli di dominio coloniale,
chiedeva un riconoscimento politico per la sua
indipendenza, un posto dignitoso nella storia e nel
libero con-sesso delle nazioni, un rapporto
paritario con la nuova Europa in costruzione.
Un processo interessante, a tratti controverso, di
vitale importanza per i futuri assetti mediterranei e
del mondo che, in Italia, soltanto la sinistra, in
particolare il Pci, aveva colto e seguito e, in alcuni
casi, aiutato concretamente.
Il filo atlantismo commisto al pregiudizio antiislamico
avevano impedito al mondo cattolico, ai
suoi governi di assumere una posizione di
comprensione, di solidarietà quantomeno politica.
Come detto, la prima, vera occasione in cui i
sommovimenti arabi destarono l’attenzione
preoccupata degli italiani fu, proprio, la “rivoluzione”
del 1° settembre 1969 in Libia ad
opera del gruppo di giovani ufficiali guidati da
Muammar Gheddafi.
La presenza (e la sorte) di circa 20.000 italiani
nell' ex colonia giustificavano la preoccupazione e
inducevano il governo a intraprendere i passi
necessari per tutelarla.
2... Contrariamente a quanto si pensa, non fu
Giulio Andreotti a elaborare e a inaugurare la
nuova politica estera italiana verso la Libia e, in
generale, verso il mondo arabo. Fu Aldo Moro,
nel 1969 ministro degli esteri, cui capitò fra capo
e collo la responsabilità di gestire lo scottante
dossier Libia, i rapporti col nuovo regime insediatosi
a Tripoli, resi difficili dal rimpatrio forzato
degli italiani.
Una “rivoluzione” per tutti inattesa, svoltasi sulla
falsariga di quella egiziana del 1952 attuata dagli
“ufficiali liberi” guidati da Abdel Gamal Nasser.
Gheddafi e i suoi commilitoni s’ispirarono alle
idee e alle grandi opzioni politiche e sociali del
“rais”, considerato il nuovo profeta della rinascita
della “nazione araba” in chiave popolare e socialisteggiante,
del quale si proclamarono seguaci…
a sua insaputa.
In sostanza, quei giovani ufficiali libici fecero la
“rivoluzione” in nome di Nasser, senza
preavvertirlo.
Tanto che- nota Mino Vignolo nel suo citato libro
“Gheddafi”- Muammar Heykal, inviato da Nasser
per prendere contatto con gli autori del colpo
di stato, atterrato a Bengasi cercò, invano, Abdulaziz:
“Dov’è Abdulaziz? E’ convinto che il nuovo
leader sia Abdulaziz Shalhi, il capo di stato
maggiore dell’esercito con cui Nasser ha ottimi
rapporti. Heykal non sa che il suo uomo che
aveva preparato il putsch per il 4 settembre, è in
carcere…”
Evidentemente, ci fu un contrattempo nel
calendario delle “rivo-luzioni”. Nel senso che
Gheddafi anticipò di tre giorni la “sua” e, così,
riuscì a fregare e, a incarcerare, il potente
concorrente.
Comunque, a parte tale inconveniente, i rapporti
fra Gheddafi e il presidente egiziano furono
intensi e proficui, fino al punto che Nasser, pochi
mesi prima di morire, lo indicò come il suo
“erede” politico più coerente e determinato.
Aldo Moro, che era ben edotto sulla realtà di tali
rapporti mediante le puntuali informative della
nostra ambasciata del Cairo, colse il senso e la
portata del mutamento politico avvenuto in Libia
e in atto nel mondo arabo e, facendo di necessità
virtù, impresse un approccio più ravvicinato e
dialogante, di moderata autonomia (rispetto ai
vincoli dell’Alleanza atlantica) alla politica estera
italiana verso quelle realtà in ebollizione.
La nuova impostazione nasceva, certo,
dall’esigenza di tutelare gli italiani in Libia, ma
anche da una prospettiva di collaborazione e di
dialogo diretto, anche al di fuori della stringente
logica dei blocchi contrapposti.
Nell’ottobre del 1969 (a poco più di un mese dal
colpo di stato di Gheddafi), in un discorso alla
Camera, il ministro degli esteri Moro presentò le
linee essenziali della nuova concezione dei
rapporti politici con la Libia, indicando le
principali direttrici di marcia per meglio affrontare
i problemi specifici nel segno della collaborazione.
Ecco un passaggio, commentato da Arturo
Varvelli.
“Il discorso di Moro aveva due valenze: era una
chiara risposta alla sinistra, ma, non a caso, si
rivolgeva direttamente a Gheddafi e ai nuovi
governanti libici dopo gli attacchi alle potenze
straniere dei giorni precedenti. Moro era
preoccupato di delineare chiaramente la politica
dell’Italia agli occhi della Libia. Quella del
leader democristiano si profilava come una
politica estera “etica”.
Evidenziava l’anticolonialismo della Repubblica e
si pronunciava a favore di un assoluto rispetto
dell’indipendenza e dell’integrità di tutti gli Stati
del Mediterraneo, e insieme tendeva una mano a
quei Paesi, avendo probabilmente in mente la
Libia, che desideravano agire in autonomia dagli
Stati Uniti e dall’Unione Sovietica.”
Concludendo con un’ assicurazione e con un
invito rivolto ai capi del nuovo regime:
“Siamo pronti a cooperare con i nuovi dirigenti
libici nel comune interesse che lega i nostri due
Paesi, le cui popolazioni si comprendono e le cui
economie si completano, come è dimostrato
dall’andamento degli scambi commerciali…” 1
3... L’intuizione di Moro fu, in generale,
apprezzata e sostenuta dalla gran parte dello
schieramento politico e parlamentare e sarà
verificata, confermata e sviluppata nel corso degli
anni successivi, sia nei rapporti con la Libia sia
con altri Paesi maghrebini e arabi: Tunisia,
Algeria, Marocco, Egitto, Siria, Libano, ecc.
Il punto più critico dei rapporti con i libici si
raggiunse nel luglio del 1970, quando Gheddafi
decretò l’espulsione dalla Libia di circa 20.000
1 A. Varvelli “L’Italia e l’ascesa di Gheddafi”
Editori Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2009
italiani provocando un grave dramma sociale e
umano e serissimi problemi al governo italiano.
Moro, nell’impossibilità di bloccarla, se ne fece
una ragione. Anzi, secondo un telegramma inviato
il 6/9/70 da Tunisi ai Capi dello Stato e del
governo italiani, ne diede un’interpretazione politica
tendente a sdrammatizzare.
“L'esproprio e la cacciata della comunità italiana
servono in parte anche a coprire la ritirata
ideologica di Gheddafi sul fronte della lotta a
Israele, oltre che a ribadire il carattere
rivoluzionario del regime. I Colonnelli han
bisogno di gesti del genere (anche nel settore del
petrolio, ove si contenteranno per ora
dell'aumento del prezzo), così come
continueranno ad avere bisogno di complotti, veri
o falsi. A organizzare questi ultimi pensano i
servizi speciali egiziani".
(Alberto Custodero in “La Repubblica” del 9/8/2008).
Se non proprio giustificativa, tale posizione
appariva quasi comprensiva, tipica di chi non
cerca vendetta ma un buon accordo.
Una conferma indiretta di tale proposito si ebbe in
quello stesso anno, quando l’opposizione libica, in
combutta col governo ingle-se, mise in atto un
piano per rovesciare Gheddafi.
Aldo Moro avrebbe potuto aiutare i congiurati e
punire chi aveva scatenato la campagna contro gli
italiani. Invece, diede al generale Vito Miceli,
capo del Sid, l’ordine di bloccare (a Mestre) la
partenza della nave dei golpisti e così salvare
Gheddafi e il nuovo regime da un attacco che
poteva essergli fatale.
Seguì, il 5 maggio 1971, un cordiale incontro tra
Moro e il Colonnello nel quale il ministro degli
esteri italiano si rese disponibile verso le richieste
libiche, spingendosi addirittura- come sostiene
Custodero - a promettergli la“fornitura di mezzi di
trasporto navale ed aerei, in particolare elicotteri
o aerei da addestramento ”.
La nuova politica estera italiana verso l’area
mediterranea e araba troverà la sua più solenne
enunciazione nella Conferenza internazionale di
Helsinki (1975) sulla pace e la sicurezza nel
Mediterraneo.
In quella eccezionale vetrina delle nazioni, Aldo
Moro pronunciò un memorabile discorso nel quale
ribadì ed ampliò la nuova strategia italiana, mirata
a rinsaldare i legami di cooperazione pacifica con
tutti i Paesi rivieraschi, alla ricerca di un ruolo
dell’Italia, relativamente autonomo rispetto alle
strategie Usa e Nato.
Questo fu il vero punto di svolta della politica
estera italiana che sicuramente sarà stato notato, e
annotato, a Washington. Bisogna dare atto ad
Aldo Moro di avere saputo, dal versante governativo,
concepire e pilotare un processo
fondamentale sul quale si baseranno le politiche
dei governi successivi.
A quel tempo, Andreotti, più volte ministro e capo
del governo, giocava a fare il leader di una destra
moderata, filo atlantica, che non disdegnava i voti
della destra neofascista in Parlamento e i
“consigli” provenienti dal Vaticano e dalla Casa
Bianca.
Soltanto nel 1976, col suo governo delle “larghe
intese” e poi con quello di “solidarietà nazionale”
(1978) nella cui maggioranza parlamentare
figurava il Pci, l’on. Andreotti raccoglierà (quasi
se la intesterà) quella ispirazione, dai comunisti
molto caldeggiata, volta a costruire una nuova e
unitaria politica araba e mediterranea dell’Italia.
D’altra parte, è noto che l’on. Andreotti non fu un
grande stratega ma, soprattutto, un diligente
esecutore.
A tale svolta contribuì, in misura rilevante, il Pci
che, fin dalla fase delle lotte di liberazione
nazionale dei paesi arabi, era stato l’unico partito
italiano a prospettarla, a rivendicarla, facendo
anche tesoro dell’esperienza di Enrico Mattei nel
mondo arabo.
Quando i capi della Dc (fra questi anche Amintore
Fanfani) si accorsero della “questione araba”, il
Pci aveva, da anni, maturato un patrimonio di
contatti e di proposte, realizzato esperienze di
solidarietà e collegamenti con movimenti e partiti
arabi, la gran parte dei quali erano al governo nei
rispettivi Paesi.
Insomma, questa convergenza non fu un
“inciucio”.
Da entrambi le parti (Dc e Pci) si era consapevoli
di aver operato una scelta responsabile, impegnativa,
autonoma a difesa della pace e della
cooperazione nel Mediterraneo, a tutela dei
legittimi interessi economici italiani nel mondo
arabo.
Il generale Miceli in soccorso di Gheddafi
1... In questo nuovo clima, i governanti italiani,
al pari di taluni altri leader europei, agirono per
proteggere il regime del giovane Colonnello dagli
attacchi e dai tentativi di golpe portati avanti
dall’entourage del re Idriss in combutta con
vecchie potenze coloniali.
In diverse occasioni, l’Italia svolse un ruolo,
addirittura, di tutela del nuovo regime di Tripoli.
Abbiamo già detto del soccorso dato a Gheddafi,
nel 1970, per far fallire “l’operazione Hilton”.
La collaborazione tra i servizi continuò nel tempo.
Ovviamente, Miceli non agì per simpatia
personale verso il Colon-nello ma, come più volte
mi raccontò, per ordine dei governanti italiani, in
particolare di Aldo Moro, i quali, saggiamente,
erano consapevoli che per tutelare gli interessi
italiani in Libia bisognava salvare Gheddafi.
Vicende arcinote anche perché oggetto di
numerose inchieste gior-nalistiche e perfino
d’indagini giudiziarie che, però, il generale, divenuto
nel 1983 mio collega in commissione
Difesa e vicino di ufficio nell’ex convento di
Vicolo Valdina, ogni tanto mi raccontava,
ripetendosi. Forse, pensando di farmi cosa gradita,
poiché sapeva delle mie relazioni politiche con
esponenti libici, palestinesi e di altri Paesi arabi.
Del resto anche di lui si diceva che fosse “filo
arabo”.
Etichette, usate per sviare i problemi, per non
affrontarli. Personalmente, non sono stato mai
“filo” qualcosa o qualcuno, ma solo un sostenitore
della giusta causa dei popoli arabi e in particolare
di quello palestinese. Per questo mio impegno fui
indicato, in un discorso alla Camera, da Giorgio
Almirante (capo politico di Miceli) come “amico”
di Arafat e dei gruppi “terroristi” palestinesi e
arabi. Venendo da lui, considerai l’accusa un
grande onore!
2... A scanso di equivoci, desidero precisare che
col generale Vito Miceli non ebbi mai relazioni
confidenziali, di vera amicizia. Eravamo collocati
su sponde politiche contrapposte. Ci divideva il
fiume della storia: lui sulla riva destra ed io su
quella sinistra e non c’erano ponti a congiungerle.
Fra noi ci fu solo un rapporto fra colleghi di commissione
che si rafforzò a seguito di un episodio
accaduto a New York, durante una visita negli
Usa di una delegazione della commissione
Difesa.
Il fatto successe in una gelida sera di febbraio
1986, all’uscita dal teatro Broadway, dove
eravamo andati a vedere il celebre musical “Cats”.
Nella via c’era un freddo estremo, provocato da
folate di vento glaciale provenienti dal nord.
Eravamo in attesa del “verde” per raggiungere il
ristorante posto nella parte opposta dell’avenue.
Improvvisamente, vedemmo il generale
accasciarsi a terra.
In quel trambusto e nell’attesa di trovare un
medico, pensammo di toglierlo dal gelo e di
portarlo, a braccio, all’interno del ristorante.
Al caldo, l’anziano generale si riprese; “niente,
nulla di grave…” ci rassicurò. Non volle che
chiamassimo un medico per un controllo.
Partecipò al pranzo, come previsto.
Dopo questo episodio, Miceli prese a guardarmi
con una certa simpatia. Mi chiamava “paisà” per
via della comune origine siciliana (era nativo di
Trapani anche se mi disse che la famiglia paterna
proveniva da Castronovo di Sicilia, in provincia di
Palermo).
Da vecchio volpone, con l’occhio allenato, più di
una volta mi avvertì di “fare attenzione” alla bella
interprete che spesso s’intratteneva con me. “Stai
attento, paisà, quella è una tigre. Te l’hanno
messa alle calcagna per controllarti”.
Los Angeles, marzo 1986. Agostino Spataro e Vito
Miceli durante il viaggio negli USA
Lo diceva con un sorrisino appena accennato che
lasciava trapelare tutta la sua esperienza in fatto di
spionaggio e di controspionaggio. La cosa poteva
avere anche un fondamento poiché ero uno dei tre
comunisti approdati negli Usa, in deroga a un
divieto di legge, che stavano visitando importanti
basi militari americane, compresi i silos dei
missili nucleari intercontinentali.
3... La visita della delegazione in Usa andò
molto bene. Fu molto utile (almeno per noi) per
conoscere taluni aspetti delle relazioni politiche
bilaterali in campo militare e anche alcuni siti e
infrastrut-ture di notevole importanza strategica.
Il dato più rilevante, inedito, sul piano politico di
quella visita era costituito dal fatto che, per la
prima volta, alcuni esponenti qualificati del Pci
erano stati invitati, ufficialmente, dall’amministrazione
Reagan e ricevuti al Pentagono dal
segretario della difesa in carica.
Come scrissero diversi quotidiani nazionali (dal
“Messaggero” al “Giorno”, da “l’Unità al “Il
Tempo” ecc), “per la prima volta Weimberger ha
ricevuto (al Pentagono) tre parlamentari
comunisti italiani: gli onorevoli Vito Angelini,
Giuseppe Gatti e Agostino Spataro.”
Di là delle persone coinvolte, il fatto ebbe un certo
rilievo per questa “prima volta” di tre esponenti
del Partito comunista italiano che mettevano,
ufficialmente, piede dentro il Pentagono.
La preparazione della delegazione era stata molto
laboriosa e accompagnata da una sorta di trattativa
fra la Camera dei Deputati e la sede diplomatica
Usa per aggirare, in qualche modo, il divieto di ingresso
di comunisti negli States.
Per altro, in base al programma della visita, i
delegati comunisti avrebbero avuto contatti
politici qualificati e accesso ad alcune importanti
infrastrutture missilistiche (anche nucleari) e di
comando e controllo.
Alla fine, prevalse il buon senso. L’ostacolo fu
aggirato sulla base di un escamotage secondo cui
la nostra richiesta di visto non era avanzata da
cittadini italiani iscritti al Pci, ma da membri del
Parlamento italiano invitati, in delegazione, dal
ministero della Difesa Usa.
Strani questi americani! Avevano fatto tante storie
per concederci il visto d’ingresso, ma, una volta
entrati, ci hanno fatto visitare perfino una batteria
di missili nucleari intercontinentali in una base
dell’Ohio, vari sistemi d’arma, i laboratori di
ricerca sulle “armi stellari” a Livermore (San
Francisco) e il comando sotterraneo del Norad di
Cheyenne Mountain, nei pressi di Colorado
Spring.
L’unico divieto al quale tenevano era quello di
non fotografare gli impianti. E noi lo
rispettammo!
4... Fummo ricevuti al massimo livello politico e
militare: dal Segretario di Stato alla Difesa,
Caspar Weinberger, e dall’ammiraglio William
Crowe, presidente del comitato dei capi di stato
maggiore delle forze armate statunitensi.
Anche questo era un segno importante di
considerazione politica per una delegazione
parlamentare italiana che, per giunta, includeva
alcuni deputati comunisti.
Nei pourparler preparatori dei due incontri politici
feci sapere ai colleghi della delegazione che ero
intenzionato a porre al segretario di Stato e
all’ammiraglio una domanda circa le voci, già
circolanti in taluni ambienti in Italia, di un
prossimo attacco Usa alla Libia.
Fui vivamente sconsigliato dal porre domande del
genere che avrebbero potuto turbare il clima di
amicizia e l’ottima accoglienza riservataci, senza,
per altro, potere sperare di ottenere una risposta
appropriata.
L’on. Attilio Ruffini, capo della nostra
delegazione, me lo disse più di una volta: “Mi
sembra una cosa inutile oltre che inopportuna. E
poi, scusami, ammesso che ci sia qualcosa di
vero, lo vengono a dire a te, a me?”
Anch’io ero convinto che l’avrebbero negata o
ignorata. Tuttavia, posi lo stesso la domanda per
far sapere loro che la “cosa” già si sapeva in giro.
Infatti, Crowe negò tale possibilità senza
tentennamenti, mentre Weimberger, semplicemente,
non rispose alla domanda. Salvo, 40 giorni
dopo, scatenare il micidiale attacco contro la
Libia.
La super corrente “filo araba” della
Democrazia Cristiana
1... Come detto, la svolta di Moro, proseguita da
Andreotti, si trascinò dietro buona parte della
Democrazia Cristiana, personalità eminenti del
Vaticano, settori dei movimenti sociali e del
sindaca-lismo d’ispirazione cattolica, enti a
partecipazione statale, ecc. L’Eni aveva già una
sua politica estera “filoaraba”.
L’Associazione italo - araba prese atto, con
soddisfazione, di tale cambiamento e, per tutta,
risposta rielaborò la sua impostazione politica,
rinnovò e ampliò la sua struttura dirigente, stabilì
nuove relazioni con i partiti italiani di governo e
di opposizione.
Realizzò la sua piccola svolta col pieno accordo di
Lelio Basso il quale lasciò la presidenza effettiva
per favorire il “nuovo corso” e il più ampio
processo di accorpamento politico unitario
all’interno dell’associazione.
Ai rappresentanti dei partiti e dei sindacati di
sinistra (soprattutto del Pci e dell’ex Psiup) e di
alcuni movimenti e centri d’ispirazione
terzomondista, si aggiunsero autorevoli
rappresentanti della sinistra democristiana, della
Cisl, del Psi e qualcuno perfino del Psdi.
Aderirono anche alcuni fra i più eminenti
orientalisti e insigni esponenti del mondo
accademico (fra cui: i professori Francesco
Gabrieli, Umberto Rizzitano, Bianca Maria
Scarcia Amoretti, Francesca Corrao, Franco
Cardini, Giorgio Giovannoni; giornalisti di
primissimo piano fra i quali Igor Mann (celebre
inviato de “La Stampa”), Dino Frescobaldi,
(inviato e acuto editorialista del “Cor-riere della
Sera”), Eric Salerno (inviato de“Il Messaggero”),
Giancarlo Lannutti (inviato de “l’Unità”), ecc.
Insomma, il meglio che c’era sulla piazza.
Queste personalità non furono inserite negli
organi direttivi come elementi puramente
decorativi, ma partecipavano attivamente al
dibattito e alle iniziative dell’Associazione della
cui presidenza nazionale erano membri. In questa
veste, Dino Frescobaldi fu incaricato di curare i
delicati rapporti col fondo arabo (Anaf) di Londra.
Attorno all’Associazione si aggregò una buona
compagine, amica della giusta causa araba e non
nemica dei legittimi diritti d’Israele, rappresentativa
dell’intero “arco costituzionale”, come,
allora, si usava dire.
Solo i repubblicani non vollero aderire. Credo per
una sorta di pregiudizio verso gli arabi. Pazienza.
In verità, nessuno sentì molto la loro mancanza.
Molti, in Parlamento e sui giornali, scambiarono il
sodalizio per una “lobby” araba da contrapporre a
quella ebraico/ israeliana che, effettivamente,
operava da anni con efficienza e senza tanti clamori.
In realtà, la nostra non fu mai un’azione da
lobby, né da “gruppo di pressione” a tutela
d’interessi particolari o, peggio, illeciti, ma
un’iniziativa politica pubblica a favore delle cause
giuste (o da noi ritenute tali) e in generale tesa a
migliorare le relazioni politiche, economiche e
culturali tra il mondo arabo, l’Italia e l’Europa.
2... Per un accordo non codificato, presidente
dell’associazione veniva eletto un esponente di
primo piano della sinistra della Democrazia
Cristiana, possibilmente membro del governo.
Fra questi: Virginio Rognoni (più volte), Luigi
Granelli, Franco Maria Malfatti, tutti ministri o ex
ministri. Negli organismi direttivi figuravano
diversi parlamentari di un certo prestigio, fra cui:
Al- berto Aiardi, Gilberto Bonalumi, Paolo
Cabras, Calogero Pumilia, Piero Bassetti, Guido
Bodrato, Franco Foschi, Carlo Fracanzani, Giuliano
Silvestri, Franco Salvi, Angelo Sanza, il sen.
Giuseppe Orlando.
Insomma, quella democristiana era una
componente numerosa e molto attiva nell’Associazione.
Gli unici due presidenti non democristiani furono
il dottor Giuseppe Ratti, già presidente dell’Eni, e
il dottor Rinaldo Ossola, ex direttore generale e
vicegovernatore della Banca d’Italia, già ministro
per il commercio estero.
Ossola fu eletto, agli inizi degli anni ’80, in primo
luogo, per le sue ottime referenze politiche e
professionali, per il prestigio, anche internazionale,
della sua personalità, ma anche- diciamolo
pure - perché, essendo di area Pri, si sperava in un
rapporto proficuo con il senatore Giovanni
Spadolini, che, in quel momento, era il primo
presidente del Consiglio non democristiano, dopo
Ferruccio Parri.
Rinaldo Ossola fu un ottimo presidente,
competente, aperto e unitario. Il nostro obiettivo
era di far valere i giusti diritti dei popoli arabi, in
particolare di quello palestinese, senza
contrapporli a quelli altrettanto giusti del popolo
israeliano ad avere uno Stato sovrano e sicuro
entro i confini sanciti dalle risoluzioni dell’Onu.
Tutte le pretese che andavano fuori di tale
contesto, non potevano essere da noi sostenute.
Questa era la nostra regola. Purtroppo, chi la
trasgrediva, collocandosi fuori del contesto legale
delle Nazioni Unite, erano, in primo luogo, i
governi israeliani che rifiutavano di applicare le
diverse risoluzioni dell’Onu che impongono la
restituzione dei territori palestinesi e siriani
occupati dal 1967. Com’è noto, tale rifiuto
persiste fino ai nostri giorni.
La visita di Jallud a Roma
1... Durante la presidenza Ossola, accadde un
episodio, a dir poco, singolare che i giornali
enfatizzarono nei suoi aspetti più bizzarri per
farne un caso di stravaganza protocollare e
d’inaffidabilità dei dirigenti libici.
Mi riferisco alla visita a Roma del maggiore
Abdessalam Jallud, numero due e primo ministro
del regime libico. E vera testa politica pensante,
aggiungo io.
Prima di raccontare il fatto, bisogna ricordare gli
antefatti.
Da anni, e da più parti, si lavorava per convincere
il governo italiano a invitare, a Roma, Muammar
Gheddafi, leader di un Paese con il quale l’Italia,
oltre ai rapporti storici, intratteneva ottime relazioni
economiche e commerciali.
D’altra parte, già un Paese europeo, l’Austria,
aveva ricevuto il Colonnello ai massimi livelli
istituzionali.
I diversi governi italiani, invece, non si
decidevano a diramare l’invito per contrasti
interni al blocco di maggioranza. Sapevamo che
buona parte dei membri del governo, la stessa
presidenza della Repubblica, avrebbero voluto
invitarlo, ma c’erano forze potenti, interne e
internazionali, che opponevano una sorta di veto
politico.
Figurarsi con l’arrivo a Palazzo Chigi di
Spadolini. Manco a parlarne!
A un certo punto, fu affacciata un’ipotesi
subordinata: invece di Gheddafi, invitare Jallud,
suo intimo amico e consigliere, il quale nella
complessa macchina di governo libica svolgeva
mansioni equivalenti a quelle di “primo ministro”.
Pareva un compromesso accettabile, equo.
Spadolini, però, non volle sentire ragioni: non si
opponeva in linea di principio alla visita, ma
dichiarò che non l’avrebbe ricevuto a Palazzo
Chigi, come prescriveva il protocollo oltre che il
buon senso politico.
I libici dell’ambasciata di Roma erano furenti e,
facendo eco alle reazioni di Tripoli, consideravano
l’ulteriore rifiuto un grave errore per
l’Italia e un modo rozzo e lesivo della dignità e
della sovranità libiche.
Effettivamente, Tagazzi aveva ragione di
protestare. Spadolini era irremovibile, perfino
alterato, nel trattare la questione. Dimenticando,
oltre le buone maniere, che in ballo c’erano
interessi davvero vitali dell’Italia e tanti
importanti dossier che attendevano di essere
esitati dalla Commissione mista italo-libica che
non si riuniva da cinque anni.
2... Ecco allora affacciarsi una soluzione,
eccepibile sul piano protocollare, tuttavia utile per
evitare una crisi seria nelle relazioni fra i due
governi.
L’idea era la seguente: Jallud poteva venire in
Italia per svolgere i vari incontri politici,
ministeriali e istituzionali (sarà ricevuto da
Ciriaco De Mita, da Enrico Berlinguer, dal
presidente del Senato, Amintore Fanfani), mentre
avrebbe potuto incontrare il capo del governo,
Spadolini, (suo pari grado) in casa del suo amico
Rinaldo Ossola, presidente dell’Associazione
nazionale di amicizia italo araba, dove entrambi
sarebbero stati invitati a cena.
Spadolini si dichiarò possibilista. Non poteva dire
di no anche a una cena in casa di un amico. I libici
si sentivano insultati, discriminati poiché, negli
stessi giorni della visita di Jallud, sarebbe stato
ricevuto dai massimi rappresentanti istituzionali
italiani un altro leader della “nuova”Africa, il
presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe.
All’ambasciata della Jamahjrya mordevano il
freno per non mandare tutto per aria.
Alla fine, si concordò per la cena in casa Ossola,
in via dei Due Macelli, a Roma, alla quale
avrebbero partecipato Jallud e Spadolini e
pochissime altre persone.
Tutto pareva essere stato appianato, il clima si
rasserenò, anche se qualche mugugno ancora
circolava.
3... Venne la sera dell’incontro a cena. Il fatto mi
fu raccontato da alcune persone bene informate.
Spadolini si presentò in casa dell’amico Ossola,
con un po’ d’anticipo sull’ora concordata, in
attesa di Jallud il cui arrivo era stato confermato
dall’ambasciata, qualche ora prima.
Giunse l’ora ma non Jallud. Ma si sa- avranno
pensato i commensali- gli arabi sono come i
siciliani che fissano un appuntamento a un’ora
quasi sempre approssimativa: “ci vediamo
verso…”. Quasi che per arrivare all’ora stabilita ci
fosse un cammino da fare nel…tempo.
Trascorsero i minuti, la mezz’ora, l’ora, le ore e di
Jallud nemmeno l’ombra. Non arrivò neanche
una telefonata per giustificare il clamoroso
ritardo. Da casa Ossola si cercò di contattare
l’ambasciata ma, a parte il centralinista, nessuno
dei funzionari era in sede.
Spadolini diventò rosso in viso come un
peperoncino indiano, indignato e infuriato, ruppe
gli indugi e lasciò la casa dell’amico senza
assaggiare nulla di quel ben di Dio che la gentile
signora ospite aveva fatto preparare con certosina
ricercatezza, tenendo conto del livello e dei gusti
degli illustri commensali.
4... L’episodio, a dir poco imbarazzante, circolò
negli ambienti diplomatici, in Parlamento,
soprattutto tra gli addetti ai lavori. Ne parlai con
Mufta funzionario dell’ambasciata libica, un
amico personale col quale, talvolta, si poteva
perfino ironizzare, senza nominarlo, su qualche
marachella del Colonnello.
Questi mi disse che la messinscena fu architettata,
personalmente, dal maggiore Jallud il quale, pur
essendo molto dispiaciuto di non potere onorare
l’invito del dottor Ossola, decise di sabotare la
cena per“indispettire Spadolini, per fargli provare
cosa significhino la discriminazione, le cattive
maniere”.
Invece che a via dei Due Macelli, a casa di
Ossola, Jallud e la numerosa delegazione libica, si
diressero a un altro indirizzo nei dintorni, in via
Veneto, in uno dei tanti locali della “Dolce vita” a
fare bagordi. Per Sandra Bonsanti “Jallud ballava
la danza del ventre, coperto solo di un pareo, in
un grande albergo di Roma…” 2
Su questo particolare nulla mi fu riferito dal mio
amico.
Evidentemente, la giornalista invece di richiamare
la grave responsabilità di Spadolini per avere
discriminato il “primo ministro” di un Paese con il
quale l’Italia intratteneva relazioni molto importanti,
tese a ridicolizzare il “discriminato”.
Vecchia e abusata tattica!
Quell’episodio, con Spadolini furioso e i giornali
che ci ricamavano sopra, rischiava di innescare
una grave tensione nei rapporti fra i due Paesi.
Per quel che si poteva dire, senza alludere
all’episodio, feci una dichiarazione ripresa da
“l’Unità”, nella quale ricordavo agli scandalizzati
giornalisti e agli smemorati di Palazzo Chigi che
“la Libia è uno dei rari Paesi Opec con cui
2 S. Bonsanti in “La Repubblica” del 15/5/1986
l’Italia mantiene, ormai tradizionalmente,
rapporti economici e di scambio reciprocamente
vantaggiosi, mentre con altri si registrano pesanti
deficit a nostro sfavore…importanti forze
politiche ed economiche, in Italia e fuori, da
tempo lavorano per il deterioramento delle
eccellenti relazioni economiche esistenti fra i due
Paesi….Tali azioni di deterioramento si
inquadrano nella“più generale manovra politica,
pilotata dall’attuale amministrazione Usa, per
strozzare Gheddafi e il suo regime”. Anche per
questo il deputato comunista- aggiungeva l’Unità
- critica, con particolare vigore il fatto che i
nostri governanti rifiutano di invitare in Italia il
colonnello Gheddafi, come hanno già fatto
l’Austria e altri Paesi.” 3
5... Il comportamento di Jallud colpì anche noi,
soprattutto per l’imbarazzo che avrà creato a
Rinaldo Ossola che, gentilmente, si era prestato a
organizzare l’incontro fra i due primi ministri.
Nonostante la “marachella” anti- Spadolini, non
mutò il nostro punto di vista su Jallud che,
insieme con altri pochi, consideravamo uno dei
più equilibrati e acuti dirigenti libici.
La mia stima verso Jallud continuò nel tempo.
Ricordo di averlo ascoltato in un discorso, del 10
giugno 1989, tenuto nella sala congressi della
“Torre Imad” di Tripoli in occasione della
conferenza sui diritti umani nell’area mediterranea
organizzata dal PSOM, presieduto da Carmine
Bonnici, ex primo ministro laburista di Malta.
Una parentesi. In quell’occasione venne con me
un giovane compagno sardo, di lontane origini
siciliane, Oliviero Diliberto, studioso di diritto,
che includemmo nella delegazione su segnalazione
del comune amico on. Umberto Cardia.
Diliberto fece una buona impressione agli
organizzatori libici tanto che lo invitarono a
presiedere, insieme a me, una sessione della
conferenza.
Credo che quell’esperienza internazionale sia stata
quantomeno di buon auspicio per Diliberto che, di
lì a qualche anno, sarà nominato “guardasigilli”
ossia ministro di Grazia e Giustizia nel governo di
Massimo D’Alema (1998- 2000)
3 A. Spataro in “l’Unità” del 22/5/1982
Tripoli, 1989. A. Spataro, O. Diliberto, dr. Miloud,
segretario del PSOM, alla presidenza del Simposio
sui diritti umani.
Chiudiamo la parentesi e torniamo a Jallud che
quella mattina alla conferenza era la “star”. Si
capì subito, poiché i lavori iniziarono con circa
due ore di ritardo, in attesa che arrivasse il
“numero due”.
Parlò circa un’ora e mezza e fece un buon
discorso, ricco di argomentazioni, di dati, di
riflessioni politiche e perfino filosofiche.
Soprattutto, colpiva il suo modo di parlare, di
atteggiarsi. Non era tronfio, pretenzioso,
imperativo ma persuasivo, flemmatico, con alti e
bassi intervallati da lunghe pause, talvolta, troppo
lunghe che ci fecero temere un blocco del
discorso.
Di fronte a quell’uditorio internazionale egli, più
che l’applauso, cercava il consenso.
Quel giorno Jallud consegnò un premio di
250.000 dollari a Maki, la bellissima figlia di
Nelson Mandela, venuta a ritirarlo per conto del
padre ristretto nelle carceri segregazioniste del
Sud Africa.
Una bella cifra che, oltre al riconoscimento
politico e morale dovuto al grande combattente
antirazzista, contribuiva a finanziare la lotta
dell’ANC contro il regime dell’apartheid sudafricano.
Un aiuto importante alla lotta di liberazione dal
razzismo che, sicuramente, qualcuno annoverò
nella lista degli “aiuti di Gheddafi al terrorismo”.
6... Oggi, nel mondo, tutti corrono a rendere
omaggio al vecchio Nelson Mandela, eroe della
libertà e della dignità del suo popolo, dell’Africa
nera finalmente liberati dal razzismo al potere.
Tuttavia, mentre questa lotta si svolgeva, erano
veramente pochini coloro che la sostenevano con
donazioni e aiuti concreti. E tra questi pochi c’era
Gheddafi.
Di ciò non si sono dimenticati gli attuali dirigenti
sudafricani i qua-li, nel corso della guerra civile
del 2011, hanno tentato una mediazione per
giungere a una soluzione politica nazionale e,
credo, an-che per salvare la vita al loro, generoso
benefattore.
Insomma, ebbi l’impressione che Jallud fosse un
“tipo in gamba”, anche perché, dopo vent’anni,
era ancora il numero due del regime.
A quel tempo, la cerchia dei numeri primi o
interpari si era ristretta, pericolosamente. Dal
Comando generale, composto di dodici membri,
erano usciti (o fuggiti) circa la metà, ben presto
rimpiazzati. Erano sempre in dodici, tuttavia i
numeri che effettiva- mente contavano erano
cinque o sei.
Dall’esterno, si aveva la sensazione che in Libia il
potere reale restava concentrato nel vertice
ristretto del Comando generale della rivoluzione
ossia di Gheddafi e di alcuni suoi fidati
consiglieri, fra i quali, in primis, Jallud.
Ai primi anni ’80, fu varata una riforma profonda
del sistema di governo in base a un meccanismo
articolato su due piani istituzionali: il primo,
rappresentato dal comando della rivoluzione, formalmente
deresponsabilizzato, che rispondeva
solo a Gheddafi, il quale, a sua volta, sosteneva di
essere solo una “guida” morale non più il capo
politico del regime; il secondo, costituito dai
Comitati popolari (a vari livelli) che rispondevano
al Comando della rivo-luzione e al popolo che,
certe volte, era più tiranno ed esigente del
Colonnello.
Un modello, a dir poco singolare, ambiguo che,
però, favoriva un circuito di partecipazione
popolare, sconosciuto in altri paesi arabi nei quali
la tirannia era assoluta e personale.
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