venerdì 30 aprile 2021

COME LA PROPOSTA DI LEGGE “LA TORRE” DIVENNE “ROGNONI –LA TORRE”

di Agostino Spataro
Sulla base di documenti pubblici e di appunti privati - da cui si può ricavare una cronologia degli ultimi giorni di Pio La Torre, fra Roma e Palermo- sto cercando di ricostruire alcune vicende e passaggi, politici e parlamentari, che precedettero l’assassinio di Pio La Torre e di Rosario Di Salvo. Non prevedo nuove rivelazioni, solo precisazioni rispetto ad alcune inesattezze riportate, nel tempo, su diversi organi di stampa e perfino in alcuni libri dedicati. Così come mi terrò a debita distanza dai tanti processi relativi di cui sconosco le carte e anche per rispetto del lavoro autonomo dei magistrati che- come mi disse, un giorno, il giudice Giovanni Falcone *, che si occupò del delitto La Torre, “i politici, i giornalisti possono fare ipotesi, pubblicarle, noi magistrati dobbiamo attenerci ai fatti, alle prove”. Giustissimo! Il riferimento era all’ipotesi- da noi prospettata nel libro “Missili e Mafia” **- in cui fra le cause del delitto affacciammo anche quella della lotta contro i missili nucleari di Comiso, di cui La Torre fu un animatore indefesso e unitario. Con la presente nota cercherò di chiarire, per quanto possibile, come si giunse alla fusione fra la proposta di legge "La Torre e altri" e il disegno di legge governativo a firma dei ministri Rognoni (Interno), Darida (Giustizia) e Formica (Finanze). Un passaggio-chiave, politicamente assai rilevante nella strategia dello Stato nella lotta al crimine organizzato. In Sicilia e altrove. Per agevolare la lettura di tali passaggi è necessario procedere in base alle date di svolgimento. 31 Marzo 1980: è presentata alla Camera dei Deputati la proposta di legge del Pci, "La Torre e altri" che, purtroppo, restò bloccata nelle commissioni Giustizia e Affari costituzionali per lungo tempo.
La situazione si mise in movimento, soltanto 1 anno e mezzo dopo, esattamente l11 novembre 1981, a seguito di un incontro assai importante (vedi sotto articolo de l’Unità) fra il ministro dell’Interno on. Virginio Rognoni e una delegazione del Pci, composta dagli onn: Ugo Pecchioli (resp/bile problemi della sicurezza del partito), da Pio La Torre (segretario reg. Pci) e da Salvatore Corallo, Agostino Spataro e Aldo Rizzo (Sin. ind.).
Come ci aveva preannunciato nell’incontro, pochi giorni dopo, esattamente 20 novembre 1981, il ministro Rognoni presentò al Senato di un disegno di legge governativo.
Il ddl di Rognoni era importante perché affermava, finalmente, il ruolo dello Stato e, al contempo, era assai preoccupante per i destinatari dei provvedimenti. Per la prima volta nella storia repubblicana, un governo a direzione non democristiana (presieduto dall’on. Giovanni Spadolini) manifestava, concretamente, una chiara volontà di lotta alla mafia e, per giunta, su un terreno assai delicato come quello del patrimonio. Inspiegabilmente, però, Rognoni presentò il Ddl al Senato e non alla Camera, dove giaceva il nostro progetto cui poteva essere abbinato per unificare la discussione e assicurarne una rapida approvazione. Insorsero diverse questioni procedurali. Passarono mesi prima di trasferire il Ddl alla Camera, durante i quali un po’ tutti ci attivammo per chiedere al ministro Rognoni di effettuare il trasferimento. Nel mio piccolo, da membro della Direzione del gruppo parlamentare del Pci alla Camera e di coordinatore dei deputati comunisti siciliani a Roma, più volte sollecitai in tal senso l’on. Rognoni, della cui amicizia mi onoro fin dai tempi della sua presidenza dell’influente e unitaria (Dc, Pci, Psi e altri) Associazione nazionale di amicizia italo-araba, della quale fui componente della presidenza in rappresentanza del Pci. Con il trasferimento alla Camera del ddl governativo si rianimò un po’ l’attenzione ma non la discussione. La stampa colse l’occasione per appioppare al testo unificato il titolo di proposta (e poi) di legge “Rognoni-La Torre”. Francamente, non ho mai capito perché non “La Torre-Rognoni” visti la cronologia e- soprattutto il fatto che la proposta La Torre era molto più completa e impegnativa. Ma non ne facemmo una questione nominalistica. Importante era aver acquisito l’impegno concreto del governo. Com’è noto, l’approvazione avverrà, un po’ in fretta e furia, il 13 settembre 1982, dopo i due più efferati eccidi di Palermo: di Pio La Torre e Rosario Di Salvo (30 aprile 1982) e del gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Russo (3 settembre 1982). Erano trascorsi due anni e otto mesi per giungere all’approvazione. Nel frattempo, si era inasprita la recrudescenza del fenomeno in Sicilia. Soprattutto a Palermo c’era il finimondo! I morti ammazzati si contavano a centinaia. Nessuno capiva che cosa stesse accadendo all’interno di Cosa nostra. Era in atto una gran resa di conti (quali conti?) o un sommovimento, un cambio di regime all’interno della mafia? Uno dopo l’altro, caddero i capi delle “famiglie” palermitane più potenti e decine, centinaia di gregari. Non c’era dubbio: quando la guerra di mafia raggiunge tali livelli di scontro non può essere un “aggiustamento” interno, ma una “rivoluzione” mirata a creare un nuovo assetto di potere interno ed esterno. (a.s.) (30 aprile 2021) --------------------------------------------------------------------------------------- * In un incontro casuale nella trattoria dell’hotel Patria di Palermo. ** “Missili e Mafia”, di Paolo Gentiloni (1), Alberto Spampinato, Agostino Spataro- Prefazione di Achille Occhetto. Editori Riuniti, 1985 (1) Paolo Gentiloni è il futuro Capo del governo italiano e l'attuale commississario UE all'Economia. Articoli connessi: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2002/05/03/cosi-la-torre-scrisse-quella-legge.html http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2003/04/29/la-pista-dei-missili.html

lunedì 19 aprile 2021

PAROLE CHIARE SULL'UNGHERIA / Perché Orban ha conquistato la maggioranza assoluta?

 di Agostino Spataro *

 

1… Orban fuori dal PPE: l’asse Budapest, Varsavia, Milano

Nelle settimane scorse, con l’uscita dei parlamentari ungheresi del Fidesz dal gruppo del Partito popolare europeo (Ppe), si è consumato il divorzio fra Viktor Orban e il raggruppamento dei popolari che fa riferimento al partito di Angela Merkel.    

Victor Orban, fondatore e leader maximo del Fidesz, per la quarta volta a capo del governo magiaro, ha ritirato la sua delegazione, forse per prevenirne l’espulsione, ed è alla ricerca di nuove alleanze per creare un nuovo raggruppamento politico e parlamentare nell’area del centro-destra europeo.

Una crisi di appartenenza, sfociata nella rottura (anche se priva di evidenze drammatiche), in un  distacco irreversibile- e da non sottovalutare- foriera di conseguenze, anche serie, sugli equilibri interni allo schieramento prevalente nel Parlamento europeo.

Così come vanno valutate le probabili conseguenze economiche dell’atto compiuto da un piccolo Paese, in difficoltà, che dal punto di vista economico, commerciale dipende più dalla Germania che dalla UE.

Vedremo gli sviluppi, anche per ciò che riguarda i risvolti con la situazione italiana, dove figurano almeno due partiti di centro-destra (Lega e Fratelli d’Italia) assai interessati alle evoluzioni di Orban. 

Sembra essersi delineato un nuovo scenario sull’asse Varsavia- Budapest- Milano attorno al quale aggregare altre forze europee conservatrici e di centro-destra.

Nel disegno del nuovo asse sarà imbarazzante far posto alle formazioni più nettamente di destra di origine neofascista quali il partito della Le Pen in Francia e FdI di Giorgia Meloni in Italia.

Certo, si tratta di supposizioni, d’ipotesi da verificare.

Tuttavia, così a fiuto, non è da escludere , l’offerta di una sponda politica ai movimenti spontanei (meno) di rivolta sociale causati dalle conseguenze drammatiche della pandemia che in Europa è stata gestita piuttosto male.

 2… Orban amico e nemico dell’ungherese George Soros

In quanto a fiuto politico Orban ha dimostrato di possederne tanto. Quando, a metà degli anni ‘90,  fece le prime apparizioni questo giovanotto, sostenuto dal miliardario George Soros (alias Gyorgy Schartz, ebreo ungherese di Budapest e noto speculatore della finanza internazionale), chiesi ragguagli al mio amico Robert Laszlo, ebreo ungherese di Pecs anch’egli costretto a cambiare il cognome di nascita- Roth, per salvarsi dalle retate nazifasciste, grande giornalista e personalità influente, di fiducia del vecchio regime e poi del partito socialista, il quale mi rispose: “Attenti a questo! è ambizioso, ha fiuto politico e vede lontano… E sa comunicare, sa parlare al pubblico…” 

Viktor Orban e George Soros 

      

Qualunque sia il giudizio, credo che non si possa liquidare il ruolo di Orban con la solita accusa  della “democrazia illiberale”- da lui stesso coniata- senza chiarirne il senso e la portata. Un’assurdità gratuita, ad effetto, poiché alla democrazia non può essere accostato un aggettivo così degradante come “illiberale”.

Un ossimoro, una contraddizione evidente che ancor più complica una lettura corretta dell’attuale realtà politica ungherese, incomprensibile a molti. Anche perché sull’Ungheria si sconta un deficit di conoscenza, di corretta informazione, locale ed esterna. Nel senso che si continua a polarizzare l’attenzione sull’effetto ossia sull’enorme potere acquisito da Viktor Orban e si trascurano le cause che lo hanno determinato.

Oggettivamente, non è agevole scriverne specie per chi, venendo da fuori, si accontenta di farsi raccontare (anche per telefono) i fatti salienti dall’amico giornalista magiaro per confezionare il pezzo sulla falsariga di un collaudato cliché. Senza spiegare al lettore europeo come e perché Viktor Orban, alla fine, riesce perfino ad assicurarsi la maggioranza assoluta (l’ultima volta nel 2018) del voto popolare.

Senza dimenticare che stiamo parlando di un piccolo Paese promotore del gruppo detto di “Visegrad” (composto da Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) che consente a Orban e agli altri leader (oggi, soprattutto il polacco) di esercitare una pressione, al limite della rottura, verso l’UE che pure è molto generosa nei finanziamenti nei loro confronti.

Così come, Orban non disdegna la cooperazione con alcune superpotenze mondiali (extra Nato) addirittura in settori strategici: con la Russia (gas e centrali nucleari), con la Cina (“Nuova via della seta e tecnologie informatiche). Ma questo in un’economia di pace (nella quale siamo) non dovrebbe essere una colpa. Semmai un segno di distensione, di convivenza pacifica.    

Inoltre, aggiungo che nella piccola Ungheria (10 mln di abitanti) dietro agli attori locali, protagonisti del confronto politico, operano forze esterne consistenti e munifiche che mirano a condizionare il Paese per portarlo dalla parte dei loro interessi economici e strategici. La questione ungherese si gioca su più tavoli!

 3… Insoddisfacenti i risultati dei governi della sinistra

Una situazione davvero complessa che nemmeno chi- come me che la vive da oltre mezzo secolo per ragioni familiari-  riesce a decifrare, a leggere correttamente.

A volte capita di parlarne con persone che accusano Orban di clientelismo, di favoritismo, di autoritarismo. Avranno pure una qualche ragione, ma non spiegano perché in elezioni democratiche (non ci sono state mai grosse accuse di brogli) la maggioranza degli ungheresi vota per il Fidesz. Taluni svicolano per la tangente, riproponendo la solita solfa di un popolo magiaro  attratto da una ideologia destrorsa, neo razzista, ecc. Ovviamente, esiste una componente di tal fatta. Come del resto in altri paesi, in Europa e nel mondo, dove la paura dell’estinzione delle identità nazionali, etniche induce molti a rifugiarsi nel cd “sovranismo” che ancora troneggia, come principio inalienabile, nelle  Costituzioni democratiche, prima fra tutte in quella italiana che assegna la sovranità al popolo ossia la più grande conquista della storia umana. Chiaro o no?

Riflettendo sulla storia travagliata del popolo ungherese- uscito da mezzo secolo di regime  a partito unico, dalla tragica insurrezione del ’56, nata come protesta degli operai (comunisti) dell’isola di Csepel contro lo stalinista Rakosi-  si rileva che dopo l’89 ha dato, per ben tre volte, la maggioranza ai partiti e agli uomini della sinistra provenienti dal vecchio Posu kadariano.

Evidentemente, i risultati dei governi di sinistra non furono soddisfacenti se una parte consistente dell’elettorato cambiò cavallo e optò per le posizioni di Viktor Orban che, per quanto demagogiche e spregiudicate, riescono a intercettare il malcontento, le preoccupazioni, a sintonizzarsi con le paure e le aspirazioni di una gran parte della popolazione.

 

Il nuovo leader del MSZP 

In politica nulla nasce per caso o per la mala sorte! Ogni fenomeno ha una sua ragion d’essere, una spiegazione. Basta cercarla. Dai dati della tabella allegata si possono notare le due parabole elettorali del confronto fra i due principali partiti alternativi ungheresi.

Il Partito socialista (Mszp) che parte da un 33% del 1994, sale al 43% nel 2006 e crolla all’11% nel 2018, mentre il Fidesz (di Orban) parte da un 29% nel 1998, sale al 52% nel 2010 e si attesa al 49,5% nel 2018. Comunque la si giri il dato è impietoso: 49,5% Fidesz , 11,9% Mszp.  

 4… In Ungheria non c’è stato un pregiudizio antisocialista

Schematizzando, si può dire che nell’ultimo mezzo secolo (1970-2020) in Ungheria sono avvenuti cambiamenti radicali riguardanti il regime politico, le alleanze internazionali - a carattere militare ed economico- e un po’ anche i costumi e le tendenze culturali.

Questo periodo può essere suddiviso in due: il ventennio (terminale) 1970-90 del regime di partito unico, guidato dalla figura pragmatica (realismo socialista) di  Janos Kadar e il trentennio post comunista (1991-2020) caratterizzato da governi democratici (espressioni di libere elezioni) che, per un certo tempo, si sono alternati alla guida del Paese.

Fino a un certo punto si realizzò sorta di “democrazia dell’alternanza” che s’interruppe con la gestione di Orban il quale, forte della maggioranza assoluta, proclamò la nascita della “democrazia illiberale”.

Nel dettaglio dalla tabella n. 1, si nota che per ben quattro volte (1994,1998, 2002, 2006) il neo Partito socialista è risultato il primo partito e per tre volte i suoi esponenti, provenienti dalle fila del  Posu ossia dal partito degli ex comunisti, hanno guidato i governi del paese.

La qualcosa dimostra che nel popolo magiaro non c’è una diffusa pregiudiziale antisocialista, ma un giudizio politico sulla condotta dei governi.

La gente avrà modificato l’orientamento elettorale alla luce dei risultati prodotti dai governi di “sinistra”, purtroppo poco impegnati sul fronte dei problemi dei diritti sociali e assai di più nella colossale opera di privatizzazione, a prezzi stracciati, del patrimonio pubblico, industriale e d’altro tipo, a favore di certi gruppi locali “amici” ed esteri, soprattutto dell’area del marco tedesco.

 5… Una “sinistra” che governa per conto della destra

Spiace rilevarlo, ma l’impressione che se ne trae è quella di un comportamento utilitaristico, furbastro da parte delle oligarchie neoliberiste le quali hanno appoggiato e poi usato i governi di sinistra per attuare politiche di destra. Come è successo in vari paesi europei, dove anche la sinistra “riformista”, socialdemocratica è stata ridimensionata, addomesticata e posta al servizio della finanza e del grande capitale speculativo.                 A questa specie di sinistra, cui sono stati cambiati i connotati politici tradizionali, sono state affidate importanti funzioni di governo per fare il “lavoro sporco” che alla destra risulterebbe difficile fare. Una funzione innaturale, perversa, tanto da far dire che in Europa c’è una “sinistra” che governa per conto della destra.                         Fatte le privatizzazioni esplose la crisi della politica della sinistra ungherese che spianò la strada all’avvento del giovane Viktor Orban, ben visto dai democristiani tedeschi e sostenuto dal suo mentore George Soros, oggi rinnegato e tenuto alla larga. Chissà Orban cosa avrà visto di male in Soros che noi non vediamo? Per un certo tratto anche il Jobbik, formazione ultranazionalista, è stato alleato/concorrente di Orban. Insieme al governo le due formazioni di centro-destra attuarono programmi che da un lato davano “mano libera” e super agevolazioni fiscali agli investitori e dall’altro lato perseguivano una chiusura assurda, politica e culturale, di stampo nazionalistica, mirando a riaccendere i sentimenti nazionalistici latenti. Ovviamente, anche i “sacri furori” di Jobbik non fermarono, anzi agevolarono, i piani di conquista politica di Orban che si affrancò dall’alleanza con Jobbik grazie alla maggioranza assoluta conquistata nelle ultime elezioni legislative.                                                                                                                                   Oggi, Jobbik fa “autocritica” ed è corso a iscriversi al fronte eterogeneo anti Orban, accanto al  partito socialista suo acerrimo avversario, per non dire nemico. Dunque, tutti contro Orban alle prossime elezioni legislative del 2022. Nulla è scontato. Orban ha messo in campo la sua poderosa macchina del potere e del consenso. Il “fronte”potrebbe vincere la guerra elettorale, ma  perdere il dopoguerra della gestione del governo. Vedremo.

 6… Unione Europea: la grande incompiuta

Il mutato scenario indusse gran parte dell’opinione pubblica ungherese, specie delle campagne,

della pustza profonda, a rifugiarsi nel nazionalismo, anche esasperato, che è una tendenza di ritorno soprattutto in quelle situazioni dove i popoli più piccoli (demograficamente) si sentono minacciati, nelle loro identità culturali e storiche, dal dilagare della (in)civiltà del neoliberismo globalista che sta imponendo il livellamento verso il basso delle società, dei ceti sociali, anche medio/ alti, costretti ad adorare, per sopravvivere, i nuovi idoli del “mercato”, del denaro, espressioni di una concezione malefica del progresso che-come i suoi stessi teorizzatori ammettono)- sta "resettando"   il mondo secondo i suoi interessi culturali e materiali.

 

Viktor Orban con Giorgia Meloni e Matteo Salvini

Il nazionalismo, dunque, come paura verso una minaccia concreta. E la paura.- si sa- può generare chiusure verso l’altro, reazioni inconsulte, irrazionali che facilmente si aggrappano a chi si presenta, demagogicamente, come il combattente strenuo che difende la cittadella assediata.

Oggi, tutto ciò accade in Ungheria, in Polonia, ecc. Se non si corregge la rotta neoliberista, non si sconfigge la sua pretesa di dominio è probabile che tali tendenze potranno affermarsi, dilagare perfino, in altri Paesi europei, con  conseguenze imprevedibili, sicuramente assai pericolose per la convivenza pacifica, per la tenuta democratica delle nazioni, del continente.

E la “sinistra” che fa, che farà? Quale Europa vuole: quella dei banchieri e degli affaristi o quella dei popoli, democratica e socialmente equa?

Si tratta di due progetti alternativi, ognuno dovrà scegliere da che parte stare. L’unica cosa che non si potrà più fare è quella di restare, a gambe divaricate, con un piede in uno e un piede nell’altro. Questo è il punto politico dirimente in Ungheria e nel resto dell’Europa, nel mondo.

Il gioco, dunque, è davvero grande, complesso. Non è una faccenda che riguarda soltanto gli ungheresi, gli intrighi di potere dominanti nella politica del Paese, ma la prospettiva generale, politica e culturale, di questa Unione europea, purtroppo, subalterna e incompiuta.

 

Ungheria, le otto elezioni legislative nazionali

La prima consultazione si ebbe nel 1990 e fu vinta dal Forum Democratico di Joszef Antall che divenne primo ministro, con l’appoggio del partito dei “piccoli proprietari contadini”.

Successivamente, ve ne sono state altre sette di cui:

tre furono vinte dal Partito socialista (Mszp, aderente all’I. S.) negli anni: 1994, 2002, 2006. Capi di governo furono, nell’ordine,: Gyula Horn (ex ministro esteri governi vecchio regime); Peter Medgyess, seguito da Ferenc Gyurcsany (ultimo segretario nazionale della gioventù comunista del vecchio regime); ancora Ferenc Gyurcsany;

quattro (1998, 2010, 2014, 2018) sono state vinte da Fidesz e alleati, con primo ministro sempre Viktor Orban, fondatore e leader del Fidesz.

Tabella n. 1

Andamento del consenso elettorale dei due principali partiti alternativi: 1994-2018

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Anno                    Partito socialista                          Fidesz

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1994                           33%                                      Inesistente

1998                           33,9 %                                    29, 4%

2002                           42%                                        41%

2006                           43%                                        42%

2010                           19,3%                                     52,7%

2014                           25%                                        44,8%

2018                           11,9%                                     49,5%

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 Nota a margine.

Politicamente sono assai lontano dalle idee di Viktor Orban che- come scritto in altro articolo-  ebbi la ventura di salutarlo in due occasioni ufficiali: durante una visita in Vaticano a Papa Giovanni Paolo II e a Budapest durante la visita di Massimo D’Alema a Budapest presidente del consiglio italiano. Aggiungo che a  differenza delle due persone citate che- pur avendo intrapreso percorsi assai diversi- si dichiarano entrambe ex comunisti, io sono quel che sono stato e che spero di restare: un comunista. Punto.

Ho scritto questa “cosina” senza pretesa alcuna, tantomeno di essere esaustivo, ma solo per offrire un punto di vista, un contributo alla comprensione di taluni aspetti della realtà politica ungherese che si dibatte fra democrazia e tendenze autoritarie.

D’altra parte, stiamo parlando di una democrazia giovane, da consolidare e far crescere, in un Paese che dopo un lungo periodo di servaggio sotto l’impero “austro-ungarico”, fu trascinato nella sconfitta della prima guerra mondiale che pagò con un alto tributo di morti e con la perdita di gran parte del suo territorio nazionale, come deciso con il trattato di Trianon. Una “punizione” davvero eccessiva!

Nel 1919 ci fu un sussulto rivoluzionario, la breve parentesi della “repubblica dei consigli” di Bela Kun, che fu repressa nel sangue. A questa seguì un periodo di gravi turbolenze, di repressioni sedate dalla ventennale dittatura dell’ammiraglio fascistoide Horti, amico e subalterno di Benito Mussolini, che in cerca di una rivincita sulla storia, condusse l’Ungheria all’abbraccio, mortifero, con il nazifascismo e al disastro della seconda guerra mondiale. Una lunga storia di sconfitte quella dell’Ungheria che continuò anche dopo la vittoria degli eserciti alleati che a Yalta si spartirono l’Europa. I paesi del centro-est furono assegnati all’area d’influenza dell’Urss.

Massimo D’Alema e Viktor Orban sfilano davanti al picchetto d’onore in piazza Kossuth a  Budapest. (io il primo alla sin. Con il  bavero alzato)

Il nuovo regime di chiara obbedienza staliniana subì il primo scossone nel 1956 con rivolta operaia e popolare che sarà repressa nel sangue dagli eserciti dei paesi del Patto di Varsavia. Dopo il ’56, i nuovi esponenti del regime tentarono la via delle riforme moderate, adottando una linea pragmatica e tollerante che arrivò asl 1989, anno del “crollo” del muro di Berlino che, nel volgere di poco tempo, si portò dietro tutti i regimi appartenenti al Patto di Varsavia.

A conti fatti, l’Ungheria ha iniziato a conoscere, a praticare il sistema democratico solo negli ultimi 30 anni. L’esercizio della democrazia autentica non è cosa facile e richiede tempo e la libera partecipazione dei cittadini, nel rispetto di tutte le espressioni politiche e culturali.

(Ioppolo Giancaxio- 20 Aprile 2021)

 * Biografia: https://it.wikipedia.org/wiki/Agostino_Spataro

 Articoli connessi:

https://www.agoravox.it/Budapest-la-fabbrica-del-populismo.html

http://www.cittafutura.al.it/sito/delegazione-dal-papa-lex-compagno-victor-orban/

 

Budapest, marzo 2000- Agostino Spataro ricevuto da Goncz Arpad, Presidente della Repubblica d’Ungheria.. 


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venerdì 16 aprile 2021

UNA NUOVA GUERRA ITALO-TURCA PER IL CONTROLLO DELLA LIBIA? (articolo di Agostino Spataro)

 



di Agostino Spataro*

E’ auspicabile che l’attuale “querelle” italo- turca si chiarisca, e si superi, al più presto possibile, nell’esclusivo interesse della pace e della cooperazione fra tutti i popoli del Mediterraneo.              Altrimenti che cosa facciamo: una nuova, disastrosa guerra italo-turca per il controllo della Libia?                                                                                                                                                      Ricordo che la prima fu iniziata dal governo Giolitti nel 1911 e, a dispetto della patacca commemorativa, fu conclusa nel 1931 (20 anni dopo !) solo a forza dei criminali bombardamenti del generale fascista Graziani, il quale ebbe “carta bianca da Mussolini, e usò i gas letali, i massacri e le deportazioni di massa delle popolazioni libiche, soprattutto della Cirenaica, che sostenevano la resistenza guidata da Omar al Mukhtar, impiccato dagli occupanti colonialisti italiani alla bella età di 74 anni.                                                                                                                  Nel 1911, l’uomo che diede inizio alle ostilità fu il sen. Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano, ministro degli esteri di Giolitti (dal 1910 al 1914), nato a Catania (nel 1852) da un'antica famiglia originaria, come il cognome stesso suggerisce, di Paternò.                                                     Il ministro legò il suo nome all’occupazione coloniale italiana della Libia e delle isole del Dodecaneso. Già allora: la Libia e il Dodecaneso, le isolette vicine alla costa della Turchia, oggi ri-divenute oggetto di una preoccupante contesa con la Grecia.                                                                                        Memorabile rimase l’ultimatum trasmesso, il 27 settembre 1911, alla Sublime Porta (al “Diwan”, divano per intenderci!) col quale s’ingiungeva al governo ottomano di abbandonare la Libia entro 24 ore e senza condizioni. Una dichiarazione di guerra pretestuosa, immotivata nella quale si annunciava l’occupazione italiana, da tempo decisa, affinché (cito dal testo) “giunga a fine lo stato di disordine e di abbandono in cui la Tripolitania e la Cirenaica sono lasciate dalla Turchia…”                            Insomma, buoni propositi e cattive maniere: l’Italia occupò la Libia per far rispettare l’ordine pubblico in quel paese!                                                                                                                              Il ministro giolittiano, forte di un accordo spartitorio con Francia e Gran Bretagna (anche allora!), rifiutò ogni proposta di chiarimento, ogni offerta di concessioni da parte turca e puntò dritto alla guerra, intimando al governo imperiale di dare “gli ordini occorrenti affinché essa (l’occupazione militare n.d.r.) non incontri, da parte degli attuali rappresentanti ottomani, alcuna opposizione…” ( in “La Stampa” del 30/9/1911)                                                                                                                                                                Il resto è noto. Il 4 novembre i contingenti italiani sbarcarono a Tripoli. Ma la guerra si protrasse per vent'anni a causa dell’accanita resistenza delle tribù libiche.                                                                    La concluse, nel 1931, il generale fascista Graziani con azioni di straordinaria ferocia, compresi i bombardamenti con i gas letali e le deportazioni delle popolazioni nei campi di concentramento allestiti anche in Italia.

Foto ricordo con il vecchio Omar al Mukhtar (“Il leone del deserto”) condotto al patibolo.

Altri tempi, altri uomini! O forse no. A mio parere, fra la guerra del 1911 e quella del 2011 la differenza sta in un “neo”, nel senso che la prima fu una guerra coloniale, mentre l’attuale è di stampo neo-coloniale.                                                                                                                             Nel 2011, davvero catastrofiche furono la decisione italiana di entrare nel conflitto anti-Gheddafi e la sua gestione politico-militare e diplomatica. Prima di tutto a danno del mite popolo libico, oggi vittima di una guerra (in) civile voluta e foraggiata da ben note potenze straniere, e in secondo luogo per l’Italia, per i suoi interessi politici ed economici che sono stati seriamente intaccati.                                Il caso volle che nel 2011, fu Ignazio La Russa, un altro ministro originario di Paternò, a gestire la partecipazione militare italiana nella guerra, scatenata da alcuni paesi della Nato, contro la Libia di Gheddafi che- come detto- fu anche una guerra contro l’Italia ossia contro gli interessi italiani in Libia. Quegli interessi che, oggi si sta cercando, faticosamente, di recuperare. O no!                                             Insomma, due guerre alla Libia, a distanza di un secolo (1911-2011) in cui due ministri siciliani ebbero un certo ruolo. Solo una singolare coincidenza o c’è qualcosa che ci sfugge?                                       A ben pensarci, tanta solerzia potrebbe essere spiegata dal richiamo di un legame antico, ancestrale fra la Sicilia e la Libia, risalente addirittura alla fondazione di Tripoli (tre polis) che, secondo Sallustio: “Oeaque trinacrios afris permixta colonos” cioè “Oea, l’attuale Tripoli, sarebbe stata fondata da coloni siciliani insieme ad africani “. (proff. Mastino e Zucca in: www.infomedi.it)                                                         Quasi che i due ministri siciliani, muovendo da questa fondazione mitica, avranno, forse, pensato di accampare qualche pretesa sulla Libia.                                                                                                      Speriamo che così non sia. Altrimenti qualcun altro potrebbe ricordarsi della fondazione del Cairo, avvenuta nel 905 d.C, che secondo una fonte antica fu progettata da un architetto arabo-siciliano, e quindi aprire un contenzioso con l’Egitto… anche su questo.

* da un mio articolo “Paternò alla guerra di Libia” pubblicato su “Infomedi”, Roma, 5 maggio 2011.

 Di queste e altre cose ho scritto in un mio libro: "Nella Libia di Gheddafi"   https://www.lafeltrinelli.it/libri/agostino-spataro/osservatore-pci-nella-libia-gheddafi/9788891077394

https://www.amazon.it/NELLA-LIBIA-GHEDDAFI-Centro-Mediterranei-ebook/dp/B00DSQ1WEG  


sabato 10 aprile 2021

ITALIA- TURCHIA : URGE UN CHIARIMENTO PER SUPERARE LE DIFFIDENZE RECIPROCHE

 


 di Agostino Spataro *

Oggettivamente, l’episodio del “divano turco” è increscioso e va rilevato. Tuttavia, non si dovrebbe enfatizzare più di quanto non hanno fatto i due rappresentanti della UE presenti all’incontro con il presidente Erdogan.  Infatti, come dichiarato da Charles Michel, presidente del Consiglio europeo e pertanto personalità UE più alta in grado, si è preferito andare alla “sostanza” che- come noto- sono gli accordi, appunto sostanziosi, fra la UE e la Turchia in diversi settori. In primo luogo quelli relativi al contenimento dei flussi migratori e dei profughi.                                                                            Partiamo dalla scena madre, dove si vedono assise su due sontuose sedie Michel e Erdogan ossia le due personalità più rilevanti delle due istituzioni a confronto e altre due personalità  Ursula von der Leyen,  presidente della commissione UE e il ministro degli esteri turco sedute su due divani.                         Alla sorpresa della signora (che tuttavia partecipa a pieno titolo al dialogo fra le due parti) fa da pendant l’impassibilità del presidente Michel che resta, seduto, a fianco a Erdogan.

Per cercar di capire si rende necessario svolgere alcune osservazioni.

1… Credo sia impensabile che un incontro così importante e al massimo livello si potesse svolgere  senza un’adeguata preparazione e programmazione e al di fuori dei protocolli del cerimoniale.           Come da consuetudine, i due uffici preposti al cerimoniale avranno discusso e concordato sia i temi in agenda sia gli aspetti protocollari.                                                                                                           C’è da ritenere che la disposizione delle sedie e dei divani sia stata discussa fin nei minimi particolari e condivisa da ambo le parti. Per cui, le eventuali rimostranze da parte UE vanno rivolte in primo luogo agli addetti al cerimoniale che in tal senso hanno disposto i posti a sedere.    In particolare, agli addetti della UE che-  qualora in disaccordo- potevano consultarsi con i loro referenti politici e far decidere loro in ultima istanza.                                                                                              Se tale disposizione veniva percepita come lesiva del prestigio istituzionale e della dignità di genere della signora Leyen, l’autorità politica avrebbe potuto, per protesta o per altri validi motivi, non dar seguito agli incontri.                                                                                                                                      Dalle dichiarazioni del signor Michel c’è da ritenere che i funzionari UE avranno informato, per tempo, i rappresentanti politici e che da questi (da uno o da entrambi? ) ne abbiano ricevuto via libera, poiché – come scrive Michel-  ”si è preferito andare alla sostanza”.                                                                          C’è da desumere che egli sia stato informato, ma non ha voluto farne un problema.

2… Se così si sono svolti i fatti, allora bisognerebbe indirizzare gli strali e quant’altro, innanzitutto verso coloro che hanno approvato e gestito il cerimoniale.                                                                          Un chiarimento in tal senso credo potrebbe agevolare il rientro dalla imbarazzante polemica che ne è seguita. Addirittura coinvolgendo il nostro capo del Governo spintosi a definire “dittatore” il presidente Erdogan. E’ presumibile che per arrivare a tanto il dottor Draghi avrà avuto le sue buone ragioni e soprattutto buone informazioni, che però l’opinione pubblica ancora non conosce.                                                                                                                                                     La reazione può essere compresa qualora si potesse dimostrare che la disposizione (di sedie e divani) fu imposta da Erdogan in persona per umiliare la signora Von der Leyn, in quanto donna e presidente della Commissione UE.                                                                                                                                          In tale eventualità si tratterebbe di una imposizione inaccettabile oltre che offensiva verso una donna al vertice delle Istituzioni europee. Ma bisognerebbe dimostrate tale assunto e- in caso affermativo- spiegare perché fu accettato dai diretti interessati. Solo dopo tali passaggi dimostrativi si potrà condannare fermamente la presunta pretesa del presidente della Turchia. Diversamente, verrà meno la ragione dichiarata della dura reazione e si creerà un “caso” davvero di ardua soluzione. Tranne che non ci siano altre motivazioni e obiettivi che l'opinione pubblica sconosce.                      Perciò è auspicabile che chi di dovere informi l’opinione pubblica su come si siano svolti effettivamente i fatti in quel di Ankara.

 3… La Turchia è un Paese importante, per quanto gestito politicamente in maniera assai discutibile,  a tratti illiberale, facente parte della Nato **, è un partner importante sul fronte economico, energetico e su quello del contenimento degli afflussi d’immigrati e, soprattutto, della valanga di profughi provenienti dalla Siria a causa di una guerra scatenata da tre potenze occidentali (Francia, Inghilterra e Usa) e nella quale si è inserita la Turchia di Erdogan che è al confine ed ha tante questioni aperte da risolvere. In primis quella del popolo curdo, prima vittima delle spartizioni coloniali europee. Evidentemente queste potenze, la stessa UE non intendono rispettare uno dei principi basilari dello Statuto delle Nazioni Unite che è quello della “non ingerenza” negli affari interni dei singoli Stati. Anche nel caso che tali Stati siano ritenuti retti da regimi dittatoriali. Per altro, tale intromissione non è equa: si applica la norma dei “due pesi e due misure”.                                                                            Infatti, esistono altre dittature “amiche” in Medio oriente e altrove che nessuno si sogna di disturbare, d’invadere. Anzi vengono rifornite regolarmente di sistemi d’arma sempre più sofisticati e costosi che consentono a tali regimi di reprimere, nel sangue e con il carcere, tutti i movimenti che aspirano alla libertà, al progresso civile ed economico, alla parità di generi. Emblematica e arcinota è la repressione dei movimenti femminili, di singole esponenti, ma nessun dei governanti europei ha protestato, minacciato i satrapi di questi paesi di non…vendere più armi in cambio di petrolio e d’investimenti finanziari non propriamente limpidi.

Istanbul, 1993, Marmara University, intervento di Agostino Spataro conferenza mediterranea

4…Per concludere, torniamo al “divano turco” *** che ha provocato un vero parapiglia diplomatico internazionale, con probabili conseguenze per l’Italia, visto che il “governo” della UE, i grandi Paesi europei (a iniziare dalla Germania) non hanno attribuito all’episodio molta importanza.                        Di là delle motivazione (che sono basilari), sarebbe problematico per il nostro Paese restare isolato nel sostenere una posizione così aspra contro il presidente della Repubblica della Turchia. Da semplice cittadino, che ha avuto la ventura di occuparsi della politiche mediterranee e mediorientali, non mi permetto di dare consigli a chicchessia. Desidero, soltanto, esternare una preoccupazione (credo piuttosto diffusa) circa l’evoluzione della polemica italo-turca, accompagnata dall’auspicio che si possa giungere a un chiarimento sull’effettivo svolgimento dell’incontro di Ankara che potrebbe contribuire a far superare le reciproche diffidenze e asperità a livello bilaterale.                                                                                                                                 Ripeto, sicuramente tale incontro ha avuto un’adeguata preparazione, secondo i protocolli, per cui la questione del “divano” poteva essere prevenuta e- se del caso- respinta.Vedremo.                          uttavia, oggi sono in ballo le relazioni italo-turche, politiche e non solo, in una fase assai complessa e movimentata in cui la Turchia di Erdogan è divenuta protagonista di un disegno mirato ad acquisire un ruolo internazionale più impulsivo, espansivo talvolta, in una vasta area che va dal Mediterraneo centrale al Medio Oriente, fino ad alcuni Paesi (ex Urss) dell’Asia centrale.             Inoltre, segnalo che la presenza, soprattutto economica, della Turchia si fa sentire in diversi Paesi (anche UE) dell’Europa centro-orientale: dalla Germania all’Austria, all’Ungheria, alla Bulgaria, ai Balcani, ecc. Oggi, il caso più eclatante è quello della Libia. Però nessuno di coloro che hanno provocato prima la caduta di Gheddafi e dopo agevolato l’irruzione della presenza militare turca nel conflitto fratricida, ha spiegato all’opinione pubblica come siano andate, come stanno andando le cose.

* biografia in: https://it.wikipedia.org/wiki/Agostino_Spataro

 **Per statuto la Nato non ammette dittature e non dovrebbe più esistere, ed espandersi, giacché il suo nemico dichiarato il Patto di Varsavia da un trentennio non esiste più. L’Europa dovrebbe pensare a una sua politica della sicurezza, pur nel rispetto delle alleanze internazionali.

 *** Così, per celia, riporto la definizione che del Diwan (divano) turco ne dà Wikipedia. Osservando che nel “divano” del Califfo ottomano le donne non erano ammesse.                                            “Il Dîvân-i humâyûn, in lingua italiana spesso chiamato semplicemente "Divano" o "Gran Divano"[1], era il consiglio dei responsabili delle amministrazioni dell'impero ottomano riuniti attorno al Sultano, ovvero: il Vezîr-i a'zam o Sadr-i a'zam Gran Visir (responsabile per gli affari politici), il Ni-shangï, il Segretario del Consiglio (responsabile della Cancelleria), il Qâdiâsker di Anatolia (responsabile giudiziario dell'Anatolia), il Qâdiâsker di Rumelia (responsabile giudiziario dei territori ottomani nel continente Europeo), il Deftderdâr (responsabile del tesoro) e il Qapûdân Pasciâ (gran ammiraglio della flotta ottomana). Poteva occasionalmente partecipare alle seduta anche il Beylerbey di Rumelia e l'Aga dei Giannizzeri.”