di Agostino Spataro
1975-Sciascia e Guttuso al consiglio comunale di Palermo (Foto da Google/Repubblica-Pa) |
Contiene: Sciascia e Guttuso, una bella
amicizia, polemicamente vissuta. Trascrizione della lettera (manoscritta) di
Renato Guttuso a Leonardo Sciascia. Fotocopia della lettera di Sciascia a
Guttuso. Post Scriptum: commento ai
passaggi salienti delle missive. Fotocopia della lettera manoscritta di Guttuso
a Sciascia. Documentazione / articoli collegati.
Sciascia e Guttuso: una bella amicizia, polemicamente vissuta.
1… Confesso che ho esitato prima di scrivere qualcosa a
commento di queste due lettere, inedite, di Renato Guttuso e di Leonardo
Sciascia.
L’esitazione deriva da un certo pudore che ti sorprende
quando stai per entrare nell’intimità di due eminenti personalità della cultura
che in queste lettere si parlano da amici veri ossia francamente e lealmente,
fornendoci un ritratto, per molti versi, inedito della loro amicizia, delle
loro opinioni.
D’altra parte, la pubblicazione non viola la loro sfera
strettamente privata, personale, soltanto ci consente di conoscere taluni punti
di vista, interessanti e ai più sconosciuti, di due intellettuali che con le
loro opere hanno influenzato settori importanti dell’opinione pubblica.
Ho esitato anche perché, cadendo in quest' anno il 30°
anniversario della morte di Sciascia, si rischia di essere intruppati in certi
cortei dove taluni sfilano per mero desiderio di visibilità, sperando di essere
illuminati dalla luce riflessa che emana l’illustre defunto.
Personalmente, non fui “amico” di Sciascia nel senso
che con lui non ebbi mai un’intimità, una frequentazione intensa sul piano
personale.
L’ho incontrato in qualche convegno. Una sola volta andai a
trovarlo alla “Noce”, nella sua casa di campagna, a Racalmuto.Di più mi capitò
d’incontrarlo alla Camera dove, di tanto in tanto, veniva quando era deputato
radicale.
Incontri casuali, dunque, (per me molto graditi) come
possono avvenire fra due compaesani che si ritrovano in una piazza di una città
lontana.
Un caffè alla buvette e poi quattro chiacchiere, avanti e
indietro, nel corridoio dei “passi perduti”.
Il mio
approccio con lo scrittore era, prima di tutto, quello del lettore,
dell’estimatore del suo stile letterario, del suo scrivere conciso ed efficace
nella rappresentazione e nell’intuizione. Molta la stima, ma senza mitizzare alcunché.
Del resto, quasi mai parlammo dei suoi libri e di letteratura in genere. Eravamo
nel tempio della politica ed era giocoforza parlare di cose politiche sulle
quali, per altro, non sempre si era d’accordo.
2… A farmi superare l’indecisione è stato soprattutto il
contenuto intenso, “pepato”- direi- delle due lettere rinvenute, casualmente,
presso l’archivio della Fondazione Istituto Gramsci di Roma che ringrazio per
la cortese disponibilità accordatami.
La prima, manoscritta, del 20 ottobre (1978) di Renato Guttuso è destinata a Leonardo
Sciascia il quale, a sua volta, risponde da Racalmuto con una del 29 ottobre 1978 scritta “a macchina- si scusa lo scrittore- a causa di una piccola frattura alla mano
destra.”
Due lettere di due grandi personalità siciliane, fra i
protagonisti della cultura del ‘900, che ci presentano uno spaccato
sorprendente di come e quanto un’amicizia vera- come fu quella fra Sciascia e
Guttuso - possa reggere anche alle scosse più dirompenti.
Pur riconfermando la stima reciproca e l’affettuosa
amicizia, i due si scambiano opinioni e giudizi, anche di natura personale, con
una franchezza inattesa. La qualcosa non ci scandalizza, anzi rafforza la stima
verso entrambi poiché dimostrano d’intendere l’amicizia non come giovevole
accondiscendenza, ma come sincera espressione della libertà di pensiero.
Attenzione anche alle date! Si è nell’autunno del 1978 ossia cinque mesi dopo l’assassinio di Aldo Moro- e della sua scorta- da parte delle
“Brigate rosse” e due settimane dopo l’uscita de “L’affaire Moro” il pamphlet
di Sciascia edito da Sellerio.
Un tempo ancora lontano dalle querele fra Berlinguer e
Sciascia che videro Guttuso nella imbarazzata parte di testimone a carico
dell’amico scrittore.
Una vicenda che amareggiò tanto
Sciascia e che, sicuramente, incrinò l’amicizia con Guttuso. Come mi disse, più
volte, durante le nostre passeggiate alla Camera, fra i due capiva di più Berlinguer che
certo non poteva ammettere d’aver detto quelle cose che avrebbero provocato conseguenze
davvero disastrose. Lo ferì di più la testimonianza sfavorevole del suo amico
Guttuso, che, da artista, aveva il dovere della verità facendola prevalere
sull’appartenenza politica. (1)
A proposito del “dovere della verità”, Sciascia in una “lettera
non spedita”, pubblicata dall’Espresso del 13 maggio 1980, ricorderà a Guttuso
quel passo in cui Bernanos domanda (si é nel 1937) ad André Malraux che si era congratulato con lui per sua inflessibile sincerità:
“Ma scusate, Malraux - gli dissi - voi non avreste fatto lo stesso come me? -
Non è la stessa cosa - mi rispose - voi siete cristiano, voi agite da
cristiano. Io invece sono comunista e non scriverò mai nulla che possa anche
minimamente nuocere al partito...” (2)
3… A mio parere, l’importanza di queste lettere è data dal
taglio franco e appassionato che evidenzia due sensibilità, due punti di
vista differenti sulla tragedia di Aldo Moro e- aggiungo io- della democrazia
italiana che da là inizia a declinare. Pericolosamente.
Sciascia, partendo dal suo istant-book ( “L’affaire Moro”),
definito un libro “religioso” (“sono
stato mosso a scriverlo dalla pietà per quell’uomo solo, abbandonato, tradito,
relegato in un solo grido di paura, di viltà…”) , ci tiene a chiarire che la
vicenda di Aldo Moro non può essere catalogata un “caso” come tanti, ma che trattasi
di un “affaire” ossia di un intrigo
politicamente complesso e moralmente devastante che ha innescato una crisi
morale dagli esiti imprevedibili.
Lo scrittore, forse. un po’ estremizza quando dichiara al
“Nouvel Observateur” che “Il cadavere di
Moro non appartiene ad alcuno, ma la sua morte ci mette tutti sotto accusa”; tuttavia,
una certa inquietudine pervade un po’ tutti. Ancora oggi.
Nelle lettere non c’è solo il caso Moro. I due amici si
“beccano”, si accendono, soprattutto, quando toccano taluni aspetti della politica
e della vita interna del Pci e dei suoi rapporti con gli intellettuali
“organici” quale fu Guttuso e meno organici o nient’affatto organici come fu
Sciascia. Ma su questo diremo più avanti.
(2) Sciascia continua a spiegare all'amico: “Ho voluto trascriverti il passo per dimostrarti la mia comprensione: tu sei comunista e non farai mai nulla che possa nuocere al partito. Nel momento stesso in cui - in commissione - mi passavano il comunicato Ansa con la smentita di Berlinguer, io ero certo che sarebbe venuta la tua…”
TESTI E COMMENTI
Trascrizione della lettera (manoscritta) di Guttuso a Sciascia
(La data indicata è “20/10”- L’anno non è indicato, ma- come
si evince dalla lettera di risposta di Sciascia - sarà, certamente, il 1978)
(Prima pagina del
manoscritto)
“Caro Leonardo,
Non è certo per indifferenza che non ti ho scritto, né
cercato, dopo aver letto gli ampi stralci del tuo libro pubblicati nei vari
settimanali. Prima di ogni cosa volevo leggere il libro, tutto intero, nelle
sue sequenze e legamenti. Volevo scriverti, in verità, dopo aver letto il
bellissimo pezzo sul Corriere, sulle lucciole di Pasolini e tue, e nostre.
Ma era l’idea del libro che volevo avere per intero. Solo
ieri l’ho avuto e letto. Avevo appena letto il memoriale di Moro, lungo
ripetitivo, e in definitiva assai poco illuminante.
Sono d’accordo con te sulla assoluta autenticità delle
lettere e del memoriale. Molte osservazioni ci sarebbero da fare.
Per esempio il netto stacco tra la prima parte di violente
invettive contro la segreteria del suo partito, e il resto. La differenza di
trattamento riservata ad Andreotti e a Fanfani.
Ma i pranzi con Bo….? ( interrogativo mio) li aveva fatti anche Fanfani)
e un
(seconda pagina del
manoscritto)
po’ tutto il discorso, nel suo stile tipico, sui casi della
DC, quasi che egli ne fosse stato estraneo.
E’ vero quel che tu dici: era un politicante, non uno
statista. E anche in questi scritti si dimostra tale.
Più intelligente e più politico dei suoi carcerieri aveva in
pugno la direzione della manovra per la propria liberazione.
Personalmente ho sempre creduto che la linea della
non-trattativa non fosse (ins: del tutto) giusta.
Ma non si può dimenticare che sempre si parlò di tredici
(cancellatura di: “sette”) brigatisti contro la sua persona. Il discorso
dell’uno contro uno è accennato nell’ultima lettera (e apprezzo la finezza
della tua analisi: taluno (uguale) uno). Ma non viene mai fuori mentre M. (Moro
ndr) è ancora vivo.
Né Craxi, né Fanfani pongono la questione dell’uno contro
uno. Se Craxi che si atteggiava a salvatore sapeva che questa era l’ultima
richiesta della BR, perché non ha messo i partiti della magg.progr. parl. di
fronte a questa responsabilità? Perché non ha…
(terza pagina del
manoscritto)
detto, scritto, gridato: Fate fuggire all’estero Tizio e
salverete Moro?
Moro è mediatore delle BR, ma chi è il mediatore tra Moro e
i partiti? Craxi accenna a volerlo fare (c’è una cancellatura), ma non lo fa.
Perché?
Di questa dolorosa vicenda, (cancellatura) mi pare tu veda
solo un aspetto (anche se molto importante): il potere che uccide Moro.
Ma Moro è lui stesso il potere, lo è fino al momento del suo sequestro, e cerca
di (cancellatura) continuare ad esserlo pur da prigioniero; ma la vicenda ha
molti altri risvolti.
In primo luogo l’attacco frontale alla attuale maggioranza,
maggioranza che era inevitabile ma che non si sarebbe data senza l’azione
determinante di Moro. Certo che lui aveva dubbi, e il ministero che varò
qualche ora prima del sequestro ne è la prova.
M. volle cioè tranquillizzare, varando un ministero tutto
fatto con gli stessi uomini, che non ci si doveva allarmare che ci sarebbero
stati effetti repentini, ecc.
(quarta pagina del
manoscritto)
Naturalmente anche la polemica di Craxi con la
ripresentazione di Proudhon e con gli argomenti si sempre della
socialdemocrazia liberale contro cui ebbe già a combattere Marx, quando Lenin
non era ancora nato e, tantomeno, ovviamente, il “leninismo”, ne fa parte.
Credo che tu, cercando di penetrare nello spirito dei
carcerieri, scoprendo una loro pietà, non voglia vedere cosa c’è sopra
di loro ed attorno a loro, ma voglia vedere il come e il perché della rete di
relazioni, delle infiltrazioni negli organi dello stato.
Tu dai valore al “mi dispiace” del brigatista che telefona,
e certo ce l’ha. Ma in che punto del discorso si inserisce quel “mi dispiace”?
L’espressione indica forse un dato di classe, di abitudine,
di buona educazione familiare.
E’ la telefonata, nel suo insieme, che denuncia una certa
pietà nell’adempiere un’ultima volontà del condannato. Ma pietà è parola
che deve essere costume di vita, quando è vera pietà.
I cinque uccisi di via Fani ( e, chissà, se tra gli
assassini non ci fosse anche colui che dice “mi dispiace”), o magistrati, i
giornalisti, non avrebbero avuto anch’essi diritto alla pietà?
(quinta pagina del
manoscritto)
Durante la Resistenza, quella Resistenza sulla quale tu
scrivi quel che scrivi, abbiamo avuto modo di vedere crudeltà e pietà. Qualcosa
è capitato anche a me e io ho avuto sempre pietà, anche altri, molti,
come me.
Potrei citare molti casi di cui sono a conoscenza. La pietà
la sente colui che non può uccidere. Anche quando la ragione, il dovere, gli
imporrebbero di farlo. Credo anche che la pietà sia legata all’immaginazione.
Tu dici parole ingiuste sulla resistenza. Lasciamo perdere
la retorica e tutto il resto, il cui peso e noia sentiamo tutti, ma è solo
retorica ricordare i massacri dei nazisti e dei fascisti, intiere famiglie dei
contadini, intieri paesi distrutti, le speranze che ci furono in quella lotta?
Che poi le speranze non si sarebbero realizzate (c’è una
cancellatura), i combattenti della resistenza non lo sapevano.
Solo col senno di poi si poteva spiegare loro “che non si
trattava di una rivoluzione lasciata a mezzo…ma di un ritorno all’Italia
prefascista”.
Il che non sarebbe neppure esatto, anche con la precisazione
che tu fai dopo. Almeno quella correzione (cancellatura) avrebbe dovuto avere
in te, nel tuo sentimento, più spazio, più giustizia.
(sesta pagina del
manoscritto)
Scusami Leonardo. Tu sai il mio affetto per te, la mia stima
illimitata, ma lo spirito critico, le
insoddisfazioni, le delusioni, i dubbi, non possono occupare tutto lo
spazio della tua libertà di giudizio e farti trovare il male “sempre e
dovunque” nei comunisti.- (nel P.C.I.)
Debbo dirti che questo fatto è per me causa di un grande
dolore. So bene che il dolore non indebolisce l’amicizia, e che in qualche caso
la rafforza, mai ciò non impedisce al dolore di essere tale ogniqualvolta,
anche quando non c’è necessità (o io non ne vedo la necessità) tu dai un colpo
al partito comunista. (in questo
paragrafo ci sono varie cancellature)
In conclusione, caro Leonardo, il nostro rapporto di
amicizia assomiglia (cancellatura) a quello che avevo con Vittorini, anche se
tu da Vittorini sei diversissimo nel carattere e nel comportamento.
Con Vittorini litigavo e poi finivamo abbracciati; con te
non ho mai litigato.
Ti ho difeso quando ho creduto giusto farlo, e ho taciuto
quando dissentivo da certe tue posizioni (il libro tuo su Moro, la tua
necessità di scriverlo subito, si spiega e si collega con quel tuo
(cancellatura) intervento che provocò la polemica con Amendola) Ma
(settima pagina del
manoscritto)
Vittorini dissentiva senza mai diventare un (cancellature)
“anticomunista quotidiano”.
Con Vittorini (seguono
alcune cancellature) io discorso era su “come” un artista poteva essere
rivoluzionario e si rifiutava di”suonare il piffero per la rivoluzione”.
Vittorini però credeva alla mia lealtà di comunista, anche
se sapeva i miei dubbi, le mie difficoltà, le mie arrabbiature (seguono diverse
cancellature) il senso di solitudine che a volte mi buttava in un baratro, ma
ciò nonostante sapeva che io ero (e sono) fiero di essere comunista e
rispettava tale mia fierezza.
Con te ho, a volte, l’impressione (perché so che mi sei
amico e credo tu abbia per me affetto e tanta simpatia (chista è a futtuta!)
che tu sia amareggiato del fatto che io sono e resto, malgrado tutte le
difficoltà, i problemi, ecc) un comunista.
Vorrei che così non fosse, vorrei che tu non fossi
amareggiato di avere un amico comunista, che a volte è d’accordo con te e a
volte non è d’accordo. Ma forse io mi
sbaglio
(ottava pagina del
manoscritto)
e la mia impressione che tu mi vorresti diverso che quello
che sono è sbagliata.
Quanto a me, nei tuoi confronti so benissimo che non
potresti essere diverso da quello che sei.
Non so bene cosa sia questa lettera, se chiarimento, un
intervento o cos’altro. So che avevo bisogno di dirti il mio pensiero di amico
su questa faccenda che ha tanto impegnato i tuoi “amici” e i tuoi detrattori.
Un abbraccio da Renato.
Fotocopia del testo della lettera di Sciascia a
Guttuso
Segnalo taluni passaggi salienti estrapolati dalle due lettere e
accompagnati da qualche mia considerazione su notizie e fatti vissuti anche
personalmente.
NON CI FU' UN MEDIATORE TRA MORO E I PARTITI
(Da pagina 3 di Guttuso:
(Da pagina 3 di Guttuso:
“Moro è mediatore
delle BR, ma chi è il mediatore tra Moro e i partiti? Craxi accenna a volerlo
fare (cancellatura) ma non lo fa. Perché?
Di questa dolorosa
vicenda (cancellatura) mi pare tu veda solo un aspetto (anche se molto
importante): il potere uccide Moro. Ma Moro è lui stesso il potere, lo è fino
al momento del suo sequestro, e cerca di (cancellatura) continuare a esserlo
pur da prigioniero; ma la vicenda ha molti altri risvolti.
Qui Renato Guttuso mostra, con acutezza di osservazione, un
lato tuttora oscuro della tragica vicenda di Aldo Moro. Chi è il mediatore tra
Moro e i partiti? Ma non c’è un mediatore. Guttuso chiude con un pesante “
Perché?” . Lasciando a Sciascia la facoltà di rispondere agli interrogativi e
alla classe politica del tempo il dovere di chiarire i suoi, anomali
comportamenti durante quei 55 giorni che cambiarono, deviarono la storia
d’Italia, della democrazia repubblicana.
Una sottile annotazione- quella di Guttuso - che, ancora
oggi, può essere usata come una chiave per aprire, e scoprire, uno scenario
politico inquietante da cui i partiti si ritrassero. Volutamente.
Una sensazione che avvertii anch’io (deputato comunista senza galloni) per il fatto che durante la lunga prigionia di Moro (quasi 2 mesi!) il
Parlamento, la più alta rappresentanza della sovranità e della volontà del
popolo italiano, non svolse un ruolo, un’azione unitaria all’altezza del
gravissimo dramma che si stava consumando, per la ricerca della verità e,
soprattutto, del nascondiglio in cui era ristretto Moro. Per liberarlo.
Il fatto sarà notato anche da Sciascia il quale- nella sua
risposta a Guttuso- scrive: “Quel che
leggo in questi giorni sui giornali, riguardo al cosidetto dibattito in
parlamento, mi atterrisce: mai il parlamento italiano è stato così
esemplarmente negato alla verità, così negativo nei riguardi della verità, come
in questo momento…”
- A pagina 6 della
sua lettera, (in un paragrafo sofferto segnato da diverse cancellature) Guttuso accusa Sciascia quasi di
anticomunismo inveterato, preconcetto:
Debbo dirti che questo
fatto è per me causa di grande dolore…anche quando non c’è necessità (o io non
ne vedo la necessità) tu dai un colpo al partito comunista.
Sciascia così
risponde all’accusa:
“Questa mia esperienza
(elezione al consiglio comunale di Palermo -
n.d.r.), che è anche tua, è
proiettabile sulle cose d’Italia. Ed è
la mia accusa al PC. E non solo mia…Io ho raccontato sul Corriere quel che mi
ha detto il contadino, mio vicino qui, al principio dell’estate, dopo le elezioni
del 13 maggio in cui per la prima volta il suo voto non era andato al PC…Di
questa gente era fatto il PC: gente che voleva verità, giustizia, conoscenza. E
dico era fatto perché anche se ancora molta ce ne sta dentro, è come se non ci
fosse… Mai la politica di un partito è stata così astratta dalla realtà del
paese, dalla realtà dei propri elettori, come quella del PC oggi…”
Corleone- Leonardo Sciascia parla a un comizio del Pci
(foto da Google)
- Guttuso a Sciascia :
“Chista è a futtuta!”
“Vittorini dissentiva
senza mai diventare “anticomunista quotidiano”…Vittorini però credeva alla mia
lealtà di comunista…Con te ho, a volte, l’impressione (perché so che mi sei
amico e credo tu abbia per me affetto e tanta simpatia (chista è a futtuta!)
che tu sia amareggiato del fatto che io sono e resto, malgrado tutte le
difficoltà, i problemi, ecc) un comunista… Quanto a me, nei tuoi confronti so
benissimo che non potresti essere diverso da quello che sei.
Sciascia a Guttuso:
“Tu sei comunista così come io non lo sono”
“Ed ecco che vengo al
punto dei nostri rapporti. Mi dici di avere a volte l’impressione che io,
nonostante la simpatica e l’affetto che ho per te, sia amareggiato dal fatto
che tu continui ad essere comunista. Posso
assicurarti di no. Tu sei comunista così come io non lo sono. Ho detto una
volta, e mi è parso di renderti omaggio nel tuo essere comunista, che tu sei
roso dalla certezza come io dal dubbio. Piuttosto,
quel che mi amareggia di te è quel tuo non dare quel che la gente da te si
aspetta: da te in quanto Renato Guttuso, da te anche in quanto comunista. Se, per esempio, tu ti levassi in parlamento
a dire…”
A un certo punto, Sciascia ricorda all’amico pittore “ Le ragioni per cui tu ed io eravamo stati
chiamati ad occupare quegli scranni (nel consiglio comunale di Palermo -
n.d.r.), praticamente non esistevano. Esistevano soltanto ragioni
elettoralistiche: tanto è vero che tu sei stato spostato al senato e io- non
dovendo al partito una obbedienza uguale alla tua- ho preso in diverso modo
atto della mia inutilità al consiglio comunale, rifiutando la “promozione” al
parlamento regionale o nazionale e dimettendomi…”
Da quel che ricordo, l’elezione al consiglio comunale di Palermo, nel
1975 nelle liste del Pci, fu la risultanza di un processo di avvicinamento di
Sciascia sollecitato da Achille Occhetto che nel 1972 era subentrato a Emanuele
Macaluso nel ruolo di segretario regionale del Pci.
In nome del rinnovamento, della lotta al
notabilato “rosso”, Occhetto chiamò in segreteria e alla guida di alcune
federazioni provinciali alcuni compagni “esterni”. Qualcuno parlò di
“colonizzazione” del partito siciliano.
Leonardo Sciascia, invece- mi dirà alla Camera- vide
di buon occhio il cambiamento, la “calata” in Sicilia di questi giovani
dirigenti del nord, anche se rimase restio verso l’adesione a un partito-chiesa
come un po’ gli appariva il Pci, verso il quale, per altro, aveva accumulato talune
perplessità riferite a fatti antichi (la contrastata esperienza del milazzismo)
e più recenti riconducibili alla segreteria di Macaluso.
Occhetto e i suoi inviati del Nord
garantirono a Sciascia che quel tempo era finito, per sempre, che, con loro, si
apriva una fase nuova, una sorta di rivoluzione copernicana della politica
siciliana.
Lo scrittore- ammetterà- che un po’ si lasciò
sedurre dai discorsi di questi giovani “colonizzatori” i quali, provenendo dal
nord, erano immuni dai difetti mostrati dai dirigenti siciliani. Perciò ruppe
gli indugi e nel 1974 partecipò attivamente alla campagna referendaria e l’anno
successivo accettò la candidatura, come indipendente, a consigliere comunale di
Palermo nella lista del Pci.
Ma, a pochi mesi dall’insediamento, presentò le dimissioni
da consigliere e sarà seguito, a ruota, da Guttuso. Lo scrittore motivò la sua
inattesa decisione con i lunghi ritardi sui tempi d’inizio delle sedute e in
generale col confuso andamento dei lavori d’aula.
Tutto ciò era vero, ma oltre quelle motivazioni
c’era un disagio politico che lo inquietava. Probabilmente, Sciascia, in quei
pochi mesi d’impegno attivo nel gruppo consiliare del Pci, cominciò ad
avvertire una certa delusione rispetto alle attese e alle promesse di
cambiamento annunciate da Occhetto e dai suoi inviati.
Dal sale siciliano agli
intrighi internazionali del terrorismo.
Giacché siamo in argomento mi sembra utile
ribadire come e perché si giunse alla clamorosa polemica con Enrico Berlinguer,
con lo stesso Guttuso. La vicenda, che avrà anche strascichi giudiziari, si
originò, involontariamente, durante un incontro del 6 maggio 1977, a Botteghe
Oscure, con il segretario generale del Pci. Detto incontro- come Sciascia
chiarì all’Espresso (e disse a me nelle chiacchierate a Montecitorio) “era stato richiesto da me, tramite Guttuso, abbiamo parlato
soprattutto di cose che riguardavano l’industria estrattiva siciliana, sulla
base di un memoriale che aveva scritto un mio amico e che io consegnai a
Berlinguer… Esaurita la conversazione
sul memoriale siamo passati al (tema del ) terrorismo…”.
(L. Sciascia, intervista a “l’’Espresso”)
Quali erano queste “cose che riguardavano
l’industria estrattiva siciliana”? Che cosa era successo? Lo scrittore si
riferiva, in particolare. alla fusione, realizzata negli anni ’70, fra la Realmonte-Sali
(società dell’Ente minerario siciliano) e la Sams dell’avvocato Francesco
Morgante, potente imprenditore del sale e intimo dell’ex presidente dc della
regione on. Giuseppe La Loggia.
Sciascia conosceva bene la vicenda perché edotto
dal prof. Antonio Lauricella, sindaco dc di Grotte, comproprietario di una
miniera di salgemma in territorio di Petralia minacciata dal piano Ems-Sams.
Lauricella consegnò a Sciascia un dettagliato
memoriale dal quale si evidenziavano la supervalutazione degli apporti privati
(Sams) e i comportamenti quantomeno distratti dei partiti politici di
maggioranza e d’opposizione.
Lo scrittore prese a cuore la questione e la
girò ai suoi amici del Pci, facendone una sorta di banco di prova per
verificare la loro coerenza politica.
Vista
la sordità dei suoi interlocutori locali siciliani, pensò bene di
rivolgersi direttamente a Enrico Berlinguer. E in questa circostanza nacque
l’inghippo. Poiché – “Esaurita la conversazione sul memoriale
siamo passati al (tema del ) terrorismo…”.
Renato Guttuso
senatore del collegio di Sciacca
“Vedi, io parlo di te
qualche volta, ogni volta anzi che vengono qui a trovarmi, con dei giovani di
Sciacca che ti hanno dato il voto. Sono delusi, mortificati. Hanno votato
Renato Guttuso: un grande pittore comunista, un grande intellettuale comunista.
Ed è come se avessero votato quel Cipolla che ti ha preceduto nel loro
collegio… Scusami di questa un po’ brutale conclusione della lettera; ma spero
la metterai in conto dell’ammirazione che ho per la tua arte e per la tua
intelligenza, della simpatia e dell’affetto che ho per te. Ti abbraccio.
Leonardo.”
Agrigento, giugno 1976. Manifestazione elettorale del
Pci. Da sin: il poeta I. Buttitta, M. Figurelli, R. Guttuso (candidato nel
collegio senatoriale di Sciacca), il prof. E. De Miro, A. Monteleone (candidato
regionali), sen. T. Di Benedetto, A. Spataro (candidato alla Camera dei
Deputati), prof. V. Tusa.
La candidatura di Renato Guttuso per il collegio senatoriale
di Sciacca (il più ambito perché il più sicuro dopo di quello di Ragusa) ci
venne proposta (io ero segretario provinciale del Pci) dalla direzione del
partito- come al solito- con una telefonata autorevole. Alle nostre (timide)
osservazioni ci fu risposto che “Guttuso è un grande artista siciliano, di
respiro europeo, e che dovremmo essere orgogliosi di poterlo eleggere noi al
Senato della Repubblica…”
Insomma, un privilegio che però- diciamo- non era pienamente
compreso, apprezzato dai gruppi dirigenti delle sezioni del Pci del collegio e
apertamente avversato da alcuni candidati in pectore o che tali si sentivano,
dopo la poco edificante esperienza del senatore uscente Vincenzo Gatto.
Anche nel caso di Gatto la notizia ci arrivò tramite una
telefonata di Armando Cossutta, membro della segreteria nazionale del Pci, il
quale non volle sentire (le nostre) ragioni di gruppo dirigente, giovanissimo,
che solo due mesi prima (febbraio 1972) era uscito bene, motivato e
determinato, dal confronto- a tratti aspro- avutosi nel congresso provinciale.
Cossutta fu inflessibile mi disse (al telefono): “Questa è
la decisione che il Partito ha preso anche per onorare gli impegni assunti a
seguito della confluenza nel Pci del Psiup (Partito socialista italiano di
unità proletaria, di cui Gatto era vicesegretario nazionale). E tu, voi non
potete mettere a rischio l’accordo…”
Tornando alla candidatura di Guttuso, ricordo che anche per
disciplina di partito (vigeva il “centralismo democratico”) ci mettemmo al
lavoro per convincere i bravi compagni delle sezioni del collegio di Sciacca
(fino a Gatto rappresentato per lungo tempo e proficuamente da “quel Cipolla”,
di cui parla Sciascia) ad accogliere e sostenere la candidatura -come sempre- calata
dall’alto.
A parte un gruppo di giovani intellettuali che diedero la
loro adesione alla candidatura Guttuso, la parte più consistente del partito e
dell’elettorato era di chiaramente contraria o- nel migliore dei casi-
titubante e, soprattutto, preoccupata per la tenuta elettorale del partito in
un collegio dove l’elemento sociale dominante erano i contadini, i pescatori e
le popolazioni terremotate del Belice.
Così per dare un saggio del clima, ricordo un aneddoto che
capitò nel corso di un’affollata e appassionata assemblea di una sezione del
Pci di Sciacca, consultata in ordine alla candidatura nel collegio del grande
pittore e compagno Renato Guttuso.
Un vecchio compagno, che per tutta la serata aveva fumato
nervosamente, si tolse di bocca la pipa di terracotta, s’alzò in piedi e ci
interrogò: “Ma, insomma, compagni a Sciacca chi mancanu pittura ca l’amu a
ghiri a pigliari di Roma?”
Evidentemente, il compagno aveva scambiato l'artista con
l’imbianchino che qui chiamano pittore.
Comunque sia, Guttuso fu eletto senatore. Purtroppo, rarissimamente
venne a Sciacca, nel collegio a incontrare i suoi elettori. Non per cattiva volontà,
ma perché troppo preso dai suoi impegni artistici. Senza volerlo, si avverarono
le preoccupazioni espresse in quelle assemblee.
Da qui le lamentale dei giovani saccensi che, andando a
trovare Sciascia alla Noce, gli confessarono la loro amarezza per avere
sostenuto quella candidatura. (a.s.)
(del 20
0ttobre 1978) In Archivio Fondazione
Istituto Gramsci- Roma - Fondo senatore Paolo Bufalini.
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