martedì 5 settembre 2023
giovedì 12 gennaio 2023
Nuovo libro del Comune di Ioppolo G. "NEMO POETA IN PATRIA- Il caso di Domenico Azzaretto"
“Un clamoroso rinvenimento che, a 78 anni dalla morte, conferisce all’Azzaretto una sorprendente celebrità letteraria in Italia e, addirittura, negli Stati Uniti d’America. Un poeta, dunque, ritrovato, come resuscitato a nuova vita, la cui opera speriamo contribuisca ad arricchire il contesto socio-culturale di Ioppolo Giancaxio e il bagaglio di conoscenza dei nostri concittadini, degli alunni delle scuole primarie e in genere delle nuove generazioni.” Ioppolo Giancaxio, gennaio 2023.
1… Questo piccolo libro prende spunto dal rinvenimento casuale di una bella poesia “La partenza dell’operaiu per l’America” di Domenico Azzaretto, a noi ignota, pubblicata nel 1908 dalla stamperia di Giuseppe Pennarelli di Fiorenzuola d’Arda, (Piacenza), recentemente segnalatami da Francesco Giuffrida studioso di tradizioni e di canti popolari siciliani. Un lavoro davvero interessante che mette in luce il talento di questo poeta di Ioppolo Giancaxio, come tanti emigrato negli Usa nel 1906. Zi Minicu da questa esperienza oltre oceanica trasse ispirazione per comporre due poemetti che, fatto raro per quei tempi, mettono al centro il tema drammatico dell’emigrazione siciliana agli albori del secolo trascorso (purtroppo, ancora in corso). Una poesia semplice, spontanea ma penetrante che, per altro, s’intona con l’attuale fenomeno migratorio verso l’Italia, l’Europa e il nord – America, proveniente dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina. Chi era Domenico Azzaretto? I pochi concittadini che lo conobbero- da me intervistati- lo ricordano come u zi Minucu Azzarettu, poeta e suonatore ambulante. Usava la sua poesia, la sua musica per vivere. Anzi, per sopravvivere- direi- non avendo altri mezzi idonei di sussistenza. Oltre a questi rari e vaghi ricordi, mi piace richiamare il cenno biografico che ne traccia Mimmo Galletto nella piccola antologia “Voci della memoria- Poeti popolari ioppolesi” (*) che rende bene il suo profilo umano e professionale. “Egli nacque a Ioppolo il 29 maggio 1864 e vi morì il 7 gennaio 1944. Professione ufficiale dagli atti dell’anagrafe: suonatore ambulante. Svolgeva anche la funzione di sagrista e il “mestiere” di poeta, nel senso che componeva versi su commissione e ne riceveva un compenso. La sua poesia è al servizio di tutti per lodare o per biasimare, infatti da “occasioni” e da “commissioni”, trae ispirazione. Con facilità, con leggerezza quasi e spesso felicemente…” A Ioppolo si conoscono soltanto alcune composizioni di Azzaretto pubblicate nella citata antologia. Nessuno sapeva, sa, dei due poemetti gemelli: “La partenza dell’operaio per l’America” e “La miseria dell’operaio in America”. Una gradita sorpresa che- a mio parere- si configura come un piccolo caso letterario nel più vasto panorama della poesia popolare, vernacolare siciliana e che ci fa conoscere un lato inedito di un poeta il quale trae ispirazione da una esperienza personale per delineare una condizione umana e sociale più ampia, segnata dal duro bisogno, dalla costrizione di emigrare alla volta del “mito” americano.
Mi piace precisare che qui il “caso” non é quella entità misteriosa, vagante e imprevedibile del pantheon romano, ma il signor Francesco Giuffrida, cultore di canti popolari siciliani, il quale con una telefonata, recente quanto inattesa, mi ha comunicato la notizia che ha messo in moto la mia curiosità, la mia ricerca. La seconda. Può accadere che un uomo poverissimo appartenente al cosiddetto “populu vasciu” (basso), dileggiato per la sua povertà, possa diventare (a sua insaputa) un riferimento letterario importante della cultura sociologica nazionale e internazionale? E’ ciò che accaduto a zi Minucu Azzarettu, poeta e suonatore ambulante, il quale non saprà mai (perché morto nel 1944) della “scoperta” fatta da Roberto Cavallaro, docente dell’Università “la Sapienza” di Roma, che nel 1982 pubblicò una dotta recensione della sua poesia sulla rivista “Studi Emigrazione/ Etudes Migrations”, edita dal Centro Studi Emigrazione di Roma, che sarà ripresa da altri studiosi italiani e stranieri.
Confesso
che, commosso, mi sono buttato in questo lavoro, anche per rendere giustizia,
moralmente s’intende, a questo uomo, purtroppo, non apprezzato per la sua
acutezza, per la sua creatività, talvolta mal reputato dalla nostra stessa
comunità.
Io, che
provengo dalla povertà ossia dallo stesso ceppo sociale del poeta, che sono
nipote di Agostino Cultrera, coevo di Azzaretto, e anch’egli povero e grande
poeta dialettale, sono ben lieto di presentare al pubblico (spero anche ai più
giovani) l’altra faccia del poeta nostro concittadino, autore di queste poesie
in controtendenza (rispetto al mito americano) composte al suo ritorno da New
York, dove incontrò la drammatica realtà dell’emigrazione.
Un
riconoscimento al merito e, insieme, un atto di risarcimento morale verso
questo poeta che il caso ci ha fatto ritrovare sotto nuove spoglie.
Il mio
pensiero è corso a zi Minicu il quale, ignaro di tale traguardo editoriale,
continuò a trascinare la sua misera esistenza per le vie di Ioppolo Giancaxio a
vendere la sua arte; a intonare, a richiesta, serenate, novene, musiche di
matrimonio, accompagnandosi con il suo violino, a “improvvisare” poesie e
strambotti, talvolta anche adulatori o di “sdegno”, secondo il bisogno, pur di
strappare qualche soldo ai committenti e/o ai passanti.
A quel
tempo, si é negli anni più tristi della prima metà del Novecento, quelli
antecedenti e seguenti la prima guerra mondiale, a Ioppolo, come altrove, i
poeti popolari dialettali proponevano al pubblico la loro poesia in cambio di
qualche soldo, di un tozzo di pane. Per sopravvivere in quella condizione
misera nella quale mancavano adeguati introiti e i più elementari diritti
civili e umani.
Per
l’opinione popolare Azzaretto non era un poeta autentico, come quelli illustri
e celebrati nei libri di scuola o nei raduni politici, ma solo un poveraccio
che chiedeva la questua.
Parafrasando un
famoso detto latino, potremo dire: nemo poeta in patria. A Giancasciu, non lo
fu nemmeno Azzaretto. Seppure la sua poesia era assai conosciuta in paese e-
come vedremo- si farà strada in Italia e all’estero, divenendo un punto di
riferimento culturale per tanti studiosi.
Immagino
quanto sarebbe stato contento u zi Minicu nell’apprendere dell’interesse
suscitato dai suoi componimenti presso eminenti ricercatori, docenti e
sociologi di importanti istituzioni culturali e università italiane: dalla
fondazione “Giovanni Agnelli “di Torino alle Università italiane di Roma e di
Palermo; dalla “State University di New York” alla “University of Central
Florida”, alla “Tennessee State University” degli Usa.
4…
Talvolta, il popolo, mal consigliato, scambia la povertà per una colpa e può
diventare perfino spietato con i suoi figli più bisognosi. Quasi che la miseria
fosse desiderata dalla sua vittima e non imposta dal potere dominante, locale o
globale, come conseguenza del suo dominio.
Nulla di
nuovo sotto il sole. Lo scrisse Karl Marx tanto tempo fa: la povertà estrema
(il lumpen
proletariat), attenua,
mina la solidarietà fra gli oppressi, può essere manipolata e usata per rompere
il filo che tiene uniti un ceto sociale, una comunità.
Invece di
aiuto, di conforto, al malcapitato viene riservato dileggio, indifferenza,
sospetto.
Effetto
questo di una legge terribile e crudele, ancora vigente, che non siamo riusciti
ad
abolire.
Nel passato, tale “legge” era imposta dalla tracotanza dei baroni feudatari,
oggi, nelle mutate condizioni economiche e dello spirito pubblico, dalla
perfida genìa che comanda il mondo.
A quel
tempo, la gente lavorava e viveva in condizioni di semi schiavitù, malpagata e
sfruttata fino all’osso, sempre sotto l’incombente minaccia delle più abiette
angherie di aristocratici assenteisti e dei loro campieri e soprastanti che gli
stavano col fiato sul collo.
Zi Minicu,
per liberarsi di questa sorta di maledizione, tentò- come tanti altri poveri
ioppolesi - la via dell’emigrazione nelle Americhe che richiedevano manovalanza
europea per sviluppare e popolare i vasti territori sottratti ai popoli
indigeni con la violenza, talvolta con pratiche genocide.
Il nostro
poeta restò negli Usa per poco; il tempo necessario per rendersi conto della
realtà povera e violenta che caratterizzava la vita nei quartieri degli
immigrati di New York e, al ritorno, volle avvertire, con i suoi versi, i
tantissimi candidati in procinto di partire.
Un’esperienza
personale che però illumina di luce sincera, una realtà drammatica ben più
ampia, di massa come fu l’emigrazione siciliana transoceanica, a cavallo dei
due secoli (800-900)
Nel
cinquantennio 1876-1925, gli emigrati siciliani diretti verso Paesi
transoceanici (Usa, Argentina, Brasile e altri) furono circa 1 milione e mezzo,
corrispondenti a circa il 18% del totale dell’emigrazione italiana orientata
verso le stesse aree.
Una vera e
propria fuga di massa dalla Sicilia verso gli Usa e il sud America che nel
ventennio 1901-1919 si concentrò verso gli Usa (94%) e solo 3,7% verso
l’Argentina, 0,5% verso il Brasile e 0,9% verso i restanti Paesi dell’America.
Un flusso
crescente quello siciliano verso gli Stati Uniti d’America che nel
cinquantennio (1876-19125) oscilla fra il 74,2% del 1876 e il 91,2% del 1925.
Con una crescita del 17%.
Nel periodo
considerato, l’incidenza % dell’emigrazione siciliana sul totale Italia fu:
- del 4,3%
nel periodo 1876-1900, di cui transoceanici 7,7%
- del 12,9%
nel periodo 1901-1914, di cui transoceanici 20,8%
- del 12,2%
nel periodo 1915-1918, di cui transoceanici 22,3%
- del 11,7%
nel periodo 1919-1925, di cui transoceanici 20, 8%
- del 10.0%
nel periodo 1876-1925, di cui transoceanici 17,0%
(* da
“L’emigrazione siciliana negli ultimi cento anni” di Francesco Brancato,
Pellegrini Editori, Cosenza, 1995)
Anni duri,
terribili che proseguirono anche nell’intervallo fra le due guerre mondiali, durante
il periodo fascista, in cui si poteva emigrare oltre che in America, dove il
“mito” doveva scontrarsi con una realtà davvero difficile e pregiudiziale,
anche nelle colonie d’Africa.
Nel secondo
dopoguerra, molti ioppolesi partirono anche a causa del fallimento della lotta
per la riforma agraria vanificata da certe leggerezze dei capi sindacali e,
soprattutto, dalla minacciosa protervia dei suoi nemici. Il sogno della terra
sfumò miseramente e riprese l’emigrazione ancora verso le Americhe: Canada,
Stati Uniti, Venezuela, Argentina e, fatto nuovo, verso alcuni paesi europei:
Belgio, Francia, Germania e Svizzera. Una migrazione bi-direzionale di massa
che assestò un colpo durissimo all’assetto demografico del paesino posto alle
spalle di Akragante, svuotando campi e catoi e accelerando il suo declino
socio-economico i cui effetti si vedono ancora oggi.
6… Il caso di Ioppolo Giancaxio è davvero emblematico della storia sociale e civile di tantissimi comuni dell’entroterra siciliano e meridionale. Per averne un’idea basta guardarsi intorno o consultare le statistiche più recenti secondo le quali Ioppolo rischia seriamente di perdere i requisiti fondanti di una comunità e quindi di scomparire come entità amministrativa autonoma.
Un pericolo
evidente, anche fisicamente. Le case vuote, le vie deserte. Un giorno,
camminando per una di queste vie, un vecchio contadino mi fece notare una
contraddizione terribile, funesta.
“Onorè,
prima avevamo poche e anguste case (catoi) piene di tantissime persone, oggi
abbiamo le palazzine ma sono vuote. In questa via siamo rimasti in due. Com’è
stu fattu?”
Un
interrogativo inquietante da cui bisognerebbe partire per capire le cause
effettive e, soprattutto, come agire per invertire la tendenza al declino e ridare
un futuro degno ai nostri paesi.
In primo luogo, bisogna parlare chiaro. Guardare la realtà senza infingimenti, affrontarla e non aggirarla, esorcizzarla. Per non illudere noi stessi e i nostri concittadini residenti o emigrati. Purtroppo, nonostante certi sforzi lodevoli delle Amministrazioni comunali, Ioppolo è al limite della sopravvivenza. La statistica, la fredda statistica demografica e socio-economica, ci condanna. I giovani continuano a emigrare e con loro la nostra residua speranza di rinascita.
In questo
paese si “vive” soltanto due mesi: luglio ed agosto. Solo d’estate. E mentre in
piazza si balla e si canta, il paese lentamente muore…
“Agire
localmente e pensare globalmente”, secondo le nuove interdipendenze maturate o
in formazione. Nonostante tutto, possiamo sperare, guardare in avanti, verso
uno sviluppo basato su modelli eco-compatibili orientati in senso
bidirezionale: verso l’Europa e verso l’area mediterranea.
Uno
sviluppo auto-centrato che faccia leva sulla intelligenza di uomini e donne e
sulle risorse naturali, agricole, alimentari, paesaggistiche, monumentali,
ecc. Ogni uomo,
ogni donna hanno diritto a vivere, a costruire il futuro nel loro ecumene, nel
luogo di nascita. Esiste (o
dovrebbe esistere) un diritto umano fondamentale che è quello di “non dover
emigrare”.
Perciò, bisogna
guardare in avanti non indietro come vorrebbero i vari Pino Aprile che
ripropongono un improbabile Mezzogiorno borbonico idilliaco (per chi? per
quanti?) omettendo di descrivere, coscientemente, le condizioni disumane nelle
quali vivevano le popolazioni meridionali sotto quel regno.
Tante sono
le vere cause dell’emarginazione del Sud italiano, ma il discorso sarebbe lungo
e non è questa la sede per svolgerlo. Forse, una fra le più antiche, si
potrebbe individuare nell’alleanza subalterna del Borbone con gli interessi
imperiali inglesi che blindarono la Sicilia per impedire la propagazione delle
idee dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese e, soprattutto delle armate
e delle riforme di Napoleone Bonaparte che cambiarono gli assetti del potere e
delle società europee dell’ancien regime.
Nell’Isola
continuò a dominare la triade mortifera, oppressiva della nostra dignità e
libertà: lo Stato monarchico, l’oscurantismo religioso, il feudo e la
delinquenza al suo servizio. Purtroppo, anche nelle mutate condizioni storiche
post- unitarie, il popolo meridionale ha continuato a vivere in miseria, in
semi schiavitù. Una condizione inaccettabile da cui cercò una via di
liberazione mediante l’emigrazione.
E così, a quasi 160 anni dall’Unità d’Italia, nonostante taluni innegabili progressi, il dramma migratorio continua ad angustiare le famiglie, i paesi del Meridione. E questa- a me sembra- la colpa più grave, ingiustificabile che portano i governanti unitari. Di ieri e di oggi.
Agostino Spataro