1… Ad una certa età, inevitabilmente, l’uomo
diventa più riflessivo e s’interroga su fatti e cose apparentemente banali o
dati per scontati. In questi giorni freddi dell’inverno ungherese,
avvicinandosi la data, mi sono chiesto che cosa sia in realtà il compleanno. E’
un anno di vita in più o in meno? In più o in meno, rispetto a cosa, a quale
traguardo? Un anno rubato alla Signora che attende, inquieta, in fondo al viale
o aggiunto alla vita fin qui vissuta?
Le risposte non sono facili e soprattutto non
esaustive, poiché dipendono dal punto di vista personale, perfino dall’umore momentaneo.
Perciò, nell’incertezza sarebbe meglio non festeggiarlo. Obliarlo, se
possibile. Ma come si fa a obliarlo se tutti te lo ricordano, affettuosamente?
Quest’anno, addirittura, l’ho festeggiato due
volte: una prima in casa, la sera del 21 gennaio, con Jolikè (alias Laky Ilona
Gyongyvér (1), da 44 anni mia compagna di vita) la quale, per l’occasione, ha
preparato un fritto d’infidi gamberi congelati provenienti dai lontani mari del
Sud, esattamente dalla Nuova Zelanda, innaffiati con un vivace frizzantino
ungherese; una seconda nel nostro ristorante preferito, la sera del 22, per dare soddisfazione alla famiglia, per occhio
di popolo come si suol dire.
2… Vi chiederete: perché due volte, in così
rapida successione?
E’ presto detto. Intorno alla mia data di
nascita c’è una piccola anomalia da chiarire. Per l’anagrafe del comune di
Joppolo Giancaxio sono nato il 22 gennaio del 1948. Alcuni amici- per celia-
sogliono anticipare di un secolo la data. Anticipazione che accetto di buon
grado poiché il 1848 segnò l’inizio
dell’epopea risorgimentale in Sicilia e in Europa
In realtà, nacqui- come più volte mi assicurò
mia madre- alle ore 22 del 21 gennaio 1948. Mancavano solo due ore al nuovo giorno
e mio padre pensò bene di “rivelarmi” per il 22, per “farmi guadagnare un giorno”,
mi confidò. Non per mia futura vanità, ma nel caso di una nuova guerra.
Mi spiego: mio padre, il quale- poveretto- fra
leva, richiamo al fronte di guerra e prigionia in un lager nazista si era fatto
7 anni di servizio militare, volle spostare di un giorno la mia nascita nel timore
che, fra 18-20 anni, qualche nuovo, esaltato dittatore potesse dichiarare una
nuova guerra.
Guadagnare un giorno poteva significare
guadagnare la vita. Sì, perché, a volte, si poteva evitare la temutissima
“cartolina-precetto” e la “partenza” per il fronte se la “chiamata alle armi”
si fermava il giorno precedente a quello in cui si era nati.
Ovviamente, ci voleva anche un po’ di fortuna.
Tuttavia, tanti si sono sottratti alle tragiche incombenze della guerra proprio
per il fatto di esser nati il giorno dopo la scadenza del bando.
A questo punto avrei voluto aprire una
parentesi graffa (ma manca il tasto) per rilevare un inquietante mutamento d’approccio
verso la guerra che si registra nelle nuove generazioni. Mentre prima, specie
ai tempi dei due conflitti mondiali, si aveva il terrore della
cartolina-precetto e per evitarla taluni si auto-invalidavano, oggi tanti giovani, per lo più inoccupati, fanno
la fila, brigano per essere incorporati nelle forze armate e inviati nelle più
rischiose missioni militari all’estero: dall’Afghanistan al Libano, dall’Iraq
alla Somalia, ecc. Ci saranno, certamente, problemi di tipo culturale, etico,
d’induzione alla guerra (che inizia con i bambini davanti i “war games”),
un’attrazione del lauto soldo, ma prima di tutto c’è una questione sociale
irrisolta, un problema serio di occupazione, di mancanza di prospettiva
professionale.
Poiché, credo che nessuno, tranne pochi esaltati, ami la guerra, il
rischio della morte propria e delle tante procurate.
Tale tendenza, per altro, fa risaltare di più
il valore di quell’oculata, innocente precauzione di mio padre che, purtroppo, non
mi avrebbe consentito di festeggiare il compleanno insieme a quello del Partito,
che ho amato e servito come un figlio devoto, che cadeva il 21 gennaio. Capirete
che anch’io un po’ sto celiando, anche perché nessuno, in quel momento, avrebbe
potuto prevedere questa singolare coincidenza celebrativa.
3… Visto che siamo in argomento desidero fare
un’altra precisazione: io non sono il secondo figlio di tre, come appare dalla configurazione
attuale della mia famiglia, ma il quarto di cinque.
Nel senso che i miei genitori (Pietro,
ultimogenito di nonno Calogero, il “viaggiatore”, e Giovanna Cultrera,
ultimogenita di nonno Agostino, rinomato poeta dialettale) ebbero in tutto
cinque figli: due (Calogero e Francesco) nati prima dello scoppio della guerra
e morti in tenerissima età, nonostante il secondo, vista la morte del primo,
fosse stato “votato” a San Francesco di Paola (patrono del paese ma un po’
pigro nel fare miracoli) e tre nati dopo (un secondo Calogero, io e mia sorella
Zina)
A questi due fratelli morti neonati,
probabilmente, devo la mia venuta al mondo poiché se fossero sopravvissuti,
forse, i miei si sarebbero fermati… a tre.
Per altro, aggiungo un particolare assurdo
quanto disdicevole che denota la logica disumana del fascismo, legato alla
nascita e alla morte dei due fratellini.
A quel tempo (si era nella seconda metà degli
anni ’30), il regime fascista concedeva, per legge, un “premio” in denaro alle
coppie che mettevano al mondo figli, soprattutto maschi, da destinare alla
patria imperiale e alle future guerre programmate e/o minacciate.
Con i “premi” incassati per la nascita dei due
bambini, i miei decisero di fabbricare una stanzetta sopra il fatiscente catojo
in cui vivevano, per farne camera da letto nuziale e deposito stagionale per la
“mancia” (nulla a che vedere con la patria di Don Chisciotte) ossia la riserva
di fave e granaglie per sfamare la famiglia durante l’inverno.
Successe che qualcuno, fra i tanti leccaculo
del locale fascio, segnalò alle autorità preposte la morte dei due bimbi
provocando, di conseguenza, la revoca dei premi che erano stati incassati e
investiti. I funzionari furono irremovibili e mio padre fu costretto a
restituire, a rate, l’importo percepito.
4… Di
solito, quando si parla di nascite, di lieti eventi ci si sofferma
prevalentemente sulla madre, meno sul padre che pure svolge un ruolo
insostituibile nel concepimento e nella crescita della prole.
Pertanto, desidero dedicare due parole al mio
che era un operaio, un bracciante taciturno e laborioso. Per me era un uomo molto
speciale, giacché durante il ventennio, fu uno dei pochissimi abitanti del
paese a non iscriversi al fascio.
Non perché fosse un antifascista convinto,
militante, ma per un sentimento intimo d’orgoglio e d'anticonformismo. E pensare che aveva un fratello “milite”
fanatico e autoritario il quale, potenza del privilegio, all’entrata in guerra dell’Italia
restò in paese a presidiare la sicurezza dei suoi amici gerarchi, mentre mio
padre, che fascista non era, fu richiamato a combattere una guerra folle dichiarata da Mussolini, su ordine di Hitler.
Come accennato, stette cinque anni alla
malora: tre di guerra nei Balcani e due di campo di concentramento in Germania
dove fu deportato per essersi rifiutato, dopo l’armistizio, di combattere negli
eserciti nazifascisti.
Nel lager i prigionieri erano utilizzati per
lavori durissimi in condizioni umilianti, di vera schiavitù. Infatti, erano chiamati
“gli schiavi di Hitler”.
Solo raramente, mio padre parlava di questa sua
drammatica esperienza che gli valse, soltanto, una medaglia d’onore assegnatagli
(alla memoria) dal presidente della Repubblica.
Non voleva sentire parlare nemmeno di tedeschi
e di kartoffen (patate) perché gli ricordavano quelle bucce sporche, passategli
di nascosto dal kapò in cambio di tre sigarette ch’erano la sua dotazione
giornaliera di tabacco, che fu costretto a mangiare per salvarsi.
Si rifugiava nel piú sdegnoso silenzio per
esprimere il suo risentimento per il trattamento subito in quell’inferno
indicibile in cui si consumò la shoa degli ebrei, ma anche lo sterminio di
centinaia di migliaia d'antifascisti, di zingari, d’internati militari, di
apolidi, ecc.
Della sua squadra, composta di 35 prigionieri,
ne sopravvissero soltanto 5, fra cui lui e un compaesano, Domenico Sprio,
fortunosamente capitato in quella sventurata comitiva.
Mio padre fu uno degli ultimi “sbandati” a
ritornare in paese e quando fu sicuro d’esser uscito dall’incubo della guerra
volle fare un figlio, per ricominciare...
5… Così, nacqui io, figlio del dopoguerra, di
quella stagione di speranze e turbolenze che vide l’Italia e l’Europa ritornare,
lentamente, alla vita, alla libertà, alla democrazia.
Gli uomini rientrati dai fronti o dalle
prigioni, per prima cosa, fecero figli anche se non disponevano di un lavoro degno
e di cibo sufficiente per sfamarli.
Procreare era un segno di vitalità, di affermazione
di una volontà di rinascita, d’altruismo.
Nel triennio 1948-50, a Joppolo e altrove,
nascemmo una caterva di bambini con dentro i cromosomi del rifiuto della guerra
e la voglia di progredire oltre i limiti storici dell’atavica, feudale
condizione umana e politica.
Vidi la luce in quella stanzetta fredda (del
premio revocato), al primo piano di via Salita Panzera, attaccata alla grande
madre Roccia e al recipiente del Voltano. Per mia madre sarà stato un travaglio
davvero doloroso visto che pesavo 5,6 kg , anche se uscii senza particolari
difficoltà grazie anche alla perizia della levatrice, signora Maria Cimino.
Mesi dopo, fra i tanti e sempre con l’ausilio
della stessa ostetrica, nacquero Giovanni Sacco e Angelo Capodicasa.
Il caso volle che lungo il nostro comune
percorso politico incontrammo Dino Tuttolomondo, figlio della nostra levatrice
e segretario provinciale del PCI, con il quale, a un certo punto, ci scontrammo,
non per fatto personale ma esclusivamente per il bene del Partito.
A cavallo fra gli anni ’60 e ’70 del secolo
scorso, questi quattro “giancascisi” ci ritrovammo impegnati nella direzione
della Federazione provinciale del Pci di Agrigento, talvolta muovendo da punti
di vista differenti, in una difficile battaglia politica, anche interna, per
bloccare la decadenza del Partito e riportarlo (come poi avvenne) a più alti
livelli di consistenza elettorale e di protagonismo politico.
Un confronto doloroso ma necessario, del quale
più mi preoccupava lo stato d’animo di quella gentile signora quando avrà
saputo del contrasto insorto fra suo figlio e i tre baldi giovanotti che lei
aveva aiutato a vedere la luce della vita.
6… Termino, con una menzione al mio “fratello
di latte” alias Giuseppe Sacco (inteso “Peppi di Filippa”) che, per un lungo
periodo, sarebbe divenuto compagno di giochi e di lotta politica.
Fratello di latte era chiamato quel neonato il
quale, non potendo allattare al seno materno, era affidato alle cure di una
puerpera che già allattava il suo.
Zia Filippa pregò mia madre di badare al
figlio e così con Peppi ci ritrovammo “fratelli” che - come due cuccioli
affamati - succhiavano dalle medesime
“fonti sacre” della vita.
Gli antichi mostravano un gran rispetto per il seno materno, non a caso adoravano Artemide di
Efeso per le sue molte mammelle, simboli di bellezza e di fertilità; purtroppo,
oggi, capita di vederle mercificate da ignobili pubblicitari e da sfruttatori
senza scrupoli che, forse, le considerano “la
cosa più superflua e vuota, essenza
vana…” come ebbe a scrivere un celebre scrittore spagnolo. (2)
Mia madre non era una balia. Accettò solo per
pietà umana. Era una donna forte e generosa e, seppure vivesse in condizioni di
povertà, accettò di allattare quel bimbo come se fosse stato il mio gemello.
E così, zia Filippa, che certo capiva la
situazione, ogni tanto portava, col bambino, una “mbroglia di pani” e un po’ di
brodo di gallina caldo nel portapranzo. Allora il “pranzo” non si consumava a
tavola, ma si “portava”, anzi si trasportava, dentro ciotole e camelle
(contenitori di alluminio), di casa in casa o per le vastità delle campagne.
Con quelle poche sostanze, mia madre continuò
ad allattare i due “ladroni”, come simpaticamente ci avevano ribattezzati.
Tempi duri quelli, ma anche di umana solidarietà
fra poveri. Soprattutto, fra queste orgogliose madri del Sud che fecero
(purtroppo continuano a fare) enormi sacrifici per allevare e far crescere i
figli che avrebbero visto partire per questo Nord che, sovente, si è mostrato ingrato.
Comunque sia, un progresso c’è stato: mentre prima i giovani partivano per la
guerra e molti non tornavano più, oggi (ri) partono per il Nord ma d’estate ritornano al paese. Solo d’estate. Il
problema, il nostro grande problema, è quello di vedere cosa fare sul serio per
farli restare nel Sud, con le loro madri.
Agostino
Spataro
Budapest 23 gennaio 2015.
Note:
(1) Mio suocero Laky Karoly, cultore della storia del popolo magiaro
derivato dagli Unni, impose al figlio il nome di Attila e alla figlia quello di
Gyongyvér che vuol dire “Sangue della sorella di Attila”. Con un nome così
lungo e impegnativo un vezzeggiativo s’imponeva.
(2) Ramon Gomez de la Serna , autore di “Seni”,
Edizioni Dell’Oglio, 1978.
P.S. Ho
scritto questa “cosina” un po’ di getto, non tanto per celebrare il mio
compleanno (che come si sarà capito non m’importa granché) quanto per recare un
piccolo contributo alla ricostruzione della memoria collettiva, della mentalità
e dei costumi vigenti nel nostro paesino durante gli anni del secondo
dopoguerra. Sperando che possa incontrare l’interesse dei più giovani. (a.s.)