venerdì 23 gennaio 2015

IL COMPLEANNO di Agostino Spataro




1… Ad una certa età, inevitabilmente, l’uomo diventa più riflessivo e s’interroga su fatti e cose apparentemente banali o dati per scontati. In questi giorni freddi dell’inverno ungherese, avvicinandosi la data, mi sono chiesto che cosa sia in realtà il compleanno. E’ un anno di vita in più o in meno? In più o in meno, rispetto a cosa, a quale traguardo? Un anno rubato alla Signora che attende, inquieta, in fondo al viale o aggiunto alla vita fin qui vissuta?
Le risposte non sono facili e soprattutto non esaustive, poiché dipendono dal punto di vista personale, perfino dall’umore momentaneo. Perciò, nell’incertezza sarebbe meglio non festeggiarlo. Obliarlo, se possibile. Ma come si fa a obliarlo se tutti te lo ricordano, affettuosamente?
Quest’anno, addirittura, l’ho festeggiato due volte: una prima in casa, la sera del 21 gennaio, con Jolikè (alias Laky Ilona Gyongyvér (1), da 44 anni mia compagna di vita) la quale, per l’occasione, ha preparato un fritto d’infidi gamberi congelati provenienti dai lontani mari del Sud, esattamente dalla Nuova Zelanda, innaffiati con un vivace frizzantino ungherese; una seconda nel nostro ristorante preferito, la sera del 22, per  dare soddisfazione alla famiglia, per occhio di popolo come si suol dire.    

2… Vi chiederete: perché due volte, in così rapida successione?
E’ presto detto. Intorno alla mia data di nascita c’è una piccola anomalia da chiarire. Per l’anagrafe del comune di Joppolo Giancaxio sono nato il 22 gennaio del 1948. Alcuni amici- per celia- sogliono anticipare di un secolo la data. Anticipazione che accetto di buon grado poiché  il 1848 segnò l’inizio dell’epopea risorgimentale in Sicilia e in Europa
In realtà, nacqui- come più volte mi assicurò mia madre- alle ore 22 del 21 gennaio 1948. Mancavano solo due ore al nuovo giorno e mio padre pensò bene di “rivelarmi” per il 22, per “farmi guadagnare un giorno”, mi confidò. Non per mia futura vanità, ma nel caso di una nuova guerra.
Mi spiego: mio padre, il quale- poveretto- fra leva, richiamo al fronte di guerra e prigionia in un lager nazista si era fatto 7 anni di servizio militare, volle spostare di un giorno la mia nascita nel timore che, fra 18-20 anni, qualche nuovo, esaltato dittatore potesse dichiarare una nuova guerra.
Guadagnare un giorno poteva significare guadagnare la vita. Sì, perché, a volte, si poteva evitare la temutissima “cartolina-precetto” e la “partenza” per il fronte se la “chiamata alle armi” si fermava il giorno precedente a quello in cui si era nati.
Ovviamente, ci voleva anche un po’ di fortuna. Tuttavia, tanti si sono sottratti alle tragiche incombenze della guerra proprio per il fatto di esser nati il giorno dopo la scadenza del bando.
A questo punto avrei voluto aprire una parentesi graffa (ma manca il tasto) per rilevare un inquietante mutamento d’approccio verso la guerra che si registra nelle nuove generazioni. Mentre prima, specie ai tempi dei due conflitti mondiali, si aveva il terrore della cartolina-precetto e per evitarla taluni si auto-invalidavano, oggi  tanti giovani, per lo più inoccupati, fanno la fila, brigano per essere incorporati nelle forze armate e inviati nelle più rischiose missioni militari all’estero: dall’Afghanistan al Libano, dall’Iraq alla Somalia, ecc. Ci saranno, certamente, problemi di tipo culturale, etico, d’induzione alla guerra (che inizia con i bambini davanti i “war games”), un’attrazione del lauto soldo, ma prima di tutto c’è una questione sociale irrisolta, un problema serio di occupazione, di mancanza di prospettiva professionale.
Poiché, credo che nessuno, tranne pochi esaltati, ami la guerra, il rischio della morte propria e delle tante procurate. 
Tale tendenza, per altro, fa risaltare di più il valore di quell’oculata, innocente precauzione di mio padre che, purtroppo, non mi avrebbe consentito di festeggiare il compleanno insieme a quello del Partito, che ho amato e servito come un figlio devoto, che cadeva il 21 gennaio. Capirete che anch’io un po’ sto celiando, anche perché nessuno, in quel momento, avrebbe potuto prevedere questa singolare coincidenza celebrativa.

3… Visto che siamo in argomento desidero fare un’altra precisazione: io non sono il secondo figlio di tre, come appare dalla configurazione attuale della mia famiglia, ma il quarto di cinque.
Nel senso che i miei genitori (Pietro, ultimogenito di nonno Calogero, il “viaggiatore”, e Giovanna Cultrera, ultimogenita di nonno Agostino, rinomato poeta dialettale) ebbero in tutto cinque figli: due (Calogero e Francesco) nati prima dello scoppio della guerra e morti in tenerissima età, nonostante il secondo, vista la morte del primo, fosse stato “votato” a San Francesco di Paola (patrono del paese ma un po’ pigro nel fare miracoli) e tre nati dopo (un secondo Calogero, io e mia sorella Zina)
A questi due fratelli morti neonati, probabilmente, devo la mia venuta al mondo poiché se fossero sopravvissuti, forse, i miei si sarebbero fermati… a tre. 
Per altro, aggiungo un particolare assurdo quanto disdicevole che denota la logica disumana del fascismo, legato alla nascita e alla morte dei due fratellini.
A quel tempo (si era nella seconda metà degli anni ’30), il regime fascista concedeva, per legge, un “premio” in denaro alle coppie che mettevano al mondo figli, soprattutto maschi, da destinare alla patria imperiale e alle future guerre programmate e/o minacciate.
Con i “premi” incassati per la nascita dei due bambini, i miei decisero di fabbricare una stanzetta sopra il fatiscente catojo in cui vivevano, per farne camera da letto nuziale e deposito stagionale per la “mancia” (nulla a che vedere con la patria di Don Chisciotte) ossia la riserva di fave e granaglie per sfamare la famiglia durante l’inverno.
Successe che qualcuno, fra i tanti leccaculo del locale fascio, segnalò alle autorità preposte la morte dei due bimbi provocando, di conseguenza, la revoca dei premi che erano stati incassati e investiti. I funzionari furono irremovibili e mio padre fu costretto a restituire, a rate, l’importo percepito.

4…  Di solito, quando si parla di nascite, di lieti eventi ci si sofferma prevalentemente sulla madre, meno sul padre che pure svolge un ruolo insostituibile nel concepimento e nella crescita della prole.
Pertanto, desidero dedicare due parole al mio che era un operaio, un bracciante taciturno e laborioso. Per me era un uomo molto speciale, giacché durante il ventennio, fu uno dei pochissimi abitanti del paese a non iscriversi al fascio.
Non perché fosse un antifascista convinto, militante, ma per un sentimento intimo d’orgoglio e d'anticonformismo. E  pensare che aveva un fratello “milite” fanatico e autoritario il quale, potenza del privilegio, all’entrata in guerra dell’Italia restò in paese a presidiare la sicurezza dei suoi amici gerarchi, mentre mio padre, che fascista non era, fu richiamato a combattere una guerra folle dichiarata da Mussolini, su ordine di Hitler.
Come accennato, stette cinque anni alla malora: tre di guerra nei Balcani e due di campo di concentramento in Germania dove fu deportato per essersi rifiutato, dopo l’armistizio, di combattere negli eserciti nazifascisti.
Nel lager i prigionieri erano utilizzati per lavori durissimi in condizioni umilianti, di vera schiavitù. Infatti, erano chiamati “gli schiavi di Hitler”.
Solo raramente, mio padre parlava di questa sua drammatica esperienza che gli valse, soltanto, una medaglia d’onore assegnatagli (alla memoria) dal presidente della Repubblica.
Non voleva sentire parlare nemmeno di tedeschi e di kartoffen (patate) perché gli ricordavano quelle bucce sporche, passategli di nascosto dal kapò in cambio di tre sigarette ch’erano la sua dotazione giornaliera di tabacco, che fu costretto a mangiare per salvarsi.
Si rifugiava nel piú sdegnoso silenzio per esprimere il suo risentimento per il trattamento subito in quell’inferno indicibile in cui si consumò la shoa degli ebrei, ma anche lo sterminio di centinaia di migliaia d'antifascisti, di zingari, d’internati militari, di apolidi, ecc. 
Della sua squadra, composta di 35 prigionieri, ne sopravvissero soltanto 5, fra cui lui e un compaesano, Domenico Sprio, fortunosamente capitato in quella sventurata comitiva.
Mio padre fu uno degli ultimi “sbandati” a ritornare in paese e quando fu sicuro d’esser uscito dall’incubo della guerra volle fare un figlio, per ricominciare...

5… Così, nacqui io, figlio del dopoguerra, di quella stagione di speranze e turbolenze che vide l’Italia e l’Europa ritornare, lentamente, alla vita, alla libertà, alla democrazia.
Gli uomini rientrati dai fronti o dalle prigioni, per prima cosa, fecero figli anche se non disponevano di un lavoro degno e di cibo sufficiente per sfamarli.
Procreare era un segno di vitalità, di affermazione di una volontà di rinascita, d’altruismo.
Nel triennio 1948-50, a Joppolo e altrove, nascemmo una caterva di bambini con dentro i cromosomi del rifiuto della guerra e la voglia di progredire oltre i limiti storici dell’atavica, feudale condizione umana e politica. 
Vidi la luce in quella stanzetta fredda (del premio revocato), al primo piano di via Salita Panzera, attaccata alla grande madre Roccia e al recipiente del Voltano. Per mia madre sarà stato un travaglio davvero doloroso visto che pesavo 5,6 kg, anche se uscii senza particolari difficoltà grazie anche alla perizia della levatrice, signora Maria Cimino.
Mesi dopo, fra i tanti e sempre con l’ausilio della stessa ostetrica, nacquero Giovanni Sacco e Angelo Capodicasa.
Il caso volle che lungo il nostro comune percorso politico incontrammo Dino Tuttolomondo, figlio della nostra levatrice e segretario provinciale del PCI, con il quale, a un certo punto, ci scontrammo, non per fatto personale ma esclusivamente per il bene del Partito.
A cavallo fra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, questi quattro “giancascisi” ci ritrovammo impegnati nella direzione della Federazione provinciale del Pci di Agrigento, talvolta muovendo da punti di vista differenti, in una difficile battaglia politica, anche interna, per bloccare la decadenza del Partito e riportarlo (come poi avvenne) a più alti livelli di consistenza elettorale e di protagonismo politico.
Un confronto doloroso ma necessario, del quale più mi preoccupava lo stato d’animo di quella gentile signora quando avrà saputo del contrasto insorto fra suo figlio e i tre baldi giovanotti che lei aveva aiutato a vedere la luce della vita.   
   
6… Termino, con una menzione al mio “fratello di latte” alias Giuseppe Sacco (inteso “Peppi di Filippa”) che, per un lungo periodo, sarebbe divenuto compagno di giochi e di lotta politica.
Fratello di latte era chiamato quel neonato il quale, non potendo allattare al seno materno, era affidato alle cure di una puerpera che già allattava il suo. 
Zia Filippa pregò mia madre di badare al figlio e così con Peppi ci ritrovammo “fratelli” che - come due cuccioli affamati -  succhiavano dalle medesime “fonti sacre” della vita.
Gli antichi mostravano un gran rispetto per il seno materno, non a caso adoravano Artemide di Efeso per le sue molte mammelle, simboli di bellezza e di fertilità; purtroppo, oggi, capita di vederle mercificate da ignobili pubblicitari e da sfruttatori senza scrupoli che, forse, le considerano “la cosa più superflua e vuota, essenza vana…” come ebbe a scrivere un celebre scrittore spagnolo. (2)
Mia madre non era una balia. Accettò solo per pietà umana. Era una donna forte e generosa e, seppure vivesse in condizioni di povertà, accettò di allattare quel bimbo come se fosse stato il mio gemello.
E così, zia Filippa, che certo capiva la situazione, ogni tanto portava, col bambino, una “mbroglia di pani” e un po’ di brodo di gallina caldo nel portapranzo. Allora il “pranzo” non si consumava a tavola, ma si “portava”, anzi si trasportava, dentro ciotole e camelle (contenitori di alluminio), di casa in casa o per le vastità delle campagne.
Con quelle poche sostanze, mia madre continuò ad allattare i due “ladroni”, come simpaticamente ci avevano ribattezzati.
Tempi duri quelli, ma anche di umana solidarietà fra poveri. Soprattutto, fra queste orgogliose madri del Sud che fecero (purtroppo continuano a fare) enormi sacrifici per allevare e far crescere i figli che avrebbero visto partire per questo Nord che, sovente, si è mostrato ingrato. Comunque sia, un progresso c’è stato: mentre prima i giovani partivano per la guerra e molti non tornavano più, oggi (ri) partono per il Nord ma  d’estate ritornano al paese. Solo d’estate. Il problema, il nostro grande problema, è quello di vedere cosa fare sul serio per farli restare nel Sud, con le loro madri.
                         
                                   Agostino Spataro

Budapest 23 gennaio 2015.


Note:

(1) Mio suocero Laky Karoly,  cultore della storia del popolo magiaro derivato dagli Unni, impose al figlio il nome di Attila e alla figlia quello di Gyongyvér che vuol dire “Sangue della sorella di Attila”. Con un nome così lungo e impegnativo un vezzeggiativo s’imponeva.    

(2) Ramon Gomez de la Serna, autore di “Seni”, Edizioni Dell’Oglio, 1978.





P.S. Ho scritto questa “cosina” un po’ di getto, non tanto per celebrare il mio compleanno (che come si sarà capito non m’importa granché) quanto per recare un piccolo contributo alla ricostruzione della memoria collettiva, della mentalità e dei costumi vigenti nel nostro paesino durante gli anni del secondo dopoguerra. Sperando che possa incontrare l’interesse dei più giovani. (a.s.)




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