(Pietro Spataro rientrato dal lager tedesco. Agosto 1945). |
1...
La guerra era
finita da un pezzo. In tutto il mondo si festeggiava la vittoria sul
nazifascismo, sul male assoluto. Anche nei Paesi che avevano attizzato la
guerra. Buona parte dei sopravvissuti erano tornati a casa o erano sulla via
del ritorno. Cominciava ad arrivare anche qualche morto. L’atmosfera che si
respirava era di gioia per la fine di un incubo durato quasi sei anni. Il
fine-guerra cancellava le ferite e le colpe. La gente aveva voglia di vita, di
cambiare pagina.
Soltanto
una particolare categoria di belligeranti tardava ad arrivare. Erano i
cosiddetti “sbandati” i quali, a decine, a centinaia di migliaia, si aggiravano
fra le rovine dell’Europa e per i deserti d’Africa.
Sbandati?
No. Non erano sbandati ma uomini coraggiosi che, dopo l’otto settembre del
1943, rifiutarono di combattere per i nazifascisti e furono deportati nei lager
nazisti; altri raggiunsero le montagne.
Una
scelta difficile che andava oltre la fedeltà del giuramento al re, il quale,
per altro, era scappato verso il sud, a cercare la (sua) salvezza.
Insieme,
questi soldati italiani (circa 600 mila) diedero a tutti il segnale della Resistenza,
soffrendo e/o immolandosi per la libertà e per la dignità del nostro popolo.
In
uno scontro durissimo e dagli esiti incerti,
sottrarre 600 mila militari agli eserciti nazifascisti non fu cosa da
poco!
Uomini
coraggiosi, veri patrioti che sfidarono le ire di Hitler e di Mussolini anche
dopo aver saputo della terribile rappresaglia di Cefalonia, dove i nazisti uccisero,
a sangue freddo, migliaia di militari italiani della divisione “Aqui”.
Gli “sbandati” vagavano da un punto all’altro dell’orribile “teatro” della guerra: dalla Russia alla Germania, dai Balcani alla Francia, dalla Libia all’Egitto, all’Abissinia, ecc.
Lo
chiamano “teatro” ma non ci azzecca nulla. Il teatro è finzione, è spettacolo.
La guerra è solo morte e distruzione, sangue d’innocenti. È una tragedia vera,
la più assurda che può capitare all’umanità. Teatro sarà per chi provoca la
guerra e se la gode come una fiction, come una piéce teatrale. Per l’appunto.
Dopo
anni di feroce scannamento, seguirono la lugubre prigionia, le umiliazioni, le privazioni,
il freddo, la fame nei lager nazisti.
Non
furono considerati “prigionieri di guerra” ai sensi delle convenzioni
internazionali ma semplici “internati”, per poterli brutalmente sfruttare nei
campi di lavoro nazisti e per non dovere, domani, risarcire i danni provocati
dalla prigionia. Ancora oggi, è questa la posizione giuridica della Germania, ricca e democratica, per giustificare il suo rifiuto a risarcire il danno
tremendo inflitto ai deportati e alle loro famiglie.
Dopo
la disfatta totale del regime di Hitler, la conquista di Berlino da parte
dell’Armata rossa (quello sì fu un vero crollo!), partirono, a piedi o con
mezzi di fortuna, senza cibo e ricovero, laceri e disperati, verso casa, verso
le mogli abbandonate e i figli che non avevano visto nascere e crescere.
Eh,
la guerra! La guerra la fanno i fessi, diceva Beniamino. Lor signori la
programmano, la scatenano e se la guardano in panciolle, lontano dai campi di
battaglia e pure ci guadagnano.
Se
i capi di Stato, i re, gli imperatori, i dittatori vogliono la guerra che se la
facciano fra di loro! Si sfidino, personalmente, a duello all’ultimo sangue:
chi muore vince, chi resta vivo perde.
“E saremo noi, i popoli del mondo a goderci lo
spettacolo di vedere scannare i potenti fra di loro. Che bello spettacolo!
Siatene certi - chiosava il vecchio anarchico - che se al posto della guerra
si facessero simili duelli la pace fra gli uomini e le nazioni regnerebbe imperitura.”
2...
Fin dalla seconda
metà di maggio 1945, cominciarono ad arrivare a Realturco i primi reduci
provenienti dai diversi fronti. Uomini sopravvissuti alla più grande catastrofe
del secolo, che erano stati intruppati con la promessa di abiette conquiste di
(in)civiltà, stavano tornando malconci, denutriti, malati. Alcuni con le ferite
ancora fasciate.
Comunque,
vivi. Scendevano ad Aragona Caldare dalle tradotte che trasportavano zolfo e salgemma
a Porto Empedocle. Restava l’ultimo tratto, quattro /cinque chilometri a piedi
o a dorso di quadrupedi, e finalmente sarebbero stati a casa, in famiglia,
dove li attendevano madri e padri, mogli e figli.
Molti
erano rimasti indietro o erano dati per “dispersi”.
Disperso?
Anche questa è una parola ambigua. Specie quando da aggettivo si trasforma in
sostantivo poiché incorpora una condizione terribile per chi lo è, diventa un
eufemismo angoscioso per i familiari che aspettano.
Arrivavano
con il contagocce. Uno, due il giorno. Certi giorni nessuno.
Sul
paese aleggiavano la speranza e un gioioso fervore, ma anche un inconfessato
timore.
Sulla
rocca, sulle modeste alture del paese si consumava il tempo dell’attesa. Lungo
e penoso. C’era sempre qualcuno di vedetta, che scrutava l’orizzonte a Oriente,
verso Aragona, Comitini, le Macalube, i pozzi di “cravunaru”, la trazzera
contorta di “passu Ragona”.
Vecchi
e ragazzi e donne in nero, senza scarpe, cercavano una macchia mobile fra le
stoppie gialle dei campi di grano, fra le “maise” di fave, negli anfratti dei
calanchi d’argilla, l’ombra cara del figlio, del padre, del fratello che
aspettavano.
Ogni
tanto un “talé”. Un ombra vaga che presto spariva o si fermava. Svaniva…
Delusione,
un altro boccone amaro da ingoiare. Se, invece, si scorgeva qualcuno o più
d’uno, oltrepassare la roba “cravunara” e immettersi nella discesa verso “passu
Ragona”, la speranza si riaccendeva. Grida di giubilo salivano al cielo e tutti
correvano all’incontro, pur sapendo che solo alcuni avrebbero potuto incontrare
l’atteso congiunto.
Dai
pozzi della Fontanazza la visione era più chiara. Con un po’ di fortuna, si
poteva identificare quell’ombra che saliva dal “guaddruni”.
D’estate,
il pianoro della Fontanazza era un luogo ameno: un prato d’erba verde irrigato
da rivoletti d’acqua rilasciata dal pozzo in esubero. Un luogo sempre animato,
frequentato da uomini e donne e bestie all’abbeverata. Ingentilito dal canto
degli uccelli che qui accorrevano dal vasto territorio alla ricerca di cibo e
d’acqua chiara.
In questo piccolo Eden del refrigerio incontravano quegli uomini secchi, sudati, assetati, barbuti,
segnati dalla morte a cui erano sfuggiti.
Uomini
irriconoscibili, trasfigurati dalla fatica, dalle atrocità della guerra. Occhi
che cercavano altri occhi.
Poi
un grido: “Papà”, “Figliu beddru di l’arma”.
Erano
arrivati solo due “sbandati” per la gioia di due famiglie. Gli altri, delusi, risalivano
verso le case. Riprendeva l’attesa. Storie di ogni giorno. Per settimane, per mesi.
3...
Dalla fine della
guerra erano passati tre mesi e ancora mio padre non era arrivato. A parte i
morti accertati o dati per dispersi in Russia, all’appello mancavano in pochi.
E
fra questi pochi mio padre che doveva rientrare dalla prigionia scontata in un
lager nazista, in Germania.
Mia
madre cominciava a dubitare dell’arrivo del marito. Non si avevano notizie.
Qualcuno che era tornato dalla Germania diceva di non sapere nulla di mio
padre.
“La Germania è ranni ed è
tutta distrutta, affamata. C’è il fuggi fuggi generale. Ognunu si arrangia come
può. Iu appi la furtuna di truvari na tradotta e sugnu ccà…Ma darré di mia
lassavu tanti figli di mamma, tanti patri…Si boli Diu annu arrivari, videmma.”
Mia
madre capiva il senso di tali ragionamenti e continuava a sperare. Che altro
poteva fare? Doveva sperare soprattutto per quel figlio bambino che vedeva
arrivare i papà degli altri e mai il suo che, per altro, non conosceva.
Lillo,
infatti, era nato nell’ottobre del 1941, pochi mesi prima che papà fosse
inviato al fronte d’Albania. Sapeva di avere un padre, senza averlo mai
conosciuto per davvero.
Con
la guerra succede anche questo: padre e figlio possono morire senza essersi
conosciuti.
Tanti
bambini correvano incontro ai loro papà che avrebbero portato le caramelle.
Anche dalla guerra non si veniva a “mani vacanti”. Nella visione infantile, la
guerra non era vista come un’immane tragedia, ma come una sorta di scazzottata
generale, un gioco manesco, una zuffa in cui si vinceva e si perdeva a turno.
D’altra
parte, cosa ne potevano sapere della guerra quei bimbi di quattro o cinque
anni?
Come
in una scommessa, puntavano tutto sul proprio papà che era il più forte e non
sbagliava mai.
Fra
i più grandicelli, c’era qualcuno che aveva visto la guerra arrivare in paese
in una calda mattina di luglio del 1943.
Una
bella guerra, tutto sommato!
La
portarono quei giovanottoni americani, sempre sorridenti e generosi. Ai bambini
cioccolatini e caramelle e alle ragazze tanti baci e… languide carezze.
In
realtà, a causa di un banale equivoco si corse il rischio di una tragedia, evitata
in extremis. I reparti alleati giunsero alla “Fugureddra” dopo che la forza
aerea aveva sbaragliato le sacche di resistenza italo-tedesca nella piana di
contrada “Chianti” e nelle colline della “Guardiola”.
Giunti
a “piano corsa” puntarono cannoni e mitraglie contro il paese e intimarono la
resa incondizionata.
Ma
nessuno rispose all’ultimatum. Non per orgoglio o, peggio, per una proterva
volontà di resistenza, ma perché nessuno si rese conto della gravità
dell’intimazione.
Una
folla festante di donne e di bambini, riuniti sul poggio del “cugnu nutaru”,
salutavano l’arrivo dei liberatori, degli “americani”.
Nessuno
sapeva che di fronte a un ultimatum bisogna alzare bandiera bianca come segno di
accettazione della resa. La mancata esposizione del drappo bianco voleva dire
rifiuto, volontà di combattere e quindi...
Le
autorità, i piccoli gerarchi fascisti, che per vent’anni avevano fatto il bello
e il cattivo tempo, erano scappati o nascosti come sorci nelle pagliere, nelle
tante grotte esistenti nel sottosuolo di Realturco.
L’arciprete
Ponti, che aveva benedetto Mussolini e la sua sporca guerra, comprese il
pericolo e prese ad agitare un lenzuolo bianco fino a quando non si videro gli
americani muoversi, tranquilli e sorridenti, verso il paese.
4...
Ma torniamo agli
“sbandati” tanto attesi. Una sera d’agosto si sparse la voce che era tornato un
altro reduce dalla Germania. Era il signor Domenico Sprio che trascorse la
prigionia in un lager tedesco nello stesso blocco dov’era mio padre.
La
voce giunse fin sopra il Voltano e mia madre, prese per mano Lillo e corse a
casa di zi Minicu. C’era buio e le strade erano trappole per topi. Mia mamma
temeva di essere inopportuna, che avrebbe potuto turbare la festa in quella
casa. Ma aveva bisogno di sapere qualcosa del marito. Solo il signor Sprio
poteva portare notizie di mio padre.
Entrarono
e furono bene accolti da quella famiglia che gioiva per il ritorno del padre.
Lillo spiccicò due parole: “U vitti a me patri?”
“Certu
ca lu vitti, lu zi zi. Nzemmula amu statu a lu distinu, prigiunera di dra
malacarni di tedeschi. I partivu prima. To patri è appressu, sta arrivannu…”
Da
sopra il canterano prese una piccola “burnia” piena di caramelle e ne diede
alcune al bambino: “Queste te li manda tuo papà ca sta binennu.”
Una
pietosa bugia che fece felice il bambino e ridiede speranza alla madre.
Effettivamente,
pochi giorni dopo, mio padre arrivò mischiato in un gruppetto di reduci. Alla
Fontanazza si creò una gran confusione. Chi correva di qua, chi di là. Ognuno
cercava il padre, il fratello, il figlio.
Lillo,
che come detto non conosceva il padre, a ognuno che vedeva impolverato,
circondato da un nugolo di persone contente, domandava: “Tu chi si me patri?”
Quello
non gli dava retta. Correva verso un altro: “Chi si me patri?”
Alla
fine si trovarono, si abbracciarono e crebbero insieme per un lungo tratto
della loro vita.
5...
Fin qui il
racconto di mio fratello Lillo, al quale desidero aggiungere un ricordo di mia
madre ovviamente raggiante di gioia per il ritorno del marito.
Papà,
rifocillatosi alla belle e meglio, si sedette al tavolo con la sua piccola
famiglia ritrovata e con i parenti più intimi.
Poi
si guardò intorno e si accorse che mancavano i suoi di parenti, del lato
Spataro. Non capiva quell’assenza. Forse non erano stati avvisati?
Domandò:
“Dov’è me patri? Perché non è venuto?”
“È
andato in campagna. Non immaginava che saresti tornato oggi. Sai da quanto che
aspettiamo…”, gli rispose mia madre.
“E
mia sorella Carmena dov’è? Abita ca vicinu.”
“È
rimasta a casa picchi è malata. Po vi viditi.”
“E
Mita unné. Mancu iddra vinni.”
“È
intra ca bada a lu furnu. Sai u travagliu…”
“E
me matri………….”
Nessuno
rispose. A questo punto, si rese conto che le risposte non erano veritiere, ma
nascondevano una tragica verità. Scoppiò in un pianto dirotto, incontrollabile.
Scoprì
che in quegli anni di prigionia era scomparsa metà della sua famiglia senza
che lui ne sapesse nulla.
6...
Infine, una nota
a margine. Come scritto in altra parte, mio padre era un uomo schivo, amante
del silenzio. Non parlava nemmeno delle sue disavventure sotto le armi o degli
anni dell’emigrazione in Belgio e anche in Germania, dove il bisogno lo riportò
agli inizi degli anni ’60. Il “bisogno” certo, ma soprattutto chi questo
bisogno aveva creato, provocato ossia la mala politica dei governi verso il
Mezzogiorno e la Sicilia.
Lo ributtarono in Germania, in un paese che gli aveva fatto
odiare perfino le kartofen, le bucce sporche di patate che i kapò gli gettavano
per cena.
Quando
iniziai a frequentare l’Argentina gli parlavo di quelle splendide città:
Buenos Aires, Rosario, Mar del Plata, ecc.
Mio
padre non si mostrò molto interessato alle mie descrizioni.
M’interruppe
e volle parlarmi di Minucu Sprio, suo compagno di prigionia: “Eramu comu
frati. Ni sarbamu pirchì n’aiutavamu unu cu l’antru. Comu frati. Ni la nostra
cumpagnia eramu trentacincu e ni ristamu vivi sulu cincu e fra chissi iu e
Minicu. Omu bravu, comu frati ni trattavamo. Si va in Argentina l’ha iri a
truvari e ci porti li me saluti. Mi pari ca si trova a Rusariu, unni ci sunnu
antri paisani.”
A
Rosario tornai e cercai notizie del signor Sprio. Le poche che mi diedero erano
ferme a tanti anni prima. Qualcuno mi disse che era morto. Volevo cercare la
tomba, per portargli un fiore. Ma in quale cimitero di Rosario? Nessuno me lo
seppe dire.
* http://www.lafeltrinelli.it/libri/agostino-spataro/i-fiori-tempo-ritrovato/9788892325890
Nessun commento:
Posta un commento