sabato 9 settembre 2017

IL RITORNO DEL PADRE *




(Pietro Spataro rientrato dal lager tedesco. Agosto 1945).






1...              La guerra era finita da un pezzo. In tutto il mondo si festeg­giava la vittoria sul nazifascismo, sul male assoluto. Anche nei Paesi che avevano attizzato la guerra. Buona parte dei sopravvissuti erano tornati a casa o erano sulla via del ritorno. Cominciava ad arrivare an­che qualche morto. L’atmosfera che si respirava era di gioia per la fine di un incubo durato quasi sei anni. Il fine-guerra cancellava le ferite e le colpe. La gente aveva voglia di vita, di cambiare pagina.

Soltanto una particolare categoria di belligeranti tardava ad arrivare. Erano i cosiddetti “sbandati” i quali, a decine, a centinaia di migliaia, si aggiravano fra le rovine dell’Europa e per i deserti d’Africa. 

Sbandati? No. Non erano sbandati ma uomini coraggiosi che, dopo l’otto settembre del 1943, rifiutarono di combattere per i nazifascisti e furono deportati nei lager nazisti; altri raggiunsero le montagne.

Una scelta difficile che andava oltre la fedeltà del giuramento al re, il quale, per altro, era scappato verso il sud, a cercare la (sua) salvezza.
Insieme, questi soldati italiani (circa 600 mila) diedero a tutti il segnale della Resistenza, soffrendo e/o immolandosi per la libertà e per la dignità del nostro popolo.
In uno scontro durissimo e dagli esiti incerti,  sottrarre 600 mila militari agli eserciti nazifascisti non fu cosa da poco! 
Uomini coraggiosi, veri patrioti che sfidarono le ire di Hitler e di Mussolini anche dopo aver saputo della terribile rappresaglia di Cefalonia, dove i nazisti uccisero, a sangue freddo, migliaia di militari italiani della divisione “Aqui”.

Gli “sbandati” vagavano da un punto all’altro dell’orribile “teatro” della guerra: dalla Russia alla Germania, dai Balcani alla Francia, dalla Libia all’Egitto, all’Abissinia, ecc.
Lo chiamano “teatro” ma non ci azzecca nulla. Il teatro è finzione, è spettacolo. La guerra è solo morte e distruzione, sangue d’innocenti. È una tragedia vera, la più assurda che può capitare all’umanità. Teatro sarà per chi provoca la guerra e se la gode come una fiction, come una piéce teatrale. Per l’appunto.
Dopo anni di feroce scannamento, seguirono la lugubre prigionia, le umiliazioni, le privazioni, il freddo, la fame nei lager nazisti.
Non furono considerati “prigionieri di guerra” ai sensi delle conven­zioni internazionali ma semplici “internati”, per poterli brutalmente sfruttare nei campi di lavoro nazisti e per non dovere, domani, risarcire i danni provocati dalla prigionia. Ancora oggi, è questa la posizione giuridica della Germania, ricca e democratica, per giustificare il suo rifiuto a risarcire il danno tremendo inflitto ai deportati e alle loro fa­miglie. 
Dopo la disfatta totale del regime di Hitler, la conquista di Berlino da parte dell’Armata rossa (quello sì fu un vero crollo!), partirono, a piedi o con mezzi di fortuna, senza cibo e ricovero, laceri e disperati, verso casa, verso le mogli abbandonate e i figli che non avevano visto na­scere e crescere.
Eh, la guerra! La guerra la fanno i fessi, diceva Beniamino. Lor signori la programmano, la scatenano e se la guardano in panciolle, lontano dai campi di battaglia e pure ci guadagnano.
Se i capi di Stato, i re, gli imperatori, i dittatori vogliono la guerra che se la facciano fra di loro! Si sfidino, personalmente, a duello all’ultimo sangue: chi muore vince, chi resta vivo perde.
“E saremo noi, i popoli del mondo a goderci lo spettacolo di vedere scannare i potenti fra di loro. Che bello spettacolo! Siatene certi - chio­sava il vecchio anarchico - che se al posto della guerra si facessero si­mili duelli la pace fra gli uomini e le nazioni regnerebbe imperitura.”

2...              Fin dalla seconda metà di maggio 1945, cominciarono ad arri­vare a Realturco i primi reduci provenienti dai diversi fronti. Uomini sopravvissuti alla più grande catastrofe del secolo, che erano stati in­truppati con la promessa di abiette conquiste di (in)civiltà, stavano tornando malconci, denutriti, malati. Alcuni con le ferite ancora fas­ciate.
Comunque, vivi. Scendevano ad Aragona Caldare dalle tradotte che trasportavano zolfo e salgemma a Porto Empedocle. Restava l’ultimo tratto, quattro /cinque chilometri a piedi o a dorso di quadrupedi, e fi­nalmente sarebbero stati a casa, in famiglia, dove li attendevano madri e padri, mogli e figli.
Molti erano rimasti indietro o erano dati per “dispersi”.
Disperso? Anche questa è una parola ambigua. Specie quando da ag­gettivo si trasforma in sostantivo poiché incorpora una condizione ter­ribile per chi lo è, diventa un eufemismo angoscioso per i familiari che aspettano.
Arrivavano con il contagocce. Uno, due il giorno. Certi giorni nessuno.
Sul paese aleggiavano la speranza e un gioioso fervore, ma anche un inconfessato timore.
Sulla rocca, sulle modeste alture del paese si consumava il tempo dell’attesa. Lungo e penoso. C’era sempre qualcuno di vedetta, che scrutava l’orizzonte a Oriente, verso Aragona, Comitini, le Macalube, i pozzi di “cravunaru”, la trazzera contorta di “passu Ragona”.
Vecchi e ragazzi e donne in nero, senza scarpe, cercavano una macchia mobile fra le stoppie gialle dei campi di grano, fra le “maise” di fave, negli anfratti dei calanchi d’argilla, l’ombra cara del figlio, del padre, del fratello che aspettavano.
Ogni tanto un “talé”. Un ombra vaga che presto spariva o si fermava. Sva­niva…
Delusione, un altro boccone amaro da ingoiare. Se, invece, si scorgeva qualcuno o più d’uno, oltrepassare la roba “cravunara” e immettersi nella discesa verso “passu Ragona”, la speranza si riaccendeva. Grida di giubilo salivano al cielo e tutti correvano all’incontro, pur sapendo che solo alcuni avrebbero potuto incontrare l’atteso congiunto.
Dai pozzi della Fontanazza la visione era più chiara. Con un po’ di fortuna, si poteva identificare quell’ombra che saliva dal “guaddruni”.
D’estate, il pianoro della Fontanazza era un luogo ameno: un prato d’erba verde irrigato da rivoletti d’acqua rilasciata dal pozzo in esu­bero. Un luogo sempre animato, frequentato da uomini e donne e be­stie all’abbeverata. Ingentilito dal canto degli uccelli che qui accorre­vano dal vasto territorio alla ricerca di cibo e d’acqua chiara.
In questo piccolo Eden del refrigerio incontravano quegli uomini secchi, sudati, assetati, barbuti, segnati dalla morte a cui erano sfuggiti.
Uomini irriconoscibili, trasfigurati dalla fatica, dalle atrocità della guerra. Occhi che cercavano altri occhi.
Poi un grido: “Papà”, “Figliu beddru di l’arma”.
Erano arrivati solo due “sbandati” per la gioia di due famiglie. Gli altri, delusi, risalivano verso le case. Riprendeva l’attesa. Storie di ogni giorno. Per settimane, per mesi.

3...              Dalla fine della guerra erano passati tre mesi e ancora mio pa­dre non era arrivato. A parte i morti accertati o dati per dispersi in Rus­sia, all’appello mancavano in pochi.
E fra questi pochi mio padre che doveva rientrare dalla prigionia scontata in un lager nazista, in Germania.
Mia madre cominciava a dubitare dell’arrivo del marito. Non si ave­vano notizie. Qualcuno che era tornato dalla Germania diceva di non sapere nulla di mio padre.
“La Germania è ranni ed è tutta distrutta, affamata. C’è il fuggi fuggi generale. Ognunu si arrangia come può. Iu appi la furtuna di truvari na tradotta e sugnu ccà…Ma darré di mia lassavu tanti figli di mamma, tanti patri…Si boli Diu annu arrivari, videmma.”
Mia madre capiva il senso di tali ragionamenti e continuava a sperare. Che altro poteva fare? Doveva sperare soprattutto per quel figlio bam­bino che vedeva arrivare i papà degli altri e mai il suo che, per altro, non conosceva.
Lillo, infatti, era nato nell’ottobre del 1941, pochi mesi prima che papà fosse inviato al fronte d’Albania. Sapeva di avere un padre, senza averlo mai conosciuto per davvero.
Con la guerra succede anche questo: padre e figlio possono morire senza essersi conosciuti.
Tanti bambini correvano incontro ai loro papà che avrebbero portato le caramelle. Anche dalla guerra non si veniva a “mani vacanti”. Nella visione infantile, la guerra non era vista come un’immane tragedia, ma come una sorta di scazzottata generale, un gioco manesco, una zuffa in cui si vinceva e si perdeva a turno.
D’altra parte, cosa ne potevano sapere della guerra quei bimbi di quat­tro o cinque anni?
Come in una scommessa, puntavano tutto sul proprio papà che era il più forte e non sbagliava mai.
Fra i più grandicelli, c’era qualcuno che aveva visto la guerra arrivare in paese in una calda mattina di luglio del 1943.
Una bella guerra, tutto sommato!
La portarono quei giovanottoni americani, sempre sorridenti e gene­rosi. Ai bambini cioccolatini e caramelle e alle ragazze tanti baci e… languide carezze.
In realtà, a causa di un banale equivoco si corse il rischio di una trage­dia, evitata in extremis. I reparti alleati giunsero alla “Fugureddra” dopo che la forza aerea aveva sbaragliato le sacche di resistenza italo-tedesca nella piana di contrada “Chianti” e nelle colline della “Guar­diola”.
Giunti a “piano corsa” puntarono cannoni e mitraglie contro il paese e intimarono la resa incondizionata.
Ma nessuno rispose all’ultimatum. Non per orgoglio o, peggio, per una proterva volontà di resistenza, ma perché nessuno si rese conto della gravità dell’intimazione.
Una folla festante di donne e di bambini, riuniti sul poggio del “cugnu nutaru”, salutavano l’arrivo dei liberatori, degli “americani”.
Nessuno sapeva che di fronte a un ultimatum bisogna alzare bandiera bianca come segno di accettazione della resa. La mancata esposizione del drappo bianco voleva dire rifiuto, volontà di combattere e quindi...
Le autorità, i piccoli gerarchi fascisti, che per vent’anni avevano fatto il bello e il cattivo tempo, erano scappati o nascosti come sorci nelle pagliere, nelle tante grotte esistenti nel sottosuolo di Realturco.
L’arciprete Ponti, che aveva benedetto Mussolini e la sua sporca guerra, comprese il pericolo e prese ad agitare un lenzuolo bianco fino a quando non si videro gli americani muoversi, tranquilli e sorridenti, verso il paese.

4...              Ma torniamo agli “sbandati” tanto attesi. Una sera d’agosto si sparse la voce che era tornato un altro reduce dalla Germania. Era il signor Domenico Sprio che trascorse la prigionia in un lager tedesco nello stesso blocco dov’era mio padre.
La voce giunse fin sopra il Voltano e mia madre, prese per mano Lillo e corse a casa di zi Minicu. C’era buio e le strade erano trappole per topi. Mia mamma temeva di essere inopportuna, che avrebbe potuto turbare la festa in quella casa. Ma aveva bisogno di sapere qualcosa del marito. Solo il signor Sprio poteva portare notizie di mio padre.
Entrarono e furono bene accolti da quella famiglia che gioiva per il ri­torno del padre. Lillo spiccicò due parole: “U vitti a me patri?”
“Certu ca lu vitti, lu zi zi. Nzemmula amu statu a lu distinu, prigiunera di dra malacarni di tedeschi. I partivu prima. To patri è appressu, sta arrivannu…”
Da sopra il canterano prese una piccola “burnia” piena di caramelle e ne diede alcune al bambino: “Queste te li manda tuo papà ca sta bi­nennu.”
Una pietosa bugia che fece felice il bambino e ridiede speranza alla madre.
Effettivamente, pochi giorni dopo, mio padre arrivò mischiato in un gruppetto di reduci. Alla Fontanazza si creò una gran confusione. Chi correva di qua, chi di là. Ognuno cercava il padre, il fratello, il figlio.
Lillo, che come detto non conosceva il padre, a ognuno che vedeva impolverato, circondato da un nugolo di persone contente, domandava: “Tu chi si me patri?”
Quello non gli dava retta. Correva verso un altro: “Chi si me patri?”
Alla fine si trovarono, si abbracciarono e crebbero insieme per un lungo tratto della loro vita.

5...              Fin qui il racconto di mio fratello Lillo, al quale desidero aggiun­gere un ricordo di mia madre ovviamente raggiante di gioia per il ritorno del marito.
Papà, rifocillatosi alla belle e meglio, si sedette al tavolo con la sua piccola famiglia ritrovata e con i parenti più intimi.
Poi si guardò intorno e si accorse che mancavano i suoi di parenti, del lato Spataro. Non capiva quell’assenza. Forse non erano stati avvisati?
Domandò: “Dov’è me patri? Perché non è venuto?”
“È andato in campagna. Non immaginava che saresti tornato oggi. Sai da quanto che aspettiamo…”, gli rispose mia madre.
“E mia sorella Carmena dov’è? Abita ca vicinu.”
“È rimasta a casa picchi è malata. Po vi viditi.”
“E Mita unné. Mancu iddra vinni.”
“È intra ca bada a lu furnu. Sai u travagliu…”
“E me matri………….”
Nessuno rispose. A questo punto, si rese conto che le risposte non erano veritiere, ma nascondevano una tragica verità. Scoppiò in un pianto dirotto, incontrollabile.
Scoprì che in quegli anni di prigionia era scomparsa metà della sua fa­miglia senza che lui ne sapesse nulla.

6...              Infine, una nota a margine. Come scritto in altra parte, mio pa­dre era un uomo schivo, amante del silenzio. Non parlava nemmeno delle sue disavventure sotto le armi o degli anni dell’emigrazione in Belgio e anche in Germania, dove il bisogno lo riportò agli inizi degli anni ’60. Il “bisogno” certo, ma soprattutto chi questo bisogno aveva creato, provocato ossia la mala politica dei governi verso il Mezzo­giorno e la Sicilia. Lo ributtarono in Germania, in un paese che gli aveva fatto odiare perfino le kartofen, le bucce sporche di patate che i kapò gli gettavano per cena.
Quando iniziai a frequentare l’Argentina gli parlavo di quelle splen­dide città: Buenos Aires, Rosario, Mar del Plata, ecc.
Mio padre non si mostrò molto interessato alle mie descrizioni.
M’interruppe e volle parlarmi di Minucu Sprio, suo compagno di pri­gionia: “Eramu comu frati. Ni sarbamu pirchì n’aiutavamu unu cu l’antru. Comu frati. Ni la nostra cumpagnia eramu trentacincu e ni ri­stamu vivi sulu cincu e fra chissi iu e Minicu. Omu bravu, comu frati ni trattavamo. Si va in Argentina l’ha iri a truvari e ci porti li me saluti. Mi pari ca si trova a Rusariu, unni ci sunnu antri paisani.”
A Rosario tornai e cercai notizie del signor Sprio. Le poche che mi diedero erano ferme a tanti anni prima. Qualcuno mi disse che era morto. Volevo cercare la tomba, per portargli un fiore. Ma in quale ci­mitero di Rosario? Nessuno me lo seppe dire.                                                                                                        

* http://www.lafeltrinelli.it/libri/agostino-spataro/i-fiori-tempo-ritrovato/9788892325890

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