LEONARDO SCIASCIA E
IL PCI
di Agostino Spataro
1.. Il 20° anniversario della morte di Leonardo Sciascia
rischia di passare quasi inosservato. Il 2009 doveva essere l’anno sciasciano,
specie in Sicilia. La visita del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano,
alla tomba dello scrittore, a Racalmuto, lasciava ben sperare.
Purtroppo, così non è stato per ragioni che ai più restano ignote.
Anche per novembre, il mese della ricorrenza, non si annunciano
eventi importanti.
Questo passa il convento, anzi il governo. C’è da sperare
che qualcuno non pensi di scaricarne la colpa sulla concomitanza con un altro,
memorabile ventennale: quello del crollo del muro di Berlino che cade 11 giorni
prima della morte di Sciascia.
Come dire, oltre al danno, la beffa irriverente della morte
che si è preso lo scrittore a 68 anni e per giunta 9 giorni dopo lo storico
crollo. D’altra parte, nessuno può decidere né quando nascere né quando, e come,
morire. Solo ai suicidi è concesso il secondo, tragico “privilegio”.
2.. Ma lasciamo questo infausto preambolo e andiamo ad
alcune cose, che ancora ricordo, riguardanti il rapporto di Leonardo Sciascia
con il Pci che, prima del partito radicale, fu per lui la forza politica di
riferimento.
Con questo partito, specie a livello siciliano, lo scrittore
ebbe, una relazione lunga e intermittente che si romperà nella seconda metà
degli anni ’70 quando, nel volgere di quattro anni, (1975-79) passò da
consigliere comunale di Palermo eletto nelle liste del Pci a deputato radicale.
Discutendo con lui, a più riprese, ho cercato di indagarne i
motivi, almeno quelli più connessi con taluni passaggi importanti della vita
del Pci isolano.
Nei miei appunti non c’è molto, perciò scrivo quel che
rammento (magari rischiando qualche imprecisione e omissione), prima che il
ricordo svanisca fra le nebbie della memoria.
Può darsi che qualcuno non apprezzerà o se ne lagnerà.
Pazienza. Posso, comunque, assicurare che questo ricordo corrisponde alla realtà dei
fatti vissuti o raccontatemi; in ogni caso non è esaustivo del rapporto più
complesso fra Sciascia e il Pci che, forse, andrebbe meglio indagato.
L’anniversario potrebbe essere l’occasione per stimolare gli
studiosi ad avviare la ricerca anche su questo versante della personalità dello
scrittore che resta poco conosciuto, specialmente dalle nuove generazioni.
3.. Premetto anche che non sono stato “amico” di Sciascia nel senso che con lui non ebbi mai
un’intimità, una frequentazione intensa sul piano personale.
L’ho incontrato in qualche convegno. Una sola volta lo andai
a trovare alla “Noce”, nella sua casa di campagna, a Racalmuto e un’altra volta
lo vidi a Porta di Ponte, ad Agrigento, mentre, con la busta della spesa in
mano, usciva dalla Standa con a fianco la moglie. Prendemmo un caffè al bar
Milano.
Di più mi è capitato d’incontrarlo alla Camera dove, di
tanto in tanto, veniva quando era deputato radicale.
Nelle lunghe attese si rifugiava nella sala dei giornali.
Sebbene fossimo colleghi, lo salutavo con un rispettoso “professù” come lo
chiamavano i compagni di Racalmuto.
Incontri casuali, dunque, (per me molto graditi) come
possono avvenire fra due compaesani che si ritrovano in una piazza di una città
lontana.
Un caffè alla buvette e poi quattro chiacchiere, avanti e
indietro, nel corridoio dei “passi perduti”. Sciascia, talvolta, si appoggiava
al bastone anche se apparentemente sembrava non averne bisogno.
4.. Prima che politico, il mio approccio con lo scrittore era
quello del lettore, dell’estimatore del suo stile letterario, del suo scrivere
conciso ed efficace nella rappresentazione e nell’intuizione. Tuttavia, quasi
mai parlammo dei suoi libri e di letteratura in genere.
Eravamo nel tempio della politica ed era giocoforza parlare di
cose politiche sulle quali, per altro, non sempre si era d’accordo. Del resto,
eravamo deputati di due partiti diversi e sovente in polemica. Tuttavia, ero
molto interessato a conoscere il suo punto di vista di scrittore su determinate
questioni politiche.
L’elezione a deputato non gli aveva fatto superare del tutto
il disagio verso la politica attiva.
Nei suoi scritti Sciascia aveva mostrato un buon fiuto
politico, ma non riusciva ad adattarsi al ruolo di parlamentare. O, forse, non
desiderava adattarvisi. Credo che sia venuto in Parlamento solo per far parte
della Commissione d’inchiesta sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro.
5.. Leonardo Sciascia, pur essendo nativo di Racalmuto,
centro minerario dell’agrigentino a cui rimase legato per tutta la vita, non
ebbe molte frequentazioni col Partito e i dirigenti della provincia di
Agrigento.
Di più frequentò alcuni dirigenti e intellettuali comunisti
di Caltanissetta (Giuseppe Granata, Emanuele Macaluso, Calogero Roxas, Gino
Cortese, ecc) dove studiò e visse per un certo tempo.
Tuttavia, per quanto a me risulta, la Federazione comunista
di Agrigento lo interpellò per averlo candidato, anche per il Senato.
Sciascia, pur dichiarando una certa affinità d’idee col Pci,
rifiutò dicendo che desiderava continuare a scrivere senza essere distratto
dall’attività politica verso la quale non si sentiva portato.
6.. La sua “discesa in campo” avvenne nel 1974, in occasione della
campagna per il referendum per
l’abolizione della legge sul divorzio. Una battaglia importante per i
diritti civili e di libertà molto cari allo scrittore il quale decise
d’impegnarsi in prima persona nel fronte del “No” (pro-divorzio) che in Sicilia
non era, sulla carta, maggioritario.
Ad Agrigento eravamo ancor più preoccupati poiché in questa
provincia periferica era forte l’influenza politica e culturale della Dc e
della Chiesa cattolica.
Sciascia non si limitò a firmare qualche appello, ma diede
una mano in concreto, partecipando a conferenze e incontri pubblici che, credo,
in altre circostanze avrebbe evitato. Ad Agrigento tenne un’affollata
conferenza al cinema Astor. Ricordo che nella città dei Templi gli eventi più
rimarchevoli di quella campagna referendaria furono la citata conferenza di
Sciascia e la memorabile manifestazione popolare con Enrico Berlinguer. Per la
cronaca, nell’agrigentino il “No” vinse alla grande.
L’impegno di Sciascia, di Renato Guttuso e di altri
intellettuali di sinistra e progressisti fu decisivo per scuotere il mondo
della cultura, dell’Università e della scuola in genere che, per la prima
volta, dopo il 1968, si schierava a difesa di una conquista laica, di civiltà,
che rischiava di essere travolta.
7.. Dopo la vittoria, per noi si pose il problema di
assicurare continuità a questa battaglia di progresso estendendola ad altri
campi della condizione civile e sociale siciliana e soprattutto di non
disperdere il grande patrimonio di forze intellettuali, anche di tendenza
moderata, che sull’onda della vittoria referendaria potevano spostarsi a
sinistra.
Per altro, il referendum trovò il partito siciliano nel vivo
di un confronto interno, a tratti anche duro, per il rinnovamento dei gruppi
dirigenti e del modo di fare politica.
Anche la vecchia struttura, prevalentemente, contadina del
Pci siciliano stava facendo i conti col ’68. Non quello importato da Milano o
da Roma, ma quello più fecondo esploso, anche per tutto il ’69, nelle
università e nelle scuole siciliane.
A quel tempo, (dal 1973) segretario regionale del Pci era
Achille Occhetto (inviato in Sicilia da Longo nel 1970, per “punizione”
dicevano le malelingue) il quale s’intestò la battaglia del rinnovamento che in
alcune federazioni era già iniziata qualche tempo prima e con successo.
Significativa quella che abbiamo combattuto, e vinto, ad
Agrigento che culminò nel congresso provinciale del febbraio 1972.
Subito dopo quel congresso, fu sciolto il Parlamento e
quindi fummo costretti a correre per preparare le liste e la campagna
elettorale.
Per dare un chiaro segnale di rinnovamento anche della
nostra rappresentanza parlamentare ponemmo il problema di non ricandidare due
compagni di grande prestigio, ma avanti con le legislature: il senatore Francesco
Renda e l’on. Salvatore Di Benedetto.
Iniziò la ricerca di nomi alternativi. Per il collegio del
Senato formulammo una rosa ristretta fra cui Leonardo Sciascia che,
interpellato, declinò l’invito.
8.. Dopo la campagna elettorale del 1972, Achille Occhetto
subentrò ad Emanuele Macaluso alla segreteria regionale.
Il cambio si caratterizzò all’insegna del rinnovamento
generazionale e del “nuovo modo di fare politica” in Sicilia. Sotto accusa andò
il cosiddetto “notabilato rosso” ossia una serie di personalità carismatiche,
di capipopolo, affermatisi durante le lotte del dopoguerra, che il tempo aveva
logorato. Per altro, Occhetto chiamò in segreteria e alla guida di alcune
federazioni provinciali alcuni compagni esterni, suoi collaboratori ai tempi
della Federazione giovanile comunista italiana.
L’intento era quello d’innestare nel gruppo dirigente
siciliano, già in fase di rinnovamento, un gruppo di giovani provenienti dal
Nord.
Una folata di “vento del nord” per modernizzare, cambiare
gli assetti dirigente del Partito in terra di mafia e di predominio della
Democrazia cristiana.
E così, oltre a Michele Figurelli già in loco, giunsero, fra
gli altri, Valerio Veltroni (fratello di Walter) che dalla segretaria regionale
sarà catapultato a Trapani, e i toscani Giulio Quercini segretario a Catania e
Alessandro Vigni segretario a Enna.
Qualcuno parlò di “colonizzazione” del partito siciliano.
Leonardo Sciascia, invece- mi dirà alla Camera- la vide di
buon occhio, anzi la ritenne necessaria.
Occhetto fece leva su questo suo interesse per avviare,
tramite Figurelli e V. Veltroni, un contatto piuttosto intenso con lo
scrittore.
Sciascia, dunque, approvò la “calata” in Sicilia di questi
giovani dirigenti del nord, anche se rimase restio verso l’adesione a un
partito-chiesa come un po’ gli appariva il Pci, verso il quale, per altro,
aveva accumulato alcune perplessità riferite a fatti antichi
(la contrastata esperienza del milazzismo) e più recenti riconducibili alla
segreteria di Macaluso.
9.. Occhetto e i suoi inviati del Nord garantirono a
Sciascia che quel tempo era finito, per sempre.
Ora a dirigere il Partito c’erano loro, forze nuove, fresche
formatesi in altri contesti, nell’alveo delle lotte per la pace e del movimento studentesco e affermatisi in
Sicilia dopo una lotta durissima proprio contro i personaggi verso i quali lui
aveva riserve.
L’idea che si voleva accreditare era quella che nel partito
siciliano e negli organismi collaterali fosse in atto una sorta di “rivoluzione
culturale” che stava liquidando ogni residua mentalità compromissoria e aperto
il Partito alla società civile, agli intellettuali progressisti, agli
imprenditori onesti.
Insomma, a Sciascia fu prospettato un mondo nuovo, una sorta
di rivoluzione copernicana della politica siciliana.
Lo scrittore- ammetterà- che un po’ si lasciò sedurre dai
discorsi di questi giovani “colonizzatori” i quali, provenendo dal nord, erano
immuni dai difetti mostrati dai dirigenti siciliani.
10.. Perciò ruppe gli indugi e nel 1974 partecipò
attivamente alla campagna referendaria e l’anno successivo accettò la
candidatura, come indipendente, a consigliere comunale di Palermo nella lista
del Pci.
Un bel colpo per Occhetto che era riuscito dove tanti
avevano fallito. Quello stesso Sciascia che aveva rifiutato le profferte del
Pci per un seggio nel Parlamento nazionale ora accettava di candidarsi per un
posto al consiglio comunale di Palermo, insieme a Renato Guttuso e allo stesso
Occhetto, capolista. Ovviamente, sarà eletto.
Si parlò di svolta per Palermo, ma nel nuovo consiglio i
numeri non promettevano facili cambiamenti. Nonostante la discreta avanzata del
Pci, la Dc e il
centro-sinistra (di allora) conservavano una solida maggioranza.
Per di più, Sciascia a ogni riunione del consiglio comunale
era costretto a bighellonare per ore fra i banchi di Sala delle Lapidi,
impacciato e nervoso, in attesa che s’iniziassero quelle interminabili, e
spesso inconcludenti, sedute notturne.
Una situazione frustrante che lo porterà, a pochi mesi
dall’insediamento, alle dimissioni dal consiglio comunale di Palermo. Lo
scrittore, che mesi dopo sarà seguito da Guttuso, motivò la sua inattesa
decisione con i lunghi ritardi sui tempi d’inizio delle sedute e in generale
col confuso andamento dei lavori d’aula.
Tutto ciò era vero, ma oltre quelle motivazioni c’era un
disagio politico che l’inquietava. Probabilmente, Sciascia, in quei pochi mesi
d’impegno attivo nel gruppo consiliare del Pci, cominciò ad avvertire una certa
delusione rispetto alle attese e alle promesse di cambiamento annunciate da
Occhetto e dai suoi inviati.
11.. Ne parlammo in quelle chiacchierate a Montecitorio. Mi
fece capire che presto si accorse che il cambiamento dato per avvenuto in
realtà era in gran parte di facciata, anzi di facce. Insomma, un po’ millantato
dai dirigenti del nord per indurlo ad entrare in lista a Palermo.
E - aggiungo io- per fare di Sciascia un bel fiore
all’occhiello da esibire nelle riunioni romane e nei salotti buoni
dell’intellighenzia di sinistra.
Lo scrittore riteneva (e diversi fra noi) che Emanuele
Macaluso, anche da Roma, continuasse
a influire sul partito siciliano, soprattutto sul gruppo
parlamentare all’Ars dove operava Michelangelo Russo, uomo di sua stretta
fiducia.
A parte l’amarezza per l’esperienza del milazzismo, citava
in particolare l’episodio, verificatosi ai primissimi anni ’70, della fusione
tra Realmonte-Sali (società dell’Ente minerario siciliano) e la Sams dell’avvocato Francesco
Morgante, potente imprenditore del sale e intimo dell’ex presidente dc della
regione on. Giuseppe La
Loggia.
Sciascia conosceva bene la vicenda perché edotto dal prof.
Antonio Lauricella, sindaco dc di Grotte e comproprietario di una miniera di
salgemma in territorio di Petralia minacciata dal piano Ems-Sams.
Lauricella non sapendo più dove sbattere la testa (gli amici
democristiani gli avevano chiuso la porta in faccia) si rivolse all’uomo di
cultura di sinistra, quasi compaesano, che sapeva sensibile ai temi della
trasparenza e della moralità pubblica.
Consegnò a Sciascia un dettagliato memoriale dal quale si
evidenziava la supervalutazione degli apporti privati (Sams) e i comportamenti
quantomeno distratti dei partiti politici di maggioranza e d’opposizione.
12.. Anche molti fra noi consideravano quella fusione un
inganno che avrebbe fruttato miliardi alla Sams di Morgante e soci e non
avrebbe dato corso ai programmi di sfruttamento dei grandi giacimenti di
salgemma esistenti e di quelli scoperti, di recente, lungo la costa
agrigentina, da Realmonte a Ribera. Così è stato.
Sciascia prese a cuore la questione e la girò ai suoi amici
del Pci, facendone una sorta di banco di prova per verificare la loro coerenza
politica.
Vista la sordità dei suoi interlocutori, inviò il memoriale
alla segreteria nazionale del Pci, accompagnato da una sua lettera in cui
chiedeva un intervento di Roma sul partito siciliano.
Non ebbe risposta. La fusione si fece, con la benedizione
anche dei vertici regionali del Pci.
Non cercai riscontri su ciò che Sciascia mi disse anche
perché avendo seguito, da responsabile economico del Pci agrigentino, quella
vicenda e i comportamenti dei vari protagonisti, fui incline a crederlo per
vero.
Per altro quella chiacchierata fusione finirà in tribunale.
Chi ne avesse voglia potrà consultare le carte del processo, soprattutto,
consiglio, le relazioni del prof. Piga, perito della pubblica accusa.
13.. Ma torniamo al percorso politico di Leonardo Sciascia
che nel 1979 è pluri - capolista alla Camera per i radicali.
Sarà eletto in più collegi con una valanga di voti di
preferenza. Il grande scrittore arriva, dunque, alla Camera nella veste di
deputato radicale, accompagnato dalla stima generale anche da parte di tanti
esponenti siciliani di quella Democrazia cristiana che lui accusava di
contiguità con la mafia e col malaffare.
Confesso che vedere lo scrittore tra i banchi radicali mi
procurava un certo rammarico. Ero convinto che se ci fosse stata più
correttezza l’avremmo potuto portare noi in Parlamento, anche se- vedendolo
all’opera - mi persuasi che quella radicale fosse la casacca a lui più
appropriata. Politicamente, Sciascia era un libertario. Mai sarebbe diventato
un comunista, anche se anticomunista non fu mai.
Nemmeno dopo l’increscioso episodio delle presunte
“rivelazioni” che Enrico Berlinguer gli avrebbe fatto sui collegamenti delle
Brigate Rosse con i servizi di Praga.
Sciascia mi raccontò questa vicenda un paio di volte, in
Transatlantico, una prima su mia richiesta e una seconda in uno sfogo contro
Guttuso.
14.. Cos’era successo? Secondo Sciascia, in un incontro
informale e alla presenza di Guttuso, Berlinguer gli avrebbe confidato che, da
informazioni in suo possesso, risultava che settori della Brigate Rosse erano
in collegamento con i servizi di Praga, fra i più fedeli al Kgb. La qualcosa,
detta dal segretario generale del Pci, avvalorava la tesi, da taluni sostenuta
durante il sequestro Moro, di un interesse di Mosca a eliminare il presidente
della Dc per impedire l’attuazione del progetto del “compromesso storico” che
avrebbe aperto al Pci le porte del governo.
Com’è noto, tale progetto era stato propugnato da Berlinguer
e non condiviso dalle alte sfere del Pcus che temevano un distacco, una deriva
“revisionista” del Pci e di altri partiti comunisti europei (Pcf e Pce),
impegnati nella svolta dell’eurocomunismo.
Sciascia, troppo preso della vicenda umana e politica di
Aldo Moro, sulla quale scrisse un pamphlet controcorrente (“L’affaire Moro”), svelò la confidenza
fattagli da Berlinguer creando scandalo nell’opinione pubblica e gravissimo
imbarazzo nel gruppo dirigente del Pci.
Berlinguer smentì su tutta la linea e minacciò querela.
Sciascia, invece, confermò e chiamò Guttuso a testimone. Quest’ultimo si venne
a trovare in una situazione davvero drammatica giacché doveva scegliere di confermare
la parola del segretario del Partito, del cui Comitato centrale era membro
prestigioso, o quella del suo amico scrittore, siciliano come lui e compagno di
tante battaglie.
Guttuso diede ragione a Berlinguer. Non sapremo mai se
scelse la verità o l’onorabilità del suo segretario generale.
Mentre raccontava queste cose, Sciascia più che indignato mi
parve amareggiato.
Credo che, in cuor suo, se ne fosse fatta una ragione. Fra i
due capiva di più Berlinguer che certo non poteva ammettere d’aver detto quelle
cose. Le conseguenze sarebbero state davvero disastrose, incalcolabili. Lo ferì
di più la testimonianza sfavorevole del suo amico Guttuso, che, da artista,
aveva il dovere della verità facendola prevalere sull’appartenenza politica.
15.. Ricordo che in quel periodo il suo chiodo fisso era la drammatica
condizione della Dc dopo i delitti Moro e Mattarella.
Una domenica, (19 settembre 1982) andai a trovarlo alla
Noce, pochi giorni dopo l’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Gli portai una copia del mio libro “Per la Sicilia”.
Lo trovai fisicamente un po’ giù. Mi elencò quattro - cinque malattie di cui
soffriva. Soprattutto si lamentò di una fastidiosa cervicale.
Ovviamente, parlammo del fatto di Dalla Chiesa e del suo
articolo, apparso sul “Corriere della Sera” quella mattina, in cui sosteneva la
tesi, un po’ ardita, della mafia come fenomeno eversivo.
Una mafia che, avendo perduto la protezione della Dc e
quindi dello Stato, uccide tutti quelli che incontra sulla sua strada.
Gli feci osservare che questi delitti potevano essere letti
anche come la sfida tracotante di una mafia che aspirava al predominio sulla
Sicilia.
Anche la strage di via Carini poteva essere interpretata
come una dimostrazione di forza attuata come da prassi. Quando cioè fu chiaro a
tutti che il generale-prefetto era stato un po’ abbandonato dallo Stato in una
condizione di solitudine e diffusa ostilità, (non solo mafiosa) e senza i
poteri speciali promessi.
Gli riferii le “difficoltà”, soprattutto di carattere
giuridico, prospettatemi dal ministro dell’interno, on. Virginio Rognoni, a
proposito dei poteri non attribuiti a Dalla Chiesa e le “preoccupazioni”
circolanti a Montecitorio, prima dell’assassinio, a
proposito dei trascorsi piduisti di Dalla Chiesa e di certe riserve provenienti
dagli uffici giudiziari di Milano.
Sciascia ascoltò, ma restò fermo nella sua posizione.
Secondo lui, la Dc,
a differenza dei tempi di Portella della Ginestra, oggi vorrebbe distaccarsi
dalla mafia. Molti democristiani vivono nel terrore d’essere uccisi. Perciò,
non capiva il motivo di tanto accanimento contro la Dc quando, invece, bisognerebbe
incoraggiarla in quest’opera di distacco.
Accennò a un colloquio avuto, di recente, con l’on. Calogero
Mannino.
16.. Si passò, infine, all’argomento che più mi premeva
conoscere: il suo futuro politico.
Sciascia fu chiarissimo e conciso. Mi ribadì l’intenzione di
dimettersi da deputato a conclusione della commissione d’inchiesta sul delitto
Moro e di non volersi ripresentare alle prossime elezioni.
Smentì anche la voce secondo la quale potrebbe ricandidarsi
col Psi di Craxi.
Mi rispose: “Se
dovessi rifare questa “pazzia” mi ripresenterei coi radicali”
Nel PR si era trovato bene, giacché il regime interno gli consentiva
la più ampia libertà, anche se era
destinato a dissolversi.
In ultimo, il discorso ri-cadde sul suo impegno nelle liste
del Pci a Palermo. Sciascia scosse la testa e chiuse con un laconico “Si è sbagliato da entrambe le parti”.
(novembre 2009)
* Agostino Spataro è stato dirigente e parlamentare nazionale del Pci. E’
direttore di “Informazioni dal Mediterraneo” (www.infomedi.it) e collaboratore
di “La Repubblica”.
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