DOSSIER
PAROLE CHIARE SULL'IMMIGRAZIONE:
SOLIDARIETA' E LEGALITA'
Contributi di riflessione e documentazione
SOLIDARIETA' E LEGALITA'
Contributi di riflessione e documentazione
Copertina e indice del volume,
pubblicato a cura del Ministero dell’Interno, contenente gli Atti del primo
convegno nazionale sull’immigrazione araba in Italia e in Sicilia, tenutosi a
Palermo nel 1981.
(Alcuni
miei articoli degli anni 2000)
LA MODERNA SCHIAVITU’
di Agostino Spataro
Seguendo i giornali, i telegiornali e le
truculente dichiarazioni dei rappresentanti del governo, sembra che lo stupro
sia divenuto la prima emergenza nazionale. Più degli effetti della crisi
economica e morale, delle efferatezze della criminalità organizzata.
L’allarme, seguito da severi provvedimenti,
scatta soprattutto quando il delitto è commesso da giovani immigrati. Se
commesso in famiglia, come nella maggioranza dei casi, o da un giovane
connazionale al massimo diventa bullismo, disadattamento o cosucce del
genere.
Con ciò non si vuol negare la necessità di
misure adeguate di prevenzione e di repressione per scoraggiare e punire gli
autori di tali episodi obbrobriosi, ma rilevare l’enfasi eccessiva che si è
voluto dare a questi episodi che, per altro, porta a trascurare fenomeni ben più gravi e diffusi.
Qual è la riduzione in schiavitù che, anche in
Italia, tormenta l’esistenza di decine di migliaia di donne e di bambini.
L’ultimo caso, l’altro giorno, ad Alcamo: una ragazza
rumena, con l’aiuto della polizia, è riuscita a liberarsi, speriamo per sempre,
dalle grinfie dei suoi aguzzini i quali per costringerla a prostituirsi la
tenevano praticamente in condizioni di vera e propria schiavitù.
Eppure, consumata la notizia, non è successo
nulla. Nessuno ha proposto un decreto contro gli schiavisti italiani e
stranieri che controllano un traffico enorme di uomini e donne.
Non è scattata nemmeno quell’indignazione
istintiva che è (era?) la controprova della sanità morale di un popolo, di una
nazione che, per altro, si professa cattolicissima e devota.
Come se in queste nostre società “opulente”
anche il sentimento della pietà umana si stia spegnendo nelle nostre menti
alienate e terrorizzate da certa propaganda, a contatto con l’arido deserto creato
intorno a noi da egoismi sfrenati e devastanti.
E questo un’altro aspetto, forse il più
inquietante, di questo nuovo ciclo mondiale delle migrazioni che, oltre a
creare nuovi dissesti sociali e morali nelle società d’origine e di
destinazione, produce forme diverse di schiavitù che, abolita ufficialmente
dalla convenzione di Ginevra del 1926, oggi ritorna e si afferma anche nelle
nostre civilissime contrade.
Chi pensava che fosse definitivamente scomparsa
deve ricredersi alla luce di quanto avviene nei mercati del lavoro e
dell’emigrazione clandestina che è una variante tragica del primo.
Secondo tali meccanismi, gli individui,
soprattutto i più emarginati e discriminati, non sono più esseri umani, ma
merce da acquistare e da vendere per pochi euro, bestie da sfruttare e spedire
su camion piombati, da traghettare su battelli precari verso i paesi di questo
Occidente immemore ed ipocrita.
Una condizione drammatica che i nostri occhi non
vedono forse perché abbagliati dal luccichio che promana il dio-mercato che sta
stravolgendo il sistema delle relazioni umane e
portando il mondo sull’orlo della catastrofe.
Una logica folle che - nel migliore dei casi-
considera le persone “capitale umano”, “risorsa umana”. Una fraseologia “moderna”
che, in realtà, serve per edulcorare una concezione abietta che giunge a
giustificare, a tollerare, anche la tratta, su vasta scala, di uomini, donne e
bambini.
Un commercio turpe, lucroso e criminale che non
potrebbe continuare a svolgersi senza la complicità di settori importanti
preposti ai controlli e il beneplacito dei grandi utilizzatori finali della
“merce”.
Una moderna schiavitù che si diffonde in barba
alle leggi nazionali e alle convenzioni internazionali e in aperto spregio dei valori
umanitari e di libertà che stanno alla base delle nostre Costituzioni e società.
Tutti lo sanno, ma nessuno fa nulla, sul serio.
Lo sa anche il Parlamento italiano che, negli anni scorsi, ha promosso
un’interessante indagine sulla “Tratta degli esseri umani” che documenta
l’estensione e l’abiezione del fenomeno e contribuisce a ridefinire il concetto
stesso di schiavitù alla luce della citata Convenzione di Ginevra e della più
recente normativa europea: “La schiavitù
è il possesso in un uomo e l’esercizio da parte di questo, sopra un altro uomo,
di tutti o di alcuni degli attributi della proprietà. In tal modo, dunque, la
schiavitù è identificata come l’espressione suprema della reificazione umana.”
Non so quanti dei nostri parlamentari, ministri,
alti funzionari, imprenditori, amministratori locali, operatori del diritto, giusvaloristi
abbiano letto le risultanze di questa indagine. Non molti, visto che non
ha avuto alcun seguito. Tuttavia, il documento parla chiaro e nessuno può
chiamarsi fuori. La tratta, infatti, esiste e colpisce diverse categorie di
persone ridotte in stato di schiavitù.
In Italia, in Europa non nella repubblica
centro-africana di Bokassa!
A cominciare dal mercato del sesso, per
l’appunto, che - secondo le stime dell’Interpol- solo in Italia supera le
50.000 unità “tutte trattate come schiave.”
In Europa, sono almeno mezzo milione le donne,
di diversa nazionalità, avviate al mercato della prostituzione che (cito dal
documento conclusivo) “si traduce in un
vero e proprio business del valore oscillante fra i 5-7 miliardi di dollari
l’anno e ciascuna donna “trattata” vale 120-150 mila dollari l’anno. Questo denaro-
continua il citato documento- nelle mani della criminalità organizzata,
alimenta la corruzione e consente- ed allo stesso tempo impone- una capillare
gestione di questo mercato”.
Il triste fenomeno non riguarda soltanto decine
di migliaia di donne immigrate (africane, asiatiche, sudamericane ed anche
europee) in gran parte minorenni, ma anche migliaia di schiavi-bambini
costretti ad elemosinare, a rubare, quando non sottoposti all’espianto di
organi da trapiantare.
Queste ed altre pratiche rientrano perfettamente
nella tipologia della schiavitù come definita dalle leggi e dalle convenzioni
internazionali vigenti. Eppure nessuno si scandalizza, interviene
adeguatamente. Quasi per il (falso) pudore di dover ammettere di convivere con
una realtà così tragica che invece di affrontare si preferisce occultare,
rimuovere. Esattamente il contrario di quanto avviene per i casi di stupro
enfatizzati al massimo per deviare contro gli immigrati l’esasperazione dei
cittadini e la violenza indiscriminata di gruppi di giustizieri metropolitani.
18
febbraio 2009 (In: www.infomedi.it)
L’EMERGENZA PROSSIMA FUTURA
di Agostino Spataro
La politica, la diplomazia nulla possono contro la
meteorologia: con la bonaccia , infatti, sono ripresi gli sbarchi di clandestini
dalla Tunisia verso Lampedusa.
E’ questo un risvolto diretto delle rivolte arabe,
soprattutto nordafricane, che si materializza in Sicilia come una nuova
emergenza che mette a dura prova le strutture d’accoglienza e le miopi
politiche migratorie del governo Berlusconi.
Per altro, è prevedibile che l’esodo si estenda a Egitto,
Libia, Algeria.
Insomma, una fuga di massa che è una prima avvisaglia di un
più grande dramma sociale e politico che, secondo gli esiti politici delle
rivolte, potrebbe infiammare le sponde sud ed est del Mediterraneo.
La Sicilia
potrebbe ritrovarsi al centro di tensioni e di conflitti, anche devastanti, per
la ridefinizione degli assetti dei poteri in queste regioni vitali del mondo,
in aderenza ai nuovi equilibri della globalizzazione. Perché, a occhio e croce,
di questo si tratta.
In quest’area, infatti, insistono grandi risorse
energetiche, fenomeni ideologici irriducibili (islamismo radicale e
terroristico) e conflitti sanguinosi che sembrano essere divenuti insolubili,
fra cui quello israelo – palestinese che, presto, potrebbe ri-diventare arabo -
israeliano.
In caso di estensione di tali conflitti la Sicilia potrebbe restarne
coinvolta. Direttamente. Per la sua prossimità geografica e per essere divenuta
la piattaforma più avanzata degli Usa e della Nato proiettata verso gli
scacchieri mediterraneo e mediorientale.
Non è un mistero svelato da Wikileaks (l’abbiamo già scritto
in “La Repubblica”
del 6/5/2005) che a Sigonella sono concentrate le più sofisticate capacità di
dispiegamento rapido per la cosiddetta
“lotta al terrorismo”.
Scenari imprevedibili si possono avverare e trovare
impreparate l’Italia e l’Europa le quali, a differenza degli Usa, non hanno
elaborato verso questi paesi una dottrina, una politica autonoma di pace e di
cooperazione reciprocamente vantaggiosa.
Ma torniamo all’emergenza emigrazione che, in pochi giorni,
ha visto sbarcare in Sicilia quasi 6.000 persone; un dato allarmante e anche un
po’ strano poiché non si capisce come mai da un paese finalmente liberato i
giovani fuggano invece di restare per ricostruire l’economia e consolidare la
democrazia.
Evidentemente, qualcosa non quadra in queste “rivoluzioni
incompiute” che hanno detronizzato i rais, ma lasciato il potere ai loro
colleghi militari e agli esponenti dell’ancien regime.
I siciliani hanno accolto con spirito umanitario la nuova
ondata migratoria, tuttavia non hanno gradito la volontà del governo di
concentrare nell’Isola i flussi in arrivo.
Diversi sindaci, specie quelli di Lampedusa, Mineo e
Caltagirone, hanno espresso alcune comprensibili preoccupazioni.
Ovviamente, il disagio non è solo locale, ma riguarda
l’intera Sicilia che certo non può fronteggiare, da sola, un’emergenza di
dimensioni nazionale ed europea, nemmeno con gli aiuti promessi. Questo- a me
pare- il punto politico principale su cui la Regione deve puntare i piedi.
Un’insistenza sospetta quella del governo delle “eterne
emergenze” nelle quali- sappiamo- anche i sentimenti più genuini vengono
travolti da manovre e interessi spudorati.
Specie se in ballo ci sono contratti milionari che
facilmente accendono appetiti affaristici e clientelari.
Come quelli che si profilano con l’operazione “villaggio
della solidarietà” di Mineo dove Berlusconi e Maroni vorrebbero concentrare sette
mila rifugiati regolari.
Una proposta che farà la gioia del cavaliere Pizzarotti, ma
non quella dei sindaci della zona e delle stesse associazioni dei profughi che
la considerano un marchingegno, per altro molto costoso, che, invece di
favorire l’integrazione, isolerebbe i rifugiati in una sorta di ghetto a
quattro stelle.
Come mai una proposta simile non è stata avanzata a una
regione del Nord dove i profughi e gli immigrati desiderano andare perché
troverebbero più opportunità di lavoro?
Forse per tenerli lontano dalla “padania” ed evitare
problemi elettorali alla Lega?
Solo così si può spiegare tanta sospetta benevolenza nei
confronti dell’Isola e degli immigrati che è
un’amara conferma del ruolo subalterno assegnato all’Isola nella
prospettiva strategica dell’Italia.
Anche in questo caso, si riscontrano un approccio
detestabile e un'iniqua suddivisione dei ruoli derivati dallo sviluppo del
paese: i benefici, il valore aggiunto al centro-nord, le conseguenze negative,
i problemi al sud, in Sicilia. Gli esempi sono tanti, antichi e recenti.
Valga per tutti l’anomalia degli scambi commerciali con i
Paesi arabi rispetto ai quali le regioni del centro-nord sono le principali
esportatrici di beni e servizi, mentre la Sicilia si deve far carico dell’importazione di
enormi e inquinanti quantitativi d’idrocarburi, destinati a incrementarsi con
la costruzione dei due rigassificatori.
Spiace rilevarlo, ma la concentrazione nell’Isola di questa
massa d'immigrati e di rifugiati ha tutto il sapore di una nuova azione
discriminatrice e, anche, un po’ razzistica.
(*Pubblicato in “La Repubblica” del 23
febbraio 2011)
MIGRAZIONI: LA SICILIA IL COLLO DELL’IMBUTO
di Agostino Spataro
Col ritorno a
Lampedusa di Silvio Berlusconi l’emergenza immigrati sparirà, come d’incanto.
Seguendo la parola d’ordine della vigilia, tutti si son
sbracciati per far trovare al premier l’isola ripulita degli immigrati e
perfino delle orme del loro passaggio.
E. dunque, via alla festa, alle parate, a nuove promesse di
rinascita per l’isola pelagica dove il premier ha comprato la sua 29° villa che
taluni vedono come specchietto per attirare quel bizzarro mondo che gli gira
intorno.
Tutto risolto, dunque? Parrebbe proprio di no. Visto che,
stanotte, sulla piccola isola sono approdati altri barconi con un carico di
oltre 600 disperati.
Ma, davvero, si pensa
d’affrontare con simili espedienti un dramma così grande e intricato come
quello che, da anni, si sta svolgendo intorno e dentro Lampedusa?
A me pare solo una
trovata stravagante in contrasto con la dura realtà della posizione italiana,
stretta fra una Francia “ostile” che chiude le frontiere, un’Europa scarsamente
solidale e altre masse di disperati che premono per entrare.
Perciò, la gente è preoccupata e vuol sapere quando durerà
questo fenomeno, a dimensione addirittura intercontinentale, che quasi per
intero transita attraverso le Pelagie e la Sicilia.
Lo ha confermato alla
Camera il ministro Maroni: nell’ultimo trimestre sono sbarcate in Italia (in
verità in Sicilia) 25.867 persone delle quali circa 23.352 a Lampedusa e il
resto su altre coste siciliane.
Una vera esplosione
di arrivi a conclusione di un periplo penoso di gente disperata che alimenta
fenomeni laceranti di sradicamento, di travaso di masse umane da un continente
a un altro di cui la Sicilia
rappresenta il collo dell’imbuto.
Credo che questa immagine renda di più l’idea del ruolo
attuale della Sicilia come principale, unica via di sbocco dei migranti
clandestini che dal grande raccoglitore nordafricano premono per passare nel
contenitore - Europa che li dovrebbe accogliere.
Dai porti tunisini e libici partono immigrati provenienti da
vari Paesi africani della costa nord-orientale: Tunisia, Somalia, Eritrea,
Abissinia, Egitto e da quella atlantica (Nigeria, Camerun, Ghana, Senegal,
Marocco, ecc) e asiatici (Sri Lanka, Cina, Iraq, Palestina, Filippine,
Indonesia, ecc).
La situazione potrebbe aggravarsi nei prossimi giorni a
causa del conflitto in Costa d’Avorio dove, grazie all’interventismo di Sarkozy
(ancora lui!), si potrebbero creare un milione di profughi i quali, certo, non
andranno a cercare pace e lavoro nel confinante poverissimo Burkina Faso, ma,
come gli altri, saranno indotti a seguire la via contorta verso il nord-Africa
e quindi a tentare lo sbarco in Sicilia.
Prima i flussi
andavano per rotte diverse, oggi convergono quasi tutti su Lampedusa.
Perciò, sarebbe il
caso che le autorità preposte cominciassero a indagarne le misteriose ragioni
per offrire risposte rassicuranti alle tante domande della gente.
Una prima: perché gli immigrati provenienti dai Paesi
atlantici africani non intraprendono la via costiera, meno pericolosa, da dove
potrebbero raggiungere agevolmente la
Spagna o sbarcando sulle isole Canarie o attraversando lo
stretto di Gibilterra (34 km
di mare)?
Invece, preferiscono sobbarcarsi diverse migliaia di km di
arido deserto per giungere nella Libia del “feroce” Gheddafi e qui consegnarsi
ai trafficanti di carne umana, ai quali pagano passaggi salatissimi, e sperare
d’arrivare salvi a Lampedusa dopo circa 300 km di mare e/o oltre 400 km sulla costa siciliana.
I barconi potrebbero approdare sulle isole di Malta (anche
questa è Europa) che incontrano 100
km prima di quelle siciliane, ma non vi sbarcano quasi
mai.
L’ultima tragedia (si
parla di almeno 150 vittime) è illuminante dell’assurdità di tali percorsi.
Com’è noto, il barcone, era in acque territoriali maltesi
(entro 18 km
dalla costa) quando ha lanciato l’allarme captato dalle autorità maltesi.
Queste, invece d’inviare i loro mezzi di soccorso, lo hanno smistato a quelle
italiane che hanno spedito le motovedette da Lampedusa ossia da una distanza di
70 km
dal luogo, perdendo tempo preziosissimo.
Se i maltesi, invece
di seguire questa contorta procedura, fossero intervenuti direttamente forse si
sarebbe evitata la strage.
Infine, un’altra stranezza: perché la gran parte d’immigrati
provenienti dall’Africa orientale e dai vari Paesi asiatici vengono a sbarcare
sulle coste siciliane e meridionali? Potrebbero approdare più agevolmente a
Cipro, a Creta oppure sulla terraferma in Grecia e in Bulgaria? Anche questa è
Europa.
Se rischiano la vita
per venire in Sicilia una ragione deve esserci o forse più d’una.
Al governo la risposta e soprattutto la responsabilità di
operare, con politiche nuove di cooperazione e di contenimento, per giungere a
uno sforzo condiviso degli oneri e degli interventi sia sul piano nazionale sia
europeo.
Non si può continuare
con la politica “dell’immigrato dove lo metto”. Un po’ di qua un po’ di là, mai
nelle regioni del nord per non irritare il ministro leghista Bossi che li vuole
“fora de bal”. Ma che razza di governo è questo?
La Sicilia ha già fatto, continua a fare il suo
dovere di solidarietà umana, ma non può, certo sopportare l’intero fardello,
Sarebbe, oltretutto ingiusto e poco funzionale e si configurerebbe come un
ripiego razzista inaccettabile.
L’Italia e l’Europa darebbero, netta, l’impressione di
volersi sbarazzare di un’emergenza così vasta e sconvolgente relegandola alla
Sicilia e al Sud.
Agostino
Spataro
(* pubblicato, con
altro titolo, in “La
Repubblica” del 9 aprile 2011)
MINARETI E CROCEFISSI, UNA PERICOLOSA MISTIFICAZIONE
di Agostino Spataro
Due
minoranze prevaricano due stragrandi
maggioranze- Sicurezza: chi specula e chi la difende- Un precedente illustre:
la grande moschea di Roma - Dal dialogo nasce la prosperità condivisa, dalla
guerra solo morte e nuove povertà-
Quando l’Italia aveva una politica estera- Il Nobel per la pace che… prosegue
la guerra- L’import italiano d’idrocarburi: una dipendenza eccessiva da
Russia e Libia - Conflitto fra religioni: un’indegna mistificazione- Cristo
non ha bisogno di nuovi crociati- Se
un non-credente collabora alla costruzione di un luogo di culto.
|
Due minoranze di fanatici prevaricano due stragrandi
maggioranze
Ci risiamo. Di nuovo minareti e crocefissi branditi come
spade in questa guerra di simboli che può
degenerare in guerra vera. E’ accaduto in passato, anche in Europa,
accade, oggi, in tante parti del mondo.
Ancora una volta,
Occidente, sempre meno cristiano, e Oriente, sempre più islamico, si guardano
in cagnesco a causa di due rumorose minoranze, fanatiche quanto ipocrite, che
usano i simboli religiosi per imporre un nuovo “scontro di civiltà” a due
sterminate maggioranze silenziose, già ingravidate dei semi malefici dell’odio
e dell’intolleranza.
E, alla fine, il mostro nascerà e porterà distruzione e
morte fra i nostri popoli impauriti e confusi.
Ma, davvero, non c’è nulla da fare per fermare il fanatismo?
Più il tempo passa più il pericolo si accresce, anche perché
dietro questo agitar di simboli spirituali
si celano interessi molto materiali, economici e politici.
Tuttavia, le due
maggioranze, recuperate alla ragione, sono ancora in grado di sconfiggere i
fomentatori di odio e ricacciarli negli anfratti da cui provengono.
La ragione, che stiamo smarrendo, è l’antidoto più efficace
contro il fanatismo.
Una luce si vede in fondo al tunnel, ma prima di uscirne c’è
tanto da fare, da lottare. Non occorrono armi né altre violenze, ma una
generale presa di coscienza e una volontà determinata per ripristinare, in uno
spirito di pace e di cooperazione, un dialogo fra popoli e Stati che era stato
avviato con successo, non molto tempo fa.
Sicurezza: chi specula e chi la difende
Dopo questo necessario preambolo, andiamo all’attualità,
alle ultime polemiche provocate dai leghisti che vorrebbero usare la vittoria
del referendum svizzero anti-minareti per
scatenare in Italia la caccia all’islamico, dopo quella all’immigrato e a tutti
i circolanti “diversi” rispetto al prototipo umano che pretendono di
rappresentare.
Nessuno disconosce che la presenza islamica può comportare
qualche problema alle comunità d’accoglienza. Si tratta, in gran parte, di
problemi risolvibili con la conoscenza e la tolleranza reciproche. Secondo le
leggi dell’ospitalità.
Nei casi più ostici,
quali possono essere gli atti di terrorismo e i comportamenti delittuosi più
allarmanti, è ovvio che il “buonismo” non basta e sono necessarie misure
adeguate di prevenzione e di repressione. Secondo la legge penale. Come
avviene, del resto, con tutti i delinquenti italiani o di altre nazionalità.
Agli immigrati che
vivono in Italia regolarmente bisogna riconoscere gli stessi diritti e doveri
dei cittadini italiani. Su
questo principio, umanitario e giuridico, si basavano le nostre richieste, in
giro per il mondo, a tutela delle comunità d’italiani emigrati non solo
meridionali, ma molti veneti,
piemontesi, lombardi, friulani, liguri che fuggivano dalla miseria,
dall’ingiustizia, dalla guerra. Esattamente, come fanno oggi i migranti
provenienti da diverse aree del pianeta.
In Italia, tutti
abbiamo almeno un parente emigrato. C’è da sperare che di fronte a un
immigrato, nessuno dimentichi questa speciale parentela.
Nemmeno il peggior
razzista poiché nell’angolo più recondito del suo animo c’è sempre un barlume
d’umanità che, quando s’accende, l’atterrisce.
Anche perché la ruota della storia continuerà a girare e non
sappiamo se quelli che oggi rifiutiamo domani potranno essere nostri fratelli
di sventura o magari qualcosa di più.
Anche i capi leghisti
devono ricordare e riflettere e convincersi che la sicurezza dei cittadini è
una cosa seria, una condizione sociale e morale molto più complessa e pertanto una
preoccupazione di tutte le forze democratiche italiane e non di loro esclusivo
appannaggio.
La divisione non corre fra chi la difende e chi no, ma tra
chi agisce in buona fede e chi sopra ci specula, per un pugno di voti.
Un precedente illustre: la grande moschea di Roma
Il divieto d’erigere minareti in Svizzera che si vorrebbe
importare in Italia, mi ha riportato alla mente un precedente illustre: la
costruzione, negli anni ’80 e 90, della moschea
di Roma ovvero la più grande d’Europa sorta nella Città eterna, a poca distanza
dal Vaticano cuore pulsante della cristianità.
Qualcosa di più vistoso, monumentale dei tanti magazzini
adattati a luoghi di culto. Eppure, non si registrarono posizioni
d’intolleranza, di rigetto sia negli ambienti religiosi sia tra le forze
politiche e culturali. Certo, ci furono discussioni e polemiche insorte,
soprattutto, intorno al problema- anche allora- del minareto. Nel senso che il
progetto dell’architetto Paolo Portoghesi prevedeva la costruzione di un minareto più alto della cupola di S. Pietro.
Alla fine prevalse il
buon senso e il progetto fu modificato nel senso richiesto e il cupolone continuò a primeggiare sopra i cieli
di Roma.
Da notare, che il terreno (30.000 mq ai piedi di Monte
Parioli) fu donato dal Comune di Roma al Centro islamico d’Italia ossia l’ente
morale incaricato di curare i lavori di costruzione.
Ci vollero tempo ed enormi finanziamenti (sauditi) e un
incessante lavorio politico e diplomatico, sovente dietro le quinte, prima di
giungere all’inaugurazione, nel 1995.
Oggi, la moschea di
Roma convive in pace col quartiere e con la città come luogo di culto per i
tanti mussulmani presenti nella capitale e come
simbolo di dialogo e di reciproca comprensione fra religioni ed anche fra
popoli e Stati.
Dal dialogo nasce la prosperità condivisa, dalla
guerra solo morte e povertà
Un fatto, oggi, impensabile in Italia. Altri tempi, si dirà.
In realtà, sono trascorsi soltanto una ventina d’anni durante i quali sono
cambiati (in peggio) l’approccio, la concezione e la sostanza delle relazioni
internazionali dell’Italia, dell’Europa e anche del mondo arabo,
Si è passati, infatti, dal dialogo alla sfiducia, alla
provocazione, al conflitto.
Altri tempi. Certo. Allora, era possibile realizzare moschee
al centro di Roma, di Parigi, di Oslo, di Berlino, senza scandalo anzi nella
più generale concordia.
Erano quelli i tempi
di un’Italia solidale e popolare che aveva una politica estera, ampiamente condivisa
in Parlamento, aperta al dialogo e alla cooperazione economica, in primo luogo
con i Paesi dello scacchiere arabo e mediterraneo.
Una politica di pace che generava nuove occasioni
d’incontro, nuovi mercati e commesse importanti per le imprese italiane.
Le buone relazioni politiche e culturali italo - arabe erano
la chiave di volta per accrescere il volume degli scambi economici e
commerciali.
Insomma, lo sforzo per una convivenza pacifica assicurava
all’Italia un ruolo primario nell’area arabo-mediterranea, anche in campo
economico.
Oggi, invece, la
nostra politica estera verso questo scacchiere si è, di fatto, militarizzata e
i risultati sono doppiamente in perdita. Alle ingenti spese per finanziare
missioni militari in zone di guerra bisogna, infatti, aggiungere la crescita
del deficit commerciale. Oltre, naturalmente, i nuovi rischi, in termini di
sicurezza, cui si espone il Paese.
Quando l’Italia aveva una politica estera
Basterebbe fare qualche conto e alcuni confronti fra le
bilance commerciali di allora e di oggi per capire le cause dell’attuale
svantaggio italiano e scoprire la differenza che corre fra il dialogo e la
chiusura razzistica. O se si preferisce fra la cooperazione pacifica e lo
scontro di civiltà.
La tanto biasimata
“prima Repubblica” era riuscita, in quegli anni, a produrre una politica estera
equilibrata, lungimirante e unitaria di cui va dato merito ai tre grandi
partiti popolari (Dc, Pci e Psi) e ai loro più prestigiosi dirigenti: Aldo
Moro, Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer, Giancarlo Pajetta, Bettino Craxi,
Riccardo Lombardi, ecc.
Abbiamo sostenuto il diritto all’autodeterminazione di tutti
i popoli del mondo e quello del popolo martire di Palestina ad avere uno Stato
sovrano, senza mai deflettere dalla difesa del diritto all’esistenza d’Israele
entro i confini riconosciuti dalle Nazioni Unite. Ovviamente, non si potevano,
non si possono, difendere le mire espansionistiche e le sistematiche violazioni
delle risoluzioni dell’Onu dei governanti israeliani.
Seguendo la linea
della giustizia e della legalità internazionali, abbiamo contribuito a
rafforzare la pace nello scacchiere, tutelato il nostro Paese da rischi
micidiali e, al contempo, creato importanti occasioni di scambio, reciprocamente vantaggiosi.
In questo nuovo contesto, si era perfino delineata una
prospettiva seria di crescita del nostro Mezzogiorno,
oggi ricacciato ai margini dello sviluppo, assillato dalla criminalità e
ridotto a mero deposito di risorse energetiche al servizio del centro-nord
ipersviluppato.
Insomma, ieri l’Italia, col concorso di tutte le forze di
progresso, dei lavoratori e degli imprenditori, riuscì a raggiungere primati
davvero eccezionali, fino al punto di figurare fra le prime otto potenze
industriali del pianeta.
Oggi, il populismo e
il “patriottismo” di bottega, per altro molto costoso, stanno vanificando gran
parte di quei risultati e avviato il Paese su una china molto preoccupante sia
sul terreno politico e democratico sia su quello della coesione sociale e
della prospettiva economica.
Il Nobel per la pace che… prosegue la guerra
I fatti parlano da soli e chiaramente. Mentre in Italia si chiudono scuole, ospedali, centri di ricerca si
continua a finanziare costose missioni militari all’estero, soprattutto in
Medio oriente.
E segnatamente in Afghanistan
dove, storicamente, nessun esercito d’occupazione ha mai vinto una guerra. Ci
addolora la decisione del presidente Usa, Barak
Obama, la cui elezione avevamo salutato con speranza e simpatia, d’inviare altri 34.000 soldati, più altre
6-7 mila dei paesi alleati, fra cui mille
nuovi effettivi italiani che Berlusconi si è affrettato a promettere d’inviare.
Da notare che col nuovo incremento il contingente italiano
in Afghanistan salirà dal sesto al quarto posto per consistenza numerica.
Dopo otto anni di combattimenti disastrosi quanto
inconcludenti, Obama giustifica l’invio “per
finire il lavoro” e presto rientrare. Ma quando? In realtà, l’invio è
certo, mentre il rientro è solo una promessa aleatoria che nessuno può dire se,
e quando, si potrà realizzare. Intanto la guerra farà registrare altre, nuove
micidiali impennate.
Meraviglia persino l’aberrante linguaggio di Obama, anche se
usato per esigenze di propaganda, che chiama “lavoro” una guerra così terribile e spietata che miete decine di
migliaia di vittime militari e, soprattutto, civili.
Così come bizzarra e sconcertante appare la sua decisione di
proseguire la guerra, assunta alla vigilia del suo viaggio a Oslo dove andrà
(10 dicembre p.v.) a ritirare il premio Nobel per la pace. Boh!
L’import italiano d’idrocarburi: un’eccessiva
dipendenza da Russia e Libia.
Ma non divaghiamo, torniamo all’Italia, alla sua politica estera militarista e mercantilista
che- come già detto- produce gli alti
costi delle missioni e un saldo sfavorevole
dell’interscambio globale con i paesi del Medio oriente e dell’area
mediterranea.
Particolare preoccupazione dovrebbero destare i dati
concernenti l’import d’idrocarburi sempre più elevato (in valore) e concentrato
in pochi paesi esportatori con alla testa la Russia di Putin (col 21,8%) seguita dalla Libia di Gheddafi (col 21,2%).
Insieme i due Paesi
coprono il 43% dell’import italiano (dati 1° semestre 2009) e, forse, meglio
spiegano il senso dell’attuale politica estera italiana.
Insomma, mentre prima la costante di ogni politica estera
economica era la diversificazione degli approvvigionamenti, negli ultimi anni
la lista dei fornitori si sta restringendo e modificando a favore di alcuni
Paesi non propriamente affidabili sotto diversi profili.
Di questo passo,
l’Italia rischia una dipendenza eccessiva da governi che, in caso di crisi,
potrebbero esercitare pesanti condizionamenti sull’economia del nostro paese.
Quando si dice la sovranità!
Se partiti e
Parlamento, ed anche i media, invece che di leggi ad personam, di prostitute,
di trans e ruffiani, si occupassero di questi problemi e d’altri consimili
certamente avremo una rappresentazione più veritiera del dramma che sta
vivendo l’Italia e magari si troverebbe qualche soluzione per uscirne.
Conflitto fra religioni: un’indegna mistificazione
La moschea, i minareti, i crocefissi, le nuove crociate
leghiste…tutto è utile per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica, sempre
più frastornata e impaurita, dai suoi problemi di vita e di lavoro a quelli
presunti o comunque ingigantiti provocati, qua e là, dagli immigrati la cui
colpa, forse, è quella di assicurare un importante contributo alla barcollante
tenuta della nostra economia. In primo luogo di quella dei “territori
leghisti”.
Il rischio più grande
che, oggi, corre l’Italia non è dovuto alla presenza degli immigrati, che certo
va regolamentata, controllata e anche aiutata, ma l’infiacchimento della
democrazia, del ruolo dello Stato causato da queste indecorose risse
mediatiche, dalle odiose campagne xenofobe scatenate da certi “politici” che,
per dimostrare la loro (in)utilità, devono mostrare in tv la bava delle loro
rabbiose provocazioni.
Alieni, gente estranea alla tradizione politica e culturale
repubblicana che vorrebbero far passare un’immagine falsata, irriconoscibile
dell’Italia: lacerata e impotente, e soprattutto egoista e timorosa del
progresso. Anche se il momento è opaco, intimamente ciascuno di noi sa che
l’Italia repubblicana non è stata, non è, come la si vorrebbe rappresentare o ridurre
a colpi di machete.
La gente è stanca di questa manfrina e desidera un
cambiamento capace di recuperare e valorizzare tutte le risorse e le grandi
potenzialità esistenti. Per riallinearsi all’Europa e per ridare speranze agli italiani e, in primo luogo, ai giovani i quali, però, dovrebbero darsi
una mossa per non restare oggetti passivi di certa politica e conquistare un
ruolo da protagonisti nell’opera immane di costruzione di un nuovo futuro. Del
loro futuro.
Cristo non ha bisogno di nuovi crociati
Infine, qualche considerazione sull’ipocrita campagna
sanfedista a difesa del “crocefisso” cavalcata da taluni politici e sindaci e
presidenti provincia che vorrebbero imporlo nelle scuole e in tutti gli uffici
pubblici, anche mediante la minaccia di multe salate e provvedimenti
coercitivi.
I leghisti perfino sulla bandiera che per anni hanno
dileggiato, oltraggiato.
Credo che la gente avrà capito il vero intento di cotanta,
interessata premura. Tuttavia, è sempre utile richiamarne l’attenzione per far
fallire la manovra portata avanti da partiti e individui che hanno ben poco da
spartire con quel Cristo che si pretende di difendere da chissà quali attacchi.
Anche il clero cattolico, pur difendendo legittimamente i suoi valori e
simboli, ritengo abbia ben compreso il fine di questa rumorosa “improvvisata” e
non consentirà a costoro di trascinare la Chiesa nell’anacronistica diatriba.
Anzi, prima o poi,
potrebbe richiamare i troppo zelanti politici e amministratori a curarsi degli
affari di loro pertinenza. Magari con più efficienza e onestà.
Sarebbe, infatti, molto imbarazzante che il crocefisso fosse
difeso da gente che lo calpesta ogni giorno, trasgredendo gli insegnamenti del
Cristo dei vangeli per ubbidire ai più bassi istinti del potere. La figura del Cristo è da molti
accettata e universalmente rispettata, anche da noi non credenti. Non c’è, davvero, bisogno d’imporla d’autorità, a colpi di multe. Specie in un Paese
dove vige una Costituzione laica e tollerante.
Se un non-credente collabora alla costruzione di un
luogo di culto
Chiudo con un aneddoto, con un fatto capitatomi a margine
della vicenda della moschea di Roma alla cui realizzazione contribuì,
soprattutto sul piano dell’iniziativa politica e parlamentare, la nostra
Associazione italo - araba, composta dai rappresentanti dei tre principali
partiti (Dc, Pci, Psi) e più volta presieduta dall’ex ministro dc Virginio
Rognoni.
In questa come in altre importanti vicende, l’associazione
svolse una funzione politico/diplomatica parallela a quella del governo e dei
partiti che rappresentava.
Un giorno fui invitato per un colloquio dal principe Abdelghassem Amini, un aristocratico
afghano, persona di fiducia dei sauditi e, in quanto tale, presidente del
Centro culturale islamico d’Italia curatore del progetto della moschea.
Solitamente lo incontravo in delegazione o in qualche
convegno. Quella volta m’invitò da solo.
Lo andai a trovare al Centro e dopo il caffè e un po’ di
convenevoli, mi rivolse alcune domande a bruciapelo. “Lei è un deputato del Pci?
”- “Certamente”, risposi. “Perciò è un marxista?” – “Sicuro” “Voglio dire ateo?” “Si, sono
ateo”.
Domande pleonastiche le sue (sapeva chi ero) propedeutiche a
quella più impegnativa: “Allora –mi
spieghi- perché un ateo, com’è lei si dichiara, si è tanto adoperato per
consentire la realizzazione della moschea? “
Il principe non si capacitava di tanta (mia) “incoerenza” o
forse immaginava i comunisti come orde di barbari dediti alla distruzione dei
luoghi di culto.
Gli risposi che, in
quanto comunista e cittadino di questa Repubblica, mi ero semplicemente
adoperato per garantire ai lavoratori di religione islamica, come di altre, il
diritto ad avere un luogo di raccoglimento e d’incontro. Esattamente come
postula la nostra Costituzione per tutte le religioni, purché non s’ingeriscano
nella politica e negli affari di Stato.
Il principe mi volle insignire di una medaglia e mi regalò
un bellissimo esemplare del Corano che vergò con una dedica riconoscente: “All’on. Agostino Spataro…per tutto l’aiuto
che ha dato all’Islam”. Insomma,
c’eravamo capiti.
7 dicembre 2009
Agostino Spataro / Bibliografia
Giornalista, già membro delle
Commissioni Affari Esteri e Difesa della Camera dei Deputati, direttore di “Informazioni dal Mediterraneo”
(www.infomedi.it), collabora con “La Repubblica” e con altri
giornali e riviste. Biografia: http://it.wikipedia.org/wiki/Agostino_Spataro
Ha scritto vari saggi, fra i
quali:
“Per la Sicilia”, (presentazione di Giorgio Napolitano), Agrigento, 1982
“Missili e mafia”(con
Paolo Gentiloni, Alberto Spampinato) Editori Riuniti, Roma,1985
“Oltre il Canale- Ipotesi di cooperazione siculo - araba”,
Ed. Autonomie, Roma, 1986 (tradotto in arabo)
“I Paesi del Golfo”,
Edizioni Associate, Roma, 1991
“Il Mediterraneo” (con Bichara Khader), Editrice Internazionale ,
Roma, 1993
“La notte dello
sceicco”-Reportage dallo Yemen-
Edizioni Associate, Roma, 1994
“Il Pianeta
unico” (con Naom Chomsky, Ricardo
Petrella, ecc), Eleuthera, Milano, 1999
“Le
tourisme en Méditerranée”, Editions l’Harmattan, Paris, 2000
“Il
fondamentalismo islamico- Dalle
origini a Bin Laden”,
(presentazione di Yasser Arafat ) Editori Riuniti, Roma, 2001
“El fondamentalismo islamico- El Islam
politico”, Editora Rosario,
Argentina, 2004
“Sicilia,
cronache del declino”, Edizioni
Associate, Roma, 2006
“Petrolio, il sangue della guerra- Da Badgad a
Tripoli: lo stesso disegno neocoloniale”, Ed. CSM- Ilmiolibro, Roma, 2012
“Sicilia, il decennio bianco”, Ed. CSM- Ilmiolibro, Roma, 2012
“Nella Libia di Gheddafi”, Ed. CSM- Ilmiolibro, Roma,
2013
“ I giardini della nobile
brigata”, Ed. CSM- Ilmiolibro, Roma,
2014
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