L’urlo dei tamburi a Buenos Aires
Sfilano le “madres” (molte “abuelas”), gli orfani, i figli e
le figlie dei desaparecidos. I sopravvissuti del genocidio. Trentamila furono
le vittime: una città media abitata da soli giovani dai 20 ai 40 anni, una generazione
distrutta nel fiore degli anni. Poveri figli!
Erano studenti e docenti universitari, artisti, giornalisti,
operai, professionisti, uomini e donne strappati alla vita e a questa terra
amara.
Rullano i tamburi per l’avenida de Mayo, la gran via che
collega i due simboli del potere costituzionale, troppe volte violato: il
Congreso e la Casa
Rosada.
Il gran corteo, come un urlo cupo, insistente, potente,
chiede giustizia e annuncia una nuova tempesta sotto il cielo dei platani
ombrosi di questa avenida fatale..
Migliaia di bandiere stese al vento australe che rinfresca
il torrido meriggio di questo 24 marzo 2009.
Trentatré anni fa, il golpe maledetto dei generali fascisti
che trascinò l’Argentina nella miseria e nella vergogna.
Il rebus delle atrocità
Su una parete del Museo della Memoria (ex scuola dell’ESMA)
di Buenos Aires si legge la seguente scritta:
“30.000 giorni sono come 100 anni o come 30.000 giovani
desaparecidos, torturati, uccisi dalla dittatura militare argentina.”
Provate a risolvere
questa specie di rebus delle atrocità!
La morte del Che
Improvvisamente, nella sala l'atmosfera si fece pesante,
gravida di preoccupazione, come quando si attende l’edizione straordinaria di
un telegiornale. Il presidente interruppe l'acceso dibattito sui magri destini
dei nostri enti locali e diede la parola alla compagna Vittoria Giunti,
partigiana e sindaco di S. Elisabetta. Avrebbe voluto essere formale, Vittoria,
secondo il rituale tipico di queste circostanze, invece dopo le prime parole ''Abbiamo
ricevuto dalla Direzione la conferma...'' proruppe in un pianto
irrefrenabile, sincero, che annunciava la morte di un sogno. “È caduto in
combattimento, sulle montagne della Bolivia...'' aggiunse. Quasi a volerci rassicurare che il Che non aveva
tradito; era morto combattendo, come aveva vissuto…
Il terzo palco
(sogno) Ai funerali di Pio e di Rosario, nella piazza
Politeama di Palermo, vidi spuntare, imprevisto, un terzo palco affollato di
un coro di cento fanciulle, tutte bionde e col volto velato dalla lunga chioma,
che into-narono un inno alla Pace. Vola compagno, vola!
Moro e Berlinguer
Partecipando a una seduta della commissione affari esteri
della Camera mi trovai davanti all’intero Gotha della politica italiana, di
governo e d'opposizione: Enrico Berlinguer, Bettino Craxi, Benigno Zaccagnini, Mariano
Rumor, Flaminio Piccoli, Francesco De Martino, Riccardo Lombardi, Altiero Spinelli,
Ugo La Malfa, Giancarlo
Pajetta, Giorgio La Pira,
Giovanni Malagodi, Mario Tanassi, Antonio Giolitti, Emilio Colombo, Arnaldo Forlani,
Aldo Moro...
In circa 30
metri quadri era riunita la più grande e qualificata
concentrazione del potere politico italiano. Confesso che, a vederli tutti insieme,
e così vicini, ne restai molto impressionato.
Li scrutai a uno a uno. Osservai i loro sguardi, i loro tic,
i movimenti minimi del viso, delle mani. Volevo capire cosa si nascondesse
dietro quei volti formali, impenetrabili. Arroganza, paura, inquietudine, solitudine?
L'esame fu necessariamente sommario. A parte La Pira, che poteva già considerarsi
avviato verso la beatitudine celeste, mi colpirono soprattutto Berlinguer e
Moro per la loro espressione sofferta, quasi mesta. Era un po' il loro
carattere ma credo v' influisse la consapevolezza del peso delle responsabilità
che s'erano assunte in quel frangente storico.
In quel consesso di capipartito e di corrente vidi le stimmate di un potere greve, fatto di voti e presidenze.
In quel consesso di capipartito e di corrente vidi le stimmate di un potere greve, fatto di voti e presidenze.
Moro e Berlinguer, invece, mi apparvero spogli di poteri
siffatti e perciò leader autentici che fondavano il loro carisma sull’etica e
sulla forza delle idee. (1977)
Fabbricanti di martiri
Il potere ottuso genera i martiri ovvero i simboli che
conferiscono sacralità ai suoi nemici.
L’assassinio di Aldo Moro
Forse, un giorno, sapremo (o sapranno) tutta la verità sull’affaire
Moro.
Tuttavia, credo che si possa senz'altro affermare che Egli è
caduto per avere troppo capito e troppo osato.
A due eroi involontari che amavano la madre, la vita e la libertà
“...Si la muerte me sorprende de esta forma tan amarga, pero
honesta, si no me da tempo a un ultimo grito desesperado y sincero, dejarè el
aliento, el ùltimo aliento, para decir te quiero.”
Brano tratto dalla
poesia di Alejandro Martin Almeida, giornalista argentino “desaparecido” nel
gennaio del 1975, dedicata alla madre. Aveva 20 anni e tanta voglia di lottare por
la libertad.
“¡Madre, me fui! di a los hombres que lleven luto por mi
pérdida... di a los niños que luchen y que sean creativos que NO destruyan...
¡Madre, adiós! a ti y a mis sueños... no os disperséis
porque me haya ido... tomad fuerza y luchad... por todo aquello que yo no alcancé...¡Adiós! ”
Dalla poesia
dedicata a Alexis Grigoropoulos, ucciso con un colpo al cuore sparato da un
agente di polizia, la sera del 6 dicembre 2008, in piazza Exarchia ad
Atene. Aveva 15 anni e tanta voglia di vivere.
Palestina: due domande in una
Da quasi 70 anni, i Palestinesi lottano per una patria
sovrana, per salvaguardare la loro identità di popolo, uno dei più antichi
dell’Oriente medio.
Si battono, sovente, a mani nude, tirando sassi contro i
carri armati, contro i blindati israeliani; muoiono per sentirsi vivi, per difendere
la loro identità violata, frantumata, derisa.
Due domande in una: perché i palestinesi che lottano per
liberarsi da un’occupazione straniera sono definiti “terroristi” e non
“resistenti” come lo furono i nostri, in Italia e in Europa, che organizzarono
la lotta di liberazione dal nazifascismo, mentre gli israeliani che, da 45
anni, occupano la Palestina,
perseguitano, incarcerano, massacrano le popolazioni palestinesi sono
considerati “soldati”?
Omicidi che allungano la… vita
Vi sono omicidi che “allungano” la vita del malcapitato.
Metaforicamente s’intende.
Quello di Imre Nagy è un caso esemplare. Giustiziato per avere
guidato la rivolta ungherese del 1956, subì un destino, a dir poco, bizzarro:
agì da comunista contro lo strapotere di Rakosi, capo storico degli stalinisti
magiari; voleva salvare il comunismo, riformandolo, e per tale eresia sarà
giustiziato dai “neo-ortodossi” guidati da Janos Kadar, un comunista già
vittima illustre dello stalinismo.
Una vera iattura per un comunista!
Nagy fu giustiziato all’età di 62 anni. Secondo gli standard
della vita media del tempo, sarebbe potuto campare altri 10- 15 anni, nel
grigiore e nell’oblio o, peggio, in galera.
Invece, a causa di quell'odiosa sentenza, egli continua a
“vivere”; a godersi una relativa eternità che è il traguardo cui aspira ogni essere
umano, anche se per altre vie.
Oggi avrebbe 114 anni e sarebbe morto da un pezzo. A distanza
di 52 anni dalla sua esecuzione, Egli è ancora vivo nella nostra memoria,
ammirato e riverito.
Vivo in “statua”, potremo dire. Come in “statua” erano
bruciati gli eretici condannati in contumacia dalla Santa Inquisizione. Santo
uffizio e stalinismo: due spietate inquisizioni.
(Budapest, 2014)
Ironia sotto la forca
“Quello che proprio
non mi va giù è l’idea che gli stessi che oggi m’impiccano, domani mi
riabiliteranno.” *
Queste parole amare - secondo Arrigo Petacco- furono pronunciate
da Imre Nagy, capo del governo insu-rrezionale ungherese del 1956, poche ore
prima di essere condotto alla forca. (* in “Le
notti di Kadar” di Filippo Raffaelli) L’ironica previsione non si avverò, ma ci mancò poco.
-------------
Agostino Spataro in:
Agostino Spataro in:
Nessun commento:
Posta un commento