L’onore salvato, la figlia perduta
1...
Ore 7, 00 del 7
maggio 2007. Un’incredibile successione di 7. Mi affaccio alla finestra
al terzo piano. Un timido sole spande una luce citrigna sopra il villaggio e
inonda la pigra terra, i tetti ramati delle case, le chiome degli alberi
fioriti. Frotte d’uccelli ciarlieri s’inseguono, garruli e sicuri, sopra il mio
paese-voliera. Insomma, è primavera. La bellissima primavera siciliana.
Do
un’occhiata ai giornali per vedere che cosa accade altrove.
Mi
attira la ferale notizia dell’avvenuta lapidazione, in una sperduta località
del Kurdistan iracheno, di Aswad una ragazza di appena 17 anni.
Chi
sarà stata questa disgraziata fanciulla?
Aswad!
Che bel nome. Chissà cosa vorrà dire?
Il
cronista non lo dice, si attiene al fatto. Oltre la cruda cronaca, avverto come
un moto interiore che agita qualcosa e accorcia le distanze fra i due luoghi e
travalica l’ignoto che li separa.
Aswad
poteva essere una delle tante coraggiose donne kurde, pronte a morire, combattendo,
per la libertà e la dignità del loro popolo disperso e privato di una patria,
di uno Stato?
Invece,
è morta in modo barbarico e per mano dei suoi più intimi congiunti.
Aswad,
questo nome lo sento vicino, familiare.
Sempre
più spesso, mi capita di sentire vicinanza con le vittime di ottuse barbarie
che ancora si consumano ai quattro angoli del pianeta. Sovente, in nome di un
Dio vindice, reso complice del proprio comodo machista.
Aswad
era stata condannata alla lapidazione per aver trasgredito le rigide regole
della setta religiosa di appartenenza (Yazidita, una minoranza islamica
presente soprattutto nelle zone kurde) che non ammettono relazioni d’amore con
individui di altre tendenze religiose, anche islamiche.
2...
Un episodio
doloroso, purtroppo frequente in quelle aree del Medio Oriente, dove, in
ossequio a certi precetti religiosi (o maschilisti?), si consumano delitti
così abietti.
Affinché
sia di monito ad altre, la truce sentenza va eseguita in pubblico,
spettacolarizzata. L’orrendo “spettacolo” si svolge nella pubblica piazza, talvolta
nello spiazzo antistante l’ingresso della moschea, perché tutte vedano e
riflettano prima di trasgredire le norme, anche le più assurde, della
tradizione.
A
tirare, per primi, le pietre sono stati i parenti “offesi” dalla vittima che
-scrive il giornale - sono tenuti a partecipare alla lapidazione. Addirittura,
a tirare la prima pietra.
Una
sorta d’inaugurazione di un rito bestiale.
C’è
chi inaugura un edificio, un’autostrada e chi l’assassinio della propria figlia,
sorella o nipote. No, assolutamente no! Noi rispettiamo le altre culture,
comprendiamo tante cose, ma questi orrori no. Mai!
Un
rituale barbaro dove il congiunto che non tirerà le pietre dovrà giustificarlo
per benino al clan, all’intera comunità se non vuole incappare nell’accusa di
complicità o addirittura d’eresia.
Se
lo desidera, anche un estraneo alla famiglia, un semplice passante può unirsi
al branco dei lapidatori.
La
povera Aswad è stata fatta segno degli insulti più gravi e di decine, centinaia
di sassi acuminati che le hanno macerato le carni e le ossa e tumefatto il
viso. Una morte esemplare: lenta, crudele, devastante.
Sassi
avvelenati da un odio cieco, scagliati da padri e fratelli che massacrano senza
pietà una figlia, una sorella ragazzina colpevole d’essersi innamorata di un
ragazzo “sbagliato”, nato, a sua insaputa, al di fuori della setta di Zayid.
È
la forza impositiva di certe tradizioni che, sopprimendo il libero arbitrio, si
pongono in contrasto evidente con la libertà individuale, con la democrazia,
con i diritti dell’uomo (e della donna bisognerebbe specificare!) sanciti nella
Carta delle Nazioni Unite. Con la civiltà, direi.
E
qui mi fermo, perché desidero rilevare un particolare d’apparente umanità che
la cronaca riporta come appendice insignificante di questo assassinio parentale
e collettivo.
Scrive
il giornale che la povera Aswad, crollando a terra agonizzante, si scompose
nell’abbigliamento e mostrava al pubblico le gambe nude.
Evidentemente,
durante il martirio, la “svergognata” non si era curata di coprirsi le
intimità offrendole al pubblico ludibrio.
Insomma,
un altro scandalo!
Ecco,
dunque, uno zio pietoso il quale, dopo averla subissata di sassate, si avvicinò
al corpo della sventurata, si tolse la giacca e le coprì le gambe nude, striate
del suo sangue innocente.
Con
questo ultimo atto di suprema ipocrisia, la moralità della famiglia fu salva e
la coscienza a posto, agli occhi del popolo e dello sceicco di turno.
3…
La giacca dello zio (im) pietoso, le gambe nude di Aswad mi passarono davanti
come la scena di un film già visto… In realtà, non era un film ma un episodio
similare (raccontatomi da mio padre) realmente accaduto a Realturco intorno
agli anni ’30 del secolo scorso.
Sofia
era stata lasciata dal fidanzato un mese prima delle nozze. Improvvisamente e
senza un motivo valido. Disse solo che, dovendo partire per Chicago, non voleva
creare una famiglia per presto abbandonarla. Era una scusa per nascondere
chissà quali altri propositi.
La
ragazza fu colpita, mortificata da quell’atto che pareva un ripudio. Sola e
avvilita, visse in una celletta oscura i giorni della vergogna, il suo dolore.
Invece
di comprenderla, aiutarla, la famiglia le faceva pesare l’onta del disonore,
del ripudio.
“Certu
ca pi lassalla così all’impruvvisu, chissà chi vitti…”
Era
questo il commento più ricorrente fra parenti e paesani. La colpa è sempre
della donna. Mai dell’uomo, di certi uomini che si comportano da mascalzoni,
da “padroni” delle donne.
In
questi casi, c’è un altro aspetto da tener presente. Una figlia rifiutata resterà
zitella a vita. Per la famiglia sarà un peso morto anche dal punto di vista
economico.
Oltre
a ciò, il capofamiglia, il patriarca dovrà subire il danno morale per tutte le
maldicenze che fioriranno nel paese. Per Sofia non c’era più speranza. Il buio
era calato sopra la sua esistenza. L’aspettava una vita impossibile.
Meglio
troncarla. Finirla con dignità.
Il
suicidio era la soluzione, la via d’uscita, o la più breve, per sfuggire a quel
canagliume che si sarebbe avventato contro di lei.
Sofia
cercò una luce nella notte oscura. Pensò e ripensò al tragico passo. Notti
insonni, frementi di rabbia e di paura. Dall’abbaino guardava la luna, l’unica
amica che la consolava. Quella notte anche la luna pareva convenire con lei,
per il suicidio.
A
quel tempo, il luogo adatto, più “suggerito”, per consumare un suicidio era il
pozzo della Fontanazza, dove, per secoli, uomini e bestie sono venuti ad
abbeverarsi. Le donne, soprattutto, a riempire le “quartare” e a sciacquare i
panni. Ancora oggi, l’acqua amarognola continua a sgorgare dalla sorgente che
sale dalle profondità del massiccio di roccia sottostante.
Nella
fraseologia popolare c’erano alcune espressioni, dettate dall’ira o dallo
sdegno o sotto forma di consiglio, di questo tenore: “Attaccati na rocca a lu
coddru e va iettati ni lu puzzu di la Funtanazza”; “Cosa nnutuli, affucati ni lu
puzzu…”
Questo
pozzo che era fonte di vita era visto, suo malgrado, come il più sicuro luogo
di morte.
Bella
e disperata, Sofia decise di finirla per liberarsi di quella vergogna, per non
sentire più il disprezzo, lo scherno della famiglia, del paese che erano più
grevi di una condanna a vita. E così, maturò l’idea d’intraprendere la dura
via.
Pensò
ad altre soluzioni, ad altri luoghi. Ma in paese non c’era un luogo più adatto
per morire. Non c’era scelta. Chi voleva suicidarsi doveva andare a gettarsi
nel pozzo della Fontanazza.
Prima
di lei, altri vi si erano gettati. Di notte. Per essere sicuri che nessuno li
avrebbe soccorsi e ripescati. E difatti affogarono.
Qualcuno
provò a buttarsi di giorno, ma fu prontamente salvato dalla tante persone che
erano ai bordi.
Evidentemente,
si trattava di una messinscena, poiché nessuno era riuscito ad annegare, di
giorno, in poco più di due metri d’acqua e con tanta gente intorno. Il cinico,
uno c’è sempre nella comitiva, commentò: “Si vede che era indeciso o voleva
farsi sulu u bagnu!”
Le
persone davvero determinate, preferivano la notte per morire. Per essere sicuri
di annegare si legavano una grossa pietra al collo.
4… Sofia studiò un piano di morte. Il suo
suicidio doveva essere clamoroso, memorabile. Una vera sferzata morale per
quel paese di gente bigotta, rassegnata e servile.
Doveva
essere questa la sua risposta a quel porco che l’aveva abbandonata e anche alla
famiglia che non l’aveva aiutata nella sventura. A quel padre crudele, offeso
nell’onore, che ogni sera la massacrava di botte e d’insulti.
Non
ne poteva più Sofia di quel vecchio testone che, tornando dalla campagna,
l’andava a trovare nella stanzetta al primo piano per somministrarle una
razione di legnate prima di quel misero piatto di minestra che le avrebbe
portato la madre.
Intorno
a lei il buio, il fango. Povera figlia!
Sapeva
dei falsi o tentati suicidi, perciò decise di morire di notte, senza scampo, al
pozzo della Fontanazza.
Come
arrivarci? Femmina sola, doveva attraversare nel buio un bel pezzo di strada
che dal quartiere del Canale porta al pianoro dei pozzi, in direzione di
Montefamoso.
Di
notte, ben coperta e vestita di nero, nessuno l’avrebbe riconosciuta.
Giunta
sul posto si sarebbe gettata nelle acque fredde del pozzo. In pochi minuti
sarebbe annegata. Come tutti, in quel paese a poche miglia dal mare, Sofia non
sapeva nuotare. Forse, non era necessario legarsi una pietra al collo.
All’alba
del nuovo giorno, lo spettacolo della sua morte sarebbe stato servito, buttato
in faccia a decine di pastori e di contadini che venivano ad abbeverare le
bestie o a rifornirsi d’acqua per la casa.
Sperava
che la trovassero a faccia in giù per non poterla riconoscere all’istante. La
mancata identificazione avrebbe aumentato il clamore e fatto accorrere l’intero
paese.
Immaginava
la concitazione intorno al pozzo. Gli occhi sgranati degli uomini, i loro volti
duri, rigati dalla fatica e dal tempo e dalle superstizioni. Il terrore, i
silenzi e le bocche serrate delle donne. Forse anche i pianti.
Succede
sempre di fronte a un corpo morto. In realtà, si piange per se stessi. Poiché
nella morte dell’altro si riflette la propria.
5… Passato lo sgomento, la scena si sarebbe
animata alla vecchia maniera. Come sempre accade in questi frangenti, ci sarà
qualcuno che s’improvviserà capo supremo della baraonda e comincerà a impartire
ordini a destra e a manca. Quasi fosse un caposquadra della protezione civile.
Un
tizio prenderà una scala e si calerà nel pozzo per recuperare il corpo; mostrerà
il volto per svelare il mistero di chi quella notte aveva deciso di togliersi
la vita.
Sicuramente,
avrebbero avvisato don Vincenzo, il prete della Badia, il quale sarebbe venuto
per curiosità, come tanti altri, non per somministrare i sacramenti.
Ai
suicidi sono rifiutati. E dire che sono proprio i suicidi quelli che più
avrebbero bisogno dei conforti religiosi. Una vera ingiustizia …una doppia
punizione!
Sofia
ci teneva ai sacramenti, al funerale. A parte le incognite di un aldilà molto
severo, desiderava che quel popolo, solidale soltanto nei funerali, partecipasse
alla celebrazione della sua morte. Per riflettere.
Mentre
su queste cose rimuginava un nuovo timore le attraversò la mente. Come non ci
aveva pensato? Nel vortice della morte, sicuramente la “falletta” (veste a
tunica) si sarebbe dispiegata, stracciata e avrebbe mostrato le intimità del
corpo, comprese le sue belle cosce bianche come la cera. Che vergogna!
“Anche
da morta continua a comportarsi come una sgualdrina.”
Questo
avrebbe pensato la gente intorno al pozzo.
Insomma,
uno scandalo nello scandalo.
Temeva,
soprattutto, la reazione del padre, di quel testone che l’aveva indotta al
tragico passo.
Che
cosa avrebbe detto, fatto? Quell’uomo era capace di tutto.
Anche
in punto di morte, il pensiero del padre l’atterriva. Bisognava evitare il
nuovo scandalo, a ogni costo.
Che
cosa fare?
Ci
pensò sopra qualche minuto. Poteva indossare i pantaloni del padre. No, non
andavano bene. La taglia era troppo grande. Avvolgersi nell’ampio scialle di
ciniglia ricamato che le aveva donato la nonna per il matrimonio. Anche questa
soluzione non le parve idonea allo scopo. E poi perché rovinare uno scialle
così bello? Poteva servire a Nina, la sorella più piccola.
Più
sicuro le parve cucirsi la “falletta” fin sotto le caviglie. Come a farne un
sacco che la contenesse tutta. Nemmeno i piedi avrebbero visto perché coperti
dalle calze di lana.
Solo
il volto, il suo bel volto saraceno, sarebbe rimasto scoperto.
6… L’idea era buona, ma poco pratica. Come
avrebbe potuto camminare, nel buio, con quella veste strettamente cucita alle
caviglie?
Presto
trovò il rimedio: l’avrebbe cucita a bordo del pozzo, poco prima di buttarsi. A
quell’ora nessuno l’avrebbe vista.
E
così fece la poverina. Si sedette sul muro di pietre bianche levigate e si
cucì, con cura, gli orli della tunica. Diede anche un piccolo strattone per
assicurarsi che avrebbe retto alla prova.
Si
attaccò una pietra ai fianchi, chiuse gli occhi e si gettò nel punto più profondo.
Morì
in pochi attimi, soffocata dal piccolo vortice formato dalla spinta che la
sorgente generava dal basso.
Suicidio?
Lei fu l’esecutrice, ma i mandanti furono altri. Non fu lei a uccidersi. I
parenti più stretti, la gente, il loro spietato pregiudizio guidarono i suoi
passi verso il pozzo.
In
quella notte troppo bella e troppo fresca per morire.
Una
morte infelice, assurda che spezzò una giovane vita, ma “salvò” l’onore del
padre, dell’intero clan familiare. Ora tutti potevano andare orgogliosi della
piccola, eroica Sofia immolatasi per dignità, come un guerriero spartano alle
Termopoli.
Ancora
oggi, qualcuno va a scrutare fra i veli cangianti dell’acqua di quel pozzo,
forse sperando d’int-ravedere le sembianze, la delicata bellezza di Sofia,
rimaste insepolte nelle menti dei vecchi contadini.
A
volte, anche a me, che non la conobbi, appare Sofia … In sogno.
Una
donna con le ali che non riuscì a volare.
Agostino Spataro in:
https://www.amazon.it/I-fiori-del-tempo-ritrovato/dp/8892325892
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