Al tempo della guerra contro Gheddafi scatenata da alcune grandi potenze della Nato (Francia, Inghilterra, USA, cui si accodò l'Italia) avvertimmo che quella guerra era rivolta, precipuamente, contro gli interessi italiani in Libia e nel Mediterraneo.
Una guerra contro l'Italia facilmente vinta anche grazie al largo uso delle basi militari presenti in Sicilia.
A distanza di alcuni anni, possiamo dire che é stata vinta la guerra ma che si rischia di perdere il dopoguerra.
Infatti, il Paese nordafricano continua a essere in preda al caos politico, alle divisioni tribali, al terrorismo, alle violenze di ogni tipo.
Tutto ciò, mentre l'Italia si lecca le ferite derivate dalla partecipazione alla guerra (non voluta dagli italiani) e dai piani di spartizioni delle zone d'influenza che minacciano enormi e consolidati interessi italiani. In primo luogo dell' Eni.
Sulla crisi libica il governo italiano ha organizzato, per il 12 e 13 novembre, a Palermo, una conferenza internazionale dagli esiti incerti che, addirittura, potrebbero rivelarsi controproducenti.
Una iniziativa in solitario che suscita tante domande.
Una guerra contro l'Italia facilmente vinta anche grazie al largo uso delle basi militari presenti in Sicilia.
A distanza di alcuni anni, possiamo dire che é stata vinta la guerra ma che si rischia di perdere il dopoguerra.
Infatti, il Paese nordafricano continua a essere in preda al caos politico, alle divisioni tribali, al terrorismo, alle violenze di ogni tipo.
Tutto ciò, mentre l'Italia si lecca le ferite derivate dalla partecipazione alla guerra (non voluta dagli italiani) e dai piani di spartizioni delle zone d'influenza che minacciano enormi e consolidati interessi italiani. In primo luogo dell' Eni.
Sulla crisi libica il governo italiano ha organizzato, per il 12 e 13 novembre, a Palermo, una conferenza internazionale dagli esiti incerti che, addirittura, potrebbero rivelarsi controproducenti.
Una iniziativa in solitario che suscita tante domande.
Con chi é stata concordata? Come é stata preparata? Su quali basi e proposte condivise?
Da quanto si sa, nemmeno con tutte le fazioni libiche in lotta.
Perciò, non si riesce a percepire, (saranno segreti di stato?) se e quali soluzioni, efficaci e condivise, potranno essere varate per riportare la pace in Libia e nel Mediterraneo e ripristinare i rapporti di cooperazione con l'Europa, con l'Italia.
Avremo un'altra passerella propagandistica?
In caso affermativo, si brucerebbe forse l'ultima chance dell'Italia. L'eventuale fallimento dell'iniziativa potrebbe contribuire ad acutizzare il conflitto interno fra le fazioni, ad inasprire le logiche spartitorie interne e internazionali.
Non bisogna dimenticare che l'attuale unità territoriale libica fu imposta dal fascismo occupante e che, pertanto, la Libia potrebbe ritornare ad essere "triale" e così offrire il fianco alle grandi potenze "in attesa" di spartirsi questo immenso deposito naturale di petrolio e di gas (il primo in Africa) in zone d'influenza economica e politico-militare.
Speriamo bene. Ma visti i precedenti dilettantistici dei governanti italiani c'è da restare quantomeno perplessi sulla opportunità e sulla riuscita dell'iniziativa.
In ogni caso, bisogna ricordare ai signori che converranno a Palermo che la Sicilia ha subito un grave danno a seguito del rovesciamento violento di regime di Gheddafi: in termini di ulteriore militarizzazione, d'impatto dei flussi d'immigrazione irregolare, di riduzione delle attività di pesca e di lavoro qualificato colà operante, di vanificazione di tutte le piccole e medie iniziative economiche, ecc.
Danni seri che dovrebbero essere adeguatamente "risarciti".
La Sicilia, che nel passato ha svolto un ruolo importante nel sistema di relazioni italo-libiche, aspira a confermare tale ruolo nella nuova Libia che speriamo, prima o poi, verrà.
Da lungo tempo evidenziamo le potenzialità di cooperazione solidale e reciprocamente vantaggiosa fra la nostra Isola e la Libia e gli altri Paesi mediterranei.
La Sicilia, i siciliani vogliono la pace e non la guerra a due passi di casa. Solo in un contesto pacifico sarà possibile delineare nuove ipotesi di sviluppo e di prosperità condivisa fra tutti popoli del Mediterraneo.
Bisogna modificare, ampliare la nostra prospettiva di sviluppo verso orizzonti bi-direzionali: verso l'Europa e verso i Paesi mediterranei e zone contigue.
Il futuro della Sicilia, del Mezzogiorno italiano si gioca, in gran parte, nel Mediterraneo e s'intreccia con la realtà del Medio Oriente e con le grandi potenzialità dell'Africa che- si ritiene- influenzeranno lo sviluppo mondiale di questo nuovo secolo.
Da quanto si sa, nemmeno con tutte le fazioni libiche in lotta.
Perciò, non si riesce a percepire, (saranno segreti di stato?) se e quali soluzioni, efficaci e condivise, potranno essere varate per riportare la pace in Libia e nel Mediterraneo e ripristinare i rapporti di cooperazione con l'Europa, con l'Italia.
Avremo un'altra passerella propagandistica?
In caso affermativo, si brucerebbe forse l'ultima chance dell'Italia. L'eventuale fallimento dell'iniziativa potrebbe contribuire ad acutizzare il conflitto interno fra le fazioni, ad inasprire le logiche spartitorie interne e internazionali.
Non bisogna dimenticare che l'attuale unità territoriale libica fu imposta dal fascismo occupante e che, pertanto, la Libia potrebbe ritornare ad essere "triale" e così offrire il fianco alle grandi potenze "in attesa" di spartirsi questo immenso deposito naturale di petrolio e di gas (il primo in Africa) in zone d'influenza economica e politico-militare.
Speriamo bene. Ma visti i precedenti dilettantistici dei governanti italiani c'è da restare quantomeno perplessi sulla opportunità e sulla riuscita dell'iniziativa.
In ogni caso, bisogna ricordare ai signori che converranno a Palermo che la Sicilia ha subito un grave danno a seguito del rovesciamento violento di regime di Gheddafi: in termini di ulteriore militarizzazione, d'impatto dei flussi d'immigrazione irregolare, di riduzione delle attività di pesca e di lavoro qualificato colà operante, di vanificazione di tutte le piccole e medie iniziative economiche, ecc.
Danni seri che dovrebbero essere adeguatamente "risarciti".
La Sicilia, che nel passato ha svolto un ruolo importante nel sistema di relazioni italo-libiche, aspira a confermare tale ruolo nella nuova Libia che speriamo, prima o poi, verrà.
Da lungo tempo evidenziamo le potenzialità di cooperazione solidale e reciprocamente vantaggiosa fra la nostra Isola e la Libia e gli altri Paesi mediterranei.
La Sicilia, i siciliani vogliono la pace e non la guerra a due passi di casa. Solo in un contesto pacifico sarà possibile delineare nuove ipotesi di sviluppo e di prosperità condivisa fra tutti popoli del Mediterraneo.
Bisogna modificare, ampliare la nostra prospettiva di sviluppo verso orizzonti bi-direzionali: verso l'Europa e verso i Paesi mediterranei e zone contigue.
Il futuro della Sicilia, del Mezzogiorno italiano si gioca, in gran parte, nel Mediterraneo e s'intreccia con la realtà del Medio Oriente e con le grandi potenzialità dell'Africa che- si ritiene- influenzeranno lo sviluppo mondiale di questo nuovo secolo.
Riferimento mio libro "Nella Libia di Gheddafi" di cui si acclude l'indice e brani del capitolo XII "La Sicilia e la Libia".
https://www.amazon.it/NELLA-LIBIA-GHEDDAFI-Centro-Mediterranei-ebook/dp/B00DSQ1WEG
Indice
Una premessa necessaria 1
Cap. I
Chi era Gheddafi? 5
Cap. II
La Libia
che ha trovato e che ha lasciato 19
Cap. III
Dall’Euromed al “Cerchio Mena” 37
Cap. IV
Libia, un’insurrezione non fa primavera 47
Cap. V
La guerra per le materie prime:
l’economia del terrore? 61
l’economia del terrore? 61
Cap. VI
L’Italia e la guerra alla Libia 79
Cap. VII
La Libia
e la “prima Repubblica” 91
Cap. VIII Reagan
all’attacco del “pazzo di Tripoli ” 109
Cap. IX
L’archivio del PCI è vuoto 135
Cap. X
L’Associazione di amicizia italo - libica 157
Cap. XI
Aldo Moro: il vero artefice della svolta verso
il mondo arabo 171
il mondo arabo 171
Cap. XII
La
Sicilia e la
Libia 189
Un viaggio a Tripoli 211
Elenco dei nomi 261
Cap. XII
I libici in Sicilia: un’illusione mediterranea
1... C’era un tempo, non molto remoto, nel quale
Sicilia e Libia si guardavano con grande simpatia reciproca.
L’Isola, la più
grande del Mediterraneo, ha sempre attratto gli arabi per il suo splendido
passato islamico e per il suo inquieto presente autonomistico.
Attrazione che nasce
da fattori diversi, soprattutto di carattere storico, culturale, etnico. C’è,
addirittura qualche imam “nostalgico” che, ogni tanto, vaneggia un‘assurda
rivendicazione sulla Sicilia e sull’Andalusia le quali, avendo fatto parte
della “Dhar al Islam” ossia delle
terre dell’Islam, sono considerate territori irredenti.
Per quanto ci
risulta, questo non fu mai il pensiero di Gheddafi e di altri leader
nordafricani, ma solo di alcuni “benpensanti” che affollano le conferenze
dell’Organizzazione degli Stati islamici..
L’interesse libico
“ufficiale” per la Sicilia
fu eminentemente culturale, propagandistico direi, e si materializzò mediante
l’apertura a Palermo di un consolato e di un centro culturale editoriale.
Nel versante
orientale dell’Isola, a Catania, agiva, in solitudine, l’avvocato Michele Papa,
presidente di un’associazione di amicizia siculo- libica con annessa una
modestissima moschea, che teneva
contatti diretti con taluni ambienti del governo di Tripoli.
Fra Sicilia e Libia
l’interesse era reciproco. Tuttavia, era più evidente nelle classi dirigenti
isolane le quali, avendo bruciato le speranze suscitate dall’Autonomia
speciale, cercavano nella Libia di Gheddafi una sponda nuova (non più la
“quarta”, per carità) per capovolgere le coordinate dello sviluppo: dal nord,
che aveva deluso, al sud dei paesi rivieraschi e soprattutto alla Libia che
galleggiava sopra un mare di gas e di petrolio.
Dalla Jamahirja si
aspettavano capitali e commesse miliardarie e lavoro per gli operai e i tecnici
siciliani.
2... Soprattutto, dopo il viaggio (1977) a Tripoli
del presidente della Regione siciliana, on. Angelo Bonfiglio, da entrambe le
parti s’intensificarono i contatti, si svilupparono le iniziative per mettere
in atto alcuni progetti concordati durante la visita.
Le nuove relazioni
erano incentrate sul rapporto diretto tra la Re gione e l’ambasciata libica di Roma e il
governo di Tripoli.
Meno sul consolato
libico di Palermo che, a differenza di quello tu-nisino molto presente sulla
scena siciliana, non mostrava un grande interesse per le potenzialità esistenti
sul terreno della collaborazione siculo -
libica.
Anche gli
imprenditori preferivano trattare gli “affari” con l’am-basciata a Roma o
direttamente con Tripoli.
Insomma, un
comportamento anomalo, a tratti inspiegabile, che non siamo riusciti a
decifrare.
Ovviamente, tale
difetto di relazioni in terra sicula non ci impedì di fondare a Palermo, la
sezione regionale dell’Associazione di amicizia e cooperazione italo-araba che
intratteneva rapporti con tutti gli Stati arabi e quindi anche con la Libia.
Promotori furono i
rappresentanti dei tre principali partiti Pci (Spataro, Pernice, Ino Vizzini ),
Dc (Pumilia, Rino Nicolosi), Psi (Giacinto Lentini) e alcuni docenti
dell’Università di Palermo.
Fra questi ultimi,
oltre al prof. Umberto Rizzitano, eminente orien-talista, si mostrò molto interessato
il prof. Gianni Puglisi, preside della facoltà di Magistero, (attuale rettore
della Iulm di Milano) che un giorno ritrovai a Tripoli fra i partecipanti a un
simposio sul Mediterraneo, dove notai, con piacere, che si trovava a suo agio
anche negli ambienti tripolini.
L’Associazione
siciliana promosse alcune importanti iniziative, fra cui la prima “Conferenza nazionale sull’immigrazione
araba in Sicilia e in Italia”, svoltasi a Palermo e patrocinata dal
Ministero dell’interno che provvide anche a stamparne e a diffonderne gli
atti.
Subito dopo,
organizzammo, una “Conferenza sulla
cooperazione siculo-araba”, presieduta da Pancrazio De Pasquale e da
Piersanti Mattarella, rispettivamente presidenti dell’Ars e della Regione, alla
quale parteciparono gli ambasciatori della Lega degli Stati arabi e dei più
importanti paesi arabi rivieraschi del Mediterraneo (fra i quali Farouk Al
Shara, attuale vicepresidente della Repubblica siriana) e le principali
autorità siciliane, politiche e di governo, im-prenditori e associazioni
sindacali, rappresentanti delle università isolane.
Un’ottima iniziativa
internazionale che metteva la
Sicilia al centro di una nuova prospettiva di pace e di
cooperazione, senza fughe in avanti e rifuggendo da ogni tentazione “indipendentista”,
nell’ambito dei quadri d’indirizzo del governo italiano e della Cee.
Questa, e altre
iniziative (di cui diremo) fece storcere il naso alla Farnesina che riteneva di
dover esercitare l’assoluto monopolio delle attività internazionali.
Era quello il tempo
in cui si diceva, così per celia, che “la Sicilia aveva finalmente
una sua politica estera”.
Un controverso accordo tra Sicilia e Jamahirya
Si creò un clima di speranzosa attesa, un fervore
propositivo che indusse il presidente della Regione, il democristiano Angelo
Bonfiglio, a intraprendere, nel novembre del 1977, una visita uffi-ciale a
Tripoli nel corso della quale fu sottoscritto un protocollo d’intesa e
costituita una commissione mista siculo- libica per il coordinamento e
l’attuazione delle diverse ipotesi di cooperazione
individuate.
Come si legge nel
comunicato finale:“L’incontro avvenne a
Tripoli il 28 Dul al Kahadda 1397 H. corrispondente al giorno 8 novembre
1977…fra una delegazione della Jamahiriyah Araba Libica socialista presieduta
dal Fratello colonnello Younes Belgasem, segretario degli interni, e la
delegazione del Governo regionale siciliano presieduta dall’onorevole Angelo
Bonfiglio, nella sua qualità di Presidente della Regione…”
Le parti hanno esaminato le varie possibilità
per rinsaldare e svilupparla cooperazione al fine di conseguire il comune
vantaggio per i due popoli amici ed accrescere al contempo i reciproci vincoli
di amicizia…” [1]
Segue una lunga
lista di proposte da realizzare nei settori individuati nei quali dovrà
dispiegarsi lo sforzo di cooperazione: dalla società mista di pesca ad altre
per la produzione di magnesio, soda, maglieria, vetro, ecc; dalla
collaborazione nel settore agricolo a quello dei trasporti marittimi e aerei,
dalle relazioni culturali alla partecipazione delle imprese siciliane ai
programmi del Piano di sviluppo libico delle infrastrutture.
Il viaggio provocò
un certo clamore sulla stampa e una severa reprimenda pubblica del governo di
Roma che non riconosceva alla regione la potestà di firmare un trattato con uno
Stato estero.
La polemica
continuò, ma non fermò le visite di delegazioni di autorità e di operatori
economici.
Tutto pareva andare
a gonfie vele. La Libia ,
uno dei più importanti paesi petroliferi del mondo, posta a poche centinaia di
miglia dalle coste siciliane, si proponeva come partner privilegiato della
Sicilia per cooperare in diversi settori economici e culturali.
Una nuova
prospettiva si apriva per la
Sicilia , questa volta in direzione sud.
La “guerra del pesce” nel Canale di Sicilia
Buoni propositi e progetti ambiziosi, forse troppo, che, sul
finire degli anni ’70, subirono una forte frenata a causa dello scoppio nel
Canale di Sicilia della cosiddetta “guerra del pesce” tra l’Italia e la Tunisia e, dopo, anche con
la Libia.
In realtà, la
“guerra” era tra pescherecci mazaresi e autorità costiere tunisine le quali,
sovente, sequestravano natanti ed equipaggi perché ritenuti colpevoli di pesca
abusiva in acque di pertinenza tunisina. Talvolta, lamentavano gli armatori
mazaresi, i sequestri avvenivano anche in acque “internazionali” e pertanto a
tutti accessibili.
Una lunga e
tormentata controversia funestata da episodi tragici di cui furono vittime
diversi pescatori, molti tunisini immigrati, alcuni colpiti a morte dagli
uomini delle motovedette tunisine.
Nonostante i
contatti, gli incontri, le telefonate, anche ad alto livello, non si riusciva
a venirne a capo. La guerra continuava con nuovi sequestri.
C’era sempre
qualcosa che non quadrava. Quasi mai, per esempio, si riusciva a stabilire con
precisione il “punto nave” per individuare le eventuali responsabilità dei
siciliani o gli abusi dei tunisini. E così la “guerra” continuò per anni
secondo un andazzo ben sperimentato, quasi un rischio calcolato: i tunisini sequestravano
un peschereccio e i mazaresi pagavano una multa per il rilascio. Intanto, il
buon pesce del Canale continuava a sbarcare a Mazara e da lì raggiungere i
principali mercati italiani.
Più che una multa
appariva una sorta di “tassa sul pescato” imposta dai tunisini, in aggiunta
alle provvidenze concesse dal governo italiano con il trattato bilaterale di
pesca.
La situazione
precipitò dopo la scadenza (giugno 1979) dell’ac-cordo di pesca, col quale lo
Stato italiano praticamente comprava da quello tunisino una certa quantità di
permessi di pesca.
I sequestri, gli
inseguimenti delle motovedette erano all’ordine del giorno. Tuttavia, i
mazaresi continuavano a battere le coste tunisine. Erano costretti a farlo
poiché quelle siciliane erano state devastate e pertanto erano poverissime di
pesce.
Gli esponenti del
governo tunisino desideravano rinnovare il protocollo scaduto su basi più
avanzate ossia superando il tratto meramente monetarista per giungere a un
accordo di vera e propria cooperazione.
Per conto del Pci,
dell’associazione di amicizia, proponemmo di costituire una società mista di
pesca tra enti e operatori italiani (mazaresi) e tunisini che sarà costituita
successivamente, accendendo grandi speranze e qualche investimento.
Ma la “pace del pesce” stentava ad affermarsi.
Portammo la
questione all’attenzione del governo e del Parlamento, delle diplomazie.
Articoli, interrogazioni, mozioni, grandi dibattiti alla Camera e al Senato,
all’Assemblea regionale siciliana, incontri politici e tecnici ad alto livello,
ma con risultati molto modesti, quasi nulli.
Ogni tanto, mi
assaliva un dubbio atroce: e se nessuna delle due parti desideri un vero
accordo, una composizione controllata del contenzioso?
In fondo, quella
“guerra”, dichiarata, ma solo raramente combattuta, conveniva un po’ a tutti:
ai mazaresi che potevano spingersi a pescare fin sotto le pescose coste
tunisine (e libiche) e alle autorità tunisine che, attraverso le multe,
imponevano ai mazaresi una sorta di tassa sul pescato.
A conti fatti,
questo modus vivendi soddisfaceva
entrambi le parti, salvo poi, in caso d’incidente, richiedere l’intervento
politico e assistenziale dello Stato italiano.
Il “fronte” si sposta nella Sirte
1... Nel frattempo, il fronte della “guerra” si
era esteso alle acque della Libia, dove si diceva “i pesci muoiono di vecchiaia”.
Era successo- come
scrissi sul “Corriere della Sera”- che: “I
pescherecci siciliani, sottoposti alla severa vigilanza delle motovedette
tunisine, si sono spinti sempre più nelle acque libiche perché attratti da
zone molto ricche di pescato, non sempre adeguatamente sfruttate.”
L’armata (di pesca)
mazarese, la più grande d’Italia e del Mediterraneo, si spinse fin dentro le
acque del golfo della Sirte dove, per altro, insisteva un vecchio contenzioso
politico e militare a carattere internazionale.
Gli armatori
mazaresi, forse, pensarono di poter replicare in Libia il “modus vivendi”
sperimentato in Tunisia. Così non fu. Il 1979 sarà un anno nero per la
marineria mazarese.
I libici
procedettero, con metodi sbrigativi, a una serie di sequestri di pescherecci
(uno o più di uno il mese), di arresti e relativi processi con condanne anche
pesanti a carico dei capitani e degli equipaggi.
Le famiglie dei
pescatori trattenuti in Libia vennero a Roma, a manifestare davanti al
Parlamento a chiedere l’immediato intervento del governo e delle forze
politiche per far tornare a casa i loro congiunti.
La destra
neofascista profittò del clima di tensione e di polemiche per riproporre il suo
vecchio, sciagurato ritornello dell’intervento delle Forze armate per liberare
i prigionieri e dare una lezione al “pazzo
di Tripoli”.
Il contrario di
quanto la situazione richiedeva. Anche perché non era escluso che i pescherecci
avessero, effettivamente, oltrepassato i limiti delle acque che i libici
consideravano nazionali. Più che per combattere la pesca abusiva, i libici
reagirono con tanta severità poiché consideravano la presenza dei pescherecci
mazaresi nel golfo della Sirte una violazione del loro “diritto” di sovranità,
contestato sul piano internazionale. La qualcosa complicava enormemente le
cose.
2... Non era per nulla agevole potere stabilire la
verità dei fatti, poiché ciascuna delle due parti riteneva di essere con le
carte in regola: i pescatori siciliani di pescare in acque internazionali e i
libici di sequestrare i natanti perché erano sconfinati nelle loro acque nazionali.
Ricordo che, in
occasione di uno dei tanti sequestri, in una riunione ristretta svoltasi al
Ministero della marina mercantile all’Eur, chiesi a uno degli alti ufficiali
della Marina presenti se, in base ai loro rilevamenti dei punti- nave,
potevano considerarsi credibili le accuse libiche e tunisine di uno
sconfinamento dei nostri pescherecci nelle loro acque nazionali.
“Quasi sempre, è così - rispose l’ufficiale- ma, certo, non possia-mo comunicarlo ai giornali”
La situazione era
dunque un po’ più complicata di com’era rappresentata dagli interessati, dai
politici e dalla stampa locale.
Perciò, notai nel
citato articolo sul “Corriere della Sera” che:
“per eliminare la pericolosa tensione nel
Canale di Sicilia e restituire ai pescatori la sicurezza nelle loro attività
era da escludere il ricorso a misure di tipo militare e lavorare per allargare
le basi della collaborazione…il governo italiano, la Cee , partendo dai problemi
apertisi con la Tunisia ,
dovrebbero predisporre un’organica intesa di cooperazione nel campo della
pesca, ricercando l’accordo con la
Libia e con l’Algeria…” [2]
Il problema era
drammaticamente aperto. In Libia, oltre ai pescherecci sequestrati, restavano
in carcere undici pescatori e due capitani (condannati in primo grado), mentre
dieci membri dell’equi-paggio
dell’ultimo peschereccio sequestrato (il “Francesco I”) erano agli arresti
domiciliari nei locali attigui la sede della nostra Ambasciata di Tripoli, in
attesa di processo.
3... Il governo italiano, lo stesso Presidente
della Repubblica, Sandro Pertini, avevano svolto alcuni passi sulle massime
autorità libiche per ottenere il rilascio dei natanti e il rientro a casa
degli equipaggi trattenuti o in carcere.
Questo tipo
d’intervento, che solitamente funzionava con le autorità tunisine in cambio di
una multa esosa, con i libici non diede alcun risultato. Prima di concedere un'
eventuale grazia, bisognava attendere l’esito dei processi. Questa era la
risposta dei libici.
Come scrissero i
quotidiani siciliani, l’ultima speranza per un pron-to rientro era appesa al
viaggio di alcuni parlamentari (Agostino Spataro e Giuseppe Pernice, ex sindaco
di Mazara del Pci e Michele Achilli del Psi) in partenza, a fine agosto del
1979, per Tripoli per partecipare alle celebrazioni del X anniversario della
rivolu-zione. Le famiglie dei pescatori, che erano venute a protestare a Roma
senza esito, rivolsero le loro speranze al nostro viaggio.
I media
enfatizzarono la nostra missione, per altro meramente rappresentativa, scrivendo
che avendo noi “buone entrature” col regime, potevamo, in occasione di questa
felice ricorrenza, convincere Gheddafi a fare un atto di clemenza.
“L’Ora” di Palermo scrisse
che: “Due deputati comunisti Spataro
e Pernice andranno a Tripoli anche per parlare dei pescatori siciliani che si
trovano attualmente detenuti nelle carceri libiche. L’ambasciatore del paese
africano a Roma ha assicurato i due deputati comunisti circa la possibilità di
un incontro con i pescatori detenuti”.
Nei giorni successivi (12/9), il “Giornale di Sicilia” si
mostrò più fiducioso circa l’intenzione del leader libico di “liberare i 23
pescatori mazaresi detenuti, ma considera necessario legare tale passo ad un
ulteriore sviluppo dei rapporti di cooperazione e di amicizia italo-libici…
Questo il succo
di alcune dichiarazioni rilasciate dallo stesso Gheddafi e da altissimi
esponenti libici nel corso di un ricevimento tenuto a Tripoli in occasione
della celebrazione del decimo anniversario della rivoluzione, alla presenza
dell’ambasciatore italiano conte Aldo Marotta e di tre esponenti politici
Giuseppe Pernice ed Agostino Spataro del Pci e Michele Achilli del Psi”. [3]
4... Per i giornali (anche loro adusi ai
flessibili comportamenti dei tunisini) la liberazione dei due capitani e dei
21 pescatori mazaresi era cosa fatta e imminente. Giunti a Tripoli, presto ci
accorgemmo che le cose non erano così facili. I nostri interlocutori, ai
diversi livelli di responsabilità, insistettero sulla necessità della
conclusione dell’azione giudiziaria in corso.
“Anche Pertini- sostennero- deve attendere la sentenza prima di concedere la grazia a un
condannato”
Rifiutarono anche la
nostra richiesta di potere incontrare in carcere i due capitani e gli undici
pescatori detenuti. Incontrammo i dieci pescatori più fortunati, posti agli
arresti domiciliari presso l’ambasciata italiana. Fu con loro che più volte
parlammo e apprendemmo delle dure condizioni di vita nelle carceri
libiche.
Ricordo uno di loro,
che stava preparando gli spaghetti nei locali della dipendenza dell’ambasciata,
il quale mi confidò:“Veda, qui siamo con
una branda e una cucina da campo, ma mi sento in paradiso a confronto con il
carcere libico, anche se vi sono stato per
pochi giorni. Questo è il paradiso, quel carcere è l’inferno! Guai a chi
vi capita! Ti gettano in un gabbione sotterraneo, umido e affollato – ci puoi
trovare anche 20/25 detenuti e buttano la chiave. Vengono ad aprire due volte
al giorno con una scodella di zuppa rancida…Signuri scansatinni!”
5... L’argomento del rispetto dell’azione
giudiziaria aveva un fondamento, ma, forse, non era insormontabile. Dai
colloqui con i dirigenti libici (Shahati, Hamdi, ecc), l’’impressione che traemmo
fu quella che stessero “usando” i 23 detenuti siciliani come punto di forza per
esercitare pressioni sul governo italiano al fine di chiudere alcune questioni
del contenzioso bilaterale.
Tuttavia, il problema
era stato posto, oltre che da noi, anche dai rappresentanti di altri partiti,
dal governo, dal parlamento, dalla regione siciliana. I libici non avrebbero
potuto far finta di nulla.
Una conferma di
tale, ampia convergenza si ebbe nel corso del dibattito alla Camera sulle
interpellanze e interrogazioni presentate da tutti i gruppi parlamentari.
Illustrai in Aula
l’interpellanza del gruppo comunista (200010) a firma di Pio La Torre , Giuseppe Pernice e
Agostino Spataro.
“È opportuno chiarire dinnanzi al Parlamento
e al Paese, agli occhi delle famiglie dei 23 pescatori mazaresi detenuti in
Libia, che da diversi giorni sostano davanti il portone del Palazzo di Montecitorio,
che la concessione, speriamo immediata, del provvedimento di grazia non eliminerà
le tensioni e i pericoli di nuovi incidenti con la Libia , la Tunisia e Malta. La
questione di fondo, quella della sicurezza e della continuità delle attività
della flotta peschereccia di Mazara del Vallo, la più importante d’Italia,
resta drammaticamente aperta e irrisolta…Sotto questo profilo, l’azione dei Governi
è stata carente e intempestiva e comunque inadeguata rispetto all’urgenza e
alla gravità delle diverse questioni… Non si registrano risultati apprezzabili
nemmeno sull’andamento dei lavori della commissione mista italo libica sulla pesca, insediata in occasione
della visita in Italia del ministro degli esteri, Triki, che dovrebbe, fra
l’altro, affrontare il problema della costituzione delle società miste per come
richiesto, da tempo, dal governo libico...”
Sul fronte degli
accordi di pesca le trattative con i paesi rivieraschi (Tunisia, Algeria, Marocco e Malta) erano
bloccate, mentre con la Libia
non erano nemmeno iniziate.
“Questa
situazione di stallo chiama in causa, direttamente, la responsabilità della
CEE e del governo italiano il quale, in assenza di una vera politica della
pesca, ha consentito il saccheggio dei nostri fondali senza preoccuparsi di
assicurare alla nostra flotta peschereccia quegli spazi che, solo attraverso
nuovi accordi di cooperazione con i Paesi frontalieri, si possono ottenere”.
Il Mediterraneo, questo grande e generoso
mare, punto d’incontro di grandi civiltà, sede feconda, da tempi immemorabili,
d’importanti traffici e commerci, diventa sempre più piccolo e avaro di risorse…Ogni
Stato che vi si affaccia tende ad estendere il limite delle acque territoriali,
il mare è sempre più una ricchezza contesa…”
“La strada che bisogna percorrere, con
urgenza e coerenza, è quella di ricercare nuovi accordi di pesca con i paesi
frontalieri, basati sulle società miste e improntati a spirito di leale cooperazione,
in cui possano convergere strutture, tecnologie ed esperienze italiane e
ricchi fondali, mercati e capitali degli altri Stati contraenti…” [4]
Nonostante le manifestazioni
popolari a Mazara, i viaggi della speranza delle famiglie a Roma, il rilascio
che pareva nell’aria stentava a…scendere in terra. I pescatori restavano in
Libia, detenuti in attesa di processo.
Per quanto riguarda il Pci, continuammo a sollecitare un atto di
clemenza (intervennero anche Pajetta e Berlinguer) sia presso l’ambasciata
libica a Roma sia presso le autorità politiche e di governo a Tripoli.
Dopo qualche mese, i
pescatori furono rilasciati. Restarono in carcere soltanto i due capitani.
6... Durante questi mesi concitati, ebbi diversi
incontri con l’ambasciatore Ammar el Tagazzi. In uno dei quali, tenutosi ai
primi di novembre 1980, si parlò del rilascio dei due capitani e, più in generale,
di nuove ipotesi di cooperazione italo
libica nel campo della pesca.
All’incontro fu dato
un carattere di ufficialità e fu emesso un comunicato conclusivo congiunto che
sarà pubblicato da vari quotidiani, tra cui “l’Ora” di cui riporto alcuni brani:
“Le ipotesi di cooperazione italo libica nel settore della pesca e i problemi
connessi al rilascio dei due capitani mazaresi tuttora trattenuti in Libia sono
stati al centro di un colloquio tra l’on. Agostino Spataro, membro del Comitato
direttivo del gruppo parlamentare comunista e della commissione esteri della
Camera, e il signor Ammar el Tagazzi, segretario del comitato popolare libico
di Roma (leggi ambasciata).
…Come aveva fatto qualche mese addietro,
sempre su richiesta del deputato del Pci, per la liberazione dei 21 pescatori,
il rappresentante libico ha assicurato il suo impegno per favorire il rilascio
dei due capitani dopo che saranno esperite le procedure giudiziarie. Il signor
Tagazzi ha espresso la fiducia che presto i due uomini potranno tornare in
patria…” [5]
Dopo qualche tempo,
anche i due capitani rientrarono a casa, ma il problema dei rapporti di pesca
con la Libia
rimaneva aperto, insoluto.
A Palermo il primo periodico bilingue arabo - italiano
Questi erano il clima e i problemi che caratterizzavano i
rapporti siculo - libici negli anni ’70 e ’80.
La guerra civile ha
mostrato il volto di un sistema morente, degenere. Ma non fu sempre così. Come
detto, nel suo primo ventennio il regime non appariva così corrotto, dispotico
e familistico, ma seriamente impegnato, anche se con qualche eccesso, ad
attuare gli ideali e gli obiettivi sociali della “rivoluzione”.
La gente apprezzava
il suo carattere popolare, condivideva il progetto di radicale cambiamento
basato su una distribuzione più equa della rendita petrolifera.
Insomma, grazie al
petrolio (abbondante e di ottima qualità e di più agevole trasportabilità) la Libia presto divenne un
enorme cantiere, un mercato interessante per le nostre manifatture, una grande
opportunità di sviluppo anche per la Sicilia.
Imprese, lavoratori e
tecnici siciliani furono tra i primi a intuire quelle potenzialità e a tentare
di cogliere le disponibilità dichiarate dai dirigenti libici.
Tutti in Libia,
dunque, e sempre accolti come ospiti graditi, anche quando si trattava di
esponenti dell’indipendentismo.
Seppure con prudenza per evitare confusioni con soggetti
chiac-chierati, la sinistra siciliana si mostrò interessata alla nuova realtà
in fermento sulla costa sud del Mediterraneo, nella nostra ex colonia. Il
quotidiano palermitano“L’Ora”di Vittorio
Nisticò colse l’importanza di tale apertura e decise di accompagnare il
processo di mutua comprensione politica e culturale e di sostenere i progetti
di cooperazione economica tra la
Sicilia e la
Libia e, in generale, con altri Paesi arabi frontalieri con
una serie di reportages, interviste ai protagonisti di tale dialogo.
Per dare organicità
e periodicità all’impegno editoriale, “l’Ora”
realizzò un inserto bilingue (arabo- italiano), il primo in Italia e in
Europa, curato dalla pasionaria Kris
Mancuso, al quale collaborarono diversi intellettuali arabi (fra cui Samir
Amin, Bichara Khader, Magdi Allam, attuale deputato europeo, ecc) e alcune fra
le più prestigiose firme dell’orientalismo italiano).
L’inserto
palermitano aprì una finestra sul mondo arabo e diede un grande impulso allo
scambio delle informazioni e alle iniziative economiche e culturali fra la Sicilia , la Libia e gli altri paesi
rivieraschi.
Lo squattrinato Billy Carter in mano a due compari catanesi
Come sempre succede nelle situazioni un po’ caotiche,
taluni profittarono del nuovo clima di amicizia siculo-libica per realizzare
affari privati senza averne titoli e/o per dare sfogo in Libia a certe
frustrazioni secessioniste che in Sicilia erano cadute in disuso.
Nell’apparato libico
c’era, infatti, una corrente che dava corda a si-mili tendenze, inconsistenti
quanto imbarazzanti, a personaggi che creavano equivoci e disagi sul piano
politico.
Fra questi,
l’avvocato Michele Papa di Catania. Un personaggio piuttosto colorito che svolse
un certo ruolo anche nella famosa vicenda del “Billygate”ossia del rocambolesco viaggio a Tripoli, nell’ottobre
del 1978, di Billy Carter, fratello di Jimmy, presidente in carica degli Stati
Uniti d’America.
Tramite il Papa, la
connessione Catania- Tripoli raggiunse la città di Atlanta (Usa), dove un certo
Mario Leanza, un immobiliarista di origine catanese, riuscì ad adescare lo
squattrinato Billy.
Il Leanza,
intrigando con il compaesano avvocato, condusse Billy a Tripoli dove, in cambio
di un prestito (non rimborsabile?), si ab-bandonò a elogi sperticati del
regime libico che suo fratello pre-sidente aveva duramente condannato e messo
all’indice.
La presenza di Billy
alle manifestazioni per il X anniversario della rivoluzione, svoltasi a Bengasi
il 1° settembre 1979, fu un' occasione troppo ghiotta per dimostrare ai libici
e al mondo intero le contraddizioni del potere imperialista della Casa Bianca,
per ridicolizzare le posizioni anti Gheddafi del presidente Carter.
L’agenzia libica
Jana (Jamahiriya News Agency) segnalò
l’arrivo, in pompa magna, di Billy indicato al primo posto della lista delle personalità
e delle delegazioni straniere:
“A capo di una importante delegazione
popolare americana, mister Bily (sic!) Carter è arrivato ieri sera all’aeroporto
di Benina (Bengasi). M. Bily Carter e la delegazione parteciperanno ai festeggiamenti
del 10° anniversario della rivoluzione del 1° settembre. La delegazione
americana è stata accolta all’aeroporto dal segretario del Comitato popolare
della municipalità di Bengasi e dai rappresentanti del segretariato degli
affari esteri…” [6]
In quei giorni, a
Bengasi, lo stravagante (ma non tanto, come vedremo) Billy ebbe il suo momento
di gloria: rilasciò interviste ai giornali e alle tv, firmò autografi, si lasciò
fotografare a ogni passo, incontrò importanti personalità del regime, gli
studenti dell’università.
Ovviamente,
partecipò alla parata militare, abbronzatissimo e col suo vistoso cappello da
cowboy. Gheddafi lo volle accanto a se sul palco d’onore.
Billy Carter: da Atlanta a Tripoli, passando per Catania
1... Sulle prime, dei viaggi di Billy in Libia un
po’ tutti ci facem-mo un’idea un po’ naif ossia quella di uno squattrinato,
amante dell’alcool e della pubblicità a buon mercato, che andava da Ghed-dafi
per fare un dispetto al fratello Presidente che non l’aveva aiutato a risolvere
le sue difficoltà finanziarie.
In realtà, dalla
ricostruzione di quei viaggi fatta da John K. Cooley viene fuori un ruolo meno
folkloristico, perfino molto patriottico del fratello del Presidente Usa.
Secondo Cooley,
tutto cominciò con “un viaggio (nel marzo
1978) di Mario Leanza, immobiliarista di origini catanesi operante ad Atlanta,
a Catania dove “conobbe anche l’avvocato di una società siciliana, un certo
Michele Papa, che era fondatore dell’associazione siculo araba che aveva stretti legami con i libici
sin dai pri-mi anni del regime Gheddafi. Papa propose che Leanza convincesse
Billy Carter ad andare in Libia, perché la cosa avrebbe dato esiti positivi.” [7]
In ballo c’erano affari
importanti fra Usa e Libia, fra cui la vendita di alcuni Boeing 727 la cui
consegna era stata bloccata dall’ammi-nistrazione Ford.
Vigendo quel
divieto, la nuova amministrazione (Carter) non poteva intraprendere, per vie
ufficiali e formali, relazioni con il regime di Tripoli per sbloccare gli
affari pregressi.
Fu così che alla
Casa Bianca pensarono di profittare delle relazioni del fratello del Presidente
con alcuni alti funzionari libici per tentare di stabilire un contatto utile
alla ripresa dei rapporti commerciali.
“Il presidente Carter insisté nell’affermare
che non sapeva nulla di quel viaggio prima che Billy partisse. Il dipartimento
di stato, però, era a conoscenza del progetto. Telegrafò, infatti, a William
Eagleton, incaricato d’affari Usa a Tripoli, perché desse a Billy le opportune
delucidazioni, al suo arrivo là…” [8]
All’aeroporto di
Tripoli, a ricevere la delegazione americana, che aveva sostato a Roma per fare
un po’ di baldoria e per incontrare i due promotori catanesi (Leanza e Papa),
si erano scomodati Eagleton, reggente dell’ambasciata Usa, e il viceministro
degli esteri li-bico Ahmed Shahati. Più
ufficiale di così!
2... I colloqui di Billy con i dirigenti libici
andarono bene, tanto che come nota Cooley “l’ignaro”
presidente Carter passò un telegramma di Eagleton a Billy dopo che questi era
tornato a Washin-gton, con una nota di
suo pugno:“A Billy, sei stato bravo in con-dizioni di “astinenza”.
Tutto pareva andare
per il meglio, quando, improvvisamente, in Uganda scoppiò la guerra civile.
Gheddafi, che
parteggiava per Idi Amin, inviò a suo sostegno trup-pe e aerei, compresi alcuni
vettori dell’aviazione civile per il tras-porto di soldati e feriti.
A questo punto -
scrive Cooley- “il dipartimento di Stato
non poté fare altro che considerare i 727 per la Libia , che erano in costruzione,
come mezzi aventi applicazione militare potenzialmente importante. Nel maggio
1979, il dipartimento di Stato ne vietò l’es-portazione e gli aerei non
lasciarono mai gli Stati Uniti”.
Tuttavia, mentre ciò
accadeva, si consolidavano i rapporti di Billy con i funzionari libici.
“Billy Carter e Shahati stavano diventando
celebrità della televisione, poiché apparivano insieme nei programmi della
ABC. Ma, come ricordava suo fratello presidente, Billy si era dato sempre più
al bere, tanto è vero che dalla fine di febbraio 1979 dovette essere
ricoverato diverse volte in ospedale per sottoporsi a terapie di disintossicazione…”
[9]
Con questi
precedenti e prerogative, Billy intraprese, alla fine di agosto 1979, un nuovo
viaggio in Libia ufficialmente a capo“della
delegazione popolare americana” per partecipare al 10° anniversario, in
realtà per “trattare un prestito di 500
mila dollari con la Lybian Arab
Foreing Bank”.
Billy, rosso e
pimpante come un ragazzino, sorridente sotto il suo cappello da cowboy, si
presentò sul palco d’onore della parata militare di Bengasi. Su quel palco
c’ero anch’io e vidi la scena del suo arrivo “accompagnato dalla moglie Sybil, dal figlio Buddy e altri amici tra cui
Coleman…In quell’ occasione il fratello del presidente Carter fu fotografato
accanto a Gheddafi e con altri ospiti ufficiali come Yasser Arafat e altri
esponenti della guerriglia palestinese”.
Le foto con
Gheddafi, le dichiarazioni di amicizia e di solidarietà col popolo libico del
fratello del presidente Usa diedero la stura a una campagna mediatica
internazionale molto imbarazzante per Jimmy Carter e per la sua amministrazione
che cercavano, disperatamente, di prenderne le distanze.
Tuttavia, ben
presto, il presidente Carter avrà bisogno dell’aiuto dello squattrinato
fratello che pregò d’intervenire presso i dirigenti libici al fine di
convincerli ad esercitare pressioni su Khomeyni e sui dirigenti iraniani per
liberare gli ostaggi americani sequestrati
dai “guardiani della rivoluzione” nei locali dell’ambasciata Usa di
Teheran.
Era a tutti chiaro,
in Usa e nel mondo, che sugli esiti di quel clamoroso sequestro Jimmy Carter
si giocava la rielezione. Perciò il suo staff esplorò tutte le vie per trattare
un accordo onorevole con i governanti della repubblica islamica d’Iran.
Si mobilitò perfino
la moglie del presidente che: “Il 19
novembre la signora Rosalynn Carter telefonò a Billy da Camp David. Gli chiese
se i suoi amici libici sarebbero potuti
intervenire per far liberare i
prigionieri americani a Teheran. Quindi la signora informò il marito che Billy
aveva assicurato di poter fare qualcosa. Il presidente telefonò allora a
Brzezinski, il quale a sua volta chiamò Billy…Non passò molto tempo e “la
segreteria affari esteri a Tripoli emise una dichiarazione formale in cui si diceva che “a nostro avviso gli
ostaggi dovrebbero essere liberati…” [10]
In realtà, gli
ostaggi non furono liberati. Non sappiamo se, con quel rifiuto, gli ayatollah
vollero punire il candidato democratico Carter o favorire il suo avversario
repubblicano Ronald Reagan.
Investimenti libici: vietati in Sicilia e benvenuti al
Nord
1... Il coinvolgimento di Michele Papa in questo
oscuro episodio, ci indusse a prendere definitivamente le distanze da lui. Fino
al punto che quando (1984) si trattò di
formulare i nomi della delega-zione italiana per partecipare, a Tripoli,
al XV anniversario, chie-demmo a Shalgam di non includere l’avvocato catanese.
Per altro, in quei
giorni nella capitale libica, c’era la sen. Susanna Agnelli, sottosegretario
agli affari esteri, in rappresentanza del governo italiano, con la quale la
delegazione italiana ebbe diversi mo-menti di conversazione e di piacevole
ristoro di fronte le incantevoli rovine di Leptis Magna.
Ovviamente, la
senatrice era venuta anche per conto della famiglia Agnelli che aveva tanti
interessi in Libia, tra cui, in quel momento, un cantiere dell’Impregilo
(partecipata del gruppo Fiat) che stava costruendo a Homs un porto militare che
ci parve troppo grande per le esigenze della marina libica.
Effettivamente, il
nome di Papa non comparve nella lista degli invitati della delegazione
italiana.
Per tutta risposta,
l’avvocato approntò una sua delegazione che alla reception dell’albergo si
dichiarò di nazionalità “siciliana”.
A parte questi
episodi, le relazioni fra la
Sicilia e la
Libia proseguirono con altre visite tra cui quella del
presidente della regione Rino Nicolosi, rimasta famosa più per il “bacio” a
Gheddafi che per gli accordi sottoscritti. Un’effusione molto contestata e
inopportuna.
A conti fatti, i rapporti
fra Sicilia e Libia furono intensi ma poco proficui. Nessun progetto proposto
dalla Sicilia sarà realizzato. Anche perché, c’era un’ostilità preconcetta da
parte del governo centrale verso gli investitori libici (generalmente compagnie
di Stato) che desideravano operare in Sicilia.
2... I grandi investimenti libici potevano
tranquillamente appro-dare al Nord (in Fiat e in alcune importanti banche
italiane), ma non in Sicilia. Segnatamente, nell’isoletta di Pantelleria, dove la National Investment
Company, una controllata della Libyan Arab Foreing Bank, aveva acquistato
alcuni terreni, già dotati di conces-sioni edilizie, per la costruzione di
alcuni alberghi e insediamenti turistici.
Mentre in Sicilia, a
Pantelleria si festeggiava l’arrivo degli investimenti della Libia e del
Kuwait, da Roma giunse la doccia fredda che gelò ogni entusiasmo: quelle
società non potevano realizzare i loro progetti, già approvati dagli organi
amministrativi locali, perché avrebbero violato- questa fu la motivazione- le
norme di una legge di epoca imperiale fascista del 1935 che vietava gli investimenti
stranieri nelle isole minori italiane.
Quasi che uno o più
alberghi libici potevano essere comparati a insediamenti militari.
Un’imposizione che
apparve da un lato prevaricante verso i poteri speciali primari della Regione
siciliana e discriminatoria verso i libici e i kuwaitiani giacché in altre
isole minori italiane erano presenti investimenti, turistici e d’altra natura,
di capitali tedeschi, francesi, inglesi, ecc.
Perciò, presentammo
interrogazioni ai governi di Palermo e di Ro-ma per chiedere le vere ragioni
del divieto e, se per caso, come a noi sembrava, non nasceva dal fatto che
Pantelleria fosse destinata a diventare una piazzaforte militare italiana e
della Nato e per tale ragione non si
consentiva agli investitori libici di potere realizzare i loro progetti.
3... La vicenda divenne un nuovo elemento di
contrasto fra Stato e Regione, di confronto fra le forze politiche ed
economiche e, naturalmente, oggetto di polemiche sulla stampa locale e
nazionale.
“La Repubblica ” le dedicò un pezzo piuttosto allarmato nelle pagine economiche.
“I libici lasciano Pantelleria. I ripetuti
dinieghi delle autorità ai loro progetti di sviluppo turistico li hanno
convinti che è meglio portare i loro capitali in America, in Inghilterra, in
Germania dove dicono ci fanno ponti d’oro.
Hanno avuto la netta sensazione di non essere
graditi a Pantelleria. Le autorità italiane avrebbero fatto valere perfino una
legge che fa divieto di edificare immobili nelle isole minori; una legge del
1935 che non viene applicata ad altri investimenti stranieri…Qualche sospetto
più preciso ce l’ha il Pci. Alcuni deputati comunisti siciliani hanno interrogato
il governo di Roma (il riferimento
era alla nostra interrogazione alla
Camera, n.d.r.) per sapere se le difficoltà frapposte ai
libici potrebbero nascere dal fatto che all’isola è stato assegnato un futuro
militare…” [11]
A causa di questa
impuntatura, il progetto turistico abortì sul nascere e i libici spostarono i
loro investimenti verso le piazze tradizionali di Londra e Zurigo e, per
quanto riguarda l’Italia, continuarono a investire al Nord, sulla rotta Roma,
Milano, Torino.
In Sicilia di libico
ci sono rimaste tante illusioni e enormi quantità di gas e di petrolio che
raffiniamo e trasportiamo al Nord per far girare l’economia di quelle regioni.
Galeotta fu la lettera di Gheddafi a Nicolosi…
Sui rapporti Sicilia - Libia si è tanto discusso e
scritto, a proposito e a sproposito. In realtà, come già detto, non è successo
nulla di veramente considerevole, salvo qualche scambio di delegazioni e qualche
messaggio.
Nel clima di
pregiudizio e di tensione, artatamente creato, anche tali banali attività
facevano storcere il naso a ministri e consiglieri, a molti esponenti di centro-destra.
Clamoroso fu il
disappunto manifestato dal ministro della Difesa, sen. Giovanni Spadolini, a
proposito di una lettera, dai toni pacifici e collaborativi, inviata dal
colonnello Gheddafi al presidente della regione siciliana Rino Nicolosi.
Spadolini, che
rifiutava il dialogo con il mondo arabo progressista mentre accettava tutto
quanto (anche le più truci rappresaglie) veniva dai governanti d’Israele,
dichiarò al quotidiano “La
Sicilia ” che, a parte il merito del messaggio, Nicolosi “aveva il preciso dovere di rimettere il
messaggio al ministro degli Esteri”. [12]
Non era chiaro se,
secondo la pretesa del ministro, il presidente della regione, letto il nome del
mittente, avrebbe dovuto inoltrare la lettera alla Farnesina, senza nemmeno
aprirla.
Un’assurdità che,
come dimostrai con un articolo sullo stesso giornale (“La Sicilia ”
del 29 gennaio 1986), non stava né in cielo né in terra e tantomeno
nell’ordinamento italiano vigente.
La polemica di
Spadolini apparve talmente capziosa da indurre il titolare della Farnesina,
l’on Giulio Andreotti, a intervenire, pubblicamente, per placarla. Egli,
infatti, se ne uscì con una delle sue solite battute ironiche, dal tono icastico:
“non si può impedire a un presidente di
regione di ricevere una lettera da un’autorità straniera”.
Nessuno capì la
logica dell’intervento censorio del senatore Spadolini. Infatti, non si poteva
contestare al presidente di una regione, per altro dotata di un’autonomia molto
speciale, il diritto a ricevere un messaggio, di amicizia e di pace, da parte
di un capo di Stato frontaliero col quale l’Isola intratteneva buoni rapporti
sul piano economico e commerciale.
Probabilmente, il
ministro della Difesa era rimasto seccato per questa missiva dai toni
distensivi, amichevoli che contraddiceva i suoi frequenti sermoni per
convincere il Parlamento e l’opinione pubblica sulla necessità (non suffragata
da fatti concreti) di rafforzare gli avamposti militari presenti in Sicilia,
per mostrare anch’egli (nello stile reaganiano) a Gheddafi i “muscoli” che non
aveva.
Il contorto
ragionamento di Spadolini si basava sul timore che l’opinione pubblica italiana
non avrebbe più capito la necessità del riarmo contro uno Stato vicino il cui
leader si rivolgeva all’Italia e alla Sicilia con parole di pace e di cooperazione.
Due ministri di Paternò che fecero l’impresa libica
Nella storia ultrasecolare dei rapporti italo-libici un
certo ruolo l’hanno giocato anche talune personalità politiche siciliane, in
particolare del catanese. Ovviamente, non mi riferisco all’avvocato Papa, di
cui ho detto, ma a due esponenti politici originari di Paternò, trovatisi ai
vertici di dicasteri- chiave in occasione delle due avventure belliche italiane
in Libia (1911 e 2011).
Insomma, due
paternesi che fecero l’impresa…libica.
Il primo fu il sen.
Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano, ministro degli esteri di
Giolitti (dal 1910 al 1914, anno della sua morte). Nato a Catania (nel 1852)
discendeva da un' antica famiglia originaria, come il cognome stesso
suggerisce, di Paternò.
Capostipite fu il
nobile catalano Roberto D’Embrun che, nel 1070, partecipò alla conquista
normanna della Sicilia ottenendo i feudi di Paternò e di Buccheri.
La figura del sen.
Paternò caratterizzò talmente il post risorgimento siciliano da indurre
Federico De Roberto a immortalarla nel suo grandioso romanzo politico“I Vicerè” sotto le spoglie del principe
Consalvo Uzeda di Francalanza.
Il San Giuliano legò
il suo nome all’occupazione coloniale italiana della Libia e delle isole del
Dodecaneso. Memorabile rimase l’ulti-matum trasmesso, il 27 settembre 1911,
alla Sublime Porta col qua-le s’ingiungeva al governo ottomano di abbandonare la Libia entro 24 ore e senza
condizioni.
Una dichiarazione di
guerra pretestuosa, immotivata nella quale si annunciava l’occupazione
italiana, da tempo decisa, affinché (cito dal testo) “giunga a fine lo stato di disordine e di abbandono in cui la Tripolitania e la Cirenaica sono lasciate
dalla Turchia…”
Insomma, buoni
propositi e cattive maniere. L’Italia occupò la Li bia per far rispettare l’ordine pubblico in
quel paese!
In realtà, il
ministro siciliano, forte di un accordo spartitorio con Francia e Gran
Bretagna, rifiutò ogni proposta di chiarimento, ogni offerta di concessioni da
parte turca e puntò dritto alla guerra, intimando al governo imperiale di dare
“gli ordini occorrenti affinché essa (l’occupazione
militare n.d.r.) non incontri, da parte
degli attuali rappresentanti ottomani, alcuna opposizione…” [13]
Il resto è noto. Il
4 novembre i contingenti italiani sbarcarono a Tripoli.
Ma, si sa, in guerra
è facile entrarvi, ma è difficile uscirne. Difatti, quella guerra durò oltre
venti anni. Per domare l’accanita resistenza delle tribù libiche, Mussolini,
agli inizi egli anni ’30, diede carta bianca al generale Graziani il quale la
spense ricorrendo ad azioni di straordinaria ferocia, compresi i bombardamenti
con i gas letali.
Altri tempi, altri
uomini! O forse no. È passato un secolo da quegli avvenimenti.
A distanza di un
secolo, l’Italia è entrata di nuovo in guerra con la Libia. Questa volta
senza dichiararla. Fra le due guerre (del 1911 e del 2011) la differenza
sostanziale sta in un “neo”, nel senso che la prima fu una guerra coloniale,
mentre la seconda è stata di stampo neocoloniale.
E così, un altro
prode paternese, l’on. Ignazio La
Russa , ministro della guerra, pardon della difesa, rampollo
di una dinastia neofascista che si è fatta a Milano, è venuto alla ribalta
della scena bellica e mediatica per avere messo a disposizione degli
interventisti della Nato le basi, le strutture logistiche, i reparti aerei di
stanza in Sicilia.
In questa veste
marziale, in verità un po’ trasandata, gli italiani, in particolare i
siciliani, l’hanno scoperto agli inizi della nuova avventura in Libia, quando
annunciò al mondo che “la Sicilia è la portaerei del Mediterraneo”,che egli metteva a disposizione delle armate
della triade interventista: Francia, Usa e Gran Bretagna.
Due ministri, due
personalità molto diverse, accomunate dalla conterraneità.
Solo una singolare
coincidenza o c’è qualcosa che, a prima vista, sfugge?
A ben pensarci,
tanta solerzia potrebbe anche essere spiegata dall’esistenza di un legame
antico, ancestrale fra la
Sicilia e la Li bia,
risalente addirittura al tempo della fondazione di Tripoli che, secondo
Sallustio:“Oeaque trinacrios afris
permixta colonos” cioè: “Oea,
l’attuale Tripoli, sarebbe stata fondata da coloni siciliani (evidentemente
fenici) insieme ad africani”. [14]
Insomma, i due
ministri siciliani, muovendo da questa mitica fondazione, avranno, forse,
pensato di poter legittimamente accampare qualche pretesa sulla Libia.
Speriamo che così
non sia. Anche perché credo sconoscessero lo scritto di Sallustio. Altrimenti,
qualcun altro potrebbe ricordarsi della fondazione del Cairo che, secondo una
fonte antica, fu progettata da un architetto arabo- siciliano, e quindi aprire
un contenzioso con l’Egitto dell’ex rais Moubarak, lo zio di Ruby.
[1] A. Spataro in “Oltre il Canale- Ipotesi di cooperazione
siculo-araba”, Edizioni delle Autonomie, Roma, 1986
[2] A. Spataro in “Il
Corriere della Sera” del 24/7/1979
[3] in “l’Ora”
del 28/8/1979
[4] A. Spataro, “Discorso
alla Camera, seduta del 26/9/1979” in Atti Camera dei Deputati,
Roma
[5] in “l’Ora”
del 11/11/1980
[6] in “Agenzia
Jana”, Tripoli, del 29/8/1979
[7] J. K. Cooley in “Muammar
Gheddafi e la rivoluzione libica”, Editoria-le Corno, Milano,
1983
[8] J. K. Cooley, op.cit.
[9] J. K. Cooley, op.cit.
[10] J. K. Cooley, op.cit.
[11] G. Leuzzi in “La Repubblica ”
del 17/2/1980
[12] in “La Sicilia ”
(quotidiano) del 20/1/1986
[13] in “La Stampa ” del
30/9/1911
[14] proff. Mastino e Zucca in
www.infomedi.it