12 NOI DEI LAGER n. 2-3 Aprile - Settembre 2012
PRIMO LEVI e gli
internati militari italiani
Per ricordare Primo Levi, il più grande testimone delle deportazioni del secolo X!X, nel 25esimo anniversario della sua scomparsa, abbiamo scelto di pubblicare alcune sue pagine tratte dal n. 4 dei Quaderni ANEI Roma 1967, pagine scritte al ritorno dalla prigionia con fresco il ricordo dei contatti e delle impressioni ricevute dal rapporto ravvicinato con altri prigionieri, in particolare militari italiani. Primo Levi (1919-1987), entrato giovane nelle file della Resistenza sarà arrestato nel 1944, e in quanto ebreo, deportato ad Auschwitz, da dove uscirà solo alla liberazione del campo, avvenuta un anno dopo. Morirà l’11 aprile1987. La sua morte – precipitato nella tromba delle scale della sua abitazione – ha fatto pensare ad un suicidio, atto non raro nei superstiti del Lager, che dal Lager in realtà non riuscirono mai ad uscire. Degli internati egli mette in rilievo l’umanità che – in Italia malgrado molti difetti degli italiani – vive ancora e la moralità della loro scelta – il NO alla RSI per non aderire alla disumanità dei sistemi nazisti. È significativa la distinzione che fa Primo Levi tra la prigionia degli internati italiani, considerata in un certo senso volontaria, e quella di tutti coloro, come gli ebrei, che non potevano scegliere. A Roma il 27 e 28 marzo 2012 per ricordarlo è stato organizzato con grande apparato scientifico un Symposio internazionale “Scrittura e testimonianza in Primo Levi”, promotrice l’università di Roma TRE ma con la collaborazione, tra le altre, anche della nostra associazione.
Testimonianza di
Primo Levi
Intorno all’8 settembre, essendo ebreo e quindi tagliato fuori dall’esercito e dalle università, mi sono aggregato ad un gruppo di partigiani. Incontravamo masse di militari italiani provenienti dalla Francia, da tutta italia che viaggiavano in senso opposto; chi per andare a casa, chi alla ricerca di armi, chi alla ricerca di un capo. Tutti questi ex militari, con cui parlavamo, avevano da dire una cosa soltanto: non si doveva più fare la guerra con i tedeschi, perché avevano visto cosa essi avevano fatto: erano stati al fronte in Grecia, in Jugoslavia, in Russia e dicevano: “Questa non è guerra, questi non sono alleati, non sono soldati non sono uomini”. L’unità che ci ha legati è nata da questa umanissima evidenza che è quella dell’umanità pura e semplice, che in Italia, malgrado molti difetti degli italiani, vive ancora. Questo e, mi pare, un primo elemento da non trascurare per delineare l’apporto degli internati militari. Il secondo è questo: benché sia stato catturato come partigiano, scioccamente, inconsciamente, come volete, mi sono dichiarato ebreo, e sono finito nel campo di Auschwitz. Il campo di lavoro dove lavoravo io era accanto a quello in cui c’erano inglesi, americani, prigionieri russi, polacchi, francesi ed anche prigionieri italiani: alcuni militari, altri civili rastrellati, altri ancora i cosiddetti “operai volontari”. I prigionieri italiani non stavano molto meglio di noi; è vero che nei loro campi non c’erano le camere a gas con i crematori e questo è un particolare molto importante, ma nei primi tempi le condizioni ambientali e di vestiario non erano molto diverse dalla nostre. Tuttavia da quei militari italiani che per essere lavoratori specializzati, per avere un mestiere, si trovavano in condizioni migliori; da tutti questi noi abbiamo avuto un aiuto; non solo da questi, ma anche dai prigionieri italiani civili; e non solo noi italiani, ma tutti l’hanno riconosciuto. Era toccante la sensibilità di quei nostri connazionali. I tedeschi lo sapevano che gli italiani fossero “brava gente” come dicevano in tono di scherno; ed era vero, era una cosa riconosciuta. Questo credo coincida con il fatto di cui si è a lungo parlato questa sera, cioè dell’alta percentuale, della quasi totalità degli italiani militari che hanno rifiutato l’adesione alla R.S.I. perché era l’adesione al nazismo ed alla disumanità dei sistemi nazisti. Detto questo, e benché io sia stato arrestato come partigiano, porto qui, questa sera, la testimonianza di tutti coloro che non potevano scegliere, mentre per i giovani, per i giovani della mia generazione, una scelta ci poteva essere (e nel mio caso c’era stata dopo): la scelta del no, del non aderire. Porto la testimonianza di quelli che non potevano scegliere, vale a dire di tutti i cittadini ebrei italiani e stranieri. Questi non potevano fare nessun a scelta: erano donne, erano vecchi, erano persone tagliate fuori da anni ormai da qualsiasi contatto col mondo esterno; vivevano, fin dal 1939, in clandestinità, e per essi una scelta era evidentemente impossibile. Dovrei dire quasi impossibile, perché malgrado tutto, malgrado le enormi difficoltà, malgrado l’assenza di un’organizzazione, una resistenza c’è stata, non soltanto in seno alle minoranze ebraiche, polacche, russe, ucraine, ma anche aderirono, nei campi di concentramento stessi, collettività in fusione e collaborazione con gli altri movimenti clandestini che in tutti i campi di concentramento sono nati e vissuti. Naturalmente il discorso è diverso per coloro che erano nei campi di concentramento per politici, e per quelli invece che erano in campi di concentramento come Auschwitz in cui la maggioranza era ebraica; le ragioni sono evidenti: in un campo di politici o a maggioranza di politici, i prigionieri avevano alle spalle una scuola, una scuola dura addirittura con dei temi di preparazione politica. Erano per lo più uomini nel vigore delle loro forze, per i quali la deportazione era avvenuta, nel pieno della loro carriera di lavoro normale. In più esisteva facilmente una solidarietà, almeno fra gruppi nazionali, ed anche per affinità politiche. Nel campo di Auschwitz le cose erano diverse; era una Babele, almeno noi italiani, era precipitare nel buio; cioè venire proiettati in un mondo che non si capiva e che noi non comprendevamo. Non comprendevamo pe molte ragioni: intanto il linguaggio, e poi in quanto il campo era retto da un regolamento ferreo che nessuno ci insegnava e noi dovevamo apprendere con l’intuito, parlando poco, sbagliando, morendo. Ed ancora perché il mosaico delle nazionalità, delle provenienze e delle ideologie era talmente complicato e confuso che veramente occorrevano mesi per orientarcisi, ed in mesi si moriva. Ad Auschwitz c’era il 95% di ebrei ed il 5% circa fra politici ed i cosiddetti triangoli verdi, cioè i criminali comuni. Legalmente non c’era differenza; di fatto la differenza c’era ed era enorme: i politici ed i “triangoli verdi” erano quasi tutti tedeschi e questo non era mai dimenticato dai tedeschi stessi. Persino i comunisti tedeschi, di cui la maggioranza era stata sterminata da Hitler, venivano considerati, per razza e linguaggio, qualche cosa di profondamente diverso dagli ebrei. I politici tedeschi che spesso si sono comportati molto bene con noi, erano prigionieri da 5-10-12 anni e tutti sanno cosa voglia dire “fare carriera”; questi l’avevano fatta; che non l’aveva fatta non c’era più. Perciò al di fuori di ogni regolamento, anche se non spettava loro un trattamento diverso, l’avevano o se lo organizzavano. La vita media nel campo in cui sono stato, che era un buon campo perché di lavoro, era di tre mesi; in tre mesi la popolazione si dimezzava, ma veniva reintegrata con nuovi apporti. Ho detto che era un buon campo per molte ragioni, perché era un campo di lavoro, perché c’erano molte occasioni di prendere contatti con militari italiani, persino con militari inglesi; la barriera che ci separava dal mondo non era completamente impermeabile, e qualche passaggio, qualche smagliatura esisteva. Ma tutti sanno che cosa fosse il campo di Birkenau: era un campo da dove non si usciva, dove non si parlava di vita media; esso serviva solo a distruggere. Non è che questo lo dica per stabilire una priorità o un’aristocrazia tra internati, lontano da me questo intento; volevo soltanto accennare che, malgrado questa condizione, persino nel campo di Auschwitz un movimento di resistenza è nato; non solo clandestino, ma è venuto in luce con quell’episodio che è tuttora fuori dalla storia – perché non ha avuto superstiti – ed è quello del sabotaggio dei forni crematori. È da sperare che in qualche modo si riesca, in base a qualche testimone ancora vivo, in base a sopralluoghi, a chiarire completamente il modo in cui questo è avvenuto. In quelle condizione di zero, di nulla, tuttavia un nucleo di persone ha avuto modo non solo di far esplodere prima i forni crematori, ma anche di trovare armi, di combattere i tedeschi, di ucciderne parecchi e di tentare una fuga. Merita ancora ricordare che una trentina di uomini riuscirono a passare il confine, ma furono riconsegnati ai tedeschi dai polacchi che avevano un terrore folle dei tedeschi stessi. E così queste poche decine di eroi che erano riusciti, per la prima volta, a praticare un varco in Auschwitz che doveva servire non solo a loro, ma a tutta la popolazione del campo, videro cadere miseramente il loro tentativo.
Sognavamo nelle notti feroci sogni densi e violenti sognati con anima e corpo Tornare mangiare raccontare finchè suonava breve e sommesso il comando dell’alba Wstwac e si spegneva in petto il cuore. Ora abbiamo trovato la casa, il nostro ventre è sazio abbiamo finito di raccontare. È tempo, presto udiremo ancora Il comando strano Wstwac 11 gennaio 1946 Primo Levi 14 NOI DEI LAGER n. 2-3 Aprile - Settembre 2012 «Il fascismo – ha scritto C. Pavone – è stato in realtà uno dei grandi fenomeni storici del XX secolo. Esso è stato la prima formazione di massa giunta alla conquista del potere politico in funzione antiparlamentare, antiliberale, antidemocratica, antisocialista. È il triste primato dell’Italia» (“Il Novecento a scuola. Un ciclo di lezioni”, Donzelli, Roma 2001, p. 121). Quel movimento che ci assicurò tale record ottenne il governo del Paese 90 anni fa. Era difatti la fine dell’ottobre 1922, quando 25-30.000 fascisti, piuttosto sgangherati disciplinarmente e armati di pistole e bastoni, si mobilitarono per un’azione che avrebbe dovuto portare all’occupazione di località strategiche su tutto il territorio nazionale e poi a una concentrazione nella capitale per “conquistare” quel potere centrale a cui sentivano di aver diritto. La prova di forza, intimidatoria nei confronti del sovrano, fu accompagnata da un’abile azione politica che portò alla crisi del debole governo Facta e impedì ogni altra soluzione che non fosse quella di conferire a Benito Mussolini, capo del fascismo, l’incarico di formare un nuovo gabinetto. Nel tentativo di elaborare una valutazione sintetica degli eventi, e in particolare dell’ascesa al potere di Mussolini, potremmo indicare due fattori-chiave tra loro intrecciati: la violenza delle squadre fasciste e la connivenza dei gruppi dirigenti italiani. Fondato a Milano il 23 marzo 1919, il movimento dei fasci di combattimento si era connotato da subito per il suo slancio antisocialista e per una disponibilità all’uso della forza che aveva le sue punte avanzate in ex arditi. La violenza, come ideale e come prassi, fu alla base dell’azione fascista sin dalle origini: in primo luogo, essa era un metodo di lotta nei confronti del nemico politico, costituito da socialisti e “traditori” d’ogni genere, che la mentalità di guerra collocava idealmente nella trincea opposta e che doveva essere colpito con la massima aggressività; inoltre essa era la valvola di sfogo offerta a giovani idealisti e rivoluzionari delle città (Milano in testa) delusi dalla situazione italiana e rancorosi verso la classe dirigente liberale, attirati da un “antipartito” che si proponeva di segnare la fine degli opportunismi per recuperare lo slancio risorgimentale; essa era infine vista come la via per consentire il rinnovamento morale della nazione, inoculando nuove energie temprate dall’esperienza bellica. Dopo le fallimentari elezioni del 1919, in cui il movimento non ottenne alcun seggio, a fare la fortuna di Mussolini furono l’avvicinamento a Giolitti, il quale pensò di cooptare il fascismo nei Blocchi nazionali per normalizzarlo, con il risultato però di legittimarne la presenza nello scenario politico nazionale, e la diffusione dello squadrismo agrario, che imponeva l’innesto di elementi reazionari ma consentiva finanziamenti metodici e, in definitiva, promuoveva i fasci come braccio armato della reazione. Difatti fu proprio lo squadrismo delle campagne – nelle salde mani dei ras locali che concordavano le sovvenzioni direttamente con le associazioni di agricoltori, accogliendo nei ranghi anche i loro fattori e guardie private – a porsi al servizio dei proprietari terrieri in funzione antisocialista: così, dopo due anni di lotta dura nel corso del “biennio rosso” 1919-’20 – che attraverso scioperi bracciantili, incendi di fienili, boicottaggi e intimidazioni avevano visto il padronato concedere patti favorevoli ai lavoratori – le squadre d’azione sembravano ora fornire i muscoli occorrenti per la riscossa sul campo, in vista d’una sterzata a destra della politica nazionale che avrebbe consentito la liquidazione delle organizzazioni proletarie.
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