venerdì 23 marzo 2012

aprile 1982/2012: 

30° Anniversario dell'assassinio di Pio La Torre e di Rosario Di Salvo

"Contro i missili nucleari a Comiso, una battaglia vinta"

Dossier a cura di Agostino Spataro

in: www.ilportaledelsud.org/missili_comiso.htm

giovedì 22 marzo 2012

Dossier: No ai missili nucleari a Comiso


4 aprile 1982/2012
30° Anniversario della manifestazione pacifista
contro i missili nucleari a Comiso
a cura di Agostino Spataro
guarda e scarica il testo in : www.tuttostoria.net

A Pio e a Rosario, la nostra eterna gratitudine                              

      
     


COMISO: UNA BATTAGLIA VINTA
                                                                                                                         



                                                                               un contributo di Agostino Spataro




IL DIBATTITO ALLA CAMERA DEI DEPUTATI

















































Comiso, 4 Aprile 1982

































































































Brani del libro














Comiso, 4 Aprile 1982

















































































































UNA PROPOSTA DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO


A COMISO,  AL POSTO DELLA BASE DELLA

MORTE, UN POLITECNICO MEDITERRANEO

A SERVIZIO DELLA PACE E DELLA  

COOPERAZIONE ECONOMICA, TECNICA E

CULTURALE DEI PAESI RIVIERASCHI

a.




Agostino Spataro

Giornalista, già membro delle Commissioni Affari Esteri e Difesa della Camera dei Deputati,  direttore di “Informazioni dal Mediterraneo” (www.infomedi.it), collabora con “La Repubblica” e con altri giornali e riviste. Biografia: http://it.wikipedia.org/wiki/Agostino_Spataro  email: spataroagostino@virgilio.it

Ha scritto vari saggi sul mondo arabo e sul Mediterraneo, fra i quali:

Per la Sicilia”, (presentazione di Giorgio Napolitano), Agrigento, 1982

Missili e mafia”(con P. Gentiloni, A. Spampinato) Editori Riuniti, Roma,1985

Oltre il Canale- Ipotesi di cooperazione siculo - araba”, Ed. Autonomie, Roma, 1986 (tradotto in arabo)

Missili addio!”, Edizioni La Zisa, Palermo, 1988

I Paesi del Golfo”, Edizioni Associate, Roma, 1991

Il Mediterraneo” (con Bichara Khader), Editrice Internazionale , Roma, 1993

La notte dello sceicco”-Reportage dallo Yemen- Edizioni Associate, Roma, 1994

Il turismo nel Mediterraneo”, Editrice internazionale, Roma,1998

Mediterraneo, l’utopia possibile”, Editrice internazionale, Roma, 1999

Il Pianeta unico (con Naom Chomsky, Ricardo Petrella, ecc), Eleuthera, Milano, 1999

Le tourisme en Méditerranée”, Editions l’Harmattan, Paris, 2000

Il fondamentalismo islamico- Dalle origini a Bin Laden”, (presentazione di Yasser ArafatEditori Riuniti, Roma, 2001

“El fondamentalismo islamico- El Islam politico”, Editora Rosario, Argentina, 2004

Sicilia, cronache del declino”, Edizioni Associate, Roma, 2006

Monica - Storia di un’infanzia ritrovata”, Ed. Ilmiolibro, Roma, 2011

“Petrolio, il sangue della guerra- Da Badgad a Tripoli: lo stesso disegno neocoloniale”, Ed. Ilmiolibro, Roma, 2012











lunedì 19 marzo 2012

Petrolio, il sangue della guerra"- seconda parte


Capitolo quinto

MONDO ARABO,
FASCINO E  CONTRADDIZIONI






Mareb,(Yemen), colonne del  tempio di Bilqis,  regina di Saba








FONDAMENTALISMO ISLAMICO O ALTRO?
 
Fondamentalismo o islam politico?
Ben vengano iniziative come questa poiché ci aiutano a riflettere sulla questione del Medio Oriente, sul mondo arabo e sull’area del Mediterraneo, su cui in Italia scontiamo un deficit di conoscenza.
Soprattutto, oggi, a seguito degli avvenimenti drammatici in corso in Iraq e in altri paesi, si avverte la necessità di fare chiarezza per meglio capire questi mondi e per evitare confusioni e mistificazioni imbastite dai gruppi dominanti e dalla gran parte dei mass media.
Tratterò il tema assegnatomi (“Fondamentalismo islamico e l’Islam politico”) in maniera sintetica, per grandi linee, sulla scia dell’interpretazione proposta nel mio libro pubblicato da Editori Riuniti.
La confusione è grande, già dalla stessa definizione del feno-meno che, a mio giudizio, non può essere chiamato "fonda-mentalismo islamico", poiché- come diremo- non si tratta di vero fondamentalismo nell’accezione comune, persino etimo-logica, che si attribuisce a tale termine..
Comunque definito, il fenomeno costituisce il fatto più di-rompente di questo inizio del secolo; un fenomeno col quale dovremo confrontarci per lungo tempo.
Definirlo non è facile. Tenterò una breve dissertazione.
A mio parere, in base alle conoscenze generali e alla luce delle  ricerche effettuate, il termine "fondamentalismo" non dovrebbe essere applicato al fenomeno in questione che  mol-ti chiamano, impropriamente, anche "rivoluzione islamista".
Il "fondamentalismo", nel senso religioso, è un termine che correttamente possiamo applicare, ad esempio, a quei movi-menti cristiani che, all'inizio del ‘900, diedero vita negli Stati Uniti d’America alla nascita di sette e gruppi protestanti che predicavano il rifiuto della modernità e il ritorno ai fonda-menti della dottrina cui ispirare l’organizzazione della vita delle comunità.
I movimenti religiosi islamisti accettano una serie di inno-vazioni verificatesi, nel corso degli anni, sia nella religione che nella vita pratica.
Più o meno, per le stesse ragioni non possiamo parlare d’integralismo islamico perché questo concetto definisce e presuppone un certo tipo di pratiche rituali e comportamenti religiosi tradizionalisti, presenti o rivendicati in certi settori del mondo cristiano. Come, per esempio, nell’esperienza di Lefebre in Francia.
L’altro termine usato per identificare il fenomeno è quello più generico e politico di "radicalismo islamico". Forse, tale definizione più si avvicina alla realtà di questi movimenti che, lo voglio ricordare, non sono omogenei e nascono in contesti territoriali diversi e distanti fra loro.

Religione e potere petrolifero
Osservando la realtà e le istanze rivendicative di tali movi-menti, operanti in quasi tutti i Paesi di tradizione islamica, specie Al Qaeda, si coglie in loro una spinta di carattere poli-tico.
Nel senso di movimenti, non ancora di massa, che usano il sentimento religioso, molto radicato e diffuso nei paesi arabi, per obiettivi di carattere politico; per rovesciare i vari regimi “empi”, sia si tratti di petromonarchie sia di "repubbliche" ereditarie.
Regimi assolutistici o scarsamente democratici che organiz-zano i loro interessi sociali e politici attorno al potere petro-lifero, a sua volta subordinato agli interessi dei mercati  internazionali.
Tali sistemi sono entrati in crisi perché si è rotto l'equilibrio basato sul compromesso stabilito fra rendita petrolifera e un certo tipo di stato-sociale, molto assistenziale, che ha garan-tito il consenso popolare.
Insomma, sembra essere venuto meno il rapporto fra le elites al governo, che  detengono le ricchezze nazionali, e la massa dei ceti meno abbienti, dei più poveri, perfino dei laureati e dei disoccupati, sempre più emarginati rispetto alle fonti della produzione della ricchezza e dei consumi. In carenza della tradizionale assistenza sociale, la gran parte di loro sono costretti ad emigrare.
Qui, sta una delle chiavi per capire anche i fenomeni migra-tori verso l’Italia e l’Europa.
In società autoritarie come quelle arabe, l’assenza di partiti, di organizzazioni laiche, progressiste e/o di sinistra, ha favorito la diffusione dei gruppi islamismi finanziati dalle petromonarchie del Golfo, in particolare dall’Arabia saudita. 
Si presentano nei quartieri più disperati sia sottoforma di associazioni caritatevoli e d’assistenza sia di organizzazioni di militanti per affermare la fede islamica e mietono i più larghi consensi.

Dalla crisi del panarabismo all’islamismo radicale
E' proprio da questa crisi che nasce, a mio avviso, l’islamismo radicale. Come dimostra il caso dell’Algeria.
Il fenomeno s’ispira a una tradizione antica dell’Islam puro e duro, ma ha trovato vigore sulla spinta di avvenimenti storici piuttosto recenti.
Il "fondamentalismo" moderno, infatti, si ritiene che abbia trovato slancio a seguito della sconfitta delle armate arabe nella cosiddetta “guerra dei sei giorni” del 1967.
Quella sconfitta mise in luce l’efficienza, la superiorità tecnica e morale delle armate israeliane e al contempo la crisi dello stato nazionale arabo, da poco uscito dal processo di decolonizzazione.
Sotto l’urto israeliano crollarono gli eserciti e la politica panarabista, in certi casi perfino socialista, proposta dal rais egiziano Nasser e dai partiti Baath (siriano e iracheno).
Non resse il confronto fra Israele, armato e sostenuto dagli Usa e dal mondo occidentale, e la “grande nazione araba” aiutata dalle potenze del blocco orientale.
Questa fu certamente una delle cause storiche. Tuttavia, gli attuali movimenti islamisti hanno acquisito caratteristiche di forza dirompente, alternativa ai sistemi politici dominanti, da quando è divenuto ancor più strategico il ruolo del petrolio arabo in rapporto al processo di globalizzazione dell'eco-nomia e dei mercati.
Sul finire del secolo scorso, si comincia a percepire il petrolio come una risorsa scarsa e in via di esaurimento.
Nonostante questa presa d’atto, i consumi, invece che ridursi, s’incrementano facendo impennare i prezzi petroliferi su sca-la planetaria.
Comincia, così, una sorta di lotta tacita per l’accaparramento delle risorse energetiche minerali: da un lato i paesi consuma-tori tradizionali dell’area Ocse e dall’altro lato i nuovi colossi dell’economia mondiale come Cina, India e Brasile e altri paesi in via di sviluppo.
Ovviamente, l’importanza di tali risorse non è sfuggita ai movimenti islamisti radicali, in particolare ad “Al Qaeda”, che hanno fatto del “petrolio islamico” la bandiera per il rovesciamento dei regimi interni e per ribaltare la posizione subalterna dei paesi produttori rispetto ai paesi consumatori.
In poche parole, sono stati messi in discussione le tradizionali ragioni di scambio e il meccanismo di rifornimento del mercato petrolifero mondiale, basato sulla sicurezza degli approvvigionamenti a basso prezzo, oltre che su un rapporto politico dipendente.
Sulla base di tale impostazione e rivendicazione, diventò inevitabile il conflitto con gli Stati Uniti d’America e con diversi paesi occidentali.

Bin Laden: da eroe a nemico degli Usa
A questo proposito, è davvero illuminante la vicenda umana e politica di Osama Bin Laden.
Nato in una delle famiglie più ricche dell’Arabia Saudita, il giovane ingegnere parte, come tanti altri militanti islamisti, per andare a combattere la “guerra santa” per liberare l’Afganistan occupato dalle truppe sovietiche. Qui, con il supporto logistico di settori dei servizi statunitensi e con l’aiuto finanziario dell'Arabia Saudita, crea “Al Qaeda” ossia la prima organizzazione di militanti islamisti a carattere sopranazionale.
Ironia della sorte, anche lui inciamperà nel suo avventuroso cammino e da “eroe della guerra santa” antisovietica è dive-nuto il nemico numero uno degli Stati Uniti e dei loro alleati sauditi.
Il resto è noto. Si fa per dire. Poiché la figura e l’opera di questo “emiro del terrore” sono sempre più avvolte nel miste-ro più cupo. Fino a far pensare che non sia più in vita o comunque gravemente ammalato.
Tuttavia, quello che più interessa rilevare è la funzione pre-valentemente politica di tale movimento. Dietro i discorsi dell’Islam duro e puro, si celano obiettivi politici e di potere ieri di segno “antisovietico” oggi “antiamericano”.
In realtà, si propone come nuovo soggetto politico mirante a colmare il vuoto creatosi nel mondo di tradizione islamica a seguito della scomparsa dei movimenti panarabisti progressi-sti e del crollo del ruolo internazionale dell’Unione Sovietica.

Si può esportare la democrazia con i cannoni?
Di fronte a fenomeni simili come possiamo agire?
Gli Usa hanno risposto con l'intervento militare, con la guerra preventiva per esportare la "democrazia". Un capolavoro di farneticanti castronerie politiche per giustificare una nuova guerra di rapina.
Con ciò non si vuol negare l’esistenza in quei Paesi di un serio problema di democrazia. Tutt’altro.
Il movimento progressista e di sinistra internazionale lo denuncia da tempo.
Solo i governanti Usa non se ne sono mai accorti.
Specie, quando la denuncia ha riguardato i paesi del Golfo, loro alleati e grandi produttori di petrolio, governati dalle peggiori dittature; dove non esistono costituzioni, parlamenti, e non sono garantiti i più elementari diritti umani e civili, fra cui il diritto di voto.
Perché solo ora Bush scopre tale orrenda lacuna?
E perché solo in Iraq e in Afghanistan, non, quelle più vistose, dei Paesi limitrofi suoi alleati?
Il problema della democrazia esiste dovunque e da tempo e va affrontato. Ma come?
Non certo pensando di esportare e imporre i nostri modelli.
La democrazia non è una medicina che si prende a dosi, ma un processo lungo e complesso che ciascun paese deve sviluppare al suo interno, autonomamente e con forze e idee proprie.
Dall’esterno si possono solo indicare i punti essenziali di rife-rimento, i grandi principi, i valori universali della democrazia sanciti dalla Carta dei diritti umani delle Nazioni Unite che, purtroppo, la gran parte dei Paesi di tradizione islamica (e non solo) non hanno applicato.
E per farla applicare non si può muovere guerra!
Altrimenti avremo una guerra mondiale e continua che si estenderebbe anche a taluni paesi europei, alla stessa Italia dove la democrazia stenta ad affermarsi.
La battaglia dovrà essere di carattere culturale e politico e avendo come riferimento la carta dei diritti dell'uomo che vanno riconosciuti a tutti, laicamente, di là del credo religioso e politico, del sesso, del colore della pelle, della condizione sociale ed economica.
Non è accettabile quello che- ad esempio- sta accadendo in Egitto dove non si può eleggere un Presidente non islamico e non tutti i cittadini godono del diritto di voto, ecc.
Insomma, ognuno scelga le forme più appropriate di una società democratica, ma tutti dobbiamo condividere i diritti fondamentali sanciti dalla Carta dell’Onu.
Ma gli estremisti islamici vogliono la democrazia laica e pluralista?
Dagli scritti di riferimento e dalle pratiche concrete (Taleban in Afghanistan) parrebbe proprio di no. Anzi si propongono di eliminare perfino quelle rare parvenze di democrazia per instaurare lo “stato islamico”, la “umma” che sono la nega-zione di ogni pluralismo politico, culturale, ideale.

Diaspora araba: morire di nostalgia a Parigi  
Bisogna cercare, individuare nelle società arabe tutte quelle forze disponibili al cambiamento in senso democratico e laico.
D’altra parte, fino agli anni ‘80, c'è stata nei paesi arabi una presenza laica di tipo progressista, democratica. C’erano forti partiti di lavoratori e d’intellettuali anche di sinistra. Quali il Baath (siriano e iracheno) che- nei primi decenni- ha avuto il grande merito storico di avviare impegnativi processi di modernizzazione economica e della società, di emancipa- zione della donna e, in generale, di sviluppo di un sistema politico tendenzialmente laico.
A queste forze e movimenti l’Europa progressista non ha offerto- a mio giudizio- una sponda di riferimento, di collabo-razione.
Da qui, anche, lo scoraggiamento e il rifugio entro uno sche-ma di tipo dittatoriale (vedi gli eccessi di Saddam Hussein in Iraq) che hanno oggettivamente favorito la nascita e lo svi-luppo dei gruppi integralisti.
Molti intellettuali, dirigenti politici e sindacali progressisti hanno abbandonato i loro Paesi e vivono all'estero, in Fran-cia, in Italia, in Europa.
Forze importanti, qualificate che bisognerebbe aiutare a ri-prendere il loro ruolo nei rispettivi paesi.
Non per farne “fantocci ammaestrati” dell’Occidente, ma autentici dirigenti dei loro popoli.
Questo potrebbe essere uno dei compiti della sinistra euro-pea: dare a queste forze una possibilità d’impegno nei paesi arabi e non lasciarli morire di nostalgia a Parigi.

Dietro gli attentati, una nuova teoria islamista  
Dove porta la prospettiva confusamente indicata dal radi-calismo islamico?
A mio parere, mira oggi alla drammatizzazione della realtà per ottenere domani un controllo politico e ideologico totali-taristico.
E’venuto il tempo di scoprire, approfondire ciò che vera-mente vogliono l' ideologia, la cultura e la pratica di questi movimenti.
I giornali informano di ogni loro azione violenta, ma non   spiegano quali fonti teoriche attingono tali gruppi.
Ad esempio, nessuno dice che dietro Al Qaeda c'è l'ideologia di un “certo” Sayd Qutb, eminente teologo egiziano, ex mem-bro dei “fratelli musulmani”, autore di una nuova teoria dell’islamismo radicale. Per queste sue idee fu perseguitato da Nasser e alla fine giustiziato.
Ha lasciato comunque una vasta produzione di scritti ideolo-gici che noi sconosciamo, cui attingono i gruppi integralisti.
Il gruppo di studenti che, nel 1981, ha attentato alla vita di Sadat era imbevuto di queste teorie. Lo stesso Bin Laden ha avuto come professore, nella facoltà d'ingegneria dell'uni-versità di Gedda, un  fratello di Sayd Qutb.
Insomma, è importante capire che questi gruppi non si carat-terizzano soltanto per il fattore militare (kamikaze, l'attentato ecc), ma anche per una loro ideologia e visione del mondo.

Scontro o incontro di civiltà?
C’è, dunque, alla base del conflitto fra Occidente e Oriente islamico un’incomprensione di carattere storico e culturale che non può essere risolta con l’opzione militare, con lo scontro di civiltà, ma solo sulla base dello scambio e della conoscenza reciproca.
Anche per superare una nostra grave distorsione che ci fa vedere il mondo arabo come un’entità monolitica, indistinta, caratterizzata soltanto dall’elemento religioso.
Non riusciamo a vedere oltre l’Islam, per altro in un’accezio-ne negativa, senza riuscire, cioè, a scomporre questo mondo in culture, nazioni, Stati, popoli, individui.
D’altra parte, gli islamisti hanno la stessa visione deformata nei riguardi dell'Europa e degli Usa, visti come luoghi da cui si originano i mali attuali del mondo e i fenomeni del neo-colonialismo e dello sfruttamento degli uomini e delle risorse del terzo e quarto mondo.
In realtà, Occidente e Oriente islamico si conoscono poco e male. Oggi ancor meno di ieri.
Perdurando questo deficit di conoscenza reciproca, due agguerrite minoranze estremiste potrebbero imporre il loro disastroso punto di vista a due sterminate maggioranze: ossia lo scontro di civiltà.
 (relazione all'Assemblea nazionale "Un ponte per…”, Roma 15/4/ 2005)


























YEMEN: PAESE DI BIN LADEN O DELLA REGINA DI SABA?

C'era una volta ...il viaggio in Oriente
C'era una volta il viaggio nell'Oriente islamico che faceva sognare, e partire, schiere d'artisti vagabondi, scrittori, eremi-ti, esteti, avventurieri e dame stravaganti.
Si andava per deserti sconfinati, sotto cieli di vivide stelle, alla scoperta di luoghi e città favolose per abbeverarsi alle fonti della sapienza antica, alla ricerca di emozioni forti e nuovi stili di vita o di "qualcosa" d'indefinito, di magico, che era vano cercare in Occidente.
Bagdad, Damasco, Beirut, Gerusalemme, il Cairo, Tripoli, Alessandria, Istanbul, Aden, Sana'a, erano le gemme più pre-ziose di questo mirabolante Oriente.
Oggi, l'Oriente è in fiamme e queste favolose metropoli ci vengono propinate come "nemiche", soltanto come ricetto di truci dittature e d'intrighi menzogneri, evocatrici di odio e di vendette e stragi sanguinose, di miserie e lussi scandalosi.
Immagini ripugnanti che si vorrebbero cancellare con una lunga serie di guerre "preventive".    
Non resta che andare in massa a Sharm el Sheikh, a Hurgha-da...ovvero due lembi di costa romagnola trapiantata sulle rive del Mar Rosso.
Le guerre e i fondamentalismi di tutte le risme stanno deterio-rando i rapporti fra Occidente e mondo arabo e deformando l'idea che nell'immaginario collettivo si aveva degli arabi e dei loro paesi. E viceversa. Se in Occidente cresce una forma ottusa di arabofobia che mira a rimuovere l'Arabia dai nostri orizzonti, fra gli arabi si sta diffondendo un antioccidentali-smo cieco, astioso, ideologico.
Tutto ciò, mentre sullo sfondo si sente aleggiare la minaccia più grave: la cosiddetta "guerra fra civiltà", propugnata (e forse anche programmata) dagli sciovinisti d'entrambi le parti.


Yemen: il più bel Paese del mondo
Perciò, il viaggio nelle terre d'Arabia, un tempo tappa obbligata per introdursi nei meandri di un Oriente fascinoso, esoterico, oggi sta perdendo molto della sua attrattiva poiché è considerato rischioso e, da taluni, perfino antipatriottico.
Anche nel caso di un paese bellissimo e gentile qual è lo Yemen riunificato: un piccolo mondo a se stante, incuneato fra l'Oceano Indiano, il mar Rosso e l'infuocato deserto del Rab-Al Khali o "Quarto vuoto" su cui si propaga l'Arabia dei Saud, il più ricco stato petrolifero del Pianeta.
Purtroppo, dello Yemen si parla e si scrive assai di rado e solo in occasione di qualche attentato come quello, gravis-simo, di Marib in cui sono rimaste vittime ben nove persone, fra le quali sette turisti spagnoli.
Un'altra tragica occasione di cui si spera siano chiarite circo-stanze e responsabilità, evitando, per favore, insulse genera-lizzazioni che rischiano di trasformare questo bellissimo Paese da erede del regno della favolosa regina di Saba in feu-do di Bin Laden , l'ineffabile capo di Al Qaeda, la cui famiglia ha origini yemenite.
Peccato, davvero, poiché "Lo Yemen - scrive Pier Paolo Pasolini (in "Corpi e luoghi", 1981) - architettonicamente, è il più bel Paese del mondo. Lo stile yemenita, un enigma solo parzialmente risolto, o di cui solo pochi sanno, se c'è, la soluzione".

Scrigno dei tesori d’Arabia
Visitandolo si prova la gradevole sensazione di viaggiare dentro la favola di un Oriente mitico che, nonostante tutto, resiste alle tentazioni del falso modernismo e si propone come soggetto del dialogo fra le civiltà.
Il viaggio nello Yemen è come un cammino a ritroso nel tempo, dentro un medioevo islamico che sopravvive, isolato, a contatto con una natura aspra e incontaminata, aggrappato a città e villaggi popolati di gente fiera ed ospitale, di torri e minareti e palazzi carichi di storia.
Lo Yemen è come un grande scrigno che contiene i tesori più pregiati di tutta l'Arabia: da Sana 'a, la capitale, con i suoi famosi "grattacieli" ad Aden il grande porto coloniale (un tempo importante quanto quello di New York); da Mareb, con i ruderi della grande diga (costruita 3700 anni fa) e i templi di Bilqis, la celebrata regina di Saba a Taiz coi palazzi- fortezza degli ultimi folli Imams (sovrani il cui potere millenario fu abbattuto da un golpe militare nel 1962); da Zabid,  nel cuore della Tihama, dove Pasolini girò il film "Il fiore delle mille e una notte" a Mokka il porto da dove partì il primo carico di caffè verso le corti di Vienna e di Parigi; da Jiblah, città-presepe dominante la montagna yemenita, già capitale dei regni medievali di altre due celebri regine, Asma e Arwa, al deserto infinito che da Sa'da scende fino al porto di Mukallà, passando per la vasta distesa dell'Hadramaut, fino al confine con l'Oman.
Nomi e luoghi che illuminano di luce smagliante i superbi resti di una fra le più antiche e celebrate civiltà che, ancor oggi, emana un magnetismo esotico cui è difficile sfuggire. Per illustrarla, tenterò, qui, una descrizione sintetica dei luoghi più rinomati che ho visitato qualche anno addietro.

Fra i "grattacieli" dell'antica Sana'a
Eccomi a Sana'a, la capitale dello Yemen riunificato, situata a 2000 metri d'altezza.
Oltrepassato il mercato delle erbe, retrostante la porta Bab el Yemen, s'imbocca un'ampia strada brulicante di donne interamente velate, di uomini smilzi, con la guancia rigonfia da un bolo di foglie di qat, che portano un "jambia" (pugnale tradizionale) attaccato alla pancia, di mendicanti storpi e/o con gli occhi cuciti, d'asini stanchi che paiono nuotare in quei budelli che scompaiono nell'intricato labirinto della casbah.   
La selva dei "grattacieli" è lì di fronte. Finalmente si possono ammirare da vicino: sei, sette, otto piani di pietra granitica su cui si aprono finestrelle sbarrate da grate lignee di un azzurro tenue che contrasta col bianco accecante delle eleganti geometrie di stucchi.
Ai piani alti le finestre sono molto più grandi e decorate con lastre di alabastro e vetri colorati che compongono motivi floreali.
I grattacieli di Sana'a rappresentano uno stile costruttivo unico al mondo che ha dato vita a questo fantastico tessuto urbano, per fortuna tutelato dall'Unesco.
Si tratta di case-torri concepite per difendersi dagli assalti dei nemici e dalle razzie dei predoni (nel passato molto frequenti anche all'interno delle città) che, al contempo, materializzano lo status economico e politico del proprietario nel quartiere e il suo prestigio nell'ambito della gerarchia sociale e familiare.
Dalle terrazze si ammira uno spettacolo fantasmagorico, indescrivibile: da ogni lato scorrono filari di torri imbacuc-cate di fregi e cromature un po' naif.
Improvvisamente, fra un grattacielo e l'altro, spiccano le chiazze verdi di orti di legumi e verdure e di giardini di pal-me e di altri frutti tipici, fra i quali, molto diffusi, il melo-grano, il fico, gli agrumi, il carrubo, ecc.
Una corona di montagne brulle cinge l'abitato di Sana'a.
Fra queste spicca, per la sua perfetta forma conica, il jebel Nogum sulla cui vetta si possono ammirare i ruderi di un'an-tica fortezza costruita -si dice- sui resti del castello di Sem, figlio di Noè e capostipite della stirpe semitica (poiché il "semitismo" non è una prerogativa dei soli ebrei).

Il suq, luogo di confluenze e di libertà 
Nel centro storico di Sana'a tutte le strade confluiscono al suq (insieme di mercati), uno spazio enorme, intricato che costituisce il cuore pulsante della città. Nei paesi arabi il suq è anche il principale luogo di libertà e di socialità.
Sotto le tettoie di stuoie di paglia si condensa un'eterna frescura che, anche nelle ore più torride, rende piacevole lasciarsi trasportare dalla corrente umana.
Il suq è anche lo spazio eletto della confluenza, dove si stem-pera il dualismo, altrimenti insanabile, fra la città dominata dai mercanti e la campagna dominata dalle tribù. Il suq è un palcoscenico della vita sociale della città araba e anche un indicatore attendibile della congiuntura economica e politica.
Il mercato di Sana'a, il più antico della penisola arabica, è ripartito in circa 40 settori merceologici, con 1700 fra botte-ghe commerciali e laboratori artigianali.
Il più ricco e variegato è quello dei tessuti.
Nel quartiere degli artigiani si lavorano il legno, il cuoio e vari metalli. Una particolare attrazione destano i fabbricanti di "jambia", il caratteristico pugnale a punta ricurva che gli uomini, anche le più alte cariche dello Stato, portano in bella mostra poiché esprime un forte valore simbolico e di prestigio.

I beduini, per patria il deserto infinito      
Viaggiamo in direzione di Mareb, l'antica capitale del mitico regno dei sabei. Qui sono custoditi i grandiosi templi di Bilqis, la celebre regina di Saba, i resti della grande diga del 1700 a.c. e altri tesori di quella fiorente e raffinata civiltà.
Sull'altopiano s'incontrano case isolate in mezzo a campi di granoturco, di angurie e piantagioni di alberi del qat (la malapianta da cui si ricava una droga molto diffusa) che ha soppiantato le floride colture di caffè che offrivano al mondo il rinomato "Moka". Oggi, col qat i contadini ricavano un reddito 4-5 volte superiore a quello del caffè.
Superata la catena del Rem, c'immettiamo in una sterile valla-  ta che "non produce da almeno 1000 anni"- ci dice la guida- "da quando è crollata la Dam (diga), definitivamente".
Il paesaggio è arido, monotono, spezzato da rari gruppi di tende nere beduine. Sono nomadi che vagano nel deserto, da un'oasi all'altra, alla ricerca di acqua e di pastura per gli armenti.
Qui il nomadismo è ancora diffuso soprattutto lungo tutta l'ampia fascia desertica, detta "terra di nessuno", che dovreb-be segnare i contesi confini con l'Arabia e l'Oman.
Il beduino (dall'arabo "badawi", abitante del deserto) non riconosce i confini convenzionali degli Stati; per casa ha la tenda e per patria il deserto infinito, senza barriere, con i suoi segreti e suoi tormenti.
Ed è qui, nella solitudine delle sabbie, che inevitabilmente incontra Dio. Non è casuale che le tre principali religioni monoteiste (ebraica, cristiana e islamica) siano nate nei deserti a nord dello Yemen, fra la Palestina e la Mecca.

A Mareb, fra i templi della regina di Saba
L'attuale città di Mareb è la terza edificata negli stessi luoghi. La prima, la florida e potente capitale del regno di Bilqis, è sepolta sotto la sabbia.
La seconda, ancora in piedi, si scorge a pochi km, disabitata, ombra impietrita di un vile passato; abbandonata per vendetta dai vincitori repubblicani che vollero punirla per aver stretto alleanza col nemico (saudita) durante gli otto lunghi anni di sanguinosa guerra civile.   
Di quella colossale diga (una delle  sette meraviglie dell'anti-chità) restano due enormi bastioni che segnano le estremità della barriera e alcuni canali interrati.
A poche centinaia di metri, il governo ha fatto costruire un nuovo invaso e la nuova Mareb che senza acqua non potrebbe sopravvivere.
La gran parte della città sabea riposa sotto dolci colline di sabbia finissima, dalla quale emergono due gruppi di colonne quadrate, alte anche 7 metri, che sono i resti dei templi dove officiava Bilqis.
Quello più grande è dedicato al dio Illumquh (la Luna) che nel pantheon astrale dei sabei era la divinità preminente e di sesso maschile, mentre il Sole era la sua sposa.
Oltre le colonne, s'incontra un muro ovale nel quale si aprivano numerose finestre, cosicché l'orante poteva scorgere il sole in ogni ora del giorno.
All'interno di questo tempio risiedeva la regina di Saba, il cui nome ogni yemenita porta nel cuore, poiché essa simboleggia l'apogeo della potenza e della gloria yemenite.
Bilqis creò un nuovo ordine economico e politico che si espanse in tutta l'Arabia meridionale, fin oltre le coste abissine del Mar Rosso dove sorsero colonie commerciali e importanti avamposti militari sabei. Mareb divenne il centro di un formidabile sistema di traffici carovanieri che assicuravano il flusso di merci preziose (spezie, oro, incenso, gemme, profumi, ecc) dalle Indie e dall'Hadramaut verso i ricchi empori del Mediterraneo: egizi, fenici e romani.
Oggi, tutto questo è soltanto un intimo ricordo di pochi appassionati, giacché l'islam zaidita (la confessione sciita dominante nello Yemen) non ammette che una donna avesse potuto creare e governare un regno così potente e rinomato.
Quasi che Bilqis fosse stata Satana in persona nelle sembianze di una bellissima regina.

(in” La Rinascita” del 13/9/2007)


QUANDO UN SULTANO SBARCA A PALERMO

1…La visita privata di S.M. Qabus Bin Said, sultano dell'Oman, è stata per Palermo l'evento principale di questa calda e bislacca estate.
In una città dove, da un certo tempo, non succede quasi nulla di sensazionale, di rilevante, l'arrivo di un sultano, inevita-bilmente, fa rumore. 
Anche se Qabus è venuto in vacanza, per starsene qualche giorno appartato sul suo panfilo ancorato nel porto del capo-luogo siciliano. Un desiderio più che legittimo che meritava più rispetto e un'accoglienza più sobria, meno chiassosa.
Dalle cronache, invece, si coglie il senso di una ressa intorno alla presenza, quasi invisibile, di uno fra i pochi sovrani del pianeta che non ama il gossip e gli schiamazzi festaioli.
Un monarca che per accreditare il suo status non ha bisogno d'ostentare amanti, armamenti o ricchezze favolose, ma preferisce rifugiarsi nelle sue passioni per l'arte, la musica, la poesia e la caccia col falcone.
Altro che le fanfaronate circolate in questi giorni: le trecento mogli e i molti panfili del sultano, gioielli e spese pazze e chissà quante altre fantasiose congetture.
2…Certo, la curiosità stimola la fantasia, gli entusiasmi, ma non può oltrepassare certi limiti. Forse, se ci fosse stata una corretta informazione sul personaggio e sul Paese che governa, si sarebbero potute evitare certe scene imbarazzanti e soprattutto talune ingenue pretese come quella che il sultano potesse risolvere i nostri guai con qualche mancia.
Dimenticando che Palermo e la Sicilia fanno parte dell'Italia ossia di uno degli otto paesi più ricchi del mondo (G8) e che pertanto i problemi dei siciliani li devono risolvere i loro governanti locali e nazionali.
In ogni caso, non ci si può presentare davanti ad un ospite col cappello in mano. Tutto ciò contrasta con il senso dell'ospita-lità siciliana che nel trattare un ospite non dovrebbe guardare né al censo né al suo stato sociale.
Per altro- è bene chiarire- che il sultano non rappresenta un ricco eldorado petrolifero, ma un popolo laborioso e gentile, anche un po' povero, che vive con dignità e in relativa tranquillità la sua condizione di paese-cerniera del Golfo persico, stretto cioè fra due colossi petroliferi, ideologica-mente contrapposti, quali sono l'Iran sciita e l'Arabia saudita wahabbita.
Insomma, anche per il discorso dei petrodollari, ritengo opportuno indirizzare la ricerca altrove, come abbiamo scritto, di recente, a proposito d'investimenti turistici nel Mediterraneo.
Tutto ciò è accaduto perché poco si conoscono la storia e la realtà dell'Oman che molti, addirittura, confondono con altri piccoli regni della penisola arabica.
Può capitare a tutti, giacché ancora oggi in Italia si sconta un grave deficit di conoscenza del mondo arabo.



Tracce di un Oriente mitico e di un paese in evoluzione 
3…Confesso che qualche lacuna l'ho accusata anch'io, fino a quando non intrapresi un bellissimo viaggio nel Paese, su invito del Ministero dell'informazione omanita.
Ho attraversato città opulente e miseri borghi marinari, deser-ti sconfinati e ardite montagne, oasi e palmizi e forti porto-ghesi; i fantastici paesi di Magan, dove cinque mila anni fa si fondeva il rame puro, e di Ofir, nei paraggi del reame di Punt, dove dalla corteccia di un arbusto nano si estrae, da millenni, l'incenso più odoroso.
Luoghi di un Oriente mitico che non troverete sulla carta geografica, poiché la moderna geo-politica li ha cancellati riunendoli sotto il nome di Oman: uno Stato esteso quanto due terzi dell'Italia nel quale vivono poco più di 2 milioni di abitanti.
A parte il lato turistico, il viaggio in Oman può essere un'esperienza sorprendente sul piano culturale e sociale. Si scopre, infatti, che qui non si vive di sola rendita petrolifera, sostanzialmente parassitaria. Lo Stato, che non tassa i redditi individuali ma solo i proventi delle società,  investe le sue entrate per realizzare un welfare molto avanzato e moderne infrastrutture.
Certo, l'Oman non è il migliore dei mondi possibili, tuttavia da quelle parti costituisce uno dei rari esempi in cui "i doni del petrolio e del gas" sono stati messi al servizio del progresso civile del paese, in armonia con i valori della tradizione.
4…E qui si rivela la lungimirante saggezza del sultano Qabus e della classe dirigente omanita (parte della quale è venuta al seguito del sultano a Palermo) che non è formata da cortigiani che si sollazzano fra i piaceri dell'harem o del bagno turco, ma da giovani (molte le donne) dinamici, competenti che si danno molto da fare per proiettare il Paese in un futuro di prosperità condivisa. Lontano, comunque, dal medioevo dal quale è uscito soltanto nel 1970, con l'avvento al trono dell'attuale sultano.
Il cambio avvenne, dopo la scoperta dei primi giacimenti petroliferi, su impulso della diplomazia e dei contingenti inglesi che indussero il vecchio, recalcitrante sultano Taimur ad abdicare in favore del figlio Qabus, preventivamente educato in Inghilterra.  
A 38 anni da quello storico evento, si può constatare che i risultati del governo di quest'uomo mite e sapiente sono andati ben oltre ogni aspettativa (inglese).
Londra desiderava un cambio solo di facciata, mentre Qabus ha realizzato, con un certo successo, un cambio radicale della realtà del suo Paese.
E non si tratta solo di progresso materiale, ma di un'evolu-zione globale della società e della cultura. L'azione del governo mira alla buona amministrazione e al miglioramento della qualità della vita.
Perciò, sono abbastanza diffusi la sensibilità ecologica e l’impegno a preservare il variegato patrimonio faunistico, monumentale e paesaggistico.  
Nella capitale Mascate, ubicata fra il mare e il deserto, è stato creato un nuovo colore: il verde rigoglioso che straripa lungo i viali pulitissimi e nei prati intorno alle ville sulle colline di Qurm e di Ruwi.
Mentre ancora oggi ad Agrigento si soffre la sete, a Mascate il problema non esiste giacché la città dispone di un'ingente dotazione d'acqua (dissalata): circa 60 milioni di galloni al giorno, per gli usi civili e per irrigare aiuole e giardini.
E scusate s'è poco, per un paese arido tagliato in due dal tropico del Cancro.

…vi abbiamo dato ciò che perisce e voi ci avete dato ciò che permane
5…Per quanto condizionato dal contesto climatico della penisola arabica, il territorio omanita non è solo deserto. Al centro spiccano alte catene montuose che attirano i venti alisei portatori di benefiche piogge che alimentano l'antichissimo sistema dei "falaj" (grandi canali sotterranei) che ancora oggi assicurano acqua ai centri abitati e alla fiorente agricoltura dell'interno.
La terza dimensione dell'Oman è quella marina.
Il paese ha 1700 km di costa e un mare pescosissimo e fonte di ricchi commerci e di mitiche avventure. 
Il leggendario "Sindbad, il marinaio" di "Le Mille e una notte" parrebbe provenire proprio dalla costa omanita.
Più precisamente dalla città di Sur, famosa per i suoi cantieri di "dhow", leggere imbarcazioni che, da millenni, solcano i mari del sub-continente indiano e della Cina.
Forse, a questa antichissima tradizione marinara s'ispira Qabus che, per trascorrere le sue vacanze, preferisce il pan-filo alle suites degli alberghi extralusso.
Anche a Palermo si è chiuso nel suo panfilo ad ascoltare musica classica, dal quale non è sceso nemmeno per presen-ziare alla cena di gala alla quale (lui) ha invitato le più alte autorità regionali e locali. Una cena snobbata dall’anfitrione: davvero una bella soddisfazione! Per l’anfitrione.
Ha lasciato Palermo con un dono davvero insperato: 5,5 milioni di euro destinati all'ospedale dei bambini, a "telefono azzurro" e al conservatorio. Ancora la musica e i bambini bisognevoli di affetto e di cure. Stranezza o saggezza?
Molti palermitani si sono interrogati a proposito di tali "stra-nezze". Difficile rispondere, giacché le vie della saggezza mussulmana sono infinite, come quelle della provvidenza cristiana, ma un po’ più contorte.
C'è una frase che il filosofo arabo-ispanico Avempace , nel suo "Il regime del solitario", mette in bocca al califfo Omar (uno dei primi quattro califfi illuminati, rasiduna)  che forse potrebbe spiegare tale comportamento:"vi abbiamo dato ciò che perisce mentre voi ci avete dato ciò che permane..."
Non è improbabile che il sultano, chiuso nel suo panfilo, sia riuscito a vedere, con i suoi occhi d'orientale, qualcosa di spe-ciale che c'è dentro e/o sopra Palermo. Qualcosa che noi, abbacinati dal luccichio di una falsa modernità, non riuscia-mo più vedere.
(in "La Repubblica", 8/8/2008)
LE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI

Nonostante il maltempo e la Bossi-Fini, le "carrette del mare" continuano a sbarcare sulle coste siciliane frotte d'immigrati infreddoliti, brandelli di un'umanità povera, affamata e derubata dei più elementari diritti di libertà e di giustizia.
Dall'inferno al paradiso il passo è breve: duecento, trecento km di mare e, per i più fortunati, ecco spuntare la Sicilia, terra di miti e di antiche e nuove migrazioni, oggi divenuta la principale porta dei flussi clandestini verso l'Europa.
Vengono soprattutto dall'Africa per cercare lavoro e anche per sfuggire agli orrori d'interminabili guerre fratricide, fomentate da civilissimi governi e potentati occidentali, che sospingono questo grande continente verso una disastrosa deriva.
Sbarcano col loro carico di bisogni e di problemi ai quali le società ospiti dovranno, in qualche modo, far fronte.
Problemi atavici e complessi che, talvolta, mettono a dura prova i nostri ordinamenti.
In questi giorni, per esempio, è esploso quello della pratica, dolorosa e ripugnante, della mutilazione sessuale femminile vigente presso alcune comunità d'immigrati, soprattutto quelle originarie dell'Africa centro-orientale e nilotica e da taluni (pochi in verità) paesi arabi contigui.

Una legge a tutela dell’integrità fisica della donna
Oltre che sui media, la delicata questione è approdata in Parlamento dove, proprio l'altro ieri, le Commissioni affari sociali e giustizia della Camera hanno approvato (in sede referente) un testo di legge unificato che all'art. 1 sancisce una pena da sei a dodici anni per "chiunque pratica, agevola o favorisce una lesione o mutilazione degli organi genitali femminili..."
Anche il Parlamento, dunque, pur manifestando la necessaria comprensione sociale e culturale, ha dovuto assumere, unitariamente, una posizione che non ammette attenuanti per chi esegue tali mutilazioni, anche quando - come sembrava ipotizzare un comitato tecnico istituito dalla regione toscana - effettuate con metodi meno invasivi e crudeli di quelli tradi-zionalmente praticati.
In realtà, la pratica ipotizzata sarebbe sempre un’infibulazio-ne anche se “assistita" ed eseguita nella struttura pubblica.
Perciò, la scelta del Parlamento corrisponde di più allo spirito e alla lettera della Costituzione italiana che salvaguarda la salute e l'integrità fisica dei cittadini.
Tuttavia, senza deflettere dai giusti principi, appare utile accompagnare la norma con vere e proprie campagne di prevenzione e di dissuasione presso le comunità e le singole famiglie interessate dal triste fenomeno e d'informazione dell'opinione pubblica che sovente ignora la realtà di questo dramma che si svolge anche nel nostro Paese.

Cos’è la circoncisione femminile?
Di che cosa si tratta? Diciamo subito che i sostenitori di tale pratica, per conferirle un carattere sacrale, l'annoverano fra le circoncisioni derivate da una malintesa deduzione religiosa.
L'infibulazione o circoncisione femminile si concentra nei paesi nilotici (Egitto e Sudan), in Somalia e in altri paesi africani di tradizione animista (28 in tutto) e in taluni della penisola arabica. Secondo le stime dell'Onu, almeno 75 milioni di donne (anzi bambine) hanno subito tali assurde mutilazioni.
Esistono diversi tipi e metodi di circoncisione femminile, tutti più o meno crudeli, praticati da barbieri e da donne anziane su bambine in tenerissima età, spesso senza anestesia e con strumenti rudimentali.
Per meglio descriverli attingeremo da uno studio curato dal dottor Sami Aldeeb Abu-Sahlieh, una fonte scientificamente attendibile e di confessione islamica, pubblicato, nel 1993, dal Cermac dell'Università di Lovanio.
Il metodo meno brutale (ma anche meno diffuso) è quello detto "sunnah" che, in conformità ad una presunta raccoman-dazione di Maometto (nel Corano non c'è traccia), "si limita a tagliare la pelle che si trova alla sommità dell'organo femminile. Si recide l'epidermide protuberante, evitando l'ablazione."
Come in un crescendo di assurda crudeltà, segue la clitori-dectomia o escissione consistente nell'ablazione del clitoride e delle piccole labbra.
Infine, l'infibulazione "faraonica", praticata prevalentemente in Sudan e in Somalia, è la forma di circoncisione più crudele e traumatizzante.
Secondo la descrizione di Sahlieh, consiste "nell'ablazione totale del clitoride, delle piccole labbra e di una parte delle grandi labbra. Le parti della vulva così mutilate vengono poi cucite mediante punti di sutura di seta e talvolta anche con spine vegetali. Si lascia aperto soltanto un piccolo orifizio per consentire la fuoriuscita dell'urina e del flusso mestruale...
"Durante la prima notte di nozze, lo sposo dovrà aprire la sua donna, spesso con l'aiuto di un coltello... In caso di divorzio, si richiude l'apertura per evitare che la donna abbia rapporti sessuali".
Scioccante? Purtroppo, pare che le cose stiano proprio così!

La cultura non c’entra, è solo maschilismo
Nel caso della circoncisione maschile (a ben pensarci anche questa è una piccola forma di mutilazione!) lo scopo è di carattere religioso ed anche igienico.
Quella femminile, invece, ha una pluralità di fini tutti ricon-ducibili a una concezione della donna grettamente maschilista che esprime "una volontà diabolica di controllare la sessua-lità femminile, sotto l'alibi della cultura".
Ma cosa c'entra tutto questo con la cultura? Con qualsiasi cultura.
Nel caso specifico non si tratta di affermare la superiorità di una cultura sopra un'altra, ma semplicemente d'impedire una patente violazione del diritto universale dell'integrità fisica della persona umana.
Certo, bisogna sforzarsi per capire le cause di tali pratiche e fare di tutto per prevenirle (a partire dai Paesi di provenienza) e non per perpetuarle, addirittura all'interno delle nostre legis-lazioni.
Lo Stato democratico non può abbassarsi a tale livello, sem-mai ha dovere d'innalzarlo e armonizzarlo con gli standard di vita preesistenti, in primo luogo a tutela della dignità e della integrità di milioni di vittime bambine.

(in "la Repubblica" del 25 gennaio 2004)





























UNA LETTERA DA DAMASCO

Finalmente, lo studente Usa, Tom MacMaster, ha confessato di essersi inventato l’esistenza di Amina ossia il fantasma di una ragazza gay siriana, che, secondo il suo inventore, è stata discriminata, perseguitata, torturata e rapita e, forse, uccisa, dai servizi segreti del regime di Assad.
L’aggiunta del risvolto relativo alla diversità sessuale ha reso il “caso” ancora più lacrimevole e quindi più efficace.
Tanto che i media, anche i giornali più blasonati, senza pro-cedere alle necessarie verifiche, hanno avallato la storiella, rilanciandola come emblematica della repressione in Siria.
Insomma, anche “l’invenzione di Amina” è servita nella campagna contro alcuni “spregevoli dittatori arabi (tal’altri invece sono bravi dittatori perché amici) che, fino a pochi mesi addietro, gli stessi giornali intervistavano e riverivano come rispettabili capi di Stato.
Trionfo dell’incoerenza o di una malafede ben remunerata?
Ma non desidero addentrarmi nel tunnel buio della disinfo-rmazione professionale, solo prendere spunto dall’episodio per raccontarvi della mia “invenzione di una Dalila” di Damasco alla quale feci scrivere un’accorata lettera a una collega parlamentare.(1)
Ovviamente, fra i due episodi non c’è alcuna attinenza, poiché Amina è stata utilizzata per uno scopo indegno nel vivo di una tragedia reale come quella siriana, mentre Dalila fu solo uno scherzo fra amici, fino ad oggi noto solo al mit-tente, alla destinataria e all’on. Ugo Spagnoli, mio compa-gno di banco a Montecitorio.  
Se lo richiamo, è solo per rilevare come, anche senza Internet, si potevano costruire notizie fasulle foriere di azioni politiche anche clamorose.
Andiamo al fatto. Trovandomi a Damasco (1984), per una conferenza internazionale sul Medio Oriente, scrissi una lettera, su carta intestata del “Cham Palace” (l’albergo in cui alloggiavo), a nome di una certa Dalila inesistente femminista damascena, a una stimata amica deputata, in quel tempo attivissima promotrice della legge contro la violenza sessuale. 
Dalila, infelice e disperata, chiedeva aiuto e consiglio per la loro lotta contro il maschilismo islamico imperante.
Dopo qualche giorno, in Transatlantico, mi venne incontro la collega destinataria, tutta raggiante e commossa, mi prese in disparte, e mi mostrò la busta con i timbri e i francobolli siriani.
Mi finsi meravigliato e le chiesi del contenuto della missiva.
“Una lettera bellissima, commovente- esordì-  inviatami da una ragazza di nome Dalila, impiegata presso un grande albergo di Damasco, che segue sul Corriere la mia battaglia per la legge contro la violenza sessuale…”
E di preciso cosa ha scritto?" - l’incalzai.
“Ah!- sospirò- Tu non puoi immaginare! E’ stupendo. E’ la più grande soddisfazione della mia vita politica. Tu capisci? Da Damasco!”
Nella foga dell’entusiasmo ancora non aveva detto nulla nel merito, perciò la ri-sollecitai.
“Hanno costituito un club clandestino di donne che in mio onore hanno denominato “El Boctar”. Ti rendi conto? In Siria un club segreto in mio nome per portare avanti la lotta contro la violenza sessuale. E’ meraviglioso… Scrive che la mia battaglia infonde tanto coraggio alle donne siriane, fra le più oppresse dalle violenze sessuali…”
In questo passaggio riscontrai una piccola imprecisione in cui era incorsa la collega, forse per pudicizia. Poiché, Dalila aveva posto il problema in chiave intima, personale: “Mentre subisco le quotidiane violenze sessuali di mio marito, penso a Lei e solo così riesco a sopportarle…”
L’onorevole, per nulla sfiorata dal dubbio, mi chiese- come esperto di relazioni col mondo arabo- se era meglio rispon-derle per posta o andarla a incontrare a Damasco.
Avevo previsto, e temuto, una pensata simile, perciò Dalila aveva sconsigliato “una risposta epistolare a causa della censura e nemmeno di andarla a cercare a casa, in quanto “il mio violento marito avrebbe potuto prendersela anche con Lei”.
Il contatto poteva avvenire al “Cham Palace” dove lavorava. Per nulla scoraggiata dai pericoli prospettati, la collega era decisa a recarsi a Damasco.
Suggerii di desistere giacché ignoravamo chi fosse realmente questa Dalila. E poi, trattandosi di un club segreto, c’era il rischio d’incappare nelle grinfie degli occhiuti servizi siriani. Il coinvolgimento di una parlamentare italiana sarebbe stato considerato un’ingerenza negli affari interni della Siria e avrebbe turbato i buoni rapporti fra Pci e Baas siriano.
Insomma, un po’ esagerando, tentai di farle capire che il viaggio a Damasco poteva provocare serie conseguenze nelle relazioni fra gli Stati e fra i due partiti. Lei fu irremovibile.
“Me ne frego dei buoni rapporti politici, quando vi sono situazioni drammatiche come quella descritta dalla povera Dalila”
Stavo per scoppiare a ridere e confessare lo scherzo, ma mi resi conto che, forse, avrei tarpato le ali al suo sincero impeto solidaristico.
Non sapevo che pesce pigliare; temevo che potesse fare qual-cosa di clamoroso.
Preoccupato, informai Ugo Spagnoli, che si mostrò molto di-vertito, pregandolo, anche nella sua qualità di vice-presidente del gruppo Pci, di fare qualcosa per fermare l’infervorata col-lega.    
La cosa finì lì. Però, poco ci mancò per montare, sul nulla, un caso politico internazionale.



Nota: 
(1) Per rispetto alla privacy non faccio il nome della collega destinataria, alla quale,  dopo 27 anni, chiedo scusa per lo scherzo che non ha minimamente alterato la mia stima per Lei.        

(in”Osservatorio-Sicilia” 13/6/2011)



PRIMAVERA ARABA:
RIVOLTA O RIVOLUZIONE?

Democrazia per tutti i Paesi arabi poveri e ricchi 
Povertà e dittature, istruzione e  social network: agitando per bene questi fattori si ottiene un mix esplosivo che nel mondo arabo è giunto a mettere in discussione anche i rais più autocratici.  
E’ accaduto prima in Tunisia e poi, a catena, in Egitto, nello Yemen… Domani chissà!
Le piazze delle loro capitali si sono sollevate per chiedere libertà, lavoro e benessere economico e riforme democra-tiche. Richieste giuste, sacrosante contro regimi cristallizzati che parevano eterni.  
Stranamente, però, le proteste si sono scatenate nei Paesi più poveri, anche se i più carichi di cultura e di storia.
Nulla, invece, si è mosso nelle “petro - monarchie”, nei paesi grandi produttori d’idrocarburi. Come se qui tutto andasse nel migliore dei modi.
In realtà, in molti di questi Paesi non esistono Costituzioni, Parlamenti, elezioni (nemmeno col trucco), libertà civili e religiose, e i cittadini, soprattutto le donne, vivono dentro un medioevo lugubre e penoso, senza speranza di rinascimento.
Eppure, nessuno, in Occidente e in estremo Oriente, osa disturbare, censurare, diffidare il manovratore ossia quella caterva di re, sultani, emiri e loro corti al seguito il cui potere deriva dal sottosuolo dove si nascondono enormi riserve petrolifere e di gas.
Quasi che la libertà non fosse un valore universale inaliena-bile, ma una merce da barattare con altre merci, caso per caso.
La transizione democratica, l’uguaglianza fra uomini e don-ne, la tolleranza, la convivenza fra culture e religioni diverse?
Se ne parlerà alla prossima rivolta.
Due pesi e due misure? Soprattutto, a me pare, un’incor-reggibile miopia politica dell’Occidente che non riesce a vedere oltre il barile di petrolio        

La “rivoluzione” degli internauti
E così, oggi, abbiamo le piazze di alcune importanti capitali arabe invase dalle proteste sacrosante soprattutto di studenti, diplomati e disoccupati.
Nessuno l’aveva previsto. Nemmeno i potenti servizi segreti. I giornali, le Tv, che raramente si sono occupati di questi paesi, per altro, a noi vicini, le hanno frettolosamente battezzate “rivoluzioni”, aggiungendovi una bizzarra tipicità locale (quella tunisina l’hanno chiamata dei gelsomini) quasi a volerla ingentilire per non spaventare i lettori in Occidente.
In realtà, si tratta di rivolte  che sono espressione di uno stato d’animo colmo di rabbia e di amarezza accumulate nel tem-po, di una condizione sociale che, finalmente, insorge contro le ingiustizie e le più sfacciate ricchezze.
L’obiettivo è chiaro: cacciare i tiranni a capo di regimi auto-ritari e corrotti, garantire la libertà per tutti e riformare i siste-mi elettorali fatti su misura per il rais di turno.
Il dato nuovo di queste sorprendenti proteste è la presenza dei giovani in gran parte istruiti e disoccupati.
Specie, di quelli appartenenti alla fascia intermedia, fra i 18 e i 29, che secondo l’analista Abdel Moneim Said, (“Ahram-hebdo” del 2/2/2011) costituiscono il 23, 5% della popolazio-ne ossia 19,8 milioni di unità. Il 36% di questi giovani raggi-unge la scuola secondaria tecnica, mentre il 28% l’insegna-
mento superiore.
Giovani che hanno un rapporto molto intenso con Internet e con i network.
Secondo un’inchiesta “Il mondo elettronico in Egitto”- citata da Said- il numero degli utenti d’Internet è passato da 300.000 del 1999 a 14,5 milioni del 2009 a oltre 22 milioni nel 2010.
L’Egitto è in testa ai paesi arabi per utilizzatori di Facebook e Youtube, mentre i blog egiziani corrispondono al 30,7% di quelli arabi e allo 0,2% di quelli mondiali.
Sarà, forse, per questo che taluni hanno proclamato leader della rivolta, icona del nuovo Egitto, un giovane dirigente di Google in Medio Oriente, Wael Ghonim, arrestato e rilasciato dietro le potenti pressioni del governo Usa.
Prudenza, signori inviati! Il mondo non è solo quello virtuale. Anche Bin Laden e i suoi seguaci usano Google e i social-network. 
Per altro, la crescita della componente giovanile egiziana internettizzata, - sostiene Said-  denuncia un fenomeno relati-vamente nuovo : quello dei “giovani ideologici”.
“In effetti, diversi indicatori, rilevano come certi gruppi di giovani cominciano ad adottare visioni e ideologie che si basano su concetti religiosi. E così sono apparsi i giovani salafisti, i giovani della Fratellanza e i giovani copti.”

Egitto: i due fantasmi più temuti
Comunque sia, la protesta resiste, anzi si allarga ad altri settori sociali e città egiziani. Tuttavia, non si va oltre le richieste di dimissioni di Mubarak e di annullamento delle recenti elezioni politiche. Stenta, cioè, ad emergere una piattaforma programmatica globale capace di aggregare uno schieramento sociale e politico alternativo al blocco di potere dominante.
L’Egitto è un Paese - chiave del mondo arabo, con oltre 80 milioni di abitanti, è uno dei più popolosi del Mediterraneo e del Medio Oriente; un paese di contadini, d’impiegati pub-blici, di operai e con un ceto medio diffuso. Un paese povero, a tratti disperato, col 40% della sua popolazione che, statisticamente, vive con meno di due dollari il giorno.
L’economia egiziana è fragile poiché si regge su tre pilastri fortemente influenzati dalla contingenza internazionale: il turismo, le rimesse degli emigrati e le entrate del Canale di Suez. 
La domanda che molti si fanno è la seguente: quanto di questo Egitto è presente in piazza Tahrir?
La piazza è ritornata piena, tuttavia fuori di essa c’è una moltitudine che guarda, inquieta, in attesa di conoscere il corso risolutivo degli eventi.    
Cosa è questa calma apparente? Una tregua o l’anticamera di una reazione violenta ?
O, forse, un segnale che oltre non si può andare?
E’ difficile dare risposte esaustive a queste domande.
Tuttavia, bisogna mettere in conto il timore di molti per un cambio radicale che farebbe materializzare i due fantasmi oggi più temuti in Egitto e dalla comunità internazionale: il crollo dell’economia e il dilagare, sul terreno politico ed elet-torale dei “Fratelli musulmani”, l’unica forza politica e cultu-rale realmente alternativa al regime di Mubarak.

I Fratelli Musulmani
Per quanto moderata e defilata da piazza Tahrir, nessuno sottovaluta (semmai qualcuno sopravaluta) il peso di questa potente Associazione che, dal 1928, (anno della sua fonda-zione) lavora per plasmare con la sua ideologia islamista la società e i settori più sensibili della cultura, dell’ammini-strazione, delle professioni e delle forze armate egiziani e di altri Paesi del Maskrek quali Giordania, Siria, Yemen, ecc.
Non potendo sconfiggere la Fratellanza sul terreno del con-fronto politico e del consenso di massa, i regimi l’hanno messa al bando, anche se l’hanno tollerata e talvolta usata per combattere le spinte laiciste provenienti dai settori progres-sisti e di sinistra della società.
Solo le forze armate sono state capaci di tenerla a bada.
Così è stato dal 1954, da Nasser fino a Mubarak. 
Oggi, in Egitto, la Fratellanza è sempre molto forte e bene organizzata. Secondo gli specialisti, conterebbe circa due milioni di aderenti, mentre nelle penultime elezioni politiche (2005) le sue liste “indipendenti” hanno ottenuto il 20% dei voti e 88 seggi in Parlamento.
Comunque sia, oggi, la Fratellanza resta la principale forza di opposizione, anche se divisa al suo interno. Negli ultimi anni, infatti, è in atto un duro confronto fra tendenze riformatrici e Un risultato importante visto che non era presente con i pro-pri simboli e programmi e considerati i meccanismi truffal-dini del sistema elettorale egiziano.
Alle elezioni del 2010, l’Associazione ha deciso di non par-teciparvi per protesta contro i brogli e le pressioni indebite degli apparati di regime il quale, così, si è assicurato circa il 90% dei seggi in Parlamento.
conservatrici che, nel gennaio 2010, ha portato ad un cambio di “Guida”.
Il nuovo leader è Mohamad Badie, un medico pragmatico appartenente al “gruppo del 1965, l’anno della repressione nasseriana in cui fu arrestato con altri fratelli puri e duri fra i quali Sayyid Qutb, il vero, grande teorico dell’islamismo ra-dicale moderno, a sua volta condannato a morte e giustiziato nel 1966. 
Un nome sconosciuto quello di Qutb in questo stravagante Occidente che ha promosso disastrose “guerre preventive” per sconfiggere l’islamismo radicale e terrorista, senza pren-dersi la briga di conoscere i suoi teorici e le sue principali fonti d’ispirazione.

La Fratellanza in posizione d’attesa?
Ma questa è un’altra storia. Anche se, come scrive May Al-Maghrabi, su Ahram Hebdo del  20/1/10 a commento del cambio di Guida, “i fratelli musulmani sono uniti sull’instaurazione di un sistema fondato sull’Islam e la Charia (legge coranica, ndr), ma sono profondamente divisi sulla strategia da tenere. I conservatori vogliono mettere l’accento sull’islamizzazione in profondità della società, mentre i riformatori preconizzano un approccio più politico e sono aperti alle alleanze con le forze d’opposizione. Attualmente, la sfida dei Fratelli musulmani è quella di sopravvivere e di restaurare la loro immagine. Il prezzo sarà un ritiro provvisorio dalla scena politica.”
Grosso modo, quello che i Fratelli stanno facendo oggi,  ad un anno dall’analisi di Al-Maghrabi.  
Ne è convinto anche Makram M. Ahmed, un altro analista di Al-Ahram, il quale scrive il 2 febbraio 2011, nel vivo delle drammatiche proteste cairote, “la Fratellanza continua ad incitare la popolazione a piazzarsi sulla prima linea degli scontri. Ma, all’ultimo momento, essa prenderà posizione negli ultimi posti e attenderà il risultati…”
Insomma, in Egitto, la questione dei movimenti islamisti (non solo dei Fratelli musulmani) è piuttosto complessa e richiederebbe molto più spazio per trattarla.
Per dare un’idea, ricordo quanto detto (ad Al-Ahram Weekly, aprile 1993) da  Nagib Mahfuz, premio Nobel per la lettera-tura e vittima egli stesso di un grave attentato degli islamisti: “Anche se non sono d’accordo con gli islamisti, debbo constatare che essi sono il primo partito politico di questo Paese e che la loro politica corrisponde ai tre grandi problemi storici che si pongono in Egitto: l’indipendenza nazionale, la giustizia sociale e lo sviluppo”.

Egitto, un nuovo Iran?
Oggi, molti, a cominciare dai dirigenti israeliani, temono che in Egitto possano prendere il sopravvento le forze dell’isla-mismo, come avvenne in Iran nel 1979.
Gli israeliani enfatizzano il pericolo perché, con l’uscita di scena di Mubarak, temono di perdere un prezioso alleato che fa parte di quella strana rete di “nemici” che si sono scelti per affrontare più comodamente la “questione palestinese”.
A parte l’enfasi israeliana, il problema esiste. Anche se un nuovo Iran non è all’orizzonte immediato o a medio termine. Diverse sono le condizioni politiche, culturali ed economiche fra i due Paesi, così come differenti sono le caratteristiche religiose: in Iran domina lo sciitismo, in Egitto la tradizione sunnita che convive, con qualche problema, con una forte comunità cristiana copta (circa otto milioni)
Perciò, è difficile fare previsioni attendibili sugli esiti di queste rivolte.
Anche nel 1979, in Iran, nessuno poteva immaginare la piega che presero gli avvenimenti dopo i primi governi di transizio-ne.
L’abbattimento del regime repressivo dello Scià fu opera di una eccezionale mobilitazione popolare unitaria: dai comu-nisti del Tudeh ai “mujahiddin del popolo”, dalle vecchie for-mazioni liberaleggianti ai seguaci dello sciitismo dell’aya-tollah Khomeini.
Bani Sadr fu eletto presidente come espressione di questo contesto unitario di forze rivoluzionarie. Dopo pochi mesi fu costretto all’esilio. Al suo posto, vennero i chierici di Khome-ini che si appropriarono di tutto il potere in nome di Allah.
L’ayatollah Khalkali, il braccio della morte di quella “rivolu-zione”, fu incaricato di liquidare con la tortura e le impicca-gioni tutti coloro che non si sottomisero alle pretese illiberali di Khomeini.

L’entusiasmo per la “rivoluzione” iraniana
Anche allora grande fu l’entusiasmo per quella “rivoluzione” da parte di ampi settori democratici e della sinistra europea e italiana.
Ricordo che nel PCI c’era una forte corrente di simpatia per quella strana “rivoluzione” fatta in nome di Allah.
Molti esponenti e intellettuali erano con Khomeini, con la sua costituzione basata sulla “charia”, anche quando cominciaro-no a funzionare le forche di Khalkali.
Personalmente, da deputato del PCI, sono stato fra i pochis-simi che non hanno condiviso tale analisi e contestato, anche pubblicamente sui giornali, quella “rivoluzione” e la repub-blica islamica degli ayatollah che è ancora lì, a provocare un sacco di problemi interni e internazionali.
Versailles, giugno 1999. Agostino Spataro ricevuto dall’ex presidente iraniano Bani Sadr

Giacché, siamo in argomento, desidero aggiungere un altro fatto che, stranamente, tutti sembrano dimenticare.
Dopo la fuga del presidente Bani Sadr arrivarono al potere i chierici integralisti, fra i quali un certo Hossein Moussawi, uno dei primi ministri più longevi.
Durante i suoi otto anni di governo, in Iran si realizzò la “grande repressione” nella quale furono eliminati fisicamente circa 33 mila oppositori politici.
Sì, avete letto bene Hossein Moussawi, lo stesso mite profes-sore che in Tv sembra uno che stia uscendo con la moglie dal supermercato, il quale, nelle ultime elezioni, è stato contrap-posto dai “riformatori”dello “squalo” Rafsanjjani, in combut-ta con i liberal europei e Usa, al candidato del potere Mah-mud Ahmadinejad.


Il Cairo non è Berlino
Perciò, prima di parlare di “rivoluzione” bisognerebbe approfondire le vicende storiche e un po’ meglio conoscere la realtà attuale di questi Paesi.
La rivoluzione, se è tale davvero, deve essere capace di sovvertire l’ordine sociale esistente e di crearne uno nuovo di segno contrapposto.
E in tutto il mondo arabo, l’unica rivoluzione così carat-terizzata è stata quella, eroica e sanguinosa, del popolo algerino per liberarsi dal giogo coloniale francese.
In altri Paesi non ci sono state rivoluzioni, ma esperienze cospirative quasi sempre culminate in colpi di stato militari, spesso etero diretti e/o favoriti dai servizi dell’Est e dell’Ovest, che hanno generato molti regimi ancora al potere.
Perciò, mi pare una forzatura stabilire una similitudine fra queste rivolte e la “rivoluzione” del 1989 (simbolicamente rappresentata dall’abbattimento del muro di Berlino) che, in realtà, fu una presa d’atto, senza spargimento di sangue, dell’implosione di un sistema ormai esausto.
In Egitto, ma anche in Tunisia e nello Yemen, i vecchi regimi non sembrano intenzionati alla resa.
Semmai, faranno qualche concessione politica ed elettorale.
Sono caduti diverse centinaia di manifestanti (300 solo in Egitto) ma ancora non c’è una vera svolta. L’unico elemento di novità è la nomina a vicepresidente del fidato generale Suleiman e la trattativa che questi ha avviato con le delegazioni dei partiti, fra le quali, per la prima volta, quella dei Fratelli Musulmani.
Per il resto, Mubarak, nonostante le caute pressioni interna-zionali, non si è dimesso e intende restare per guidare il processo di transizione.
La situazione, dunque, resta tesa e potrebbe degenerare in più gravi disordini e perfino in un vuoto istituzionale che i milita-ri non potrebbero consentire.
Una cosa è certa: la situazione di stallo non può continuare a lungo, dovrà evolvere o nel senso della democrazia o della repressione.
Il Cairo non è Berlino. E fra i due sistemi ci sono grandi differenze. Il blocco sovietico ha mollato un impero senza spargere una goccia di sangue.
La Cina "comunista", addirittura sta facendo di meglio: tras-formare, con autoritarismo e a tappe forzate, il suo socialismo rurale in un capitalismo avanzato, industriale e finanziario, per altro molto competitivo e mondializzato
Nella sua millenaria storia, il capitalismo non ha mai ceduto nulla senza prima aver provocato una guerra disastrosa. E l’Egitto è pienamente inserito nel sistema del capitalismo globale.

Nel mondo arabo è mancata la “rivoluzione francese”
Rivolta o rivoluzione, dunque? Gli avvenimenti e la storia s’incaricheranno di fornire la risposta esatta.
Tuttavia, una cosa si può auspicare: la rivoluzione che oggi si richiede all’Egitto e agli altri paesi arabi è quella per afferma-re la laicità dello Stato e i diritti civili e politici.
Insomma, una rivoluzione come quella che fecero i francesi nel 1789 (non nel 1989).
Il più grande evento della storia moderna che, a parte qualche eccesso, consentì ai popoli europei di passare dalla condi-zione di sudditi di regimi assolutistici alla dignità di cittadini liberi.

(in “Infomedi”, 11 febbraio 2011)

N.B. questo articolo è stato pubblicato 24 ore prima dell’annuncio delle dimissioni del presidente egiziano Mubarak.








Capitolo sesto

EUROPA SOTTO ATTACCO









L’uovo del serpente




L’UOVO DEL SERPENTE

L’Europa in pieno subbuglio
A poco più di vent’anni dal crollo del muro di Berlino, l’Eu-ropa sta vivendo la sua crisi più grave. Molteplici sono i fat-tori, interni ed esterni, che, nel tempo, l’hanno determinata.
Dopo il default greco e le avvisaglie che minacciano altri Paesi del sud, fra i quali l’Italia, l’Europa è in pieno subbuglio.
Inquietudini e paure si stanno impadronendo dello spirito pubblico; si temono fallimenti a catena, disordini sociali e instabilità dei governi dall’Atlantico agli Urali, dalla Fin-landia alla Grecia.
Sul versante politico il dopo- Berlino ha provocato un forte ridimensionamento del ruolo e della forza della sinistra (comunista, socialista e socialdemocratica), mentre si stanno affermando  movimenti e partiti nazionalisti e neo fascisti anche come risposta alle “insicurezze”, vere e/o presunte, dei ceti più colpiti dalla crisi.
Sul terreno morale la crisi scuote le basi della cultura, dell’informazione e persino della religione, soprattutto quelle della chiesa cattolica al centro di un ciclone che non accenna a placarsi.
Il neocapitalismo finanziario globalizzato, uscito vincitore unico dal lungo confronto, alla prova dei fatti, sta dimos-trando di non essere all’altezza della situazione, anche se ha preteso e ottenuto l’asservimento ai suoi disegni della gran parte della classe politica e della stessa rappresentanza sociale.
Dal dopoguerra, mai si era verificata una condizione di predominio così incontrastato. Eppure, il risultato è lo sconquasso generale: dal disordine monetario e fiscale al mancato controllo della spesa pubblica, dalla corruzione dilagante alla crescita esponenziale della disoccupazione, alle nuove povertà.
E’ stata pianificata e attuata una destrutturazione degli assetti dei poteri, un’iniqua redistribuzione delle ricchezze nazionali (PIL) a tutto danno dei ceti produttivi medio - bassi; un colossale ri-equilibrio, in senso classista, a vantaggio dei ceti più ricchi.

Il liberismo è incapace di governare le economie e gli Stati
Insomma, alla sua prima uscita in pubblico, questo neo capitalismo, liberista solo a parole giacché i conti dei suoi disastri li continuano a pagare gli Stati e i cittadini (vedi crisi delle borse in Usa e, oggi, la crisi dell’euro in Europa), si sta dimostrando incapace di governare gli Stati e i processi da esso stesso generati.
Nel campo della politica è stato un disastro, così nei campi di sua pertinenza: della finanza e dell’economia.
Le banche, le borse valori, le società di rating, manager e consulenti prezzolati, le teste d’uovo avevano promesso il paradiso in terra, un “nuovo ordine internazionale” più giusto e più equo. Invece, ci ritroviamo con un mondo in disordine e segnato da nuove ingiustizie, da mortali pericoli per l’ambi-ente, per il pianeta.
Tutto ciò, mentre si riducono gli spazi di democrazia e dei diritti dei singoli e delle nazioni.
Incapaci di governare il caos e decisi a fuorviare lo spirito pubblico, i “liberisti”cercano a destra gruppi e partiti disponi-bili ad accendere la miscela esplosiva che minaccia l’Europa.
Nulla di nuovo sotto il solo: è solo un gioco vecchio e ai più noto.
Si riaccendono, così, nazionalismi, anacronistici rivendica-zionismi territoriali, intrighi secessionisti, frustrazioni razzis-te, xenofobe, integralismi religiosi, intolleranze politiche, ecc.
Come dire: non potendo addomesticare per bene i popoli e gli Stati si tenta di frantumarli,  schierarli l’uno contro l’altro. Chissà se, alla fine, non ci esca una bella guerra patriottica e/o di religione? 



La destra estrema: il nuovo pericolo per l’Europa
Si delinea, dunque, una prospettiva davvero inquietante per un continente che ha conosciuto la tragedia del fascismo e del nazismo e, per altri versi, quella delle dittature stataliste filosovietiche. Sta emergendo, infatti, una nuova destra nazional-popolare, xenofoba, antisemita (ossia antiaraba e antiebraica) con punte dichiaratamente razziste e neo-naziste.
Il fenomeno è preoccupante poiché non si tratta dei soliti gruppi minoritari, ma di movimenti e di partiti che nelle più recenti consultazioni elettorali hanno fatto registrare risultati davvero rilevanti e inattesi, oscillanti fra il 10 e il 16%.
Tutta l’Europa è attraversata da tali tendenze. Si va, infatti, dal 15,6% del partito FPOE austriaco al 16,38% di quello della “Nuova era” in Lettonia, dal 9% del FN di Le Pen in Francia al 14,4% del Partito del popolo danese, dal 10% dei “Veri finlandesi” al  recentissimo 16% del Jobbik ungherese, dal 13% di “Ordine e giustizia” lituano al 16% del “partito della libertà” olandese, ecc.
Questa- ci sembra- la vera novità politica che sta emergendo dalla crisi europea. La destra estrema oggi spinge quella moderata a indossare la divisa dell’intolleranza per domani soppiantarla in tutto e per tutto.  
E, con i tempi che corrono, questo domani potrebbe verifi-carsi anche a breve.

Italia, Berlusconi ha attutito le spinte più gravi?
L’Italia non è esente da tale travaglio. Tuttavia, bisogna costatare che sul terreno non operano importanti formazioni neo-fasciste. Forse, perché gran parte di tale disagio è stato intercettato dalla Lega nord la quale mantiene al suo interno forti ambiguità secessioniste e evidenti connotati xenofobi, ma non può essere tacciata di simpatie fasciste.
Perché tutto questo?
Le cause sono diverse, ma c’è né una che, forse, prevale sopra le altre. Anche a rischio d’incappare nell’accusa d’eresia, penso che parte del merito sia riconducibile a Silvio Berlusconi il quale,  coinvolgendo, per sua convenienza, la Lega e An nei suoi governi e nelle sue alchimie politiche, ha contribuito, oggettivamente, a contenere le mire elettorali e secessioniste di Bossi e alla frantumazione del blocco residuo della destra neofascista proveniente dal vecchio MSI di Almirante.
Una volta al governo, si sono affievoliti i propositi più bellicosi e i vizi hanno prevalso sulle virtù catartiche dei sacri carri.
Il sottile, irresistibile fascino del potere, le comode poltrone ministeriali, gli agi per amici e parenti più intimi, sono riusciti a fiaccare anche gli spiriti più rudi e indomiti.  
Quest’opera di contaminazione probabilmente avrà influito di più degli anatemi, delle risse dei centri sociali e di certe alta-lenanti incoerenze (specie verso la Lega) della  sinistra tradizionale. 
Tuttavia, prima o poi, il problema si aggraverà anche in Italia e non si potrà continuare a “confidare” nelle piroette di Ber-lusconi. Anche perché il suo tempo va a scadere.
C’è bisogno di ben altro.
  
L’uovo di Bergman e il male del secolo           
Ma torniamo al contesto europeo sempre più segnato da foschi fermenti che deprimono e, al contempo, esasperano lo spirito pubblico. Anche nelle società più progredite del centro-nord dove-secondo la metafora cinematografica di Ingmar Bergman- fu depositato “l’uovo del serpente”.
In questo film, terribile e un po’ presago, il regista svedese ricorse, infatti, alla metafora dell’uovo del rettile più inviso per denunciare il male incubatosi, nei primi anni ’20 del secolo trascorso, nelle pieghe della società tedesca in preda ad una gravissima crisi economica, morale e politica.
Da quell’uovo nacque il nazismo ossia il potere più perfido e micidiale che l’umanità abbia conosciuto.
Confesso che ho usato la metafora di Bergman un po’ controvoglia giacché, personalmente, non ho nulla contro i serpenti. Anzi, quando mi capita di vederli, liberi in natura, resto ammirato della loro misteriosa bellezza e abilità di mimetizzarsi, di cibarsi e di cambiare pelle.
Soprattutto, m’incanta il loro accoppiamento in verticale, esercizio complicatissimo per creature viscide e sprovviste di arti, dal quale verrà l’uovo che, secondo una certa mitologia, riprodurrà il male tentatore. Così è nell’immaginario collet-tivo. Anche se l’immagine evocata non ha alcun riscontro scientifico razionale. 
Tuttavia, andiamo avanti, sperando che la metafora almeno ci aiuti a rendere meglio l’idea del pericolo che si sta incubando nel corpo della società europea.
    
Sottrarre i giovani alle manovre della destra
Purtroppo, allora, il mondo sottovalutò, ignorò quelle tendenze che si affermarono, sulla spinta di grandi movimenti di massa, al governo dell’Italia e della Germania.
Nel cuore dell’Europa si crearono il clima e l’habitat adatti per far schiudere l’uovo malefico che vi era stato depositato.
Come sia andata a finire è a tutti noto. Anche se qualcuno vorrebbe negarla, la tragedia del nazismo e del fascismo è rimasta scolpita nei libri di storia e nelle menti atterrite di chi l’ha vissuta e di quanti hanno ereditato, e conservato, la memoria.
Oggi, la domanda che più inquieta è la seguente: quella terri-bile realtà può ritornare?
La risposta non è facile. Forse, è presto per dirlo.
Eppure qualcosa del genere s’intravede all’orizzonte. 
Al momento, fra quel passato e il presente non vi sono analo-gie così pregnanti (è il caso di dire).
Tuttavia, dovrebbero preoccupare, più delle stesse esibizioni di forza, le tendenze elettorali evidenziate che denotano un certo grado di consenso popolare, più o meno esasperato, a sostegno di tali disegni.
L’obiettivo è chiaro: introdurre nuovi elementi di divisione e di scontro all’interno dei settori popolari e, quindi, rompere una certa coesione politica (democratica e di sinistra) che li ha connotati.
Perciò, il fenomeno va affrontato lucidamente, senza allarmi-smi e senza  sottovalutazioni; con spirito dialogante, aperto cioè al recupero di settori sociali, specie giovanili, che stanno per essere trasformati in massa di manovra.
Non servono anatemi e violenze gratuite. Anzi, è questo il terreno più propizio per il dispiegamento della strategia della destra radicale. Servono idee, proposte innovative per superare la crisi senza condannare alla disperazione e alla disoccupazione i giovani, i lavoratori e i ceti meno abbienti, gli immigrati.

Se la sinistra non vuole morire d’inedia
E’ inutile girarci intorno: così come è stata costruita, specie negli ultimi vent’anni, l’Europa va bene solo per pochi, non per tutti.  
La gestione della crisi può essere decisiva per il suo futuro, anche istituzionale. Il progetto europeo o si realizza come Unione dei popoli nella democrazia o non avrà vita facile.
In questa nostra civilissima Europa tira una brutta aria. Riappaiono i fantasmi di un passato che si pensava fosse stato sepolto sotto le rovine della seconda guerra mondiale.
Occorre uno sforzo più coerente e generoso per costruire una vera Unione, politica e sociale, dei popoli europei.  
Se non vuole morire d’inedia, la “sinistra”, comunque conno-tata, deve rigenerarsi e impegnarsi a giocare un ruolo trai-nante in questa svolta, abbandonando sterili condotte mino-ritarie e posizioni di governo che, talvolta, non le competono.
Oggi, il problema prioritario è quello di difendere il potere d’acquisto, i diritti al lavoro e ai servizi fondamentali delle masse emarginate o in via di esclusione.
Diritti non adeguatamente difesi da una sinistra sempre incer-ta e penitente, oltre che divisa.
Da qui, anche, la disillusione, la sfiducia di taluni settori sociali sempre più attirati dai richiami razzisti e fascisti.
Come se quel seme malefico stia cominciando a ingravidare anche le parti più sane della società.

L’Italia si salva tutta intera
Concludo, restando dentro la metafora, con una domanda: il (la) serpente potrebbe depositare il suo “uovo” anche in Italia?
Nel 1919 è accaduto, partendo da Milano e dalle lande più ricche e attive del nord italiano.
Il Sud, pur essendo prevalentemente conservatore, sfilò sotto le romaniche insegne ma non credo abbia aderito al fascismo con convinzione: glielo impedirono la sua ironia e la sua repulsione verso un ordine cialtrone e militaresco.
Oggi, che dire? Speriamo che non avvenga mai. Tuttavia, non si possono chiudere gli occhi di fronte alle crescenti pulsioni xenofobe, alle squadre e ai gagliardetti, alle minacce di rottu-ra dell’unità nazionale. Bene ha fatto il presidente Napolita-no, l’altro giorno a Marsala, a denunciare con forza questi pericoli.
Spiace rilevare queste cose che, in fondo, sono imputabili a una minoranza egoista e rumorosa.
Noi preferiamo restare legati alla visione di un nord dinami-co, solidale e aperto al mondo che ha visto nascere il più grande evento della nostra storia nazionale: la gloriosa Resistenza al nazi-fascismo per la liberazione e l’unità dell’Italia.
Certo, sappiamo dei disagi sociali, sovente reali e motivati, di difficili problemi di vivibilità che travagliano alcune grandi città del nord, principalmente a causa delle contraddizioni create da quel modello di sviluppo, oggi, in affanno.
Problemi da considerare che, come quelli del Sud, vanno risolti nel quadro di uno rinnovato sforzo unitario e solidale.
Certo, la convivenza è difficile anche in famiglia, figurarsi fra popolazioni così distanti e diverse per cultura, reddito e condizioni di vita civile.
Credo che si possa convivere, nella legalità e nella libertà.  Checché ne pensino i sacerdoti del fiume più inquinato: l’Italia si salva tutta intera o non si salva.
(in “Rivista europea” 21/5/2010)


 LA DITTATURA DEGLI INVESTIMENTI

1.. Credo che nell’opinione pubblica stia crescendo l’intima consapevolezza che l’ingiunzione della Fiat non riguardi solo i lavoratori dei due stabilimenti (Mirafiori e Pomigliano), ma l’intera società italiana poiché, oltre a importanti conquiste del lavoro, mette in discussione taluni principi regolatori della convivenza sociale e democratica.
Perciò, è auspicabile spostare il confronto, anche dopo il refe-rendum, dai tavoliistituzionali” alla società nelle sue molte-plici articolazioni, evitando l’eccessiva personalizzazione su Marchionne che appare fuorviante, persino troppo comoda per chi gli sta sopra.
Non bisogna essere grandi economisti o esperti di relazioni industriali per capire che, oggi, la Fiat vuol fare in Italia ciò che, nei decenni trascorsi, è stato fatto in diverse regioni del “terzo mondo” (Pvs) da talune multinazionali della “triade” (Usa, Europa, Giappone) le quali hanno imposto legislazioni e contratti basati sulla mercificazione dei diritti e della dignità dei lavoratori.
Oggi, questa strategia, operante anche in alcuni Stati Usa, si vorrebbe applicare in Italia e in Europa.
A quel tempo, pochi si preoccuparono per la brutta piega che stava prendendo la questione degli investimenti che le grandi multinazionali usarono come clava per dettare le loro pesanti condizioni ai governi locali che potevano solo prendere o lasciare.
Quello fu l’inizio di un processo destinato a estendersi all’intero pianeta, sulla falsa riga delle pretese contenute nella bozza di Accordo Multilaterale sugli Investimenti (Ami), approntata in sede OCDE, e bloccato a causa del ritiro della Francia dai negoziati.

2.. E così, oggi, i gruppi più agguerriti, senza alcun vincolo sociale e morale, sono alla ricerca del più vantaggioso “investionklima”, delocalizzano per “ottimizzare” il prodotto e “massimizzare” i profitti.
A pagare il conto delle conseguenze sociali e ambientali, in primo luogo della disoccupazione anche dei paesi industrializzati, sono gli Stati nazionali che le multinazionali  non vogliono abolire, ma solo asservire ai loro interessi.
Insomma, nei Pvs più poveri e sovra popolati, e spesso dominati da governi corrotti e illiberali, si affermò una sorta di “dittatura degli investimenti” che ora si vorrebbe trasferire in Italia, nelle regioni più avanzate dell’Occidente.
Il nostro fallace eurocentrismo non ci fece vedere la pericolo-sità di tale “dittatura”: molti ritennero che potesse attecchire solo in quelle remote regioni, mai nei Paesi d’origine degli investimenti, democratici e super industrializzati.       
Ecco, invece, arrivare la botta anche in Italia, sotto forma di ricetta infallibile per “salvare” due stabilimenti Fiat (Mira-fiori e Pomigliano) e per chiuderne un altro (Termini I.)
Un comportamento gravissimo quello della Fiat che, con le sue pretese impositive, mira ad acuire la lacerazione dei rap-porti intersindacali e industriali e aprire scenari destrutturanti dei sistemi di garanzia vigenti.
Un programma avventuroso, unilaterale che punta a dividere i lavoratori e a umiliare il sindacato più rappresentativo, affi-dando il tutto a un referendum sul quale grava lo spettro del disinvestimento e della disoccupazione.

3.. In altri Paesi europei di primo livello una cosa del genere sarebbe improponibile, irricevibile.
Si propone in questa Italia in crisi e senza una leadership autorevole, secondo un calendario prevedibile: oggi nei due stabilimenti della Fiat, domani nel resto dell’Italia, dopodo-mani in Europa.
Si sta giocando una decisiva partita, impari e letale, fra un colosso multinazionale e un sindacato (la Fiom) glorioso, combattivo ma isolato.
Di fronte a tutto ciò, cosa stanno facendo governo e forze politiche?
C’è chi tifa apertamente per Marchionne, chi gli fa il coro dall’altare maggiore, chi si dimena nella contraddizione di volere conciliare ragioni insanabili. Qualcuno contesta.
In questo pantano il ministro del lavoro Sacconi continua a invocare “meno Stato e più mercato” e a proclamare la “fine delle ideologie”.
Che differenza di stile e di concetto con i suoi predecessori Carlo Donat Cattin, Tina Anselmi!
Ministri democristiani, cattolici, espressione di quella Cisl che ieri ha lottato per ottenere le conquiste che oggi annulla con gli accordi separati.
Un ministro che frequenta le stanze ovattate di Confindustria dovrebbe sapere che non tutte le ideologie sono scomparse, ma solo quella della sinistra marxista (alla quale egli, da socialista (o ex?), dovrebbe essere sensibile) perché ha perduto la competizione a favore dell’ideologia di questo capitalismo arrogante, rimasta unica e sola a dominare il mondo.
La verità è che questi signori, per non ammettere il fallimento delle loro politiche economiche e sociali, hanno bisogno di montare una colossale mistificazione della realtà, di rompere la coesione sociale, di promuovere, favorire la divisione dei sindacati, della società, addirittura delle famiglie.

4.. Un’altra offensiva che si vorrebbe scatenare, magari affi-dandola a quel decadente corteo di bulli, pupe e ruffiani che gironzola per redazioni giornalistiche e televisive, è quella di portare la divisione, lo scontro anche all’interno delle famig-lie, fra le generazioni.
Sei disoccupato? Non trovi lavoro? La colpa non è di governi incapaci di creare opportunità per i giovani, di una legislazio-ne iniqua introdotta per favorire il precariato, il lavoro nero, clandestino, ma di tuo padre, di tuo nonno che, da biechi egoisti, si vogliono godere la sudata pensione e magari far studiare, vivacchiare i figli inoccupati e/o sfruttati da contratti vergognosi.
Alla stessa ipocrita risposta si ricorre per spiegare la crisi del-la scuola e dell’università pubbliche, la mancanza di servizi efficienti, d’infrastrutture, ecc. 
Nessuno parla delle scandalose e sospette fortune accumula-te, della voragine dell’evasione fiscale che, certo, non riguar-da i pensionati e i lavoratori dipendenti.  
L’intento è chiaro: deviare sui genitori l’immensa rabbia dei giovani che non intravedono un futuro degno.
Mettere i figli contro i padri è un risvolto davvero odioso, pericoloso (altro che difesa della famiglia!) che potrebbe sfociare in una sorta di guerra fra generazioni.
Un perfido tranello nel quale- si spera- i giovani non dovreb-bero cadere. 

5.. Tutto ciò per nascondere le crescenti disparità sociali, le disuguaglianze, le povertà che, finalmente,  anche la Banca d’Italia ha notato.
Non è vero che in questa ventennale transizione in Italia non sia successo nulla. No. Si è verificato un processo di accumu-lazione scandaloso, un colossale spostamento di reddito dalle fasce medio/basse della società a favore di quelle più alte:
 il 10% delle famiglie oggi possiede il 45% della ricchezza dell’Italia che, nonostante tutto, è il decimo paese più ricco del mondo.
Secondo una bizzarra aritmetica, in Italia, ricchezza e pover-tà, e disoccupazione, crescono insieme, contemporaneamente. Colpa dei padri o dei nonni? O di chi manovra, in pubblico e in segreto, per favorire pochi ceti contro tutti gli altri?
Le risposte a questo tentativo potrebbero essere tante.
La migliore sarebbe di ricominciare a lottare, a marciare insieme figli, padri e nonni, a difesa dei diritti fondamentali dei cittadini, contro chi vuole impossessarsi, letteralmente, della ricchezza, del futuro di questo nostro bellissimo Paese. 
Su questo crinale corre anche lo spartiacque fra destra e sinistra, fra progresso e conservazione, fra individualismo e solidarietà, fra libertà e liberalismo selvaggio.
Gli stessi partiti, in preda a ricorrenti crisi d’identità, potreb-bero trovare, finalmente, una degna e coerente collocazione: o da un lato o dall’altro.
L’obiettivo non è la “rivoluzione”, né il cambio di sistema, ma quello di trasformare l’Italia in aderenza con le sue specificità storiche e culturali e con i principi di equità sanciti dalla nostra Costituzione unitaria e solidale.  

*Agostino Spataro è coautore, con Naom Chomsky e altri, del libro “Il Pianeta Unico”, Eléuthera edizioni, Milano, 1999. 

(in “Lavalledeitempli.net” 8/1/2011)
      

    
Società di rating
ATTACCO ALL’EURO,
ATTACCO ALL’EUROPA

1…  La crisi c’è ed è grave. Nessuno può negarla. Le cause sono molteplici e di natura complessa, interne e internazio-nali.
Nell’Italia repubblicana le crisi, anche gravi, ci sono sempre state, tuttavia, mai era successo, come oggi accade, che a decretarle, a pilotarle e a indicarne le soluzioni siano tre agenzie private straniere (quasi tutte Usa) i cui soci hanno da difendere corposi interessi societari, per altro concorrenti con altri dei paesi sottoposti al loro vaglio.
Chi sono, chi controlla queste società di rating che stanno facendo tremare l’Europa?
E’ questa una domanda banale che tutti si fanno, ma alla quale nessuno dei tanti esperti, banchieri e uomini del potere risponde.
Una risposta, forse, si può trovare in due articoli (allegati) scritti dal giornalista indipendente Alberto Puliafito (che ho travato sul web) che danno un’idea circa la proprietà delle famose “società di rating”, dei loro compiti e comportamenti (non sempre lineari), dei loro rapporti con il “dio-mercato” e con le varie consorterie finanziarie, con i singoli Stati e forze politiche più o meno influenti.
Non c’è bisogno di essere esperti d’alta finanza per cogliere il valore destabilizzante di questi ben mirati e tempestivi verdetti emanati dalle “agenzie di rating” a carico di questo o quell’altro Stato.

2…  Se ci fate caso, la loro scure si è abbattuta soprattutto contro i Paesi dell' eurozona più esposti ai contraccolpi della crisi, nell’ordine: Grecia, Portogallo, Spagna e ora Italia.
Contro, cioè, gli anelli più deboli della catena dell’euro, per indebolirlo, per smantellare lo stato sociale e deprimere i consumi di massa e acuire la conflittualità interna, ecc, ecc.
Insomma, una miscela davvero esplosiva che può mettere a dura prova il processo di costruzione unitaria dell’Europa e la stabilità politica dei singoli Stati.
Insomma, un attacco all’euro che tanti problemi sta creando al re-dollaro che galleggia in un mare di debito pubblico interno e di deficit commerciali spaventosi e sottoposto a incursioni finanziarie di governi stranieri (specie cinese e saudita).
E’ chiaro che, comprando il debito, questi Paesi comprano quote di sovranità degli Usa ossia della prima potenza econo-mica e militare del Pianeta.
Tuttavia, il rischio maggiore, già in atto, è la tendenza dell’euro a sostituire il dollaro Usa come principale moneta di scambio nelle transazioni commerciali internazionali.
Perciò, oltre- atlantico non hanno gradito il varo dell’euro e il conseguente rafforzamento e allargamento del processo di unità europea.
Un’Europa unita, con una moneta forte e apprezzata sul piano internazionale, non è nei programmi delle oligarchie domi-nanti statunitensi.

3... Così come sono considerati ostili quei governi che vorrebbero vendere il loro petrolio in euro (non più in dollari) e per questo hanno dovuto subire le rivoluzioni arancione e, in alcuni casi, perfino l’aggressione militare.
La Casa Bianca, infatti, li ha bollati come “Stati canaglia”, “paesi dell’impero del male”, inserendoli in liste di proscri-zione nelle quali figurano soltanto le dittature a lei ostili e non le dittature amiche, munifiche e anche un po’ servili.
Perciò, è necessario attaccare l’euro, indebolirlo. Per elimi-nare un pericoloso concorrente.
Se così fosse davvero, sarebbe un attacco all’Unione europea, al suo progetto di crescita autonoma, al suo importante ruolo, economico e politico, nel mondo.
Senza più l’euro, l’Unione non ha futuro, rischia la divisione, la dissoluzione e di nuovo la subordinazione all’impero americano.
Gli Usa hanno bisogno di un’Europa debole e allineata, pro-babilmente in vista del regolamento di conti (speriamo solo commerciali) con la Cina e con altre potenze regionali emer-genti.  
Certo, questa è solo un’ipotesi da verificare ed eventualmente da smentire, ma con dati e argomenti convincenti.

4… Purtroppo, di queste cose in Italia quasi non si parla e non si scrive. Tacciono i grandi giornali, i grandi media, i grandi partiti, i grandi sindacati, i grandi…
Tutti grandi, tutti muti! Ma che succede?
Perché nessuno di questi soggetti informa la gente di come stanno realmente le cose?
Possibilmente usando la lingua ufficiale dello Stato cioè l’italiano e non questa miscellanea di tecnicismi inglesi frutto di un provincialismo briccone al servizio del manovratore.
Perché, invece di andare in giro con il “pizzino” delle nuove privatizzazioni (leggi svendita di quel che resta del patrimo-nio pubblico del popolo italiano) i grandi leader di governo e d’opposizione non spiegano ai cittadini le cause vere, struttu-rali della crisi italiana e la loro mancanza d’idee e di progetti per superarla?
Certo, si può tener conto dei verdetti delle società di rating e/o degli andamenti, talvolta bizzarri, dei mercati borsistici, ma non fino al punto di farsene scudo per chiedere le dimis-sioni di un governo. Poiché, oggi, toccherebbe a Berlusconi, domani un altro potrebbe subire l’indebita pressione.
Le scelte economiche, politiche, le elezioni anticipate non si possono decidere sull’onda delle reazioni emotive provocate dai verdetti di società di rating straniere o degli umori delle borse valori.
Sarebbe come affidare le sorti del Paese a potentati stranieri senza volto e senza alcuna legittimità politica democratica.
Più che un “errore”, questo sarebbe un comportamento dis-sennato che cambierebbe il senso e la sostanza della demo-crazia.
In Italia, i governi si cambiano con le lotte politiche e sociali e con il voto degli elettori!
La politica, le scelte si fanno alla luce del sole, nel Parlamen-to e nelle altre istituzioni repubblicane, sulla base del con-fronto democratico delle idee fra le forze in campo.
Oppure, in fasi eccezionali come l’attuale, ricorrendo a solu-zioni politiche e programmatiche che esaltano la coesione e la responsabilità nazionali, come chiede di fare il presidente Napolitano.    

(in “Ticinolive” 9/10/2011)













CRISI EUROPEA:
FINIRA’ COME IN ARGENTINA?

La via imboccata è quella giusta o si stanno commettendo nuovi errori?
Il  titolo del pezzo non scaturisce dalla paura che, in questo periodo, un po’ tutti avvertiamo e che non osiamo esternare in pubblico, ma dall’analisi, libera e schietta, fatta da un eco-nomista Usa, Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, nel corso di un’intervista pubblicata su un importante quoti-diano argentino “Pagina 12 (del 10/12) di cui daremo ampi brani.
Ho aggiunto soltanto un punto interrogativo quasi per esor-cizzare il pericolo di quella esperienza  che, trovandomi a Buenos Aires,  per qualche giorno ho vissuto, indirettamente.
Infatti, è un interrogativo da incubo che intimamente un po’ tutti inquieta, al quale nessuno dei responsabili vuole dare una risposta convincente e pubblica.
Non sappiamo bene cosa stia effettivamente bollendo nelle cucine dei “mercati”, nella mente di taluni chefs di queste strane entità, senza volto e senza nomi, che continuano a imporre le loro ricette e i loro uomini a Stati e a continenti interi.
Ovviamente, sto parlando di grandi opzioni, di scelte strut-turali non delle quisquilie cui ricorrono le varie “compagnie di giro” nostrane per tenere aperto il baraccone degli scanda-letti a buon mercato e deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dai veri malanni che affliggono l’Italia e l’Europa.
Altra domanda drammatica. La via imboccata è quella giusta o si stanno commettendo nuovi errori che, questa volta, potrebbero risultare esiziali?
Per i nostri “decisori” nazionali ed europei la strada e le scelte adottate sono le uniche possibili. Gli altoparlanti di stampa e media s’incaricano, senza verificare, approfondire, senza sentire tutte le campane, di confermarle, amplificarle e di propinarle come oro colato a un’opinione pubblica frastornata e inquieta.

I mercati: un Golem insaziabile, senza volto e senza nome
Per Joseph Stiglitz, invece, c’è poco da stare tranquilli poiché  lo schema che la Germania sta imponendo al resto dell’Europa porta alla stessa esperienza che l’Argentina ha vissuto sotto la guida del Fondo monetario internazionale (Fmi)”… “l’incapacità dei  governi europei è evidente: invece di trarre insegnamento dagli errori compiuti in precedenza, li stanno ripetendo”.
Ovviamente, l’economista Usa, parlando dell’Argentina, si riferisce ai governi neo liberisti degli anni ’90 guidati da Carlos Menem e dal FMI che portarono il Paese all’insol-venza (default).
Oggi, grazie ai governi della sinistra peronista guidati prima da Nestor Kirchner e ora da Cristina Fernadez (insediatasi ieri per il suo secondo mandato consecutivo), l’Argentina non solo ha saldato il debito col FMI e rifiutato la sua pelosa assistenza, ma ha varato politiche di sviluppo e d’inclusione sociale che, in pochi anni, l’hanno vista passare dall’insol-venza a una crescita del 7% nel 2010, (seconda solo alla Cina).
Ora, qui, non si desidera esaltare il punto di vista di un premio Nobel, ma soltanto ascoltarlo, valutarlo e, almeno, farlo conoscere al pubblico.
Temo che in Italia nessuno abbia un tale interesse poiché contrasta con i comportamenti e le direttive dei “mercati” ossia di questo Golem insaziabile che sovrasta l’Europa e il mondo.
Secondo Gustav Meyrink, il Golem era una mostruosa crea-zione alchemica di un ebreo praghese, animata da un' irre-frenabile voglia di crescita e di annessione. Sulla fronte aveva scritta la parola “Ameth” ossia verità.
Era mostruoso e potente il Golem, ma aveva un punto debole: per dissolverlo bastava togliere la “A” (aleph), restava “meth” cioè morte. Ogni riferimento alle “A” delle società americane di rating è puramente casuale. Per quanto anche loro quando tolgono le “ A” conducono gli Stati alla rovina, alla morte.

La crisi: colpa dei “costi della politica” o dei costi delle politiche speculative?
E così vediamo “grandi” giornali e canali televisivi, econo-misti di grido, personalità politiche e di governo, opinion leader e comici di turno, ecc, tutti a sgolarsi per inculcare nelle menti atterrite della gente che la crisi italiana è princi-palmente dovuta ai “costi della politica”.
E, quindi, dagli alla politica, al politico, al deputato, al consigliere locale, a chiunque sia stato eletto in un organo istituzionale di questa Repubblica democratica, fondata sulla sovranità del popolo e non sugli interessi dei mercati, dei mercanti e dei loro lacchè in divisa d’ordinanza.
Ma quanto diavolo costa la politica italiana?
Forse di più delle spese militari, dell’evasione fiscale (275 miliardi/anno secondo Istat), dei finanziamenti pubblici all’editoria, dell’anarchia del mercato delle professioni, delle  assicurazioni, delle banche che pretendono di essere libere quando vanno in attivo, mentre quando vanno ( o si fingono) in perdita bussano a quattrini alle casse dello Stato?
La politica costa molto meno e lo sanno benissimo i fustiga-tori a senso unico.
Con ciò non si vuole negare l’esigenza (che da tempo propo-niamo) di una riforma del sistema di finanziamento pubblico dei partiti, dell’abolizione dell’attuale legge elettorale (porcata) introducendo le preferenze e riducendo il numero dei parlamentari, della soppressione delle province, ecc.

Riformare la politica, per recuperare la sovranità e i poteri delle istituzioni democratiche
Se questo veramente si vuole, si può fare subito dopo l’approvazione della manovra finanziaria.
Chi lo impedisce? L’altro giorno, in Sicilia è stata approvata, all’unanimità, una legge che riduce del 30% il numero dei deputati regionali, da 90 a 70.
E’ un buon segnale per il resto del Paese. Ma pare che queste riforme non le voglia nessuno.
Forse perché verrebbe a mancare la materia dello scandalo e bisognerebbe spostare i fari dei grandi giornali e televisioni sui reconditi interessi di chi sta dietro questa campagna qua-lunquistica che, in realtà, mira a delegittimare il Parlamento e il sistema della democrazia rappresentativa.
Insomma, dopo avere spostato a loro favore quote enormi del Pil nazionale (leggi della ricchezza degli italiani), questi signori si vogliono prendere il governo, il Parlamento e quant’altro non possono controllare con i loro giochi di borsa.
Spero di sbagliarmi, ma questa è gente che sa il fatto suo e certo non intraprende una campagna simile solo per far vendere qualche copia in più ai loro giornali.
C’è un obiettivo nascosto? E qual è?
Difficile dirlo. Tuttavia, è chiarissimo che si punta a demolire il ruolo, insostituibile, degli organi parlamentari costituziona-li, per altro, senza dire che cosa si vuole fare, dopo.
Gli uomini della concentrazione mediatica e finanziaria sanno benissimo che “il costo della politica” non è il problema prin-cipale.
Lo stanno ingigantendo ad arte, per usarlo come un separè per non far vedere alla gente cosa stanno combinando i loro committenti nel boudoir dell’alta finanza.
Andate a guardare, per favore. Altro che “casta” (dei politici!) Vi troverete di fronte uno scenario variegato, fantasmagorico, una bolgia di caste vere, palesi e occulte, cui attingere per far fare le ossa a generazioni di giornalisti d’inchiesta.

Una colossale, deviante mistificazione per favorire il disegno dei “poteri forti” 
Prima o poi la verità verrà fuori. La gente comincia a capire che trattasi di una colossale mistificazione.
Taluni la subiscono in assenza di una politica e di un'infor-mazione alternative, altri la rifiutano, la contestano e mirano al giusto obiettivo.
Come hanno fatto, nei giorni scorsi, i movimenti degli studenti italiani (non quelli degli “indignati” telecomandati) che hanno indirizzato la loro protesta contro le banche e i poteri forti.
E qui mi fermo perché desidero riprendere il punto di vista di Joseph Stiglitz che in Italia nessuno ha ripreso perché si teme potrebbe turbare il clima di “pensiero unico” dominante.
Avverto che probabilmente la traduzione non sarà perfetta (si fa quel che si può); chi lo desidera può leggere il testo originale sul sito del quotidiano.
Alla domanda circa il ruolo giocato dalla Banca centrale europea (Bce), il Nobel risponde senza molto tergiversare:
“La BCE non è democratica. Può decidere politiche che non sono in linea con quanto chiedono i cittadini. Fondamentalmente, rappresenta gli interessi delle banche, non regola il sistema finanziario in maniera adeguata e ha un’attitudine di stimolo ai CDS (Credit Default Swaps) che sono strumenti molto dannosi. Questo dimostra anche che le banche centrali non sono indipendenti…”
A proposito dei governi tecnocratici di Monti in Italia e di Papademus in Grecia dice:
“Il principale problema è quello di avere creato un contesto economico a partire dal quale la democrazia è rimasta subordinata ai mercati finanziari. E questo la Merkel lo sa bene. La gente vota, però si sente ricattata. Si dovrebbe riformulare il quadro economico, affinché le conseguenze di non seguire i mercati non siano tanto severe”.

E’ la Grecia a finanziare le banche tedesche, non viceversa
Richiesto di un parere sullo strano ruolo trainante assunto da Francia e Germania e sulle loro “idee errate” circa la crisi europea, così risponde Stiglitz:
“E’ chiaro che stanno ponendo l’interesse delle banche sopra quelli della gente. Questo è molto più chiaro nel caso della BCE, però non credo che sia lo stesso per Sarkozy e Merkel…Credo stiano proteggendo le banche poiché temono che se le banche dovessero crollare, l’economia crollerà. Per questo dico che hanno una visione errata, quantunque non creda che stiano ponendo gli interessi dei greci o degli spagnoli in capo all’agenda.
Questo è l’altro problema: manca la solidarietà. Essi dicono che non sono una “unione di trasferimento di denaro”. Di fatto, lo sono, però il trasferimento del denaro va dalla Grecia alla Germania.”
Sono cose che, specie nelle alte regioni del lucro, tutti conoscono: è la povera Grecia che finanzia le potenti banche tedesche. Tutto è andato a meraviglia fino a quando non s’intravide il pericolo dell’insolvenza (default). Com’è noto, l’insolvenza è il terrore degli strozzini, degli usurai i quali hanno tutto l’interesse di far sopravvivere la loro vittima fino a quando ci sarà qualcosa da spremere.
Se ci fate caso, anche le banche più esposte (poche quelle italiane) si sono comportate come i soggetti prima citati: terrorizzate dal pericolo d’insolvenza di alcuni Paesi loro debitori, hanno preteso dai rispettivi governi di fare carte false pur di salvare… non i Paesi debitori, ma le banche creditrici.
Insomma, il Nobel ci offre tantissima materia per un' utile riflessione, per capire meglio come stanno andando veramen-te le cose e per correggere eventuali scelte sbagliate.
Ovviamente, se dovesse ritornare la voglia d’informare correttamente i cittadini vi sarebbero altri autori da prendere in considerazione. E’ tempo che si operi alla luce del sole, si ritorni in Parlamento e fra i cittadini che non servono solo a pagare la bolletta.
                                           
(in “Oggi7- AmericaOggi”, N.Y, 18/12/2011)






Capitolo settimo

IL SUD E LA SICILIA FRA TENSIONI E COOPERAZIONE







Mappamondo di Al-Idrisi, (1100-1166)



SICILIA FRA EUROPA E MEDITERRANEO

L'on. Giorgio La Malfa, presidente del Partito repubblicano, aprendo la campagna elettorale a Palermo, pare abbia affer-mato che la Sicilia per svilupparsi, "deve guardare al Nord, non al Sud".
Dove per "Nord" deve intendersi l'Europa e per "Sud" i paesi rivieraschi del Mediterraneo.
Un punto di vista come tanti, autorevole ma non condivisibi-le, anche se espresso con ammirevole chiarezza.
Virtù rara, anzi rarissima, fra i politici della cosiddetta "seconda Repubblica". Infatti, La Malfa viene dalla “prima”.
Si tratta di un rigurgito di una vecchia posizione repubblicana basata più sul pregiudizio antiarabo che sul calcolo politico ed economico.
È arcinoto che l'on. Spadolini, anche da presidente del Consi-glio, fece dell'antiarabismo il tratto distintivo della sua poli-tica estera. Con risultati disastrosi.
In questa sede, non vogliamo disquisire su tale tendenza, per altro molto residuale, ma tentare di ragionare sull'assunto del candidato repubblicano che sembra accusare un "eccesso di antitesi" che, in fin dei conti, rafforza la tesi (e la realtà) largamente condivisa in Sicilia e altrove.
In primis, osservo che nelle analisi più serie riguardanti la prospettiva economica siciliana, e di altre regioni meridiona-li, mai ha trovato posto il dilemma lamalfiano: o nord o sud.
La Sicilia è, e intende restare, in questa Europa che cresce e si allarga in varie direzioni. Semmai, il problema è stato, ed è, quello di starci a pieno titolo, in armonia con gli standards socio-economici e civili europei, acquisendo, cioè, tutte caratteristiche delle regioni sviluppate.

Una proiezione bi-direzionale della Sicilia
Purtroppo, a mezzo secolo dall'adesione al MEC (oggi UE), la Sicilia è ancora lontana dal raggiungere tali obiettivi, non solo a causa di certe politiche comunitarie, ma soprattutto per colpa delle scelte miopi dei governi di Roma e di Palermo nei quali, peraltro, è stato, quasi sempre, presente il partito dell'on. La Malfa.
L'ultimo, indecoroso esempio di tale miopia è la dispersione clientelare dei fondi di Agenda 2000.
L'idea, che da decenni andiamo coltivando, è quella di una Sicilia proiettata in senso bi-direzionale: verso l'Europa comunitaria e verso l'area mediterranea, della quale siamo il luogo baricentrico.
Non sfuggirà all'on. La Malfa che, nel 1995 a Barcellona, l'Unione europea ha compiuto una vera è propria svolta nella sua politica mediterranea, sottoscrivendo con i Paesi rivie-raschi, quasi tutti arabi e di tradizione islamica, gli accordi cosiddetti "euro-mediterranei" che dovrebbero favorire la creazione, entro il 2010 (cioè fra sei anni), della più grande zona di libero scambio mondiale.
Eppure, secondo il candidato repubblicano, la Sicilia dovreb-be voltare le spalle a questo grandioso progetto politico, eco-nomico, commerciale, culturale e sociale, a forte valenza geostrategica e pacifica, che si sta sviluppando tutt'intorno.

La pace condizione dello sviluppo e della cooperazione
Aggiungo, per i tanti guerrafondai (che amano rischiare la vita... degli altri), che se non si dovesse stabilizzare il fianco di sud-est dell'UE, attraverso una vera politica di cooperazio-ne intra-mediterranea reciprocamente vantaggiosa, l'Europa entrerà in forte fibrillazione e la Sicilia, come altre regioni
sud-europee, sarà ulteriormente emarginata dai processi di sviluppo e dai mercati.
Rischiando di essere coinvolte nel ciclone delle pericolose tensioni provocate dal sanguinoso e non sanato conflitto mediorientale e dai conseguenti movimenti radicali politico-religiosi, islamici e no.
D'altra parte, non è esatto affermare che i paesi mediterranei non costituiscono, già oggi e da molto tempo, un interessante mercato di sbocco per le produzioni europee e italiane.
Purtroppo, molto meno per quelle siciliane.
Non perché contro di queste ultime ci sia una qualche forma di ostracismo, ma semplicemente per il fatto che la Sicilia produce poco in rapporto al mercato globale e ancor meno per quello mediterraneo.

Alla Sicilia l’import petrolifero al centro-nord l’export
La nostra regione, infatti, subisce una pesante contraddizione: quella di essere una fra le principali regioni importatrici (soprattutto d'idrocarburi e derivati) dai paesi mediterranei e arabi e una delle meno importanti esportatrici verso gli stessi paesi.
Al contrario, le regioni italiane del centro-nord monopolizza-no, quasi per intero, i flussi di beni e servizi verso quei paesi.
In tutto ciò pesano i ritardi e gli errori dei governanti siciliani, ma ancor di più le responsabilità dei governi e delle classi dominanti nazionali che hanno considerato la Sicilia come una sorta di colonia sulla quale concentrare la gran parte delle importazioni e delle lavorazioni petrolifere (con gravissime conseguenze inquinanti).
Mentre le esportazioni sono appannaggio delle regioni del centro-nord, da dove partono le quote più rilevanti di quel 12% dell'export italiano verso il mondo arabo. Circa il doppio della quota export diretta verso gli USA.
Come si vede, i commerci fra l'Italia e i paesi mediterranei già sono fiorenti e tenderanno a incrementarsi nella futura zona di libero scambio che- ripeto- dovrebbe entrare in vigore fra 6 anni, non fra un secolo.
Il vero male che attanaglia la Sicilia non viene dal contesto euro-mediterraneo, ma innanzitutto dal suo interno, dalla mala politica e dalla inanità dei governi che poco o nulla fan-no per promuovere un modello di sviluppo produttivo, mo-derno e compatibile con le sue specificità, in grado di esaltare le risorse locali e la sua vocazione europea e mediterranea.

(in "la Repubblica" del 25 maggio 2004)

L’ISOLA AL CENTRO DI UN SISTEMA
AGROALIMENTARE MEDITERRAMEO *

Una seria riflessione sulle prospettive dell'agricoltura e dell'agro-alimentare siciliani e meridionale, non può prescin-dere dalle diverse questioni indicate dalla relazione di Italo Tripi e in particolare da una valutazione di merito delle due principali scelte geo-politiche compiute, negli ultimi anni, dall'Unione Europea:
a) il Trattato di Barcellona per il partenariato euro-mediterraneo sottoscritto, nel 1995, fra i quindici Paesi dell'U.E. e dodici Paesi terzi mediterranei;
b) la recente decisione dell'allargamento dell'Unione ad altri dieci Paesi dell'Europa centro-orientale, assunta nel vertice di Copenaghen del dicembre 2002.
Col primo accordo è stato avviato un impegnativo processo di partenariato globale, una forma più evoluta di cooperazione, fra i 15 paesi dell'Unione europea e i 12 PTM che si affac-ciano sulle rive sud ed est del Mediterraneo: dal Marocco alla Turchia. (saltando per il momento la Libia) che, entro il 2010, dovrebbe sfociare nella creazione di una Zona di Libero Scambio (ZLS).
Tuttavia, per evitare tensioni paralizzanti fra le due parti contraenti, in questa prima fase sono state "accantonate" talune questioni piuttosto spinose, quali la libera circolazione delle persone e dei prodotti agricoli, che dovranno essere affrontati, in armonia con lo spirito liberista del Trattato e sulla base del principio della reciprocità.

Produzioni e mercati dell’ agroalimentare
Per la gran parte dei Paesi mediterranei (soprattutto quelli non produttori d'idrocarburi) l'esportazione delle loro produzioni agricole sui mercati europei è di vitale impor-tanza, poiché questi prodotti costituiscono la principale risorsa esportabile, per tentare di controbilanciare le massicce e variegate importazioni di beni e servizi provenienti dai paesi dell'Unione.
Perciò, se si vuole dare corso agli accordi bilaterali già sottoscritti in vista della creazione della Zona di libero scambio, l'Europa non può continuare ad arroccarsi su una politica di limitazione delle esportazioni agricole dei PTM, ma dovrà consentirne il libero accesso sul mercato europeo, come già oggi chiedono i paesi partner.
Dall'altro lato, l'ingresso nell'Unione Europea,  dal 2004, dei 10 Paesi dell'Europa centro-orientale (Polonia, Rep. Ceca, Ungheria, Slovenia, Rep. Slovacca, Estonia, Lituania, Let-tonia, Cipro e Malta) aprirà le porte del mercato alimentare europeo a nuovi, consistenti volumi di produzioni agricole, anche qualificate, realizzate in questi paesi a costi più compe-titivi rispetto a quelli medi italiani.
Queste due realtà, avviate su differenti percorsi sulla via dell'integrazione nella UE, così diverse per esperienza storica e politica, per il loro profilo sociale e culturale, hanno in comune alcuni aspetti socio-economici basilari: un PIL fortemente caratterizzato dalla componente agricola, un  reddito procapite generalmente basso e salari molto inferiori agli standard europei e meridionali.
Caratteristiche che confermano la previsione di una consi-stente crescita dell'offerta di prodotti agroalimentare, a basso costo di produzione, sul mercato alimentare europeo che po-trà squilibrare il sistema generale dei prezzi e attivare mecca-nismi di concorrenza oltremodo spinta.
Per dare un'idea dell'incidenza che tale offerta potrà determinare sul mercato europeo, riporto, di seguito, i dati relativi ad alcune produzioni dei Paesi candidati i quali, in rapporto alla produzione complessiva dell'Unione Europea, realizzano, fra l'altro: il 25% della produzione cerealicola; l'85% della produzione di patate; il 20% della produzione di zucchero; il 50% della produzione di mele; il 13% della produzione di pomodoro e il 50% della produzione di carote.
(Fonte: Eurostat- Yearbook- Edition 2001)



Sicilia fra inquietudini e speranze
Per queste e altre ragioni, l'allargamento a est e il partenariato a sud cominciano a suscitare, in Sicilia e altrove, inquietudini e legittimi interrogativi circa il futuro d’ importanti comparti produttivi tradizionali e no.
Tuttavia, i problemi non si possono risolvere pensando a un impossibile ritorno all'indietro, ma affrontandoli nella loro effettiva realtà, introducendo idonei correttivi e più efficaci misure di compensazione.
Poiché non si può mettere in discussione la scelta di fondo, adottata dai vertici dell'Unione, finalizzata a realizzare, dopo la moneta unica, l'unione effettiva e democratica dell'Europa (dall'Atlantico verso gli Urali, dal Mediterraneo al Circolo polare artico), quale garanzia di pace e di prosperità dei popoli.
Per creare una nuova, forte entità politica ed economica che si candida a divenire co-protagonista dello sviluppo del pianeta in questo nuovo secolo, dominato dalla globalizza-zione dell'economia all'insegna di un liberismo selvaggio e, talvolta, avventuriero.
In tale contesto, in evoluzione, la Sicilia, regione di frontiera a duplice vocazione mediterranea ed europea, si mostra più sensibile ai contraccolpi determinati dal processo di costruzione unitaria dell'Europa.
Appare, perciò, necessaria una riflessione specifica, che coin-volga altre regioni meridionali e mediterranee per intra-prendere tutte le azioni politiche e sociali onde evitare il ris-chio di un oggettivo svigorimento della politica mediterranea dell'Unione.
Per fare in modo che l'allargamento a est non si realizzi a scapito della prospettiva del partenariato euro-mediterraneo.

I rischi d’indebolimento del partenariato euro-mediterraneo
In questo senso, qualche problema comincia ad affiorare.
Nella lista dei nuovi stati aderenti figurano tre Paesi mediterranei (Slovenia, Cipro e Malta, gli ultimi due facenti parte degli accordi di Barcellona).
L'ingresso di questi tre Paesi se da un lato rafforzerà la carat-teristica mediterranea dell'Unione, dall'altro lato potrebbe indebolire l'impianto politico e multiculturale dell'ambizioso progetto del partenariato euro-mediterraneo.
Poiché il passaggio di Malta e Cipro da membri di Euromed a membri dell'Unione, oltre a ridurre il numero dei partners mediterranei (da 12 a 10), impoverirà il contesto politico e culturale di riferimento che sarà polarizzato intorno a due sole componenti fra loro contrastanti: l'arabo-islamica e l'ebraica.
Perdurando il gravissimo stato di tensione fra palestinesi e israeliani, (per non dire delle imprevedibili conseguenze che potranno derivare da una disastrosa guerra "occidentale" contro l'Iraq) sarà sempre più problematico continuare a vedere i rappresentanti del governo
israeliano (isolato) a fianco di quelli dei nove Paesi arabo-islamici, nel ruolo di parte contraente dell'Unione nel partenariato euro-mediterraneo.
Sotto questo profilo, la situazione potrebbe peggiorare a seguito del probabile ingresso della Turchia nella UE. Infatti, l'uscita di questo importante Paese dagli accordi di Barcellona sarebbe un durissimo colpo all'intero sistema del partenariato euro-mediterraneo, tale da mettere in discussione perfino la fattibilità della zona di libero scambio.
Francamente, non si capirebbero il senso e l'utilità di una zona di libero scambio costituita fra circa 30 Paesi della futura Unione Europea, di gran lunga la prima potenza economica del pianeta, e un gruppo ristretto di Paesi poveri del Mediterraneo.
All'interno di questa "zona" lo scambio potrà essere "libero", ma sarà certamente ineguale e quindi andranno ad accentuarsi le contraddizioni esistenti e a prodursi nuovi, abissali divari di reddito e di servizi fra l'UE e i residui paesi terzi mediterranei.
In sostanza, il rischio che si comincia ad avvertire nei paesi delle rive sud ed est del Mediterraneo, è quello di uno sposta-mento del baricentro dell'interesse economico e dell'impegno finanziario europei verso i Paesi di nuova adesione, a scapito di quelli dell'area mediterranea.

Riva sud: crescita demografica e nuove migrazioni
Dobbiamo avere piena coscienza che il fallimento della prospettiva d'integrazione euro-mediterranea getterebbe questi Paesi (quasi tutti retti da regimi politici illiberali) in una condizione di grave instabilità politica e di estrema precarietà sociale ed economica, e li
spingerebbe nel vortice dell'integralismo politico-religioso, divenendo facile preda dei movimenti dell'islamismo politico più radicale.
Sarebbe questa una prospettiva drammatica, rovinosa non solo per questi popoli e paesi, ma per l'intero bacino mediterraneo e per l'Europa che, per crescere e affermare il suo ruolo nel mondo, non può permettere una frattura così traumatica e destabilizzante ai suoi confini. 
Oggi più che mai, la convivenza pacifica tra tutti i popoli del mediterraneo è la condizione primaria per lo sviluppo economico e democratico di questo bacino, all'interno del quale si agitano problemi e squilibri di vario tipo.
Fra i quali non sono da sottovalutare quelli che potrebbero derivare dalla crescita demografica che da qui al 2025, secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, porterebbero la popolazione globale dei PTM dagli attuali 229 milioni a 331 milioni di abitanti.
Più di 100 milioni di unità, in gran parte giovani sotto i 25 anni, che, non trovando un inserimento nel mercato del lavoro locale, saranno spinti ad emigrare, a qualsiasi costo, verso l'Italia e verso altri paesi europei.   
Un'incidenza davvero "destabilizzante" in rapporto alla crescita prevista nei 5 paesi rivieraschi dell'Europa del sud nei quali, nello stesso periodo, la popolazione si accrescerà di soli 4 milioni di unità, passando dagli attuali 176 a 180 milioni di abitanti.

Cooperazione triangolare agroalimentare
Perciò, dopo Copenaghen, è necessario rilanciare il sistema di relazioni euro-mediterranee, verificare l'efficacia delle procedure per spendere bene quei 13 miliardi di euro, messi a disposizione dall'Unione col programma "Meda 2" per il pe-riodo 2000-2006, per favorire lo sviluppo socio-economico, democratico e culturale dei PTM e la realizzazione dei pro-getti di armonizzazione con gli obiettivi indicati nei trattati.
Per altro, c'è da segnalare che a tale, enorme mole di finan-ziamenti possono accedere anche enti pubblici e soprattutto imprese private dei Paesi europei che desiderano attuare ini-ziative economiche, culturali e sociali in compartecipazione con soggetti dei PTM.
Il ricorso a "Meda 2" può diventare una via praticabile per mettere in atto iniziative di cooperazione anche nel settore agroalimentare, soprattutto nel campo della manifattura e della commercializzazione dei prodotti agricoli.
A titolo d'esempio, desidero qui ricordare un'ipotesi messa allo studio dal nostro ministero dell'Agricoltura tempo addie-tro e relativa ad un progetto di cooperazione "triangolare" in questo settore fra Sicilia, Ungheria (importante produttore agricolo) ed alcuni paesi mediterranei mirata a fornire gli interessanti mercati del Medio Oriente e della regione del Golfo.
Mi domando: è possibile oggi, alla luce della decisione di allargamento, esplorare nuove vie di cooperazione, di parte-nariato in questo come in altri settori, fra le regioni mediter-ranee e i paesi che entreranno nella UE?

Una divisione internazionale delle produzioni agricole
Così come c'è da chiedersi perché la Regione, che tante competenze si è vista attribuire in questi campi, non si è attivata adeguatamente per usufruire, d'intesa con altre, dei fondi stanziati col secondo programma Meda?
Purtroppo, i dati indicano il permanere di un imperdonabile ritardo nella capacità di spesa dei vari paesi che nel caso di Meda1 non ha superato complessivamente il 40% delle somme stanziate.
Insomma, anche nella gestione della politica del partenariato euromed sta prendendo piede la triste piaga dei "residui passivi" che- com'è noto- i meccanismi comunitari riescono a recuperare, magari dirottandoli verso altre destinazioni.
Alla luce di queste difficoltà- e mi avvio alla conclusione- l'inevitabile conseguenza appare essere quella di una concorrenza estrema, reciprocamente dannosa, fra produzioni agricole dei PTM e delle regioni rivierasche dei Paesi del sud-Europa; la tanto temuta "guerra tra poveri".
La sfida che invece bisognerebbe lanciare, dalla Sicilia, da Palermo, è quella di elaborare un'ipotesi concertata di partenariato nel settore agricolo mediterraneo, mediante un coordinamento in ambito Euromed per giungere a una sorta di nuova divisione internazionale delle produzioni e delle specializzazioni per evitare esuberi e inutili duplicazioni.

Un sistema agroalimentare mediterraneo
L'idea dovrebbe essere quella di creare un vero e proprio sistema agroalimentare da proporre come punto di riferimento per l'intero bacino mediterraneo ed anche, perché no, per quei tanti paesi dell'Africa sahariana e subsahariana letteralmente devastati dalla fame e dalla siccità, ai quali bisogna guardare con una più generosa solidarietà.
In tale contesto, la Sicilia e il mezzogiorno dovrebbero puntare a diversificare e a qualificare la loro produzione agricola per meglio rispondere alla domanda sempre più esigente proveniente dai mercati locale, europeo e mondiale; senza trascurare la capacità di assorbimento del turismo, un settore economico di fondamentale importanza e di grande prospettiva per tutti i paesi del bacino mediterraneo.
La crisi che la Sicilia, ma anche l'Italia, stanno vivendo come inizio di un preoccupante declino non è dovuta solo all'inade-guatezza delle classi dirigenti, ma soprattutto alla mancanza d'idee valide, dell'incapacità di progettare il futuro dentro i nuovi, vasti orizzonti della globalizzazione, dell'innovazione scientifica e tecnologica, del gigantesco sforzo di riassetto dei poteri nel mondo.
Abbiamo bisogno d'idee nuove, forti e mobilitanti, per uscire dal torpore fetido di una gestione asfissiante del quotidiano che rischia di relegare la Sicilia in una condizione di estrema marginalità, dominata da un "rinnovato" sistema di potere politico e mafioso.
Per tornare ai tempi specifici del convegno, si è detto- giustamente- delle grandi potenzialità del "biologico", della notevole diffusione della dieta mediterranea in ogni angolo del pianeta e quindi della capacità di penetrazione dei nostri prodotti su tutti i mercati mondiali (clamorosi sono i dati relativi ai vini siciliani), desidero concludere con una breve considerazione relativa alle opportunità offerte dal settore turistico.

Agroalimentare e turismo
La Sicilia è al centro del Mediterraneo ovvero del più grande bacino turistico del pianeta dove, ogni anno, oltre al turismo interno ai singoli paesi (che non si riesce a stimare con precisione) arrivano circa 180 milioni di turisti internazionali, appartenenti ad una fascia di reddito medio-alta, in gran parte europei e di altri paesi OCSE.
Una massa enorme di persone, le quali oltre al mare e al sole, alle bellezze archeologiche e paesaggistiche, sono alla ricerca di una gastronomia tipicizzata e di qualità.
In Italia, nel 2001, il movimento turistico interno e interna-zionale ha raggiunto la ragguardevole cifra di circa 80 milioni di arrivi, dei quali soltanto 4 milioni in Sicilia.
Questi dati, seppure molto schematici, confermano la vitalità del comparto turistico nazionale (uno fra i più importanti al mondo) come campo privilegiato di sbocco dell'offerta agroalimentare e rilevano le enormi difficoltà presenti in Sicilia che certo non può continuare a sottoutilizzare una risorsa primaria e socialmente proficua come il turismo abbinato al mare e alla terra.                                                                                                                
Naturalmente, per raggiungere questo obiettivo è necessario un concorso di sforzi e di azioni combinate, mirate all'espan-sione programmata e compatibile con l'ambiente, alla quali-ficazione delle produzioni agricole mediterranee,.
Capaci cioè di garantire sicurezza e qualità ai consumatori, e quindi di produrre un innalzamento del valore aggiunto, a garanzia dell'occupazione e dei redditi dei lavoratori e dei produttori.
Non ho una ricetta da proporre, tuttavia sappiamo che è necessario, soprattutto in Sicilia, rimodulare lo sviluppo dell'agricoltura alla luce delle innovazioni e dei grandi mutamenti cui abbiamo accennato, sulla base di uno sforzo finanziario ed organizzativo coordinato.
Cominciando ad affrontare sul serio- e non come un'eterna e clientelare emergenza- il suo problema principale: quello dell'acqua e dei sistemi d'irrigazione.
Anche in questo campo, la ricerca delle soluzioni deve tener conto della dimensione mediterranea, poiché la mancanza d'acqua è comune a tutti i Paesi mediterranei i quali costitui-scono un insieme solidale, visto che gli eventi si originano dagli stessi fenomeni.

* Relazione al convegno "Orizzonti mediterranei" della FLAI-CGIL, Palermo 21 gennaio 2003.










MEDITERRANEO,
LA CENTRALITA’ RITROVATA

Punto di congiunzione di tre continenti:
Asia, Africa, Europa
Passata la sbornia delle candidature, si attendono i prog-rammi. Sperando che qualche clone siculo non imiti il gesto, terribile e inquietante, del signor Berlusconi.   
Programmi seri, fattibili, non slogan propagandistici e nem-meno l'elencazione oziosa, scopiazzata delle tantissime cose da fare.
Servirebbero, cioè, quattro cinque idee forti, selettive capaci di delineare un processo virtuoso che proietti la Sicilia in senso bi-direzionale: verso l'Europa e il Mediterraneo.
Misure incisive per liberare, gradatamente, la Regione di tutta la zavorra accumulata e affidarle un ruolo dinamico, in sinto-nia con talune tendenze che vedono il Mediterraneo, final-mente, divenire punto di congiunzione attiva di tre continenti: Asia, Africa ed Europa.
Nel bene e nel male, il Mediterraneo sta recuperando la cen-tralità perduta a seguito della scoperta dell'America.
Anzi, oggi, la sua importanza si è accresciuta giacché allora non c'erano il canale di Suez e le attuali immense risorse da trasportare e scambiare da e verso l'Asia.
A me- che da decenni vado prefigurando questo tipo di evoluzione- fa rabbia vedere la  Sicilia, che del Mediterraneo è luogo baricentrico, impreparata, inerte davanti ai nuovi scenari, alle grandi opportunità che si profilano:
dalla zona di libero scambio euromediterranea alle nuove relazioni econo-miche fra Europa e Asia, alla gran massa di petrodollari dei paesi del Golfo che si orientano verso il Mediterraneo e l'Africa del nord.
Insomma, mentre intorno all'Isola tutto è in movimento, il ceto dominante locale è rimasto fermo a implorare un posto fra le regioni dell'obiettivo 1, cioè fra i poveracci dell'U.E.
Ancora nel segno del clientelismo sprecone che ha divorato una caterva di miliardi di fondi comunitari, spesi in mille rivoli o non spesi affatto, cui seguirà un'altra più appetitosa, a copertura del periodo 2007-13.
Il tempo della nuova legislatura.
Non a caso, il centro-destra siciliano (in difformità dello schema nazionale) si è accordato per spartirsi la colossale torta, alla quale spera di aggiungere i fondi Fas e i miliardi del ponte sullo stretto.

Investimenti e crescita sostenibile del turismo
Per il Mediterraneo invece solo parole e nessuna idea seria, lungimirante.
A cominciare dal settore del turismo, in forte espansione in tutto il bacino, tranne che in Sicilia dove gli investimenti privati arrivano col contagocce e quando qualcosa arriva è costretta a dimenarsi fra mille difficoltà. Come nel caso del resort di lusso che sta sorgendo fra Sciacca e Ribera per iniziativa della "Rocco Forte" la quale minaccia di mollare tutto a causa dell'ennesima interruzione dei lavori.
Stiamo parlando di un investimento di oltre 120 milioni (in parte sovvenzionato dallo Stato) che tante speranze ha suscitato nella zona.
Eppure, nei confronti di questa iniziativa si sono abbattute diverse inchieste della magistratura sollecitata da una ventina di esposti presentati da varie associazioni ambientaliste. L'ultima per la realizzazione abusiva di un paio delle 18 buche del campo di golf.
Certo la legge è legge, anche quando equipara una buca da golf ad un edificio.
Così, per far realizzare le due buche a sir Rocco Forte biso-gna modificare la vecchia legge che l'Ars, in tutt'altre fac-cende affaccendata, non ha modificato prima di sciogliersi.
Con ciò- sia chiaro- non si vuol secondare il suo mancato rispetto, ma semplicemente auspicare una razionalità, un'intelligenza della legge che deve garantire l'equilibrio fra giusta tutela dei luoghi e crescita sostenibile del turismo e di altre attività.
Un percorso certo non facile. Qui sta il senso delle nuove sfide per una regione davvero riformata. La politica, le forze sociali, le stesse associazioni ambientaliste dovrebbero di più, e in linea preventiva, farsi carico di tali problemi, anche per evitare che, in casi come questo, si possa pensare a una sorta di "accanimento ambientalista".

Il gran flusso di petrodollari verso la Tunisia
Tutto ciò accade a Sciacca per un resort di 120 milioni di euro. Vediamo ora cosa succede a poco più di 200 km, sulla riva opposta, in Tunisia, dove sono in arrivo investimenti per decine di miliardi di dollari. La gran parte provengono dai paesi del Golfo che non sanno più dove allocare il surplus monetario derivato dai vertiginosi aumenti dei prezzi del petrolio.
Rilevante è il caso degli Emirati arabi che hanno deciso di puntare sulla Tunisia e su altri paesi nordafricani, nostri dirimpettai.
Negli stessi giorni in cui a Sciacca la gente scendeva in piaz-za per tentare di trattenere la Rocco Forte, a Tunisi si sotto-scrivevano le intese governative per un nutrito pacchetto di progetti proposti da diverse società degli Emirati.
Alcuni davvero eclatanti:
- "Al Maabar international Investments", prevede d'investire di 10 miliardi di dollari (mld$) per realizzare il suo più grande progetto immobiliare sul continente africano;
- "Sama Dubai" ne investirà 14 per realizzare, sul lago sud di Tunisi, l'avveniristico progetto della "Città del secolo";
- "Emiratie Emaar" ha stanziato 1,8 mld$ per costruire, sempre ai bordi del lago di Tunisi, il "Marina Al Qoussour" ossia 4000 siti residenziali, sei grandi alberghi a mare, un porticciolo turistico con 315 posti-barca, diversi centri sportivi e club d'intrattenimento;
- il gruppo "Boukther" investirà 5 mld$ per la creazione della nuova città dello sport nel parte nord del lago di Tunisi.
In totale 31 miliardi di petrodollari sonanti che produrranno redditi e centinaia di migliaia di posti di lavoro. Una presenza, forse, troppo invasiva che abbiamo richiamato non per proporla come modello, ma per dare un'idea della dimensione dei flussi finanziari e dei progetti con i quali si dovrà confrontare la Sicilia.

(in “La Repubblica”26/3/2008)


 DA SIGONELLA LA GUERRA AL TERRORISMO?

Ci risiamo! Invece di smantellarla, si vorrebbe trasformare la base italiana di Sigonella in una postazione avanzata delle forze armate Usa nella guerra al terrorismo internazionale.
Questo è il succo di una recente intervista che il gen. James Jones, comandante in capo delle forze armate Usa e alleate in Europa, ha concesso alla rivista militare "Stars and Stripes".
L'alto ufficiale quantomeno non esclude tale eventualità nel quadro di una prevedibile (se non programmata) guerra antiterroristica a vasto raggio che dall'Est europeo si potrà estendere all'Africa, passando per il Medio Oriente e per il Caucaso.
Si vorrebbe caricare la Sicilia, già abbondantemente milita-rizzata, di nuove micidiali strutture per avventure decise, al di fuori dell'Onu e della Nato, da un governo che ha fatto della guerra preventiva (contro chi sul momento più gli aggrada) il suo pericoloso emblema.

Una prospettiva allarmante
Una prospettiva a dir poco allarmante che farebbe della provincia di Catania il centro di una strategia straniera contro un terrorismo di difficile identificazione e dotato di un'alta potenzialità devastatrice, che punterebbe il suo terrificante armamentario (autobombe, kamikaze e perfino - si teme - ordigni nucleari e batteriologici) contro i luoghi che ospitano le postazioni da cui si dipartono le operazioni miranti al suo annientamento.
Attacco e rappresaglia, anche indiscriminata, secondo la logica bestiale della guerra, come vediamo tutti i giorni a Bagdhad, in Afghanistan, in Cecenia, nei Territori occupati, ecc.
Insomma, un frutto amaro piantato nel cuore della lussureg-giante piana di Catania, la zona più promettente dello svilup-po isolano che ha tutte le carte in regola per rilanciare i settori portanti della sua economia: l'industria informatica, il turi-smo, l'agricoltura, i servizi all'impresa, i sistemi di trasporti.
La Sicilia, che si liberò per il rotto della cuffia dei 120 micidiali missili nucleari di Comiso, oggi rischia di essere gravata di una postazione così pericolosa.

Ieri i missili a Comiso oggi la base antiterrorismo a Sigonella
Certo, prima di gridare allo scandalo è doveroso procedere alle necessarie verifiche, tuttavia non si può sottovalutare la portata di una notizia così "esplosiva" e gravida di dannose conseguenze.
Tuttavia, meglio mettere le mani avanti, anche perché non sarebbe questa la prima volta che in Sicilia le voci e le ipotesi giornalistiche si trasformano in realtà drammatiche.
Ricordo che quando (3 febbraio 1981) presentai la prima (in assoluto) interrogazione al ministro della Difesa circa la ventilata ipotesi d'installare i missili nucleari a Comiso molti, anche nel mio gruppo, non vollero dare peso alla questione.
In pieno agosto, col Parlamento e con gli italiani in ferie, il governo Spadolini confermò quelle “voci” e ci fece la “bella sorpresa” di scegliere Comiso.
Tornando a Sigonella, c'è da dire che l'ipotesi non è tanto peregrina giacché - ammette il generale Jones nella citata intervista - "stiamo cercando una postazione a sud delle Alpi che si possa rivelare il luogo migliore per concentrare le nostre operazioni speciali antiterrorismo e per agevolare le operazioni nell'area del Mediterraneo e in Medio Oriente".
Il campo di tale ricerca si riduce a due basi: Rota in Spagna e, appunto, Sigonella. Anche se l'allarme è stato lanciato per primo dal quotidiano spagnolo "El Pais", è da ritenere impro-babile che la scelta possa cadere su Rota.
Sia in considerazione dell'indirizzo politico del governo Zapatero sia per ragioni logistiche che, oggettivamente, propendono per Sigonella, ovvero per la più grande base attrezzata nel Mediterraneo per il cui potenziamento gli Usa hanno stanziato 670 milioni di dollari.
E poi "a sud delle Alpi" non c'è Rota ma Sigonella.

Il ministro signorsì
Una prospettiva a dir poco inquietante contro la quale hanno assunto posizione vari esponenti dei partiti del centro sinistra, mentre tace la CdL, compreso lo squadrone dei 61 eletti in Sicilia.
A rilevarne i rischi, in primo luogo, per la Sicilia è stato il senatore DS Costantino Garraffa che, unitamente ad altri col-leghi di gruppo (Montalbano, Battaglia, Lauria, Rotondo e Montagnino), hanno prontamente interrogato il ministro della Difesa, on. Martino, per sapere cosa intende fare per accer-tare "i veri intendimenti dell'amministrazione Usa e quali procedure verranno inoltrate alla luce di quanto stabilito dal Memorandum of understanding".
Per tutta risposta, Martino, da buon siciliano, invece di precipitarsi in Parlamento per rispondere alle interrogazioni, ha rilasciato una dichiarazione (all'Ansa) con la quale, pur riservandosi una valutazione nelle sedi istituzionali, avalla l'ipotesi formulata dal gen. Jones, ritenendola "un'idea valida... non solo per l'importanza del tipo di struttura che si verrebbe a creare, ma anche perché sarebbero creati nuovi posti di lavoro in Sicilia".
Ancora fumo negli occhi per i disoccupati, giacché si sa che a Sigonella verrebbe a operare, magari trasferito da altre basi, soltanto personale militare americano dei corpi speciali e dei servizi. E poi, anche se si dovesse creare qualche posto di scopino non lo potremo barattare con la nostra relativa tranquillità e sicurezza e - se il signor ministro permette – con la nostra dignità di siciliani che non sono disposti ad accettare un lavoro macchiato dal sangue della guerra.
Per altro, ne sarebbe stravolta la prospettiva generale dell'Iso-la che - come rileva Garraffa - si fonda sul rifiuto della guerra e su un ruolo di pace nel contesto del partenariato euro mediterraneo che, nel 2010, dovrebbe dar vita alla più grande zona di libero scambio del pianeta.

(in "la Repubblica" del 8 maggio 2005)

 

BASI MILITARI:
PATTI SEGRETI E FINTI BISTICCI

La polemica infuria e la protesta popolare monta intorno al via libera dato da Prodi all’enorme ampliamento della base militare Usa di Vicenza, pattuito e autorizzato dal precedente governo Berlusconi.
In questo tourbillon di posizioni confuse e di legittime prote-ste c’è qualcosa di non detto, una sorta d’ipocrisia che certo non aiuta a fugare le giuste preoccupazioni dei vicentini, anzi le aggrava.
Sullo sfondo, oscuro, di questa vicenda si agitano aspetti delicati riguardanti la sicurezza e la sovranità dell’Italia che, per altro, potrebbero mettere a dura prova la coesione dell’attuale maggioranza, offrendo spunto a Berlusconi e soci di tentare un’insidiosa manovra per debilitare e dividere il centro-sinistra.
Una trappola in cui non si dovrebbe cadere, senza per questo rinunciare ai chiarimenti necessari e a esperire tutti i tentativi possibili per concordare con l’amministrazione statunitense eventuali modifiche alle intese precedenti.
Uscendo dalle logiche del fatto compiuto e dei diktat, inammissibili fra paesi sovrani e alleati.
Sopra di tutto aleggia un interrogativo che in questo acceso dibattito nessuno ha posto: Prodi poteva negare agli Usa il via libera?
Certo, egli avrebbe potuto agire diversamente, più collegial-mente e tenendo in maggior conto la volontà delle popola-zioni locali, ma- credo- che, per il tipo di accordi bilaterali vigenti fra Italia e Usa, in gran parte segreti, non avrebbe potuto decidere diversamente. 
E non si tratta di filo o di anti americanismo. Queste sono sciocchezze cui ricorrono coloro che sono stati colti con le mani nel sacco. Si tratta di ben altro che richiama la natura segreta e vincolante del sistema di accordi bilaterali fra Italia e Usa a proposito di basi e servitù militari.

Prodi non può bloccare un accordo firmato dal  governo Berlusconi
Per Prodi questo passaggio è stato sicuramente drammatico, anche se poteva risparmiarci l’infelice boutade della “questione urbanistica”.
Ai piani alti del governo, delle istituzioni e della politica si sa che così non è...
Bisognava parlare chiaro e investire la responsabilità del Parlamento per cancellare, finalmente, il "buco nero" della riservatezza che inghiotte quasi tutti i patti di questo tipo.
Il no italiano poteva essere espresso (e non lo fu) solo in sede di negoziazione della richiesta d’ampliamento avanzata dagli Usa.
In quella sede, il governo Berlusconi ha acconsentito e
sottoscritto il relativo patto, con tutti i vincoli derivanti.
Perciò, nessuno crede che tali patti non esistano o siano sconosciuti ai responsabili.
Due sono i casi: o si è trattato di una graziosa concessione, sulla parola, del governo Berlusconi o di un patto soscritto (dai due governi) e classificato segreto.
Nel primo caso l’accordo non avrebbe alcuna legittimità e validità, nel secondo caso il governo in carica avrebbe dovuto conoscerlo.
Spiace che non siano stati informati, nelle forme dovute, Parlamento e cittadini.
Data la natura vincolistica degli accordi bilaterali esistenti fra Italia e Usa (che più avanti vedremo) a Prodi non restavano molte carte da giocare.
Forse si poteva (si potrebbe ancora?) trattare una diversa ubicazione.

Il “buco nero” dei segreti e delle complicità
La nuda verità è che tuttora non si conoscono gli oneri e i vincoli contratti con tale patto e quindi non si sa quale impatto avrà sulla città di Vicenza in termini di vivibilità e di sicurezza e, in generale, sul Paese  visto che comporta una certa cessione di sovranità, al di fuori del quadro Nato, in favore di uno Stato estero seppure alleato.
Per questo, la gente vuol capire e soprattutto vedere le carte e, se possibile, evitare questo nuovo fardello all’Italia che già ospita un numero eccessivo di basi militari straniere (Nato e non solo) che la espone a pesanti condizionamenti e a pericolose responsabilità.
D’altra parte, non è questa la prima volta che si verifica una situazione così imbarazzante.
Visti i precedenti, relativi ad altre basi Usa installate in Italia, c’è da ritenere che l’ampliamento di Vicenza sia stato pattuito in virtù dell'accordo generale bilaterale, stipulato il 20 ottobre 1954, il cui contenuto rimane "riservato", che disciplina la concessione e l'uso di basi militari a favore degli Usa.
L’inghippo nasce dal fatto che fra segreti militari e misteri politici questo tipo di accordi finiscono per essere inghiottiti dal “buco nero” della riservatezza, creatosi a partire dagli anni ’50, che non consente di vederci chiaro nemmeno ai parlamentari e alla gran parte dei ministri.
Tale accordo è un testo di esecuzione del trattato militare bilaterale del 1952 "sulla mutua sicurezza tra Usa e Italia" che, nella fattispecie, non può essere considerato come accordo di esecuzione del Trattato Nato. Con l'aggravante che non è stato mai portato in Parlamento per la ratifica.
Tutto in segreto, dunque. In Italia. Mentre i Parlamenti di altri Paesi che ospitano basi Usa, quali Spagna, Portogallo, Grecia e perfino Turchia, hanno sempre deliberato sul delicato argomento.
Evidentemente, il Parlamento italiano è da meno.

L’Urss è crollata, ma in Italia la “guerra fredda” continua
Questo è il punto politico da cui partire per evitare in futuro situazioni incresciose come l’attuale e per tutelare sul serio la nostra sovranità nazionale.
A quasi 60 anni dal primo accordo bilaterale (27 ottobre 1950), non è cambiato nulla: permane il regime di segretezza a cui si è aggiunto il vincolo della reciprocità in caso di disdetta, come ricordato dall'ex ministro della difesa Martino, nell'audizione del 21 gennaio 2003, alle commissioni di Senato e Camera.
Si tratta, dunque, di una vecchia storia che affonda le radici nella “guerra fredda” e ancora condiziona la vita delle istituzioni democratiche. Anche dopo il crollo dell'Urss e lo scioglimento del Patto di Varsavia.
Ricordo che, a metà degli anni '80, sollevammo, per conto del PCI, la questione in Parlamento chiedendo la declassificazio-ne dell'accordo del 1954 e dei relativi annessi e la regolariz-zazione dell'intera materia ai sensi dell'art.80 della Costi-tuzione che impone la ratifica parlamentare sui trattati che comportano, in qualche modo, una cessione di sovranità. Forse è venuto il tempo di ri-sollevarla. Questa volta, avendo al governo una coalizione progressista, la questione potrebbe essere degnamente risolta.

(in "Liberazione"- 27 gennaio 2007)




ESISTE ANCORA LA QUESTIONE MERIDIONALE?

Il Sud e la Sicilia verso la nuova frontiera mediterranea *

                  
Esiste ancora la questione meridionale?
Non è una boutade, ma una domanda pertinente che sollecita una verifica della realtà attuale di questa grande area poco sviluppata che comprende 8 regioni, suddivise in 28 province, che rappresentano il 75% delle acque territoriali, il 41% della superficie e il 35% della popolazione italiane.
Un territorio carico di storia e di cultura, ma segnato da acute contraddizioni sociali ed economiche che parevano insanabili per via ordinaria.
Tanto che, agli inizi degli anni ’50, la politica italiana decise di affidare il Sud alle cure di un ministero ad hoc istituito e agli interventi operativi speciali della Cassa per il Mezzogiorno (Casmez).
Da allora a oggi qualcosa è cambiato in meglio, tuttavia la questione meridionale resta come palla al piede dell’Italia. Se non altro perché è rimasto immutato il divario col Nord.
Recenti dati Istat ci dicono che l’apporto del Sud alla formazione del PIL italiano è stato nel 2007 del 23,8% mentre nel 1979 era del 24,0%.
Addirittura una leggera flessione che segnala il permanere di una difficoltà di fondo che acuisce il disagio sociale e scoraggia gli investimenti italiani e soprattutto stranieri.
Secondo l’ultimo rapporto Svimez, nel 2006, solo lo 0,66% degli investimenti diretti esteri è stato allocato nel Sud mentre il 99,34% si é orientato verso il centro nord.
All’interno del dato globale di segno negativo, si registrano significativi progressi a macchia di leopardo, concentrati specie nelle 4 regioni più piccole che stanno “fuoriuscendo” dal Mezzogiorno.
La svolta riguarda Abruzzo, Molise, Basilicata e Sardegna che, nel 2007, hanno fatto registrare un Pil pro-capite superiore alla media meridionale attestatasi su 17.552 euro.
I fattori di tale performance sono molteplici: innovazione, prossimità con i mercati, efficienza delle infrastrutture e dei servizi, ecc. Tuttavia, il fattore più influente, e unificante, sembra essere l’assenza del predominio mafioso sui loro territori.
L’esatto contrario di quanto accade nelle rimanenti regioni Calabria, Sicilia, Campania e Puglia, tutte al di sotto della media del Pil, segnate da una soffocante presenza della crimi-nalità organizzata (rispettivamente: Ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra e Sacra Corona Unita) che condiziona l’economia, l’amministrazione e, in una certa misura, la società civile.

Un Mezzogiorno dentro il Mezzogiorno
Una vistosa divaricazione interna che ha creato un mezzogiorno dentro il mezzogiorno.
In Calabria, Sicilia e Campania non c’è un vero mercato, non c’è libera concorrenza, ma prevalgono forme di produzione e di accumulazione pre- moderne, basate sulla violenza e sulla illegalità, che consentono alle mafie di produrre un “fattura-to”stimato (forse per difetto) in 130 miliardi di euro, corris-pondente al 40% del Pil meridionale e al 10% di quello italiano.
Un’incidenza davvero ragguardevole, ben oltre i limiti fisiologici tollerabili, maggiore di quella derivata dal fatturato di alcuni grandi gruppi industriali italiani.
Un fiume di denaro che, oltre a sfuggire in gran parte al fisco, fa della criminalità uno degli attori principali dello scenario economico e finanziario del Paese, con articolazioni impor-tanti in diversi Stati europei, dell’est e dell’ovest.
A ben pensarci, senza questo 10% d’origine malavitoso forse l’Italia non potrebbe sedere nel club del G8.
Molti, soprattutto all’estero, si chiedono: perché lo Stato democratico, i diversi governi succedutisi non hanno mai intrapreso una lotta seria, definitiva contro le organizzazioni criminali? 
Il pensiero corre ai voti che le mafie convogliano sui partiti di governo. Ma il voto, da solo, non basta a spiegare un fenome-no così potente e radicato.
In realtà, la motivazione principale credo stia in questi enor-mi flussi di capitali che, per vari canali, anche leciti, affluis-cono nel sistema economico e nel circuito finanziario nazio-nale e internazionale.
Insomma, senza tale apporto, ormai consolidato, verrebbe a mancare un pilastro finanziario importante, difficilmente sostituibile con risorse lecite.

Immigrazione e federalismo egoistico
Ma torniamo al Meridione dove al permanere di dinamiche così perverse si registra l’attivazione di alcune più virtuose che hanno favorito l’emancipazione economica di talune regioni.
Tutto ciò è successo nel corso degli ultimi tre lustri (1992-2007) ovvero durante la lunga e confusa (e non conclusa) fa-se della transizione politica italiana, apertasi con l’esplosione di “tangentopoli” (1992) che ha travolto il sistema politico della ”prima Repubblica” e capovolto i termini del tradizio-nale rapporto nord-sud.
Nel senso che, anche grazie alle pressioni ricattatorie della Lega di Bossi, nell’agenda politica e di governo non figura più la “questione meridionale”, ma quella “settentrionale”, accompagnata dalla rivendicazione di un “federalismo fisca-le” caricato di un significato punitivo verso il sud “sprecone”.
Il progetto di riforma federalista, già varato dal governo Ber-lusconi, se attuato rischia di perpetuare, di acuire il divario fra nord e sud e quindi d’innescare una contrapposizione fra regioni ricche del centro nord e regioni meno sviluppate del sud che potrebbe disarticolare l’autorità dello Stato e l’unità della nazione.
Si creerebbe, così, il clima perfetto per consentire alla Lega di far passare la sua idea costitutiva di secessione del nord, mai veramente abbandonata.
Un progetto subdolo, disastroso per l’Italia e per l’Europa, che non si nutre soltanto dell’egoismo razzista di taluni gruppi improvvisamente arricchitisi, ma che fa leva su alcuni fenomeni sociali nuovi che stanno modificando il tradizionale rapporto fra nord e sud del Paese.
Fra questi, grande importanza assume l’immigrazione extracomunitaria. L’afflusso, piuttosto recente, nelle regioni del centro-nord di milioni d’immigrati ha fatto venir meno uno dei presupposti del “patto scellerato” sul quale si è fondato, dall’Unità in poi (1860), il difficile equilibrio fra nord e sud. Com’è noto, quel “patto”, mai ufficialmente ammesso, assegnava al Sud una doppia funzione subalterna verso l’industria del nord: di fornitore di braccia e cervelli e di grande mercato di consumo.
Oggi, il nord, giunto a uno stadio di saturazione del suo sviluppo e in forte competizione con altre realtà industriali europee e mondiali, alle braccia meridionali preferisce quelle provenienti dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina.
Meglio se clandestine poiché costano meno e non hanno diritti da rivendicare.
Tuttavia, il Nord non può fare a meno del Mezzogiorno che resta pur sempre un importante mercato (circa 20 milioni di consumatori) e luogo strategico di deposito, trasformazione e distribuzione di prodotti energetici. Soltanto in Sicilia si raf-fina il 40 % delle benzine, mentre sulle sue coste approdano due giganteschi metanodotti provenienti dall’Algeria e dalla Libia.
Nei nuovi programmi, in corso di attuazione, è prevista, sempre in Sicilia, la realizzazione di due grandi impianti di ri- gassificazione e almeno di una centrale nucleare.
Insomma, il sud sempre di più acquisterà un peso decisivo nella strategia di approvvigionamento energetico del Paese.


Il Mezzogiorno ponte europeo nel Mediterraneo 
Anche se la Casmez è stata abolita, l’intervento speciale nel Sud, in misura ridotta, è continuato sotto altre forme.
In particolare, utilizzando i vari progetti comunitari, purtrop-po concepiti ed attuati in continuità col vecchio meccanismo e, pertanto, con risultati vicini allo zero.
Peccato! Poiché si è persa un’altra importante occasione per il Sud.
Infatti, oltre ad avere sprecato una gran quantità di denaro pubblico, si rischia di non cogliere le tante opportunità che si produrranno, nei prossimi anni, grazie allo sviluppo globale e multi polare nella zona mediterranea.
Il Mezzogiorno, fisicamente e storicamente proiettato
nell’area mediterranea, potrebbe candidarsi a divenire zona-cerniera, ponte del partenariato e della zona di libero scambio euro-mediterranei.
Cambierebbe così il suo ruolo: da area emarginata a punta più avanzata dell’Italia e dell’Europa del dialogo e della coopera-zione con i Paesi rivieraschi.
Inoltre, sappiamo che nel Mediterraneo, speriamo al più presto pacificato e politicamente co-gestito, si materializzerà, attraverso il canale di Suez, una fra le più sconvolgenti novità sul terreno dei rapporti economici, culturali e politici fra Europa e Asia.
Per il sud italiano, così come per altri sud europei, si apre, infatti, una prospettiva inedita, rappresentata dai crescenti flussi commerciali e finanziari provenienti dall’Asia e dal-l’Africa, in particolare, oggi, da Medio Oriente, Cina, India, Giappone, Oceania.
Una prospettiva che potrebbe consentire al Mediterraneo un “ritorno” al ruolo storicamente assolto fino al 1492.

Spostare a sud l’asse dello sviluppo italiano ed europeo
Il sud è attrezzato per intercettare, accogliere almeno una parte di tali flussi? Credo, proprio di no o solo in parte. Anche perché non supportato da una politica estera orientata a tale scopo.
La politica italiana verso il Mediterraneo continua a essere eclettica, senza un centro, in qualche caso pittoresca, e
soprattutto condizionata dagli egoismi razzistici della Lega nord.
Anche questo è un segno evidente del declino.
Una grande nazione non può, davvero, presentarsi al mondo così conciata.
L’Italia, cogliendo il nuovo clima derivato dall’elezione di Obama, deve operare una svolta nella sua politica estera, per mettere il Mezzogiorno al centro del nuovo scenario geo- economico mediterraneo che si configura come uno dei prin-cipali poli dello sviluppo mondiale in questo  nuovo secolo.
D’altra parte, se si vuole uscire dalla “crisi” rinnovati, biso-gnerà puntare sul riequilibrio produttivo del Paese, prendendo atto che lo sviluppo del nord è prossimo alla saturazione e che, quindi, soltanto il Mezzogiorno potrà garantire all’Italia una continuità di crescita razionale ed eco-compatibile. 
Appare necessario, pertanto, lo spostamento a sud, verso il Mediterraneo, dell’asse dello sviluppo per delineare una prospettiva economica virtuosa, di fuoriuscita dal parassi-tismo e dall’illegalità.
Molto sta alla politica, ai governi, ma anche ai cittadini del Sud, perché il mezzogiorno sarà- parafrasando un pensiero di Fernand Braudel- come lo vorranno meridionali.

Una nuova politica, un nuovo pensiero
A fronte di tali, possibili sconvolgimenti va anche aggiornata l’analisi teorica e politica della realtà meridionale, per indivi-duare nuove chiavi di lettura e nuovi strumenti d’intervento.
Riflessione necessaria anche per evitare che si accrediti nell’opinione pubblica internazionale un’idea riduttiva del Sud così com’è rappresentato da taluni libri o film di successo, compreso l’ottimo “Gomorra” di Roberto Saviano. 
Bisognerebbe, pertanto, aggiornare e, se del caso, superare talune teorie politiche e sociologiche meridionaliste che non reggono più al confronto con la realtà e con le tendenze attuali.
Anche la sinistra, le forze progressiste devono compiere uno sforzo coraggioso.
Un solo esempio. Davanti a mutamenti così radicali, impre-vedibili, penso sia limitativo attardarsi sulla diagnosi di Antonio Gramsci, com’è noto basata sul citato “patto scellerato” fra industriali del nord e agrari del sud, al quale contrapporre l’alleanza fra operai del nord e contadini poveri del sud.
Analisi lucidissima ma datata. Valida per interpretare il vec-chio contesto storico e politico.
Oggi, la gran parte di questi attori sociali sono ridimensionati nel loro ruolo politico ed economico, o fortemente emarginati nell’odierno contesto. Nuovi soggetti sono entrati in campo e soprattutto si è ampliata la prospettiva del Mezzogiorno in senso globale.
Insomma, fermo restando il suo ancoraggio all’Europa, il Sud deve ripensare, anche in chiave teorica, la sua strategia di crescita che necessariamente dovrà articolarsi in senso bi-direzionale: verso la dimensione planetaria dell’economia globale e quella regionale del partenariato euro-mediterraneo. Questa è la nuova, grande sfida per i prossimi anni.

Il declino della Sicilia, il suo fatale enigma
All’interno di tale prospettiva si dovrà ricollocare il ruolo della Sicilia, grande regione europea e mediterranea, segnata da aspri contrasti e da grandi potenzialità.
Isola-baricentro del Mediterraneo, in passato sede d’incontro fra culture diverse, la Sicilia vanta una storia pluri-millenaria e un ricco patrimonio archeologico e monumentale che ne fanno uno fra i più importanti “giacimenti” culturali del Pianeta.
E’ da circa 40 anni che andiamo proponendo, talvolta in soli-tudine, un’ipotesi euro-mediterranea per il futuro dell’Isola. Ora tutti si scoprono “mediterranei”.
Anche se, nel migliore dei casi, il Mediterraneo è argomento di conversazione, nel peggiore motivo per lucrare sui finanziamenti europei.
In questi decenni, poco o nulla si è fatto per valorizzare la naturale vocazione mediterranea della Sicilia e, soprattutto, per superare gli ostacoli interni ed esterni che ne impediscono una sua proiezione dinamica e moderna.
Quest’Isola lenta e dubbiosa verso un “progresso” invadente e livellatore, battuta dal vento di scirocco che qui giunge impregnato dell’eco torrida di lontani deserti africani, sembra chiudersi in se stessa, rientrare nel suo fatale enigma. Alla politica è subentrata la cabala: comanda chi meglio riesce ad interpretare il “mistero” della sua sopravvivenza.
Una fase difficile, dunque, segnata da una tendenza al declino generale e diffuso.
Certo, anche nell’Isola si registrano cambiamenti positivi, ma non tali da allinearla, per redditi e qualità di vita, alle tenden-ze in atto in altre regioni italiane.
Si tratta, infatti, di poche realtà pregevoli, anche d’eccellenza, che rischiano d’infrangersi contro una sorta di “circuito dell’illegalità”, eretto intorno all’Isola da forze potenti, che svilisce gli sforzi mirati a sviluppare la produzione e una moderna organizzazione dei servizi e delle professioni.
Un declino evidente accelerato da taluni passaggi cruciali, fra i quali il temuto capovolgimento di ruoli fra politica e “poteri forti”, a favore di questi ultimi. Com’ è successo un po’ dovunque nel mondo a seguito del prevalere delle pratiche neo-liberiste, la politica ha perduto il suo primato, altre entità si sono insediate al posto di comando.
Con una differenza però che in Sicilia a comandare non sono le grandi corporazioni multinazionali, ma oscure consorterie locali. 

E la palma non potrà più salire…
Nonostante questa specificità, la Sicilia non è una scheggia impazzita all’interno di un sistema sano. La sua condizione riflette l’andamento generale della situazione italiana.
Esiste, infatti, un legame forte fra l’isola e la penisola, di scambio e di reciproca influenza colto a più riprese anche dalla letteratura, soprattutto straniera. Alcuni esempi.
Goethe, nel 1787,  addirittura sentenziò: “Senza la Sicilia, l’Italia non lascia alcuna immagine nell’anima: qui è la chiave di tutto”. (1)
 Edmonda Charles Roux, premio Gongourt 1966, forse più realisticamente, ha rilevato : “La Sicilia, nel bene e nel male, è l’Italia al superlativo”. (2)
Il pensiero della Roux rende di più l’idea di una Sicilia “eccessiva” o, se si vuole, laboratorio-politico, anticipatore delle alleanze politiche nazionali.
Leonardo Sciascia intravide una “linea della palma” che dal-l’Isola sale verso il nord. Una dolente metafora per segna-lare il pericolo di un’esportazione del “modello siciliano”verso la penisola.
Punti di vista, naturalmente. Per altro, la profezia sciasciana non potrà più avverarsi poiché le palme non potranno più salire.
Almeno da Palermo, dove stanno morendo, attaccate da un parassita (il punteruolo rosso) che, come la vendetta di un dio spietato, sta facendo strage dei rigogliosi palmizi, fin dentro il celebre Orto botanico dei borboni.              

Un regime a sovranità limitata
Per queste ed altre ragioni, il solco fra La Sicilia e il Paese si allargato. Il nuovo spazio è stato occupato da un sistema di potere arcaico, familistico, parassitario e mafioso che ha bru-ciato le migliori risorse e prodotto una classe dirigente conso-ciativa, oscillante fra l’astrattezza politica e il gattopardismo più deteriore.
Un sistema opprimente che ha generato un regime a sovranità limitata che ha conculcato i diritti fondamentali dei cittadini, trasformandoli in favori da concedere in cambio di voti e/o di tangenti, e sfumato i doveri dei governanti.
E dire che il molto speciale Statuto di autonomia, che fa della Sicilia “una quasi nazione”, avrebbe dovuto garantire all’Iso-la il massimo dello sviluppo possibile.
A differenza di altre regioni autonome, quali la Val d’Aosta, il Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia, la stessa Sar-degna, l’Autonomia siciliana non ha prodotto i frutti sperati, ha deluso le attese, ha subito una sorte infelice: in parte non attuata e in parte abusata, stravolta.
Alla base di tale distorsione, penso ci sia un equivoco mai chiarito che di tanto in tanto riaffiora: l’autonomia invece di uno strumento di autogoverno e di crescita civile ed econo-mica, è stata concepita come un surrogato del separatismo, per erigere intorno all’Isola un recinto, una sorta
d’anello di fuoco, dentro il quale esercitare uno spudorato dominio e bloccare di là del Faro (di Messina) le innovazioni, i cambiamenti provenienti dall’Italia e dall’Europa.

Un secolo di migrazioni
Di conseguenza, oggi vediamo una regione bloccata nel suo naturale sviluppo, avvilita dal clientelismo, dalla disoccu-pazione, dal lavoro nero, sfregiata dall’abusivismo edilizio e non solo.
Si vive una condizione per molti versi insopportabile, con la quale devono fare i conti i cittadini e gli imprenditori onesti, ossia la stragrande maggioranza della popolazione.
In primo luogo, i giovani ai quali restano soltanto due alterna-tive: adattarsi o fuggire. Una terza via non è praticabile.
Si calcola che, nel quinquennio 2002-07, siano emigrati dall’Isola verso le ricche regioni del nord, almeno 150.000 giovani, in gran parte diplomati e laureati.
Ancora emigrazione! Per i siciliani, il novecento è stato il secolo dell’emigrazione.
Sono partiti a milioni verso le più lontane contrade del mondo e insieme ad altri hanno scritto uno dei capitoli più drammatici della storia universale delle migrazioni.
Si sperava che col boom economico italiano l’esodo si fosse interrotto. Invece è ripreso, anche se- nel frattempo- la Sicilia è divenuta terra d’approdo e di (mala) accoglienza per centi-naia di migliaia d’immigrati provenienti dal sud del mondo.
Oggi, con la recessione in atto, non sappiamo cos’altro potrà accadere.

Anche Platone se ne fuggì deluso
In questo clima di grave incertezza, molti si chiedono dove stia andando la Sicilia. Verso quale approdo, quale futuro? La risposta non è facile, anche se l’interrogativo non è più eludibile.
Il futuro è il grande assente nell’immaginario dei siciliani. Un po’ tutti ne avvertono la mancanza: chi parte e chi resta.
Eppure non si chiede un avvenire mirabolante, ma un futuro da normali cittadini europei, una prospettiva migliore di questo opaco presente.
Ai siciliani questo futuro è stato negato, rubato perciò prefe-riscono guardare al passato. Pensano e parlano al passato. Addirittura, nella parlata locale per indicare il futuro si usa il (verbo) presente.
Ostentano un orgoglio, talvolta smisurato, per il loro passato visto come una sorta di eternità volta all’indietro nella quale, come nota Pessoa “ciò che passò era sempre meglio”.
Ovviamente, questa assenza di futuro non è una devianza grammaticale, ma la spia di un disagio psicologico collettivo che nasce dall’esperienza storica e spinge i siciliani a rifugiarsi in un mondo sepolto, mitizzato, ritenuto, più a torto che a ragione, migliore dell’attuale. 
C’è chi chiama tutto ciò “pessimismo” inveterato, connatu-rato. Anche contro Leonardo Sciascia, per il quale la Sicilia era “irredimibile”, fu lanciata questa accusa che lo scrittore respinse con serena fermezza: “Come mi si può accusare di pessimismo se la realtà è pessima?”  (3)
In realtà, non si tratta di un’inclinazione pessimistica dei siciliani, ma della percezione di un male oscuro che permane nel tempo, fin dagli albori della storia siciliana, già durante la splendida civiltà siculo- greca.
Significativa appare, a questo proposito, la “Settima lettera” di Platone (autentica o meno che sia) nella quale il sommo filosofo chiarisce le ragioni che lo spinsero a viaggiare, per ben tre volte e in condizioni drammatiche, da Atene a Sira-cusa per aiutare il suo discepolo Dione ad insediare in Sicilia la sua “Repubblica”.
Tentativi falliti, miseramente. Com’è noto, il filosofo, per salvarsi, fuggì precipitosamente dalla Sicilia, portandosi die-tro l’amarezza della delusione patita: “Mi sembrava difficile dedicarmi alla politica mantenendomi onesto…”
Insomma, anche nei tempi antichi la vita politica siciliana era piuttosto inquinata. Oggi la situazione è mutata, ma temo in peggio. Se Platone ritornasse per la quarta volta nella Trina-cria avrebbe ben altro di cui lagnarsi.       

Il dovere di cambiare
Per concludere. La Sicilia ha un grande bisogno di libertà e di un forte recupero della sua identità culturale e storica che, senza scadere nella velleità indipendentista, per altro dolorosamente sperimentata, ridia ai siciliani il senso della  loro storia e quindi la responsabilità di costruire un futuro di progresso nella legalità.
Si può fare. Importante è partire, riavviare la ricerca e la cooperazione fra tutte le forze sane dell’Isola che resistono e attendono un segnale di autentica liberazione.
Ma i siciliani desiderano il cambiamento? Talvolta parrebbe di no. Si accetta di vivere, rassegnati, in una società immobile, individualista che tende a escludere i settori più problematici, compresi i suoi figli ventenni.
In realtà, la maggioranza dei siciliani non è contenta di tale condizione, anzi la vive nell’angoscia, come nell’attesa del crollo. C’è una contraddizione latente fra consenso politico e spirito pubblico che nasce dallo scetticismo verso ogni ipotesi di cambiamento, verso un sistema politico, affaristico e consociativo, tale da far della Sicilia una regione “senza governo e senza opposizione” (4).
Tuttavia, sperare si può, si deve. Anche attraverso una sorta di autocoscienza collettiva. Tutti devono riflettere sulle con-dizioni e le sorti future della Sicilia, ripensare le loro azioni. Tutti e di più. Anche i mafiosi, ossia coloro che rappresentano il “male assoluto”.
A questa gente, ferme restando le responsabilità penali, bisogna provare a chiedere di riflettere sugli errori e sugli orrori commessi, ponendosi dal punto di vista di chi li ha subiti, per capire il dolore degli altri e cambiare rotta.
Soprattutto dovranno meditare e cambiare registro quelli che hanno abusato del potere loro conferito dalla legge e dagli elettori. Alla Sicilia bisogna offrire una nuova chance. Qualcosa si muove sotto la superficie di questo mare cupo e limaccioso. Si agitano insofferenze e fermenti di cambia-mento, s’intravede come una linea di riscatto in emersione attorno alla quale aggregare e mobilitare forze e risorse in grado di spezzare il circuito dell’illegalità, per riacquistare il futuro.

Note:
1) Johann W. Goethe in “Viaggio in Italia”, Garzanti Editore, 1997
2) Edmonda Charles Roux, “Oublier Palerme”, ed. Grasset, Paris, 1966 
(3) Leonardo Sciascia “La Sicilia come metafora” (intervista di Marcelle Padovani), Arnoldo Mondadori Editore, 1979
4) A. Spataro in “La Repubblica” del 17/4/2004                                         

        

* in “Portale del Sud”, versione italiana dell’articolo apparso, con altro titolo, sul n. 68 della rivista francese “Confluénces Méditerranée”, edizioni “ l’Harmattan”, Paris, febbraio 2009.
      
                                                                         




LA SICILIA AL TEMPO DELLA GLOBALIZZAZIONE*

On. Spataro, ho l’impressione che lei provi imbarazzo nel costatare che, da uomo appartato, ha una grande libertà di parola e di scrittura. Non mi spiegherei altrimenti la sua cortese resistenza a non farsi intervistare.

In verità, durante la mia lunga esperienza politica ho sempre cercato di pensare e di agire da uomo libero; anche da dirigente e deputato nazionale del Pci, partito regolato al suo interno dal “centralismo democratico”.
Il fatto è che mi danno fastidio l’attuale processo di omologa-zione, verso il basso, del ceto politico, l’asservimento della politica e di certa informazione agli interessi dei grandi grup-pi finanziari ed economici.
Questa corsa affannata di uomini e donne che per un posto di consigliere o deputato o di assessore sono disposti a rinun-ciare alla loro libertà e dignità.
La politica, i partiti mi appaiono costruzioni artificiose, ingannevoli, mirate a conseguire obiettivi di affermazione personale. Perciò, cerco di starne alla larga.
Anche se, collaborando con “La Repubblica” e con altri giornali e riviste, mi sforzo di continuare a dare un contributo al cambiamento, sempre dalla parte dei lavoratori, dei giovani e della legalità.
Cose che non si possono fare più all’interno dei partiti, anche di sinistra, dove il confronto delle idee è praticamente vicino allo zero.

Andiamo al tema. Lei, che alla Camera ha rivestito importanti incarichi nelle commissioni parlamentari, continua a occuparsi di relazioni internazionali. Da poco è tornato da Parigi, dove ha partecipato a un seminario promosso da un organismo governativo francese. A bruciapelo le chiedo: ma ce l’ha oggi l’Italia una politica estera o si sente nostalgia di Andreotti e De Michelis?

Il problema non è nominalistico. La tanto biasimata “prima Repubblica”, pur con ambiguità e condizionamenti esterni (Usa e Nato), riuscì a concepire un disegno relativamente autonomo al quale, da una certa fase in poi, contribuimmo ad elaborarlo anche noi comunisti, dall’opposizione.
Era la politica estera possibile di una media potenza regionale legata agli Usa, ma in grado di sviluppare un’azione pacifica e di cooperazione, soprattutto negli scacchieri mediterraneo e mediorientale, che ha avuto un importante risvolto sul terreno politico e degli scambi economici e commerciali.
Insomma, allora, si riusciva a parlare un po’ con tutti: arabi e israeliani, persino con i sovietici. Nel mondo, l’Italia aveva tanti amici e non tanti nemici come oggi.
Nell’ultimo ventennio, l’immagine internazionale dell’Italia è stata stravolta, indebolita, ridicolizzata perfino. Pur essendo un paese co-fondatore dell’Unione europea, dell’euro, l’Italia tende ad allontanarsi dall’Europa che conta per collocarsi su una linea di ambiguità, oscillante fra gli interessi più retrogradi degli Usa e quelli molto più concreti di taluni gruppi economici e finanziari italiani. A cominciare dalle imprese del presidente del Consiglio….

Ecco, affidarsi a Putin e a Gheddafi cosa significa e cosa comporta?

Per saperlo non bisognava, certo, attendere la pubblicazione da parte di Wikileaks delle informative dell’ambasciata ame-ricana. Già da qualche anno, si poteva notare la trasformazio-ne delle relazioni bilaterali dell’Italia con la Libia e con la Russia in rapporti personali fra Berlusconi Putin e Gheddafi.
Bastava osservare i dati dell’interscambio commerciale per accorgersi che la Russia di Putin e la Libia di Gheddafi erano diventati i nostri primi due fornitori d’idrocarburi (petrolio e gas). Come abbiamo notato su “Infomedi”, i due paesi, nel primo semestre del 2009, hanno coperto il 43% dell’import italiano d’idrocarburi.

Una copertura a dir poco imbarazzante.

Certamente. Per altro, questa eccessiva concentrazione delle fonti di approvvigionamento ha modificato l’equilibrio tradi-zionale che poggiava su una più ampia diversificazione, soprattutto sui paesi della penisola arabica verso i quali si registra, di conseguenza, una caduta dei nostri volumi di export.
Un dato inquietante che potrebbe condizionare la sicurezza e la continuità del nostro sistema di approvvigionamento ener-getico e quindi lo sviluppo economico e civile del Paese.
In questo delicato campo, si è determinata una condizione di scarsa affidabilità politica che ha spinto l’Europa a promuo-vere, un po’ frettolosamente, la realizzazione di ben quaran-tasei nuovi rigassificatori, di cui dodici in Italia e due in Sicilia.
Tutto ciò, a parte i colossali tornaconti di società e di persone che maneggiano gli accordi e i relativi contratti, come comincia a emergere dalle inchieste giornalistiche e d’altra natura.

I suoi numerosi saggi, a volte, hanno intravisto l’evoluzione della situazione mediterranea e mediorientale.
 Ha qualcos’altro in preparazione?

Per adesso, sto focalizzando le mie ricerche sul possibile nuovo ruolo del Mediterraneo all’interno dei nuovi scenari della globalizzazione.
Questo, a me sembra, il punto di novità essenziale che apre una prospettiva inedita per fare uscire l’Italia, la Sicilia dalla crisi attuale.
A mio parere, in questo nuovo ordine internazionale in for-mazione, pluricentrico e multiculturale, l’area mediterranea potrebbe, addirittura, riacquistare il ruolo di centralità perduto nel 1492, a seguito della scoperta dell’America.

Se n’è parlato al seminario di Parigi?

In realtà, a Parigi si è parlato dell’India, delle sue dinamiche economiche, demografiche e militari. Lo scorso anno è stata la volta della Cina. Due grandi potenze (Cindia) fra loro in concorrenza che influenzano la crescita economica e le relazioni fra gli Stati.
Anche il Mediterraneo, la stessa Sicilia, sono, e sempre più saranno, influenzati dagli andamenti e dalle strategie espan-sive di queste due supereconomie. Se non altro perché rap-presentano il luogo privilegiato dello scambio fra Cindia, Europa e Paesi arabi.
Per avere un’idea del ruolo crescente di quest’area vitale del mondo basta osservare l’imponenza dei flussi commerciali da e per l’Europa che, attraverso il canale di Suez, solcano il Mediterraneo.
Siamo in presenza di una colossale movimentazione di merci cui fa da pendant un flusso di capitali (in prevalenza arabi) che rendono il Mediterraneo e le zone contigue una delle aree più appetibili del Pianeta. Ovviamente, bisogna saper cogliere queste opportunità, attrezzandosi per attirare produzioni, merci e capitali d’investimento.
La Sicilia, pur essendo il luogo baricentrico di quest’area, non sta facendo nulla per intercettare tali flussi e predisporsi a svolgere un ruolo dinamico di avamposto e non di periferia emarginata dell’Unione Europea. E’ tempo, dunque, di pro-gettare, agire. Ma qui tutto sembra fermo.

C’è oggi un partito, una politica adeguata a queste urgenze?

Spiace rilevarlo, ma all’orizzonte del nostro futuro prossimo non s'intravedono un ceto politico e  imprenditoriale preparati a questi compiti.
In Sicilia, le principali forze politiche sembrano rassegnati alla marginalità, adattarsi all’eterna crisi che sta divorando perfino la speranza nel cambiamento.
Altro che Cina e India! Qui manca la progettualità politica e l’autentico spirito d’impresa. Si evita il rischio e si brama l’incentivo. Si vivacchia con il clientelismo, con i contributi pubblici, le raccomandazioni, le mazzette, il pizzo, l’evasione fiscale. Mentre continua la fuga dei giovani siciliani verso il nord o l’estero.
Il nuovo rapporto Europa - Asia è già iniziato e si svolge sotto i nostri occhi, nel cuore del Mediterraneo, ma la Sicilia è tagliata fuori.
Un solo esempio. Il movimento delle navi-container che salta completamente la nostra Isola. E non certo per malevolenza, ma perché la Sicilia non é attrezzata per accoglierlo.
Gli approdi sono altrove: a Gioia Tauro, a Malta, ad Algesiras. Ora anche Tangeri si sta organizzando per divenire il più grande porto mediterraneo di collegamento fra i flussi asiatici e le Americhe. La Sicilia sembra condannata ad accogliere solo pericolosi impianti energetici (rigassificatori, centrali nucleari, discariche in gran quantità), per altro al servizio dell’economia del nord. Mentre i nostri politici tardo-populisti continuano a piangere sulla miseria del popolo e a crogiolarsi nelle loro modeste furbizie.

(dall’intervista a Agostino Spataro raccolta da Diego Romeo per “Grandangolo” del 24/12/2010)



       








PORTAEREI E HUB ENERGETICO:
I DUE POLI DEL FUTURO SICILIANO


L’isola diventa portaerei della Nato
Quello che si temeva sta accadendo o è già accaduto: il mutamento del ruolo militare e della prospettiva generale della Sicilia nei suoi rapporti con l’area mediterranea.
Da ponte di cooperazione pacifica e vantaggiosa con i paesi rivieraschi a “ portaerei della Nato nel Mediterraneo” come l’ha ribattezzata l’eclettico ministro della difesa, il siciliano Ignazio La Russa, che, già agli inizi dei bombardamenti sulla Libia, l’ha messa a disposizione della triade interventista: Sarkozy, Cameron e Obama. (1)
Si può obiettare che quelle del ministro sono parole al vento, di circostanza.
Tuttavia, è pur sempre il titolare di un dicastero delicato e nessuno le ha smentite o contestate.
Parole che meritano, pertanto, di essere valutate attentamente poiché acquistano un significato sinistro, pericoloso, specie dopo la decisione d’inviare gli aerei italiani a bombardare la Libia.
D’altra parte, la svolta era nell’aria, anche se non percepita come imminente. La partecipazione italiana alla guerra in Libia l’ha solo accentuata, accelerata. 
La strategia Nato di “difesa avanzata” aveva assegnato all’Isola la funzione dipiattaforma” militare attrezzata per respingere improbabili aggressioni al fianco sud.
Oggi, il salto: il suo ruolo cambia da difensivo a offensivo. L’Isola diventa portaerei.
Un’idea che, per quanto metaforica, produce, anche psicolo-gicamente, l’effetto di un  mutamento esistenziale poiché la Sicilia viene proiettata in una dimensione mobile della guerra, liquida o aerea, comunque fuori dei confini nazionali e della Nato. 


La Sicilia, l’Italia e la guerra in Libia
Sicilia portaerei, dunque, col bollo di La Russa e con l’avallo silente di quasi tutte le forze politiche nazionali e senza alcuna protesta pacifista.
Ma che strano unanimismo, oggi in Italia! Ci si divide su tutto. Solo le guerre, i bombardamenti, le costose missioni militari all’estero e i rigonfi bilanci della difesa riescono a unire quasi tutti i partiti, governo e alte autorità dello Stato.
Anche nella vicenda libica il copione si è ripetuto. Con l’eccezione di IDV e della Lega nord che non si sono accodati.. Sorprendono le forze d’opposizione del centro-sinistra che, invece d’invocare una soluzione negoziata del conflitto di potere interno alla Libia (poiché di questo si tratta), hanno pressato Berlusconi per fargli abbandonare la sua iniziale ritrosia e allineare l’Italia alla gloriosa “triade”.
Seppure a denti stretti, dobbiamo rilevare la calcolata pruden-za della Lega di Bossi che anche stavolta (dopo i Balcani) ha frenato gli ardori, distinguendosi dall’unanimismo guerresco del ceto politico italiano.
Comunque sia, il Cavaliere è intervenuto pesantemente, a “gioco in corso”, schierando l’Italia su una posizione avventurosa, unilaterale che la collocano fuori degli ambigui limiti della risoluzione dell’Onu.
Insomma, l’Italia si è cacciata in un brutto pasticcio che potrebbe degenerare in un lungo e sanguinoso conflitto, a un tiro di schioppo dalle coste siciliane.
C’è chi parla o minaccia un nuovo Vietnam. Difficile fare previsioni così impegnative. Tuttavia, ricordo che in Vietnam l’avventura degli Usa iniziò con i bombardamenti di supporto alle truppe del Sud e con l’invio di consiglieri militari che poi diventarono un esercito di mezzo milione di soldati.
Quella guerra durò quindici anni e la persero gli Stati Uniti e loro alleati fantocci. Da quella memorabile sconfitta taluni fanno iniziare l’attuale declino della potenza Usa.
Vietnam o meno, un conflitto internazionalizzato a circa trecento miglia dalle coste siciliane (a 200 da Lampedusa) non è, certo, per la Sicilia e per l’Italia di buon auspicio.
Armare gli insorti, inviare i nostri bombardieri vuol dire schierarsi con una parte contro l’altra in questo conflitto fratricida per il controllo del potere interno libico.

Due ministri siciliani che fecero l’impresa…libica
Tutto ciò è immorale oltre che controproducente.
Specie per l’Italia che non può, davvero, tornare a bombardare il suolo di un’ex colonia che ancora si lecca le terribili ferite degli eccidi perpetrati, anche l’uso dei gas letali, dalle truppe italiane d’occupazione. 
Una nuova guerra alla Libia, a cento anni esatti dalla prima (1911), in cui si riscontra una curiosa coincidenza, tutta siciliana, che vede cioè due catanesi, entrambi di originari di Paternò, a capo di ministeri-chiave.
Come dire: due paternesi che fecero l’impresa…libica. Si tratta del sen. Antonio Paterno Castello, marchese di San Giuliano, nato a Catania (nel 1852) ma discendente da una nobile famiglia originaria, come il cognome suggerisce, di Paternò.
Egli, da ministro degli esteri del governo Giolitti, inviò, in data 27 settembre 1911, al governo dell’impero ottomano una sorta di dichiarazione di guerra, pretestuosa e immotivata, che faceva dipendere l’occupazione militare italiana, prati-camente, da motivi di ordine pubblico interno alla Libia. (2)
Oggi, un altro prode paternese, l’on. Ignazio La Russa, ministro della guerra, pardon della difesa, ha proclamato la Sicilia portaerei mettendola a disposizione dell’attacco contro la Libia.
Solo una singolare coincidenza o c’è qualcosa che ci sfugge?
A ben pensarci, tanta solerzia, forse, si potrebbe spiegare co-me rivendicazione di un legame antico, mitico fra la Sicilia e la Libia, risalente addirittura alla fondazione di Tripoli che- secondo Sallustio- sarebbe dovuta “a coloni siciliani (eviden-temente fenici) insieme ad africani”. 
  

Un pericoloso conflitto a trecento miglia dalla Sicilia
Per come si son messe le cose, appare sempre più insoste-nibile la bufala dell’intervento “umanitario”. In Libia le forze dei Paesi interventisti della Nato sono andate oltre i limiti della “no zone fly” imposti dalla risoluzione Onu.
Lo confermano i bombardamenti quotidiani “fuori zona”, in primis sulla città di Tripoli che stanno provocando vittime innocenti e la distruzione di strutture sanitarie e industriali civili. A proposito: quanto devono ancora durare questi bombardamenti? 
La domanda l’ha posta a Berlusconi non un rappresentante dell’opposizione, ma il ministro  dell’interno del suo governo, il leghista Maroni. (3) Anche noi, che leghisti non siamo, aspettiamo risposta.
Domanda più che legittima, poiché non si può continuare ad assistere, muti, a un conflitto, anomalo e asimmetrico, che sempre più assomiglia a una guerra di rapina.
Anche perché- a quanto pare- ci sarebbe molto da prendere dai forzieri libici: dai tanti giacimenti in produzione alle grandi riserve accertate d’idrocarburi, alle enormi riserve di acqua (sì, avete letto bene “acqua”!) che per uno scatolone di sabbia qual è la Libia è una risorsa più preziosa del petrolio.
Nelle regioni meridionali del Fezzan sono stati scoperti veri e propri laghi sotterranei che alimentano una rete di gigante-sche condotte (lunghe migliaia di km) che riforniscono le città della costa per gli usi civili, agricoli e industriali.
Nessuno lo dice: in Libia il problema dell’acqua è stato risolto con successo, mentre in tante città e paesi siciliani l’acqua è un pio desiderio.
Si dice anche che la Banca centrale di Libia (che è dello Stato non della famiglia Gheddafi), oltre a controllare il sistema finanziario e monetario interno, ad avere effettuato importanti investimenti all’estero (in Italia ne sappiamo qualcosa), conservi nei suoi caveaux circa 140 tonnellate di oro. 
Non siamo in grado di verificare la veridicità quest’ultima notizia, riportata da Ellen Brown (4). Tuttavia, qualcosa di vero potrebbe esserci, visto che i capi degli “insorti” (alti gerarchi gheddafiani della prima ora e conoscitori della realtà finanziaria del Paese) prima di formare il governo provviso-rio si sono preoccupati d’istituire una Banca centrale. Davvero, una stranezza per una rivoluzione!

L’Isola sede di trattative fra le parti in conflitto
Perciò, preoccupano l’evoluzione del conflitto e la scelta di non voler favorire, nemmeno  tentare, una soluzione politica, negoziata. Come quella che, per iniziativa dell’Unione africana, si sta cercando ad Addis Abeba fra rappresentanti degli insorti della Cirenaica ed emissari del governo Gheddafi.
In assenza di una soluzione politica, si teme che il conflitto possa degenerare, prolungarsi oltre misura.
La Sicilia, invece che a diventare portaerei, doveva candidarsi a sede per trattative fra le parti per assicurare alla Libia una transizione unitaria e democratica, senza Gheddafi.
Per altro, in questa crisi c’è, anche, un importante risvolto economico e commerciale che riguarda la Sicilia e l’Italia che, però, non sembra interessare i nostri apprendisti stregoni.
La Libia costituisce, infatti, una realtà molto speciale per l’economia italiana. Oltre a farsi carico dei gravosi e discu-tibili impegni sull’immigrazione, ci fornisce notevoli quanti-tativi d’idrocarburi, capitali preziosi per le nostre imprese e banche e si offre come fiorente mercato per le nostre aziende di servizi e manifatture.
Solo di petrolio, di ottima qualità e di facile trasporto, l’Italia ne importa circa il 23 % (in valore) del suo fabbisogno e di gas otto miliardi di metri cubi/annui tramite il metanodotto sottomarino che approda a Gela.
Materie prime strategiche che sono trasformate nell’Isola e da qui movimentate verso il mercato nazionale.
L’Eni si sta giocando parte del suo futuro in questa brutta guerra fratricida fomentata da potenze nostre concorrenti in campo energetico. 
Che cosa potrebbe succedere, in Italia e in Sicilia, se doves-sero venir meno questi contratti e forniture?
Con i bombardamenti, il governo tutela o danneggia gli inte-ressi nazionali dell’Italia?

Gli incerti scenari del post-conflitto
Domande legittime alle quali, però, nessuno risponde.
Non sappiamo se e quali garanzie la triade abbia offerto a Berlusconi per smuoverlo dalla sua iniziale inerzia. Con il governo e il ceto politico che ci ritroviamo il dubbio è lecito. Anzi più d’uno.  Perciò, oltre gli aspetti politici e (im)morali della guerra, bisognerebbe fare un po’ di conti anche dal lato della convenienza nazionale, visto che l’Italia è il primo partner commerciale della Libia.
Probabilmente, gli strateghi nostrani non avranno considerato la mutevolezza degli uomini e degli interessi in ballo, i possibili esiti del conflitto e gli scenari che si potranno determinare in Libia e nello scacchiere mediterraneo.
In particolare, due appaiono degni di nota: una vittoria dei “ribelli” o un accordo unitario nazionale fra le parti in conflitto.  
Se dovessero vincere i “ribelli”, difficilmente dimentiche-ranno i baciamano a Gheddafi e l’Eni dovrà andare a Parigi o a Washington per ri-contrattare gli importanti accordi sottos-critti con la Noc libica. E pagare dazio agli arroganti cartelli del petrolio.
Se, invece, dovesse vincere Gheddafi o si giungesse a un accordo nazionale fra le parti, sarà difficile far dimenticare al colonnello e ai suoi seguaci il voltafaccia dell’Italia, per altro a guerra in corso.
Insomma, in entrambi i casi, l’Italia avrà un bel da fare per recuperare quello che sta rischiando di perdere in questi giorni.

Ritorna il fantasma della guerra   
Torniamo alla Sicilia dove gli annunci di La Russa e del premier Berlusconi hanno materializzato il fantasma della guerra che  pensavamo si fosse allontanato con la vittoriosa lotta contro l’installazione dei missili nucleari a Comiso.
Vittoria memorabile alla quale, però, non seguì una lotta altrettanto tenace e unitaria per fare uscire l’Isola dal sottosviluppo.
Lo smantellamento dei missili avrebbe dovuto segnare una svolta per progettare una nuova idea dello sviluppo bidirezionale, orientato cioè verso l’Europa e il Mediterraneo e capace anche d’intercettare le opportunità derivate dai flussi commerciali e finanziari provenienti da Cina e India ossia dai nuovi colossi emergenti dell’economia mondiale.
L’idea di fondo, che da decenni coltiviamo, è quella di far corrispondere alla centralità mediterranea dell’Isola una centralità economica e culturale.
Purtroppo, negli ultimi due decenni, in Sicilia si è rafforzata la componente militare (vedi articolo di Antonio Mazzeo), mentre si è indebolita la capacità di attrazione e promozione d’investimenti mirati alla produzione di beni e servizi da destinare al mercato arabo e euro-mediterraneo.
Processi e tendenze pilotati dall’alto, all’interno di un disegno politico-strategico che ha visto crescere, di pari passo, milita-rizzazione, decadenza economica, crisi sociale e illegalità diffusa.
Si è, così, delineata una prospettiva arida, inquietante contro la quale si sono battuti Pio La Torre, fino al suo assassinio, e il grandioso movimento pacifista unitario, siciliano e interna-zionale.

I due poli del futuro siciliano
Il processo è in itinere, la situazione in parte ancora confusa. Non è facile capire i suoi termini specifici, identificare tutti gli interessi in campo.
Tuttavia, credo si possa dire che negli ultimi anni il Mediterraneo e le zone contigue del Medio Oriente siano divenuti terreno di aspro confronto fra vecchie e nuove superpotenze per il controllo dei traffici marittimi (25% del totale mondiale), di enormi risorse energetiche e finanziarie e dei nuovi, ricchi mercati dei Paesi arabi produttori d’idro-carburi.
Come ho già scritto, in quest' area di vitale importanza stra-tegica si concentrano fattori e risorse (soprattutto energetiche e finanziarie) capaci di farne, in questo nuovo secolo, uno dei poli dello sviluppo mondiale.
Anche sotto questa luce e in questa chiave bisognerebbe leggere le rivolte arabe. Tutto dipenderà dagli equilibri fra le vecchie e nuove potenze e dagli assetti di potere conseguenti sul piano internazionale.
Se si dovesse andare a un' estremizzazione del confronto, non c’è dubbio che la Sicilia sarà chiamata a svolgere una funzione importante soprattutto sul piano militare. 
L’impressione è che, in questi anni d’apparente non governo (fra Roma e Palermo), qualcuno abbia deciso di ridisegnare la funzione generale strategica dell’Isola, imperniandola su un asse bipolare: da un lato la portaerei o piazzaforte militare, dall’altro lato un grande hub energetico.

Un hub al servizio dell’economia del centro-nord
Stando alle scelte già programmate o in esecuzione, in Sicilia, in aggiunta alla sua già esorbitante capacità produttiva ener-getica, sarebbero previsti due mega-rigassificatori (Priolo e Porto Empedocle) e una centrale nucleare.
Un hub, dunque, al servizio dell’economia di altre regioni giacché l’energia prodotta andrà ben oltre le esigenze locali.
L’economia, la finanza, la politica, l’informazione, le infra-strutture, la stessa criminalità organizzata, ecc, dovranno ade-guarsi, piegarsi alla realtà tracciata da quest’asse strategico che può, per altro, generare affari lucrosi, leciti e illeciti.
E pazienza se la Sicilia sarà ancor più gravata di compiti onerosi, pericolosi, in contrasto con la sua vocazione produttiva.
Una scelta dal sapore vagamente razzista che ha indotto il governo Berlusconi - Bossi a scaricare sull’Isola anche il gra-voso problema della (mala) accoglienza di masse d’immigrati provenienti da vari continenti.
Sembra che altro non sia permesso alla Sicilia.
Una condizione anomala, squilibrante che può ingenerare malumori e proteste.
A placarli ci penseranno la Regione e gli enti locali in mano a governi deboli, clientelari e consociativi pronti a barattare la loro acquiescenza con quote di spesa pubblica improduttiva destinata ad alimentare il blocco di potere dominante e a raccogliere il necessario consenso elettorale.

Treni lumaca e sofisticatissime tecnologie militari 
Insomma, oggi nel mondo, è in atto una corsa avventurosa per ridefinire i nuovi assetti dei poteri che si stanno accor-pando e ri -dislocando anche in Italia, in Europa e nel Mediterraneo.
Un contesto in evoluzione dentro il quale la Sicilia c’è tutta, ma con una funzione marginale, subalterna agli interessi forti, produttivi e di mercato, del centro-nord italiano.
Una subalternità evidente che non può essere esorcizzata con qualche strillo autonomistico, ma ribaltata con idee e riforme davvero innovative che solo una nuova classe dirigente, politica e imprenditoriale, può proporre e attuare.
In Sicilia, oggi, si stenta a difendere persino quel poco di tessuto industriale esistente.
La fine dello stabilimento di Termini Imerese ne è una ripro-va drammatica ed eloquente: è l’unico che la Fiat sta chiu-dendo in Italia, senza grandi contrasti e- si teme- senza alternative certe.
Di questo passo, il futuro dell’Isola sarà sempre più condi-zionato, stretto nella morsa della militarizzazione e della concentrazione intensiva di attività energetiche.
Il rischio che essa corre è quello di essere trascinata in torbidi scenari di guerra, in vili mercimoni di armi e carne umana e di diventare deposito di armi (anche nucleari) e scorie di ogni tipo come quelle che cominciano ad affiorare dall’inchiesta sulla miniera “Pasquasia”.
Vivremo, in sostanza, la contraddizione fra uno sviluppo ritardato, frantumato e un’innovazione avanzata della dota-zione militare installata e programmata.
Un solo esempio. Nella parte sud-orientale dell’Isola vedre-mo coesistere treni-lumaca, che per coprire una tratta di 200 chilometri (Agrigento - Siracusa) impiegano 9 ore e 15 minu-ti, e impianti  e sistemi tecnologici militari sofisticatissimi come quelli già esistenti a Sigonella e a Niscemi dove gli Usa vorrebbero aggiungere uno dei terminali Muos, moderno si-stema di telecomunicazioni satellitari delle loro forze armate.

Ai siciliani bisogna dare una nuova chance
Si può invertire questa tendenza?
Più che un interrogativo, questo a me pare il punto centrale di uno sforzo corale di analisi e di dibattito, una nuova sfida per le forze sane siciliane che desiderano uno sviluppo moderno, di qualità.
Pertanto, l’obiettivo cui mirare dovrebbe essere: meno armi, meno impianti inquinanti e più infrastrutture e servizi per uno sviluppo auto centrato, ma non autarchico, che generi lavoro, anche qualificato, per le nuove generazioni siciliane costrette a emigrare.
Si può fare. Importante è ripartire, riavviare la collaborazione fra tutte le forze sane dell’Isola che resistono e attendono un segnale di autentica liberazione dal malgoverno e dal predominio mafioso.
Ma i siciliani desiderano il cambiamento? Talvolta parrebbe di no. In realtà, molti sono prigionieri della contraddizione esistente fra la depressione dello spirito pubblico e l’espressione di un distorto consenso elettorale, che genera sfiducia verso ogni seria istanza di cambiamento.
Forse è necessario uno sforzo collettivo di autocoscienza. Tutti devono riflettere su quest’opaco presente e sulle sorti non proprio rosee della Sicilia.
In primo luogo, dovranno meditare, e cambiare registro, coloro i quali hanno abusato del potere loro conferito dalla legge e dagli elettori.
Insomma, ai siciliani bisogna offrire una nuova chance. La Sicilia ha bisogno di libertà e di progresso economico per tutti; di recuperare la sua identità culturale storica che, senza scadere in velleità indipendentiste per altro dolorosamente sperimentate, riaffidi ai siciliani la responsabilità di costruire un futuro di benessere condiviso, nella legalità.

  * In “I quaderni de l’Ora”, maggio 2011.



Note:
(1) Non potendo riportare, per ragioni di spazio, il mio punto di vista sul dittatore Gheddafi, sulla natura del conflitto in Libia, sulla genesi, sulle modalità e finalità di questa nuova “guerra umanitaria”, rimando ai miei articoli pubblicati in: www.infomedi.it   
(2) in “La Stampa” del 30/9/1911
(3) on. Roberto Maroni, dichiarazione del 11 giugno 2011.
(4) Ellen Hodgson Brown, presidente del “Public Banking Insti-tute” (Usa) autrice di “The web of Debt”, in “El Corresponsal de Medio Oriente y Africa” di Buenos Aires.
















Capitolo ottavo

L’IMMIGRAZIONE COME RISORSA











http://termoli.files.wordpress.com/2011/02/stretta_di_mano.jpg?w=250&h=209

Quello che manca: una stretta di mano








QUANDO I CLANDESTINI SICILIANI SBARCAVANO IN TUNISIA

1…C’era un tempo, non molto remoto, in cui erano i “disperati” siciliani ad attraversare le acque del Canale di Sicilia per emigrare nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo: in Tunisia, Libia, Egitto, Marocco, Algeria.
Un percorso inverso rispetto all’attuale intrapreso dalle migliaia d’immigrati arabi e africani i quali, come i nostri di allora, fuggono dalla miseria e dalle guerre.
Chi desidera documentarsi o semplicemente rinfrescarsi la memoria, può attingere una vasta e variegata bibliografia, inchieste sociologiche e giornalistiche, memorie e testimo-nianze di grande interesse.
Sull’emigrazione siciliana in Tunisia, Stefano Savona, giova-ne regista palermitano, ha realizzato un cortometraggio “Un confine di specchi”, premiato al 20° Torino Film festival edizione 2002.
Esiste, inoltre, una letteratura (in gran parte in francese) dell’emigrazione europea e siciliana nel Maghreb.
E ricercando fra questi materiali si trovano tantissimi riferi-menti all’emigrazione siciliana nel nord Africa, in particola-re in Tunisia, iniziata a partire dal 1835, in piena epoca bor-bonica, col trasferimento d' alcuni gruppi di tonnaroti e di corallari (specie trapanesi) in diverse località costiere tunisine e algerine, a pesca di tonni e del pregiatissimo corallo.
(vedi: Giuseppe Bonaffini-“Sicilia e Maghreb tra Sette e Ottocento”, Salvatore Sciascia Editore)
Da emigrazione “specializzata” (che detto per inciso operava in condizioni di vita e di lavoro davvero disumane) i trasfe-rimenti acquistarono le dimensioni di veri e propri flussi mi-gratori; a partire dagli anni 70 dell’800, quando la presenza degli italiani, incoraggiata dal Trattato della Goletta (1868), veniva stimata fra gli 11 e i 25 mila.
Anche allora era difficile censire gli immigrati, perché in maggioranza erano clandestini.
Esattamente come accade, oggi, in Italia.
Nel 1870, il 94% dell’emigrazione siciliana era orientata ver-so la Tunisia - sostiene A. Grisafi- I 4/5 della colonia italiana in Tunisia erano d' origine siciliana.
Già nel 1860, nella sola città di Tunisi- rileva F. Arnoulet- su una popolazione stimata in centomila abitanti, vi erano fra 3 e 4 mila siciliani, 6-7 mila maltesi (anch’essi di origine sicilia-na) e solo 600 francesi.

2…Un richiamo specifico va dedicato a Lampedusa, divenuta uno dei simboli di questo dramma universale, sperando di far riflettere quanti nella piccola isola pelagica manifestano disagio o aperto rifiuto rispetto all’emergenza immigrati che, in quanto tale, non dovrebbe durare in eterno. E va citato quel ristorante, pardon a quella titolare di ristorante che si è schierata a fianco dei leghisti Bossi e Borghezio in questa poco esaltante battaglia d’inciviltà. Anche se temo che sarà un’impresa ardua far riflettere un “ristorante” alla ricerca di clienti facoltosi.
“Ad Hammamet, la popolazione italiana era composta unica-mente d’emigrati originari dalle isole di Pantelleria e Lampe-dusa. Essi vivevano di pesca ed erano anche proprietari di frutteti e vigneti dai quali traevano un reddito apprezzabile..” 
Basterebbero queste poche righe, tratte dal libro dello storico tunisino Mustapha Kraiem (“Le fascisme et les italiens de Tunisie, 1918-1939) per aiutare a ricordare quanti non sanno o fingono di non sapere.
Si scoprirebbe che, negli anni venti e trenta del ‘900, erano lampedusani e, più in generale, siciliani, sardi, calabresi e perfino toscani e genovesi gli emigranti che sbarcavano sulle coste della Tunisia e d'altri Paesi del nord- Africa per sfug-gire alla miseria, alle guerre e alle repressioni del fascismo imperante in Italia.  
Gli immigrati italiani- si legge  nell’inchiesta condotta, fra il 1918-20, da Arthur Pellegrin- sono circa 100 mila e appartengono in gran parte alla classe lavoratrice e analfabeta. La maggioranza sono originari dalla Sicilia e dalla Sardegna. I loro costumi, in particolare quelli dei siciliani, sono un po’ rozzi e violenti. Nella loro evoluzione mentale sono più passionali che razionali…”
** (citato da Guy Dugas, Università Paris 12)

3…Come si vede, anche i nostri erano classificati rozzi, anal-fabeti, violenti, sporchi ecc, ecc. Addirittura, la propaganda xenofoba francofona coniò un odioso slogan “le peril italien” per indicare la presenza degli immigrati italiani come un rischio per la convivenza pacifica di quelle popolazioni e perfino per la stabilità politica di quei regimi sotto tutela francese.
In particolare i siciliani erano dipinti come “criminali incalli-ti, irascibili, imprevedibili, violenti e molto pericolosi…nella
loro maggioranza gli europei della Reggenza e la popolazio-ne tunisina accettarono questa rappresentazione negativa dell’elemento siciliano…Il luogo comune del siciliano belli-coso, armato di coltello o di revolver, che uccide per futili motivi rimase fisso nel tempo…”
(Alì Noureddine: “Le cas de la “criminalità sicilienne”- Sousse 1888-98)
Per altro, va dato atto a Noureddine di avere, col suo prege-vole saggio, tentato di demolire la falsa rappresentazione del siciliano “violento e arretrato”.
Si trattava, infatti, di un’ingiusta generalizzazione, di uno stereotipo artatamente gonfiato e diffuso dalla propaganda razzista che fece presa sulla maggioranza della popolazione tunisina per un lungo periodo.
A pensarci bene, quanti stereotipi anti-immigrati si stanno diffondendo in Italia, in particolare nelle regioni ricche del nord che sono quelle che più sfruttano, a loro esclusivo vantaggio, la presenza degli immigrati.
In buona sostanza, la xenofobia, espressione di un egoismo gretto e ignorante solitamente al servizio d’interessi econo-mici forti e sovente poco leciti, ha usato sempre e dovunque lo stesso linguaggio, le stesse immagini distorte e le mede-sime tecniche di comunicazione e di persuasione.

4…Rileggere queste cose, dette e scritte più di un secolo addietro contro i siciliani, e come leggere oggi quanto scritto e detto dai giornali e dai massimi esponenti della Lega Nord contro gli arabi e gli africani immigrati in Sicilia e in Italia.
Tuttavia, fra le due esperienze si può rilevare una differenza nella qualità del trattamento e nelle opportunità d’inserimento nella società d’accoglimento, certamente più favorevole ai nostri, allora, emigrati in Tunisia.
La numerosa colonia italiana, distribuita lungo tutta la costa tunisina, era adeguatamente tutelata da accordi di coopera-zione bilaterali stipulati sia con le autorità ottomane sia, a partire dal 1870, con quelle francesi che esercitavano il “Protettorato”.
Gli italiani in Tunisia disponevano di una efficiente organiz-zazione economica e finanziaria, di una camera di commer-cio (fondata nel 1884), di alcune banche fra le quali la “Ban-ca siciliana” e di una rete culturale e assistenziale di tutto rispetto: un quotidiano (l’Unione), teatri, librerie, cinema, un ospedale italiano, scuole di vario ordine e grado e numerosi enti di beneficenza.
Non si fecero mancare proprio nulla. A Tunisi, durante il mi-nistero Crispi, fu creata persino una loggia massonica deno-minata “Concordia”, con l’intento di far fronte alla prepon-deranza (massonica) francese.
I nostri emigranti erano in gran parte braccianti e contadini poveri, pescatori, artigiani, minatori, manovali, piccoli com-mercianti, ecc; tutta gente di fatica che fuggiva dalla miseria e dalla disoccupazione del sud e delle isole. E qualcuno anche dalle patrie galere.
Cercavano l’America in Tunisia e molti la trovarono fra i vigneti, nelle miniere di bauxite e nei fondali pescosi.
Sebbene il governo di Parigi incoraggiasse la “naturalizza-zione” di migliaia di nostri emigrati in Tunisia, gli italiani erano molto più numerosi dei francesi: nel censimento del 1926, su una popolazione europea di 173.281 abitanti, figu-ravano 89.216 italiani, 71.020 francesi, 8.396 maltesi, ecc.
( in Moustapha Kraiem, op.cit.)

5…Una prevalenza anomala che fece scrivere a Laura Davi (nelle sue “Memoires italiennes en Tunisie”) che “La Tunisia è una colonia italiana amministrata da funzionari francesi”.
A parte queste eloquenti statistiche, c’è da aggiungere che i siciliani in Tunisia, oltre ad essersi bene integrati nel tessuto economico, vissero quella esperienza in un clima di reciproco rispetto, di tolleranza e di solidarietà con i locali.
Vi sono, ancora oggi, a Tunisi, a Sousse, a Madia, a Sfax, quartieri dove si possono riscontrare i segni di questa feconda convivenza, anche sul terreno difficile delle religioni.  
La Goulette, la cittadina balneare fra Tunisi e Cartagine, era chiamata “la piccola Sicilia” poiché era stata creata (un po’ abusivamente in verità) dai siciliani provenienti dalle provin-ce di Trapani, di Palermo e di Agrigento i quali crearono un idioma tutto loro: un arabo infarcito di siciliano, tuttora usato come lingua locale.
In questa bella e solare cittadina nacque, da genitori trapa-nesi, Claudia Cardinale che nel 1956, a Tunisi, fu incoronata reginetta italiana e in questa veste partecipò al concorso di Miss Italia, da dove spiccò il volo verso una fantastica carriera cinematografica.
Memore di tutto questo e d’altro, la Sicilia, democratica e solidale, deve contribuire a risolvere il problema degli immi-grati, anche per evitare che si affermi una pericolosa visione xenofoba, al limite razzista, che non rende onore al suo passato e al suo (purtroppo) presente di terra d’emigrazione.

( In “La Repubblica” del 28/6/2003)








SICILIA, ISOLA DEI PARADOSSI

Mentre i giovani siciliani hanno continuato a emigrare, l’Isola è divenuta la principale porta d’ingresso in Europa dell’immi-grazione irregolare o clandestina e, al contempo, luogo d’in-sediamento di varie comunità di lavoratori stranieri.
Per altro, c’è da dire che fra le due migrazioni non c’è scon-tro, nemmeno concorrenza.
In Sicilia, quasi nessuno protesta contro gli immigrati che “tolgono il lavoro” ai locali, anzi quest’ultimi sembrano ben disposti a lasciarglielo visto che è a nero, mal pagato e a alto rischio.   
Fra le tante, questa, forse, è la più curiosa anomalie che l’Isola vive.
Poiché, generalmente, un paese, una regione, una zona non sono, nello stesso tempo, esportatori ed importatori di manodopera. O una cosa o l’altra.
Invece, dalla Sicilia vediamo partire verso il nord frotte di lavoratori edili o di addetti a diversi servizi alle imprese, giovani diplomati e laureati e, al contempo, arrivare quantità crescenti di cittadini stranieri che saranno impiegati nei settori abbandonati o rifiutati dai siciliani.
Un paradosso o c’è dell’altro? Nessuno emigra per svago, per diletto. L’emigrazione è un dramma, sempre e dovunque. Chi emigra ha sempre ragioni plausibili.
Le seguenti note non hanno la pretesa di un’analisi esaustiva del problema, ma vogliono essere soltanto un  tentativo per evidenziare taluni aspetti di questa realtà in formazione, cogliendone  i disagi e le  possibilità di cambiamento.

L’Europa si ferma a Latina
Si sperava che l’intervento europeo riuscisse a innescare una dinamica nuova, di sviluppo e di rinnovamento, in Sicilia e nel meridione. Purtroppo, le attese sono andate in gran parte deluse.
Anche la nuova Europa che abbiamo sognato si è fermata a Latina. Molto prima di Eboli ossia il luogo-limite dove si è fermato il Cristo di Carlo Levi.
Insomma, anche l’UE stenta ad avanzare nel meridione; a ogni passo deve superare una serie di barriere, pagare esosi pedaggi alle forze della conservazione affaristica e parassitaria.
Dopo un cammino così impervio, giunge in Sicilia sfinita e con lo spirito infranto, e quel poco che porta non creerà sviluppo, occupazione, ma andrà ad alimentare un sistema di potere retrogrado e fraudolento.
Questa è la realtà e guai a chi vorrebbe modificarla. Siamo arrivati al punto, altro paradosso, che il ceto politico e imprenditoriale locali paventano, come la più grave minaccia, l’uscita della Sicilia dal gruppo delle regioni del cosiddetto “obiettivo 1” ossia quelle col reddito più basso dell’Unione.
Invece di festeggiarne l’uscita come un avvenimento storico, c’è gente che porta il lutto al braccio perché teme il venir meno dei cospicui flussi finanziari destinati alle regioni meno sviluppate.  

Fondi Ue: come rendita da sottosviluppo
Insomma, in Sicilia si lotta per conservare questa sorta di “rendita da sottosviluppo”. Forse, perché si paura del vero sviluppo. Una farsa o un dramma che la classe dirigente del Paese sembra ignorare o addirittura assecondare.
L'importante è che dall'Isola continuino ad affluire a Milano, al nord braccia, intelligenze e capitali, leciti ed illeciti, per far girare il meccanismo economico e finanziario e a Roma mas-se di voti moderati per neutralizzare le riforme più innovati-ve.        
Per premio, boss e notabili avranno opere (o promesse di opere) colossali e burocrazie elefantiache dove “sistemare” i loro migliori clientes.
Negli ultimi anni, si è ridotto il flusso dei finanziamenti per lavori pubblici, anche a causa dei dirottamenti dei Fas operati dal governo Berlusconi a favore delle regioni del nord.
Tuttavia, la Sicilia non sta soffocando per carenza di finanziamenti, ma soprattutto per mancanza di libertà d'impresa e di mercato che scoraggia gli investimenti italiani e stranieri e inducono i migliori a scappare.
Che cosa dovrà essere il cambiamento? Chi lo desidera?
Interrogativi tuttora inevasi.
In ogni caso, più che una prospettiva programmata è un'ardua scommessa che si rischia di perdere, come nel passato.
In oltre 60 anni di specialissima Autonomia, le forze di pro-gresso non hanno mai vinto una battaglia di vero cambia-mento. E’ stata strappata solo qualche sporadica riforma presto vanificata dal malgoverno e dal clientelismo.
In realtà, più che l’idea, è mancato un solido e vasto blocco sociale per il cambiamento.
A causa della grande migrazione dei primi due decenni del dopoguerra, il fronte moderato e della conservazione ha preso il sopravvento e continua a dominare quasi incontrastato.

Sicilia: una strategia mirata di espulsione
C’è stata (c’è) una strategia di selezione e di espulsione mirata a ridurre e/o far scomparire i ceti tradizionali del lavoro dipendente e autonomo che costituivano il nerbo dei movimenti democratici per le riforme e per l’emancipazione dell’Isola.
Una politica odiosa, barbaramente classista, che ancor oggi continua, giacché in Sicilia l’emigrazione non è stata fermata. Se ieri partivano braccianti e minatori oggi emigrano lavora-tori edili e giovani diplomati e laureati.
L’Isola sta perdendo le forze interessate al cambiamento. 
Restano, infatti, le categorie “protette” non dalle leggi (come sono gli invalidi o gli orfani di guerra), ma dal notabilato politico e dal malaffare ossia parenti e amici più fidati, i portatori di voti e di tangenti.
Si sono affermate figure sociali ibride e de-regolate operanti nei servizi e una sottospecie di borghesia (burocratica e delle professioni), un’imprenditoria che non intraprende, ma vivacchia aggrappata alla spesa pubblica, facendo leva sul lavoro nero, sull’evasione fiscale e contributiva.
Tutto ciò spiega il “paradosso” segnalato all’inizio di un’emi-razione siciliana che continua e di una manodopera straniera che si preferisce irregolare, clandestina.
   
Un nuovo blocco sociale per il cambiamento
Una strategia diabolica messa in atto in Sicilia e soprattutto al nord - Italia da sfruttatori senza scrupoli e ritegno, sostenuta da forze politiche che, invece, di affrontare i problemi derivanti da un certo disagio l’immigrazione irregolare comporta, li esasperano per scatenare odiose campagne anti- immigrati, con l’obiettivo di perpetuare lo sfruttamento e di pescare nel torbido.
Per debellare tale strategia le forze progressiste, di sinistra devono mettere in campo iniziative e proposte capaci di sottrarre agli speculatori il crescente consenso di settori di popolazione che vivono l’immigrazione come una minaccia e non come un’opportunità di sviluppo.
Effettivamente, in certe situazioni si creano seri problemi di degrado e di convivenza cui  fanno le spese i ceti meno abbienti che vivono più a contatto con gli immigrati.
Una forza politica seria, un movimento solidaristico non può trascurare tali disagi, ma li deve affrontare e risolvere in uno spirito di cooperazione e di solidarietà, distinguendo fra chi viene per lavorare e chi per delinquere.
Il principio è il rispetto della legge. Chi delinque va perse-guito, come accade con i cittadini italiani.
Insomma, diritti e doveri, per tutti. Certe divagazioni sociolo-giche o, peggio, il non vedere i disagi reali che il fenomeno comporta fra la gente sono il miglior viatico per le campagne razziste. La Lega di Bossi è specializzata in tali “campagne” che le rendono milioni di voti.
In quel movimento c’è del razzismo, ma anche una buona do-se di disagio reale. Non vederlo, sarebbe un errore. L’eccessivo di buonismo della sinistra può condurre l’Italia e l’Europa verso nuove forme d’intolleranza razziale e, perché no, di neo fascismo.
Una posizione più in sintonia con i problemi dei ceti medi e meno abbienti, consentirebbe alle forze di progresso di riac-quistare credibilità e seguito fra i settori sociali adescati dalla  propaganda razzista e quindi una unificazione di fronte, fra lavoratori immigrati e residenti, per una prospettiva di sviluppo.
Addirittura, in Sicilia si potrebbe immaginare una saldatura tra le forze sane rimaste e gli immigrati per costruire, insie-me, un nuovo blocco sociale e politico per il cambiamento.

In Sicilia gli immigrati sono l’unico elemento di novità 
Nell’attuale condizione sociale e demografica isolana l’unico elemento di novità è costituito dagli immigrati di varia nazionalità e appartenenza sociale: dai disperati che vengono dall'Africa a quelli che arrivano, con la borsa piena di soldi, per comprare o avviare un negozio, un ristorante, un hotel, ecc. Questa “novità” vale sia per i grandi agglomerati urbani e ancor di più per i piccoli e medi centri della provincia, letteralmente abbandonati e disabitati a causa della nostra emigrazione vecchia e nuova.
Chi potrà rivitalizzare i tanti piccoli centri dell’interno sici-liano se non, appunto, gli immigrati già arrivati e gli altri che verranno?
Ovviamene sulla base di una seria politica d’accoglienza, di apertura culturale, di reciproca comprensione e di tutela dei diritti umani e civili. Senza pretendere d’imporre i nostri schemi mentali e di azione politica a persone provenienti da realtà nelle quali la democrazia e la giustizia sociale difettano o sono del tutto assenti.
Così concepita e vissuta, questa presenza favorirà un benefico "rimescolamento delle carte" e l'innesto di nuove culture, mentalità, stili di vita che potrebbero entrare in conflitto con le logiche prevaricatrici del sistema dominante e quindi contribuire a tracciare una prospettiva di cambiamento nella legalità. Da sole, le residue forze “progressiste” siciliane non ce la fanno. E all’orizzonte del nostro futuro non s’intravvede un nuovo Garibaldi liberatore.
Perciò, lo sforzo principale è quello di modificare l’approccio prevalente nell’opinione pubblica che vede la presenza degli immigrati, in Sicilia e altrove, con preoccupazione, come problema d’ordine pubblico. 
Lo sforzo da compiere è quello di trasformare l’immigrazione da “questione di polizia” a nuova risorsa, economia e politica, da far pesare nello scontro fra forze di progresso e di conser-vazione.
Sarebbe questa una mutazione feconda, non solo concettuale, capace di ri-aprire una prospettiva nuova e delineare un’alter-nativa al sistema dominante.

Meglio sarebbe chiamarli “nuovi siciliani”
Perciò, è necessario prestare particolare attenzione alla realtà degli immigrati stanziali, residenti, dei quali solitamente non si parla.
C’è, infatti, un serio deficit di conoscenza. Mentre siamo abbondantemente informati su ogni episodio di cronaca nera e su ogni sbarco a Lampedusa e sui programmi governativi per ricacciarli indietro, quasi nulla sappiamo delle condizioni in cui vivono gli immigrati regolarizzati.
Tutto ciò anche grazie a un’informazione lacunosa, faziosa che contribuisce a presentare tali sbarchi come una sorta d’invasione e non come episodi di un dramma infinito che nasce in remote contrade dell'Asia e dell'Africa e si conclude, talvolta tragicamente, sulle spiagge dell'Isola.
Lo schieramento laico e progressista dovrebbe occuparsi seriamente della condizione di quanti vivono in Sicilia, senza delegare tale compito all’impegno esclusivo, e benemerito, dell’associazionismo cristiano.
Si tratta di una presenza significativa che, per altro, contrad-dice un luogo comune secondo cui l'Isola è solo luogo di "transito" e non d' attrazione per decine di migliaia d'immi-grati.
Chi sono? Quanti sono? Che cosa fanno? Che cosa pensano? Come interagiscono con la società siciliana?
Un po' tutti dovremmo preoccuparci di scoprirlo.
Sapendo che non potremo definirli in eterno "immigrati" o “clandestini”.
Più civile sarebbe chiamarli "nuovi siciliani" come fanno in Australia, paese d'immigrazione per antonomasia, dove al posto del termine "immigrato" è usato quello più ospitale di "new australian".

Agli immigrati gli stessi diritti degli emigrati siciliani nel mondo
I disagi sono l'altra faccia della stessa medaglia che Stato e Regione dovrebbero affrontare con spirito nuovo, solidale in base alle leggi.
Ricordando che bisogna attuare soltanto le leggi relative all’espulsione, ma anche quelle mirate a combattere il mer-cato nero delle braccia e le pratiche neo-schiavistiche per assicurare ai “nuovi siciliani” il godimento dei diritti fonda-mentali civili e politici: dalla libertà di associazione, all’istruzione, alla casa, alla salute. E, al più presto, al voto.
Insomma, riconoscere ai nuovi siciliani quello che abbiamo chiesto (e in gran parte ottenuto) per i nostri emigrati in varie parti del mondo.
Perciò, invece di lavorare per criminalizzare l’immigrazione, occorre un grande progetto politico, sindacale e culturale, mirante a fare emergere questa realtà, legalizzandola e riconoscendole pari dignità e doveri all'interno della società siciliana.
Una siffatta iniziativa potrebbe favorire la nascita di un fronte nuovo di lotta sociale, mediante la saldatura degli interessi fra lavoratori e disoccupati siciliani e immigrati, accomunati dal medesimo sfruttamento praticato da un ceto padronale a dir poco retrogrado.
Sarebbe questo un segno del tempo che stiamo vivendo all’insegna delle contaminazioni culturali e razziali che plasmeranno l'umanità e faranno nascere un mondo speriamo migliore dell'attuale.      
La Sicilia non potrà mancare a questo appuntamento. Anche per non smentire la sua civilissima tradizione di convivenza, esempio raro e fecondo in questo Mediterraneo che deve tornare a unire invece che separare.

Chi sono i “nuovi siciliani” ?
I "nuovi siciliani" costituiscono una realtà fatta di piccole e grandi comunità di uomini e di donne provenienti dai vicini paesi nordafricani e da continenti lontani, insediatesi stabilmente nella  nostra Isola.
Che cosa fanno? Lavorano senza orario e a paga ridotta per far sopravvivere e rendere competitive piccole e medie aziende agricole e artigianali, commerciano povere cose che leniscono i bisogni della povera gente, badano ai nostri vecchi molti dei quali senza la loro collaborazione vivrebbero nell'abbandono e nella solitudine. Certo, qualcuno delinque, ma si tratta di un’incidenza fisiologica dovuta, in gran parte, alla disoccupazione e/o al mancato riconoscimento dei loro diritti di lavoratori.
La gran parte è gente buona. Basta guardarli negli occhi per rendersi conto della loro genuina bonomia.
S’incontrano un po’ dovunque per le viuzze dei centri storici più antichi e fatiscenti delle nostre città. Vi può essere avversione nell'osservare il visino sorridente di un bambino africano che corre nell'ombra di un umido basso di Ballarò o gli sguardi pudichi di ragazze inghirlandate per la loro festa o i movimenti languidi di una danza berbera?
O nel vedere fanciulli, dai volti puliti, sui banchi di scuola? o uomini schivi che ballano e cantano e pregano in luoghi di culto improvvisati?  o le lunghe file nei centri della “Caritas” di africani, asiatici e siciliani, accomunati dalla stessa mise-ria, in attesa di un pasto caldo a mezzogiorno?
In qualche loro tugurio ho visto Madonne convivere con un Dio indiano.
Una convivenza impossibile in una cattedrale, ma che qui si realizza senza scandalo. Immagini emblematiche che indica-no la via che il mondo sta cercando in questa fase buia della sua storia che potrebbe sfociare in "una guerra di civiltà" all'insegna del conflitto fra religioni.
Tutto ciò è saggezza, cultura che nulla toglie alla nostra, anzi vi aggiunge qualcosa e l'arricchisce.
Bisogna, perciò, aprire uno squarcio dentro questa umanità ancora irredenta ma con tanta voglia di affermarsi, che vive fra noi, ma che noi ignoriamo del tutto o osserviamo di sbieco, attraverso le lenti deformanti del pregiudizio razziale e dei resoconti insulsi di certa informazione.
Dalla "casbah" di Mazara del Vallo alle serre di Vittoria, dai vicoli maleodoranti di centri storici, un tempo maestosi, di Palermo, d’Agrigento, di Catania ai quartieri abbandonati (dai nostri emigranti) dei tanti paesi dell'interno, dalle piazze dove i "nuovi siciliani" s'incontrano in giorni stabiliti a centri d'assistenza, dai circoli culturali alle moschee, ai tanti luoghi di culto, precari e spogli, dove pregano un Dio che non è "minore", ma lo stesso di quello venerato in Sicilia e in Occidente.
 
Globalizzazione e migrazioni
Problematiche complesse che ci aiutano a uscire dai localismi e a cogliere la dimensione effettiva dell'emigrazione su scale planetaria.  
Per capire l’immigrazione in Sicilia è necessario inquadrarla nel più vasto fenomeno epocale che è, prima di tutto, effetto di un grandioso sconvolgimento politico, sociale, ecologico, demografico, ecc. che ha travolto le barriere nazionali degli Stati e sta trasformando il mondo in un immenso, disordinato mercato globale.
Ossia la cosiddetta “globalizzazione capitalistica dell’econo-mia” che per affermarsi deve ri-dislocare produzioni, saperi, servizi, capitali, tecnologie, spostando intorno alle grandi metropoli, ai vecchi e ai nuovi insediamenti produttivi masse enormi di forza-lavoro sottopagata e non tutelata.
Gli effetti sociali e politici di tale sommovimento sono sotto gli occhi di tutti: il mondo è entrato in una fase di convulsio-ne che ha rimesso in gioco i tradizionali meccanismi di pro-duzione e di accumulazione, i sistemi sociali usciti vittoriosi dalla seconda guerra mondiale e gli assetti di potere derivati.
Uno sconvolgimento epocale, senza regole e senza un pen-siero forte che lo sostenga e l’orienti verso un approdo giusto e sicuro. C’è molta inquietudine oggi nel mondo, mentre si annuncia una crisi dalle conseguenze imprevedibili.
Molti si chiedono: dove sta andando il mondo? La risposta non è facile. Forse, a naso, si può rispondere: dove vanno i migranti o gli emigranti.

Migranti o emigrati?
Migranti o emigrati? Anche questo è un problema e non solo di lessico. Mi pare che "migranti" (più usato da certa termino-logia sociologica) più si accosti al termine "migratori" che, inevitabilmente, ci riporta ai volatili che solcano, gioiosi, i cieli del Mediterraneo, degli oceani, per spostarsi da un conti-nente all'altro.
Non ci pare questa la condizione che vivono grandi masse di uomini e donne e bambini costretti a fuggire, spogli e amma-lati, dai loro paesi, avventurandosi per impervie vie, alla ricerca del lavoro e della dignità negati. 
Forse, è più adatto il termine "emigrante" per indicare, come per il passato, una condizione umana che, ciclicamente, si de-termina come conseguenza di politiche miopi e senza regole beffardamente chiamate "liberiste".
Siamo nel pieno della rivoluzione neo-liberista decisa a con-seguire il massimo della sua espansione economica e militare e della sua egemonia culturale che si fonda sulla manipola-zione delle coscienze e dei saperi.
Da qui lo stravolgimento di culture e di civiltà sedimentate, di sistemi sociali, di valori e relazione umane, affetti, solidarietà e di tutto ciò che potrebbe ostacolare la propensione al consu-mismo e la velocizzazione dei ritmi di vita e di produzione.
L’umanità, oggi, è preda di una visione egemonica unipolare che mira alla superproduzione e al massimo profitto, che di-vora ingenti risorse energetiche e ambientali, che mette a rischio l'equilibrio biologico e la stessa sopravvivenza del Pianeta.
Una realtà informe, a misura del profitto, anche illecito, che comincia a mostrare crepe profonde e contraddizioni insana-bili che taluno pensa di rimarginare ricorrendo alla guerra, anche preventiva.

Intorno alla Sicilia una vasta rete di flussi migratori
La Sicilia, grazie alla sua posizione geografica, è divenuta la principale porta d'ingresso in Europa per una gran massa d'immigrati clandestini provenienti dai paesi rivieraschi me-diterranei, dall'Africa e dal Medio Oriente, dal sub continen-te indiano e perfino dalla Cina, dal sud est asiatico e dall'arci-pelago delle Filippine, ecc.
Una rete vasta e variegata di flussi che si originano dai tanti Sud del mondo in preda a guerre civili, carestie e a regimi politici corrotti ed indegni che costringono la gente, specie i giovani, a scappare.
Perché la gran parte dell’immigrazione approda in Sicilia?
La risposta non è facile. Tuttavia, appare strano, per non dire sospetto, il fatto che tali flussi, addirittura intercontinentali, scelgano la Sicilia e la piccola isola di Lampedusa come principali luoghi di approdo verso l'Europa.
In un Mediterraneo cosi ampio e oblungo, non si capisce perché la gran parte delle "carrette del mare" puntino sulle sperdute Pelagie e, in genere, sulle coste siciliane distanti dall'Africa diverse  centinaia di miglia.
Anche gli emigranti provenienti dall'Africa occidentale (Nigeria, Ghana, Senegal, Marocco, ecc) evitano lo stretto di Gibilterra (largo appena 34 km) e vengono ad imbarcarsi sulle coste libiche e per approdare a Lampedusa.
Così quelli provenienti dall'Asia che potrebbero, più agevolmente, incanalarsi lungo le molteplici vie dei Balcani.
Evidentemente, vi saranno ragioni non tutte chiare che consigliano di puntare sulla Sicilia, divenuta luogo emblematico di emigrazione e d’immigrazione di massa.
I due fenomeni, apparentemente antitetici, sono in realtà prodotti della stessa logica di rapina che si basa sul drenaggio della parte migliore delle forze di cui un territorio dispone: i giovani lavoratori, molti in possesso di un diploma o di una laurea.

Il Sud aiuta il Nord, non viceversa
Questi giovani, emigrando, trasferiscono gratuitamente verso un Nord, già ricco e iper- sviluppato, la parte più pregiata del "capitale" intellettuale e fisico prodotto dai diversi Sud del mondo a costo di enormi sacrifici e con uno sforzo finanzia-rio ingente.
A parte il dramma dello sradicamento degli affetti, provate a calcolare quanto costa a una famiglia, ad una società del Sud allevare e istruire un giovane. Un colossale investimento sociale il cui rendimento va tutto a favore del Nord.
In sostanza, fra Nord e Sud non c’è scambio, reciprocità.
Non è il Nord che aiuta i Sud nello sviluppo, ma accade esat-tamente il contrario.
Poiché le regioni meridionali contribuiscono doppiamente alla crescita del Nord italiano ed europeo, fornendo loro braccia ed intelligenze e assicurando uno sbocco di mercato alle loro produzioni.
Si ripete uno schema antico, scellerato, che va avanti dall'Unità (1860), secondo il quale alle regioni meridionali è riservata solo questa duplice e subalterna funzione.
A garanzia del successo di tale politica è stato selezionato e imposto (anche col voto) un ceto politico, burocratico e imprenditoriale infingardo, corrotto e sempre bisognoso di assistenza e di condoni e si è tollerata, quando non favorito, una criminalità che esprime una potenza condizionante superiore a quella di uno Stato.
Perciò a molti non resta che...emigrare, scappare.  
Per i Sud emigrazione vuol dire distorsione dei parametri fondanti del contratto sociale, abbandono di case e villaggi, impoverimento materiale e culturale delle comunità, deca-dimento economico e, ancor più grave,  crisi della prospet-tiva, mancanza di un futuro. I Sud pagano al nord un prezzo salatissimo e crudele che nessuna rimessa potrà mai compensare.
(in “Infomedi” settembre 2006)
  
       

                                   


























LE STRANE ROTTE CHE PORTANO GLI IMMIGRATI IN SICILIA

Un fenomeno atipico
Analizzando il corso attuale dei flussi migratori mediterranei sorge un interrogativo che nessuno riesce (o vuole) chiarire all'opinione pubblica: perché la gran parte di tali flussi raggiunge l'Europa attraverso la Sicilia?
La questione non è peregrina poiché produce una serie di effetti a catena sul sistema delle relazioni italo - libiche e, in particolare, sulla Sicilia generatrice di emigrazione e terra di accoglienza e di transito d'importanti flussi d'immigrati.
Un fenomeno atipico dovuto in particolare al fatto di essere un'economia debole e largamente sommersa e alla sua posi-zione  geografica che ne fa una piattaforma posta al confine fra il primo mondo, ricco e iper- industrializzato, e gli altri mondi poveri o in via di sviluppo.
Un ruolo anomalo impostole dalle menti direttrici del traffico di esseri umani che le hanno assegnato all’Isola la funzione di porta principale dei flussi clandestini per il rifornimento del mercato europeo di manodopera a basso costo.
Ma perché solo la Sicilia?
Se per gli immigrati il problema è di raggiungere un lembo qualsiasi d'Europa per poi distribuirsi sul continente, non si capisce perché le organizzazioni del traffico hanno optato per la Sicilia, visto che sulla costa europea del Mediterraneo vi sono tanti altri approdi più vicini ed agevoli.

Libia - Sicilia: la rotta più lunga
Basta osservare la carta geografica e misurare le distanze fra la costa africana e mediorientale e i possibili punti d'approdo in Europa, per accorgersi che la rotta Libia - Sicilia è la più lunga e, perciò, la più illogica e pericolosa fra le tante prati-cabili. E la più affollata.
Si stima, infatti, che circa l'80% di tali flussi si diriga verso le coste siciliane attraverso questa specie di ponte della dispera-zione, lungo oltre 300 miglia di mare.
E' arcinoto che la gran massa dei disperati provenienti dall'Africa (compresi marocchini e algerini) evita lo stretto di Gibilterra, si sobbarcano altre migliaia di km e sofferenze indicibili per raggiungere i campi di raccolta in Libia e da qui imbarcarsi per la lunga (e talvolta tragica) traversata verso la Sicilia. Da notare che Malta viene "saltata" anche se è il primo lembo d'Europa, lungo questa rotta.
Un periplo molto disagevole e perciò strano, molto strano per non essere sospetto.
E dire che esistono altre rotte molto più agevoli di quella praticata.
Oltre allo stretto di Gibilterra (largo 34 km), ci sarebbe quello dei Dardanelli (Turchia) che, con meno rischi, consentirebbe di raggiungere la Grecia o, attraverso le vie dei Balcani molto più aduse ai traffici clandestini, l'Europa centro-orientale.
Più breve, inoltre, è la distanza che separa la costa libica dall'isola di Creta o la costa algerina dalla Sardegna (entram-be grandi isole europee) o quella fra Tunisia e Sicilia ch'era la vecchia rotta stranamente abbandonata dai trafficanti.
Tutto, invece, si svolge lungo l'asse Libia - Sicilia. Normalmente. Come se si trattasse di una tappa obbligata di una crociera turistica mediterranea.

In Libia non si muove foglia che Gheddafi non voglia
Chi conosce un po' questo Paese sa benissimo che un traffico di esseri umani di tali proporzioni non può sfuggire all'occhio vigile di un regime dotato di un efficacissimo sistema di controlli.
Un sistema, per capirci, che ha consentito a Gheddafi di man-tenersi, per 36 anni, saldamente al potere e di soprav-vivere a decine d' attentati e di tentativi di colpi di stato, taluni orga-nizzati dai  servizi delle più grandi potenze mondiali o con la loro complicità.
Perciò, nessuno crede che in un paese siffatto possano circolare impunemente, sprovvisti di documenti e di cibo, centinaia di migliaia (c'è chi dice milioni) di clandestini provenienti dai quattro angoli del pianeta-fame, in attesa d'imbarcarsi per la Sicilia.
A noi sfuggono le ragioni di tali comportamenti, soprattutto quelli inerenti la sfera politica e governativa.
Si possono formulare solo ipotesi oppure chiedere ragguagli al signor Abdul Rahman Shalgam, brillante suonatore di "aud" (liuto) e attuale ministro degli esteri libico, un tempo molto amico della Sicilia e, in generale, dell'Italia.
Ma lasciamo perdere, sono soltanto ricordi personali. Oggi in Libia la situazione è profondamente cambiata. Il vecchio ceto dirigente, sempre al potere, si trova a gestire relazioni e interessi molto diversi di quelli di qualche anno fa.
E' chiaro però che la Sicilia non potrà sopportare a lungo un traffico così ingente e problematico.
Le diplomazie italiana ed europea dovrebbero attivarsi al Massimo livello, sulla base di proposte un pò più serie delle precedenti, per avviare un negoziato che porti, entro un tempo ragionevole, ad una consistente regolamentazione dei flussi e ad un accordo chiaro contro tutti i traffici clandestini fra le due sponde.
Le nuove norme sugli accessi, annunciate dal governo italia-no, la lunga telefonata di Prodi a Gheddafi, potrebbero favo-rire un clima propizio per l'intesa e consentire ai lavoratori immigrati di svincolarsi dalle maglie della tratta clandestina.
Fra Sicilia e Libia, così come con altri paesi mediterranei, non possono continuare tali turpi commerci, ma bisogna intensificare il dialogo culturale e gli scambi di beni e servizi per costruire insieme un futuro di libertà e di prosperità.

(in "La Repubblica" del 11 agosto 2006)







MORTE SOTTO LA LUNA

Undici sacchi di plastica nera
L'altra sera sopra Porto Empedocle c'era la luna. Una luna flebile e inquieta che, in compagnia di una stella insolita, si era posata sul molo di levante dove una nave della nostra marina (la "Spica") era attraccata col suo pietoso carico di salme avvolte in sacchi di plastica nera.
Sono quelle di undici ragazzi africani annegati in acque maltesi. Altri, dispersi, li cercano ancora.  Le scendono a una a una e le depositano sopra il basolato lavico. Penetrando la ressa dei fotografi, ne osservo alcune bell'impacchettate. Corpi rigidi, eppure m'illudo che la loro storia sia ancora in itinere. Anche perché la visione della luna mal si concilia con la realtà di quella vita rubata.
Sino a quando quelli delle pompe funebri non mettono il suggello della fine sopra la loro avventura di uomini e di clandestini come, sbrigativamente, li chiama la burocrazia.
A parte il colore della pelle, non vi erano altri segni di identificazione. Uomini morti, e sepolti, senza nome e senza nazionalità, prototipi della globalizzazione che verrà.
La tragedia, una delle tante, si è consumata sabato notte, nelle stesse ore in cui la notte del Mediterraneo si accende di luci sfavillanti di panfili dorati, di club esclusivi e discoteche disseminati lungo le sue incantevoli spiagge.
Pura coincidenza, per carità. Un'accidenti che, in genere, capita a chi s'ammazza di lavoro, anche precario, o a chi lo cerca disperatamente. Una disgrazia, dunque, che non turba più di tanto la nostra farisaica falsa coscienza.

Se fossero annegati 11 gatti…
Eppure - mi domando- cosa sarebbe successo se undici gatti di razza esotica, magari appartenenti a un ricco evasore, fossero morti annegati in piscina?
Nessuno avrebbe accettato quel destino truce, pretendendo che ne fossero accertate le cause e perseguite le responsabilità che, ora, la legge punisce severamente.
Per questi undici uomini non è successo nulla. Nessuno, o quasi, s'interroga sulle cause della loro terribile morte, del permanere di realtà sociali e politiche scandalose, spesso ingovernabili, da cui si origina il dramma che si svolge dentro, e intorno, il Mediterraneo il quale, da culla delle più grandiose civiltà, si sta trasformando in un fossato che divide, invece che unire, i popoli rivieraschi.
Tutto cambia, in fretta e in peggio. Anche questo vecchio e generoso mare pare che stia diventando cattivo, ingrato e avaro di risorse.
Ma il mare non c'entra nulla, poiché - come scrive Braudel - "il Mediterraneo sarà come lo vorranno i mediterranei". Evidentemente, per ora, così lo vogliono le super potenze politiche e militari e le grandi corporazioni economiche e finanziarie, associate da un comune disegno di predominio sul mondo. I "mediterranei" non hanno voce in capitolo.
Il tragico esodo migratorio e i sanguinosi conflitti in corso sulle sue rive e zone contigue ci dicono che nel Mediterraneo è in atto una spaventosa mutazione. Eppure nessuno sembra preoccuparsene. Non si va oltre la commiserazione momen-tanea: il tempo in cui nasce e muore una notizia.
Purtroppo, nemmeno i governi se ne occupano sul serio. Nonostante gli accordi e i buoni propositi, non riescono a immaginare per i popoli mediterranei una strategia di pro-sperità condivisa, nella pace e nella libertà.
Questa è la colpa maggiore, e imperdonabile, dei ceti dirigen-ti dell'area euro-mediterranea i quali, pur rappresentando la più grande potenza commerciale del pianeta, non riescono (o non desiderano?) a favorire un'evoluzione pacifica e social-mente giusta dello scenario mondiale.

Il neoliberismo sta affamando gran parte dell’umanità
Fino a quando potrà durare questa situazione? Credo che sia venuto il tempo di mettere un punto fermo e provvedere. A cominciare dalle politiche migratorie che dovranno regolare i flussi, nel rispetto dei diritti umani dei migranti e anche di quelli delle popolazioni dei paesi d'accoglienza.
Con quali politiche e con quali strumenti? Su tutto ciò si dovrà discutere, andando oltre, per favore, le lacrime vere o fasulle, le solidarietà ipocrite, la carità anche sinceramente motivata.
C'è un dato inconfutabile da cui partire: più la ricchezza (prodotta dai lavoratori, particolare non trascurabile), si concentra nelle mani di gruppi sempre più ristretti nazionali e internazionali, più si espandono le aree di povertà e d'indigenza, anche in paesi iper- sviluppati, com'è l'Italia.
E' la legge della ripartizione ineguale. Perciò, non è necessario essere eminenti economisti per capire che il neo liberismo sta affamando la gran parte dell'umanità.
E chi ha fame scappa, emigra, anche a rischio della vita.
Come hanno fatto questi ragazzi, finalmente, sbarcati sulla terra promessa da qualcuno che avrà loro estorto cifre ragguardevoli.
Sono morti senza patria, perciò non si possono rimpatriare. I lestofanti che comandano su quelle "patrie" non li rivogliono nemmeno da vivi, figurarsi da morti.
Meno male che c'è Favara, l'unico comune dell'agrigentino ad avere predisposto uno spazio cimiteriale adeguato per i defunti immigrati. Un fazzoletto di terra, che già ospita molte salme anonime, destinato a diventare una sorta di sacrario dell'immigrato ignoto.
E tutto ciò rende onore (vero onore) ad una città, e per essa all'intera Sicilia, che della morte hanno ancora un sentimento altissimo di devozione e di partecipazione. A tratti, perfino gioioso.
E verso Favara partono le sfarzose "mercedes" delle pompe funebri, ognuna con dentro una cassa luccicante. Uno strano corteo, muto e senza parenti al seguito.
Poveri figli! Sono "arrivati" laceri e avvizziti e se ne vanno dentro bare di mogano, a bordo di automobili lussuose che nemmeno i loro presidenti, in terra d'Africa, si possono per-mettere.
Pare che provenissero dalla Sierra Leone. Da Freetown o da Moyamba? Non lo sapremo mai. Solo la luna che li ha guidati nella notte africana o il sole impietoso che li ha inseguiti per deserti e montagne ce lo potrebbero dire.        
                                                 
(in "La Repubblica" del 22 giugno 2007)

 
          
OLTRE LAMPEDUSA

La nostra farisaica falsa coscienza
Parlando o scrivendo d'immigrati, solitamente ci si ferma a Lampedusa. Sembra che questo immane dramma, umano e sociale, nasca e finisca in questa piccola isola sperduta del Mediterraneo.
Come se decine di migliaia di uomini e di donne e le loro putride carrette sorgessero, all'improvviso, dalle profondità abissali del mare tutt'intorno e una volta consegnati, vivi o morti, al Cpt il problema scompare. Tutto si placa e la nostra farisaica falsa coscienza si acquieta.
Dopo Lampedusa, a nessuno sembra interessare la sorte che li attende, le pene che dovranno sopportare nella loro triste condizione di clandestinità.
Molti saranno rimpatriati verso la "patria", miserabile e ingra-ta, da cui sono fuggiti. O, in mancanza di documenti, verso una patria qualsiasi.
Chi riesce a sfuggire al fermo, vagherà senza meta, per giorni o per mesi, per raggiungere regioni lontane o, addirittura, altri stati di questa Europa opulenta e cinica che brama manodope-ra a prezzi stracciati e scarica i disagi derivati sulle società e sui ceti più emarginati. 
Soprattutto le donne, finiranno nelle grinfie di sfruttatori sen-za scrupoli, anche compatrioti, (ancora la patria!) che le av-vieranno alla prostituzione o, nel migliore dei casi, a badare, 24 ore su 24, ai nostri vecchi cui nessuno bada.   
Molti s'imboscheranno in un ovile o presso una sperduta fattoria, nelle oscurità maleodoranti di un hotel, di un bar, di un ristorante, di una bottega o chissà dove pur di sopravvi-vere senza incappare nei rigori della Bossi-Fini.

La vecchia e la nuova schiavitù
Fino a quando dovremo assistere a tutto ciò?
In mancanza di una regolamentazione dei flussi e di una tutela giuridica e salariale degli immigrati, avremo (in parte già abbiamo) in questa nostra civilissima Europa una moderna schiavitù, simile a  quella classica abolita con la Convenzione di Ginevra del 1926.
Ovviamente, fra vecchia e nuova schiavitù c'è qualche differenza fra le quali la più evidente consiste nel fatto che mentre allora i giovani africani erano catturati nelle foreste da pii mercanti islamici e trasportati, in catene, sopra galeoni olandesi, inglesi, portoghesi, ecc, nei territori del Nuovo Mondo e qui acquistati da pii latifondisti cristiani, oggi partono per il Vecchio Mondo volontariamente, vanno alla ventura e pagano addirittura un esoso passaggio su natanti precari.
E, una volta arrivati, l'Europa se li tiene ben stretti, perché ne ha un bisogno estremo: senza questa forza-lavoro a basso costo non potrebbe competere con le nuove potenze commerciali protagoniste della globalizzazione.
Questa è la verità che spiega quel cumulo di contraddizioni che è l'attuale politica migratoria della Ue e dei singoli stati membri.
Lampedusa è divenuta un emblema di questa colossale ipo-crisia, principale punto di approdo e di snodo di una scan-dalosa tratta di esseri umani "assistita", quando non aperta-mente sostenuta, da governi e settori delle amministrazioni.
Senza volerlo, la piccola isola che li vede arrivare e la Sicilia che li vede in gran parte passare, sono testimoni  di un feno-meno epocale provocato da un grandioso sconvolgimento politico, sociale, demografico, ecologico che ha travolto le barriere degli stati e sta trasformando il mondo in un mercato globale dove merci e capitali possono circolare liberamente, mentre gli uomini si devono arrestare ai confini nazionali.    

Dove va il mondo? Dove vanno gli emigrati
Una ben strana concezione dello sviluppo che per affermarsi deve ri-dislocare produzioni, saperi, servizi, capitali, tecno-logie spostando intorno ai nuovi insediamenti masse enormi di forza lavoro sottopagata e non tutelata.
In realtà, stiamo vivendo una lunga fase di convulsione senza che se ne intravedano gli approdi.
Dove sta andando il mondo?
E questo l'interrogativo più angosciante, al quale, forse, si potrebbe rispondere: dove vanno gli emigranti.
Ma torniamo alle questioni più pregnanti di questa dramma-tica attualità che non può essere ridotta ad un mero problema di vivibilità e di sicurezza pubblica.
Soprattutto in Sicilia, terra dissanguata dall'emigrazione, bisognerebbe reclamare una svolta politica e un nuovo approccio culturale del fenomeno e quindi seri programmi di cooperazione (non il fumoso "Piano Marshall" che di tanto in tanto rispolvera l'on. Cuffaro) per favorire lo sviluppo dei paesi d'origine degli immigrati che stanno perdendo le loro migliori energie.
Anche questo è un aspetto devastante di cui cominciare a preoccuparsi, soprattutto da parte di quelle forze progressiste che reclamano la totale "liberalizzazione" degli accessi, senza farsi carico delle conseguenze che determina.
Per averne un'idea non c'è bisogno d'andare in Burkina Faso. Basta venire, d'inverno, in un paese qualsiasi della Sicilia interna per accorgersi dei guasti irreparabili provocati dalla vecchia e dalla nuova emigrazione. Si vedrebbero centri storici abbandonati, interi paesi agonizzanti, senza futuro, abitati da anziani sopra i sessanta anni e da giovani sotto i diciotto anni. Paesi- fantasma che vivono solo d'estate, due mesi l'anno, una vita virtuale animata da modesti baccanali e da feste patronali che attirano frotte di nostri emigrati i quali non possono più permettersi le ferie in Spagna o nelle isole greche. 
 (in “Girodivite” del 6/9/2006)


LA MODERNA SCHIAVITU

Nessuno espelle gli schiavisti
Seguendo i giornali, i telegiornali e le truculente dichiarazioni dei rappresentanti del governo, sembra che lo stupro sia divenuto la prima emergenza nazionale. Più degli effetti della crisi economica e morale, delle efferatezze della criminalità organizzata.
L’allarme, seguito da severi provvedimenti, scatta soprattutto quando lo stupro è commesso da giovani immigrati. Se commesso in famiglia, come nella maggioranza dei casi, o da un giovane connazionale al massimo diventa bullismo, disadattamento o cosucce del genere. 
Con ciò non si vuol negare la necessità di misure adeguate di prevenzione e di repressione per scoraggiare e punire gli autori di tali episodi obbrobriosi, ma rilevare l’enfasi eccessiva che si è voluta dare a questi episodi che, per altro, induce a trascurare fenomeni ben più gravi e diffusi, qual è- per esempio- la riduzione in schiavitù che, anche in Italia, tormenta l’esistenza di decine di migliaia di donne e di bambini.
L’ultimo caso, l’altro giorno, ad Alcamo, dove una ragazza rumena, con l’aiuto della polizia, è riuscita a liberarsi, speriamo per sempre, dalle grinfie dei suoi aguzzini i quali per costringerla a prostituirsi la tenevano praticamente in condizioni di vera e propria schiavitù.
Eppure, consumata la notizia, non è successo nulla. Nessuno ha proposto un decreto contro gli schiavisti italiani e stranieri che controllano un traffico enorme di uomini e donne.
Non è scattata nemmeno quell’indignazione istintiva che è (era?) la controprova della sanità morale di un popolo, di una nazione che, per altro, si professa cattolicissima e devota.

Si sta spegnendo il sentimento della pietà umana?
Come se in queste nostre società “opulente” anche il sentimento della pietà umana si stia spegnendo nelle nostre menti alienate e terrorizzate da certa propaganda, a contatto con l’arido deserto creato intorno a noi da egoismi sfrenati e devastanti. 
E questo un altro aspetto, forse il più inquietante, di questo nuovo ciclo mondiale delle migrazioni che, oltre a creare nuovi dissesti sociali e morali nelle società d’origine e di destinazione, produce forme diverse di schiavitù che, abolita ufficialmente dalla convenzione di Ginevra del 1926, oggi ritorna e si afferma anche nelle nostre civilissime contrade.
Chi pensava che fosse definitivamente scomparsa deve ricredersi alla luce di quanto avviene nei mercati del lavoro e dell’emigrazione clandestina che è una variante tragica del primo.
Secondo tali meccanismi, gli individui, soprattutto i più emarginati e discriminati, non sono più esseri umani, ma merce da acquistare e da vendere per pochi euro, bestie da sfruttare e spedire su camion piombati, da traghettare su battelli precari verso i paesi di questo Occidente immemore ed ipocrita.
Una condizione drammatica che i nostri occhi non vedono forse perché abbagliati dal luccichio che promana il dio-mercato che sta stravolgendo il sistema delle relazioni umane e portando il mondo sull’orlo della catastrofe.
Una logica folle che - nel migliore dei casi- considera le per-sone “capitale umano”, “risorsa umana”.
Una fraseologia “moderna” che, in realtà, serve per educo-rare una concezione abietta che giunge a giustificare, a tolle-rare, anche la tratta, su vasta scala, di uomini, donne e bambini.
Un commercio turpe, lucroso e criminale che non potrebbe continuare a svolgersi senza la complicità di settori impor-tanti preposti ai controlli e il beneplacito dei grandi utiliz-zatori finali della “merce”.

Un’indagine parlamentare sulla tratta degli esseri umani
Una moderna schiavitù che si diffonde in barba alle leggi nazionali e alle convenzioni internazionali e in aperto spregio dei valori umanitari e di libertà che stanno alla base delle nostre Costituzioni e società.
Tutti lo sanno, ma nessuno fa nulla, sul serio. Lo sa anche il Parlamento italiano che, negli anni scorsi, ha promosso un’interessante indagine sulla “Tratta degli esseri umani” che documenta l’estensione e l’abiezione del fenomeno e contribuisce a ridefinire il concetto stesso di schiavitù alla luce della citata Convenzione di Ginevra e della più recente normativa europea:
“La schiavitù è il possesso in un uomo e l’esercizio da parte di questo, sopra un altro uomo, di tutti o di alcuni degli attributi della proprietà. In tal modo, dunque, la schiavitù è identificata come l’espressione suprema della reificazione umana.”
Non so quanti dei nostri parlamentari, ministri, alti funzionari, imprenditori, amministratori locali, operatori del diritto, giusvaloristi abbiano letto le risultanze di questa indagine.
Non molti, visto che non ha avuto alcun seguito. Tuttavia, il documento parla chiaro e nessuno può chiamarsi fuori. La tratta, infatti, esiste e colpisce diverse categorie di persone ridotte in stato di schiavitù. In Italia, in Europa non nella repubblica centro-africana di Bokassa!
A cominciare dal mercato del sesso, per l’appunto, che - secondo le stime dell’Interpol- solo in Italia supera le 50.000 unità “tutte trattate come schiave.”

Europa: mezzo milione di donne sul mercato della prostituzione
In Europa, sono almeno mezzo milione le donne, di diversa nazionalità, avviate al mercato della prostituzione che (cito dal documento conclusivo) “si traduce in un vero e proprio business del valore oscillante fra i 5-7 miliardi di dollari l’anno e ciascuna donna “trattata” vale 120-150 mila dollari l’anno. Questo denaro- continua il citato documento- nelle mani della criminalità organizzata, alimenta la corruzione e consente- ed allo stesso tempo impone- una capillare gestione di questo mercato”.
Il triste fenomeno non riguarda soltanto decine di migliaia di donne immigrate (africane, asiatiche, sudamericane ed anche europee) in gran parte minorenni, ma anche migliaia di schiavi-bambini costretti a elemosinare, a rubare, quando non sottoposti all’espianto di organi da trapiantare.
Queste e altre pratiche rientrano perfettamente nella tipologia della schiavitù come definita dalle leggi e dalle convenzioni internazionali vigenti. Eppure nessuno si scandalizza, interviene adeguatamente. Quasi per il (falso) pudore di dover ammettere di convivere con una realtà così tragica che invece di affrontare si preferisce occultare, rimuovere. Il contrario di quanto avviene per i casi di stupro enfatizzati al massimo per deviare contro gli immigrati l’esasperazione dei cittadini e la violenza indiscriminata di gruppi di giustizieri metropolitani.

(in “GuidaSicilia” del 17/2/2009)  


                                                










GLI IMMIGRATI NELL'ITALIA CHE VERRA'
Società laica o mosaico di comunità?

"Penso che sia riduttivo, perfino fuorviante, usare la locuzione "questione islamica" per indicare una problematica più complessa e vasta riferita alla realtà del mondo arabo che, da lungo tempo, si trova nella contraddittoria condizione di essere il principale detentore e fornitore di risorse energetiche e, al contempo, una delle aree meno sviluppate del pianeta".
A parlare è Agostino Spataro, giornalista, già deputato al Parlamento nelle fila del Pci, direttore del Centro Studi Mediterranei, membro della presidenza dell'associazione nazionale di Amicizia Italo-Araba e autore di numerosi saggi sul mondo arabo e sul Mediterraneo.

 Dottor Spataro, la problematica è così vasta e complessa, ma l'elemento religioso appare fondamentale.

Certo, oggi, l'elemento religioso caratterizza la travagliata situazione delle società arabo-islamiche come fattore multi-plo agente sulla grave crisi identitaria, politica, sociale e morale, tuttavia vi sono altri fattori da considerare.
Le guerre, gli attentati terroristici, le stragi quotidiane che, attraverso la tv, inondano minutamente le nostre case servono ad alimentare la cultura della "guerra al terrorismo" e ad annebbiare la vista di un'opinione pubblica impaurita la quale spesso agisce e pensa in maniera irrazionale.
Si è voluto ridurre il confronto a un mero conflitto fra demo-crazia occidentale, che si vuole esportare anche con l'occupa-zione militare, e il "fondamentalismo" islamico terrorista che fondamentalismo non è.

 In che senso?

Il discorso sarebbe lungo. Come scrivo nel mio libro "Fonda-mentalismo islamico: dalle origini a Bin Laden".  non si tratta di vero fondamentalismo, ma di movimenti islamisti radicali che usano l'Islam per finalità politiche facendo leva sul forte sentimento religioso di vasti settori delle società arabe. Del resto, l'uso strumentale e per fini di potere della religione non è solo una prerogativa delle società arabe. Si è verificato, e si verifica, in tanti altri Paesi.

 Anche in Italia?

Anche in Italia.  In Occidente, i gruppi dominanti rifiutano di aprire un discorso, d’informare l'opinione pubblica sulla vastità della crisi del mondo arabo poiché, forse, temono che ciò possa mettere in discussione il collaudato sistema di rela-zioni economiche e politiche con i vari Stati arabi, soprattutto esportatori d'idrocarburi e importatori di costosi sistemi d'arma.
Si continua a presentare l'Oriente islamico come un coacervo di popoli senza identità storiche, etniche e culturali, tenuti in-sieme dal collante religioso.

 Che fine hanno fatto il dialogo euroarabo e la stessa iniziativa euromediterranea?

Per ora la parola è alle armi. L'Europa e l'Italia, che pure ave-vano impostato e avviato una strategia di dialogo di coopera-zione col mondo arabo, sono oggi al carro dell'iniziativa bellicista unilaterale degli Usa che in Medio Oriente hanno ben altri interessi.
A cominciare dal controllo del mercato petrolifero.
Dal punto di vista culturale, le classi dominanti vedono (e ci propongono) l'Oriente musulmano come una barriera teneb-rosa che s'interpone fra l'Europa e l'estremo Oriente. 
E così può dirsi per il Mediterraneo che, invece d'essere per-cepito come elemento d'unione, è visto come un fossato che separa le due civiltà.
Un approccio molto approssimativo che ha ingenerato con-fusione e sentimenti di reciproca diffidenza, di ostilità, anche se- credo- non corrisponda al punto di vista della maggio-ranza delle nostre popolazioni.
Ma l'accecamento è anche dall'altra parte. Non è accettabile che i settori radicali islamici continuino a demonizzare l'Europa giudicandola sulla base di una visione deformante, manichea, come una terra senza valori e senza ideali, eter-namente occupata a coltivare mire imperialistiche verso il mondo arabo. Anche questa ritengo sia una rappresentazione non condivisa dalla maggioranza delle società arabe.

Dunque?

Siamo in presenza di due bellicose visioni minoritarie contrapposte, viziate da un comune distorto senso della realtà, animate dal medesimo spirito aggressivo che postula l'ineluttabilità dello scontro di civiltà. Finché c'è tempo, bisognerà prendere coscienza del pericolo che due minoranze (razzista ed espansionista in Occidente e islamista e terrorista in Oriente) riescano ad imporre a due sterminate e pacifiche maggioranze il loro catastrofico punto di vista.

Esiste una schematizzazione, propugnata dai media, secondo la quale l'Europa è filoamericana e imperialista e il Vicino Oriente islamista e terrorista?

Credo che, in questa fase critica, la maggioranza dei media occidentali (non tutti per fortuna) si siano posti al servizio della cosiddetta strategia antiterroristica e quindi lavorino per far passare nell'opinione pubblica questo tipo di rappresen-tazione ingannevole del vicino Oriente.
Nei media arabi, al servizio dei  regimi al potere generalmen-te filo occidentali, non si riscontra una tendenza contrapposta. Solo i gruppi estremisti islamici tendono a generalizzare, dipingendo l'Europa come succube delle mire espansioniste Usa. Le cose non stanno così.
Nonostante le pressioni e gli imbonimenti, i popoli e qualifi-cati settori delle classi dirigenti, politiche e intellettuali, di queste due realtà sanno ancora distinguere il grano dal loglio.
Purtroppo, tanta saggezza non si riesce a farla diventare linea di politica estera e di cooperazione reciprocamente vantag-giosa.  

Come se ne esce?

Non è facile indicare una soluzione specifica. Dobbiamo sa-pere che il tempo e i conflitti lavorano contro la ricomposi-zione pacifica dei problemi aperti. Bisogna far tacere le armi e che ognuno se ne torni a casa propria. In primo luogo gli israeliani dai Territori palestinesi e dal Golan siriano occupati nel 1967.
A causa dell'avventurismo dell'amministrazione Bush e dei governanti israeliani, oggi in Medio Oriente sono aperti quat-tro terribili conflitti: due vecchi (Libano e Palestina) e due nuovi in Iraq e in Afghanistan.
Le guerre stanno distruggendo questi Paesi e mietendo cen-tinaia di migliaia di vittime in gran parte civili e, fatto ancor più grave, stanno incentivando la crescita e la diffusione del terrorismo. Si dimostra che la guerra non è la soluzione, ma il suo contrario. Perciò, l'Europa e l'Italia non possono più avallarla.

L'immigrazione araba in alcune zone dell'Italia comporta seri di convivenza e di reciproco riconoscimento culturale. Ritiene che sia possibile risolverli accentuando il processo d'integrazione?

Siamo di fronte a una questione di dimensione globale, com-plessa, la cui soluzione richiede tempi lunghi e una forte e persistente disponibilità all'ascolto e alla comprensione reci-proca e una revisione profonda dei rapporti fra l'Italia e i Paesi di provenienza.
Per sottrarre i flussi migratori dalle grinfie delle organizzazi-oni criminali bisognerebbe stipulare trattati bilaterali e multi-laterali sull'emigrazione.
Penso che l'integrazione non sia il processo adatto per pro-muovere il progetto di costruzione di una società accoglienza, multiculturale e multietnica, se è questo l'obiettivo.
Integrazione vuol dire assorbimento, incorporazione di una minoranza o di una diversità nel corpo più vasto di un'entità sociale definita e chiusa.
In base a tale approccio non sarà facile  conseguire la convi-venza civile. C'è bisogno di contaminazioni, di scambi, di cooperazione a tutti i livelli. Con un punto fermo però: che questo processo non intacchi, ma rafforzi, le basi laiche e democratiche della società italiana ed europea.
Su tale aspetto non si deve arretrare nemmeno di un millime-tro. Prima di tutto per aiutare i nuovi  arrivati che spesso pro-vengono da Paesi dove democrazia e laicità sono completa-mente sconosciute.

Un traguardo importante potrebbe essere la formazione di un Islam italiano rispettoso della nostra identità nazionale e delle nostre leggi. Che cosa pensa a questo proposito?

L'Islam italiano? Mi sembra un'idea un po' vaga. Pur auspi-cando un radicamento nella società italiana dei cittadini im-migrati di confessione islamica, non vedo come una tale ipotesi possa effettivamente attuarsi e soprattutto funzionare. Non bisogna dimenticare che l'Islam, a differenza della Chie-sa cattolica, non ha un clero né tanto meno una gerarchia che organizza e verticalizza le istanze di base.
Lo stesso testo sacro, il Corano, è liberamente interpretato da ciascun credente. Questa condizione crea un serio problema anche ai fini di un collegamento fecondo e collaborativo fra Stato italiano e comunità di religione islamica presenti sul nostro territorio. Insomma, un concordato con l'Islam non è, per il momento, immaginabile.  

La risposta, dunque, è la società multiculturale?

Multiculturale e multietnica, laica e democratica. Lo ribadi-sco. Per essere chiari, non si può favorire la tendenza in atto della costruzione di una società che sia un mosaico di comu-nità aggregate in base a fattori razziali e/o religiosi. Questa sarebbe la fine della società laica, civile e democratica e l'inizio di una faida infinita come accade in tante parti del mondo.
Quindi non soltanto il rispetto di tutte le leggi vigenti in Italia, comprese quelle a tutela dei diritti sociali e politici degli immigrati, ma una vasta azione d'informazione e di dialogo per convincerli ad aderire ai principi e alle pratiche della società laica e democratica che è la più efficace garanzia a tutela delle loro identità culturali e religiose che la nostra Costituzione consente di professare liberamente.
Si tratta di un processo politico e culturale che non può essere attuato con l'ingiunzione, ma con la persuasione; che richiede tempi, strumenti e provvedimenti idonei ad aiutare gli immi-grati a divenire cittadini italiani ed europei a tutti gli effetti, con gli stessi diritti e gli stessi doveri.

(intervista a cura di Salvatore Falzone, in “L’Abbazia”, maggio 2007)



                               FINE