Capitolo
quinto
MONDO ARABO,
FASCINO E CONTRADDIZIONI
Mareb,(Yemen), colonne del tempio di Bilqis, regina di Saba
FONDAMENTALISMO ISLAMICO
O ALTRO?
Fondamentalismo
o islam politico?
Ben vengano iniziative come questa poiché ci
aiutano a riflettere sulla questione del Medio Oriente, sul mondo arabo e
sull’area del Mediterraneo, su cui in Italia scontiamo un deficit di
conoscenza.
Soprattutto, oggi, a seguito degli avvenimenti
drammatici in corso in Iraq e in altri paesi, si avverte la necessità di fare
chiarezza per meglio capire questi mondi e per evitare confusioni e
mistificazioni imbastite dai gruppi dominanti e dalla gran parte dei mass
media.
Tratterò il tema assegnatomi (“Fondamentalismo
islamico e l’Islam politico”) in maniera sintetica, per grandi linee, sulla
scia dell’interpretazione proposta nel mio libro pubblicato da Editori Riuniti.
La confusione è grande, già dalla stessa
definizione del feno-meno che, a mio giudizio, non può essere chiamato
"fonda-mentalismo islamico", poiché- come diremo- non si tratta di
vero fondamentalismo nell’accezione comune, persino etimo-logica, che si
attribuisce a tale termine..
Comunque definito, il fenomeno costituisce il fatto
più di-rompente di questo inizio del secolo; un fenomeno col quale dovremo confrontarci
per lungo tempo.
Definirlo non è facile. Tenterò una breve
dissertazione.
A mio parere, in base alle conoscenze generali e
alla luce delle ricerche effettuate, il
termine "fondamentalismo" non dovrebbe essere applicato al fenomeno
in questione che mol-ti chiamano,
impropriamente, anche "rivoluzione islamista".
Il "fondamentalismo", nel senso
religioso, è un termine che correttamente possiamo applicare, ad esempio, a
quei movi-menti cristiani che, all'inizio del ‘900, diedero vita negli Stati
Uniti d’America alla nascita di sette e gruppi protestanti che predicavano il rifiuto
della modernità e il ritorno ai fonda-menti della dottrina cui ispirare
l’organizzazione della vita delle comunità.
I movimenti religiosi islamisti accettano una
serie di inno-vazioni verificatesi, nel corso degli anni, sia nella religione
che nella vita pratica.
Più o meno, per le stesse ragioni non possiamo
parlare d’integralismo islamico perché questo concetto definisce e presuppone
un certo tipo di pratiche rituali e comportamenti religiosi tradizionalisti,
presenti o rivendicati in certi settori del mondo cristiano. Come, per esempio,
nell’esperienza di Lefebre in Francia.
L’altro termine usato per identificare il
fenomeno è quello più generico e politico di "radicalismo islamico".
Forse, tale definizione più si avvicina alla realtà di questi movimenti che, lo
voglio ricordare, non sono omogenei e nascono in contesti territoriali diversi e
distanti fra loro.
Religione
e potere petrolifero
Osservando la realtà e le istanze rivendicative
di tali movi-menti, operanti in quasi tutti i Paesi di tradizione islamica, specie
Al Qaeda, si coglie in loro una spinta di carattere poli-tico.
Nel senso di movimenti, non ancora di massa, che
usano il sentimento religioso, molto radicato e diffuso nei paesi arabi, per
obiettivi di carattere politico; per rovesciare i vari regimi “empi”, sia si
tratti di petromonarchie sia di "repubbliche" ereditarie.
Regimi assolutistici o scarsamente democratici
che organiz-zano i loro interessi sociali e politici attorno al potere petro-lifero,
a sua volta subordinato agli interessi dei mercati internazionali.
Tali sistemi sono entrati in crisi perché si è
rotto l'equilibrio basato sul compromesso stabilito fra rendita petrolifera e
un certo tipo di stato-sociale, molto assistenziale, che ha garan-tito il
consenso popolare.
Insomma, sembra essere venuto meno il rapporto
fra le elites al governo, che detengono
le ricchezze nazionali, e la massa dei ceti meno abbienti, dei più poveri,
perfino dei laureati e dei disoccupati, sempre più emarginati rispetto alle
fonti della produzione della ricchezza e dei consumi. In carenza della
tradizionale assistenza sociale, la gran parte di loro sono costretti ad
emigrare.
Qui, sta una delle chiavi per capire anche i
fenomeni migra-tori verso l’Italia e l’Europa.
In società autoritarie come quelle arabe,
l’assenza di partiti, di organizzazioni laiche, progressiste e/o di sinistra,
ha favorito la diffusione dei gruppi islamismi finanziati dalle petromonarchie
del Golfo, in particolare dall’Arabia saudita.
Si presentano nei quartieri più disperati sia
sottoforma di associazioni caritatevoli e d’assistenza sia di organizzazioni di
militanti per affermare la fede islamica e mietono i più larghi consensi.
Dalla crisi del
panarabismo all’islamismo radicale
E' proprio da questa crisi che nasce, a mio
avviso, l’islamismo radicale. Come dimostra il caso dell’Algeria.
Il fenomeno s’ispira a una tradizione antica
dell’Islam puro e duro, ma ha trovato vigore sulla spinta di avvenimenti
storici piuttosto recenti.
Il "fondamentalismo" moderno, infatti,
si ritiene che abbia trovato slancio a seguito della sconfitta delle armate
arabe nella cosiddetta “guerra dei sei
giorni” del 1967.
Quella sconfitta mise in luce l’efficienza, la
superiorità tecnica e morale delle armate israeliane e al contempo la crisi
dello stato nazionale arabo, da poco uscito dal processo di decolonizzazione.
Sotto l’urto israeliano crollarono gli eserciti
e la politica panarabista, in certi casi perfino socialista, proposta dal rais
egiziano Nasser e dai partiti Baath (siriano e iracheno).
Non resse il confronto fra Israele, armato e
sostenuto dagli Usa e dal mondo occidentale, e la “grande nazione araba” aiutata dalle potenze del blocco orientale.
Questa fu certamente una delle cause storiche.
Tuttavia, gli attuali movimenti islamisti hanno acquisito caratteristiche di
forza dirompente, alternativa ai sistemi politici dominanti, da quando è
divenuto ancor più strategico il ruolo del petrolio arabo in rapporto al
processo di globalizzazione dell'eco-nomia e dei mercati.
Sul finire del secolo scorso, si comincia a
percepire il petrolio come una risorsa scarsa e in via di esaurimento.
Nonostante questa presa d’atto, i consumi,
invece che ridursi, s’incrementano facendo impennare i prezzi petroliferi su
sca-la planetaria.
Comincia, così, una sorta di lotta tacita per
l’accaparramento delle risorse energetiche minerali: da un lato i paesi consuma-tori
tradizionali dell’area Ocse e dall’altro lato i nuovi colossi dell’economia
mondiale come Cina, India e Brasile e altri paesi in via di sviluppo.
Ovviamente, l’importanza di tali risorse non è
sfuggita ai movimenti islamisti radicali, in particolare ad “Al Qaeda”, che
hanno fatto del “petrolio islamico” la bandiera per il rovesciamento dei regimi
interni e per ribaltare la posizione subalterna dei paesi produttori rispetto
ai paesi consumatori.
In poche parole, sono stati messi in discussione
le tradizionali ragioni di scambio e il meccanismo di rifornimento del mercato
petrolifero mondiale, basato sulla sicurezza degli approvvigionamenti a basso
prezzo, oltre che su un rapporto politico dipendente.
Sulla base di tale impostazione e rivendicazione,
diventò inevitabile il conflitto con gli Stati Uniti d’America e con diversi
paesi occidentali.
Bin Laden: da eroe a
nemico degli Usa
A questo proposito, è davvero illuminante la
vicenda umana e politica di Osama Bin Laden.
Nato in una delle famiglie più ricche
dell’Arabia Saudita, il giovane ingegnere parte, come tanti altri militanti
islamisti, per andare a combattere la “guerra santa” per liberare l’Afganistan
occupato dalle truppe sovietiche. Qui, con il supporto logistico di settori dei
servizi statunitensi e con l’aiuto finanziario dell'Arabia Saudita, crea “Al
Qaeda” ossia la prima organizzazione di militanti islamisti a carattere
sopranazionale.
Ironia della sorte, anche lui inciamperà nel suo
avventuroso cammino e da “eroe della
guerra santa” antisovietica è dive-nuto il nemico numero uno degli Stati
Uniti e dei loro alleati sauditi.
Il resto è noto. Si fa per dire. Poiché la
figura e l’opera di questo “emiro del terrore” sono sempre più avvolte nel
miste-ro più cupo. Fino a far pensare che non sia più in vita o comunque
gravemente ammalato.
Tuttavia, quello che più interessa rilevare è la
funzione pre-valentemente politica di tale movimento. Dietro i discorsi
dell’Islam duro e puro, si celano obiettivi politici e di potere ieri di segno
“antisovietico” oggi “antiamericano”.
In realtà, si propone come nuovo soggetto
politico mirante a colmare il vuoto creatosi nel mondo di tradizione islamica a
seguito della scomparsa dei movimenti panarabisti progressi-sti e del crollo
del ruolo internazionale dell’Unione Sovietica.
Si può
esportare la democrazia con i cannoni?
Di fronte a fenomeni simili come possiamo agire?
Gli Usa hanno risposto con l'intervento
militare, con la guerra preventiva per esportare la "democrazia". Un
capolavoro di farneticanti castronerie politiche per giustificare una nuova
guerra di rapina.
Con ciò non si vuol negare l’esistenza in quei
Paesi di un serio problema di democrazia. Tutt’altro.
Il movimento progressista e di sinistra
internazionale lo denuncia da tempo.
Solo i governanti Usa non se ne sono mai
accorti.
Specie, quando la denuncia ha riguardato i paesi
del Golfo, loro alleati e grandi produttori di petrolio, governati dalle
peggiori dittature; dove non esistono costituzioni, parlamenti, e non sono
garantiti i più elementari diritti umani e civili, fra cui il diritto di voto.
Perché solo ora Bush scopre tale orrenda lacuna?
E perché solo in Iraq e in Afghanistan, non,
quelle più vistose, dei Paesi limitrofi suoi alleati?
Il problema della democrazia esiste dovunque e
da tempo e va affrontato. Ma come?
Non certo pensando di esportare e imporre i
nostri modelli.
La democrazia non è una medicina che si prende a
dosi, ma un processo lungo e complesso che ciascun paese deve sviluppare al suo
interno, autonomamente e con forze e idee proprie.
Dall’esterno si possono solo indicare i punti
essenziali di rife-rimento, i grandi principi, i valori universali della
democrazia sanciti dalla Carta dei diritti umani delle Nazioni Unite che,
purtroppo, la gran parte dei Paesi di tradizione islamica (e non solo) non
hanno applicato.
E per farla applicare non si può muovere guerra!
Altrimenti avremo una guerra mondiale e continua
che si estenderebbe anche a taluni paesi europei, alla stessa Italia dove la
democrazia stenta ad affermarsi.
La battaglia dovrà essere di carattere culturale
e politico e avendo come riferimento la carta dei diritti dell'uomo che vanno
riconosciuti a tutti, laicamente, di là del credo religioso e politico, del
sesso, del colore della pelle, della condizione sociale ed economica.
Non è accettabile quello che- ad esempio- sta
accadendo in Egitto dove non si può eleggere un Presidente non islamico e non
tutti i cittadini godono del diritto di voto, ecc.
Insomma, ognuno scelga le forme più appropriate
di una società democratica, ma tutti dobbiamo condividere i diritti
fondamentali sanciti dalla Carta dell’Onu.
Ma gli estremisti islamici vogliono la
democrazia laica e pluralista?
Dagli scritti di riferimento e dalle pratiche
concrete (Taleban in Afghanistan) parrebbe proprio di no. Anzi si propongono di
eliminare perfino quelle rare parvenze di democrazia per instaurare lo “stato
islamico”, la “umma” che sono la nega-zione di ogni pluralismo politico,
culturale, ideale.
Diaspora
araba: morire di nostalgia a Parigi
Bisogna cercare, individuare nelle società arabe
tutte quelle forze disponibili al cambiamento in senso democratico e laico.
D’altra parte, fino agli anni ‘80, c'è stata nei
paesi arabi una presenza laica di tipo progressista, democratica. C’erano forti
partiti di lavoratori e d’intellettuali anche di sinistra. Quali il Baath (siriano
e iracheno) che- nei primi decenni- ha avuto il grande merito storico di
avviare impegnativi processi di modernizzazione economica e della società, di
emancipa- zione della donna e, in generale, di sviluppo di un sistema politico
tendenzialmente laico.
A queste forze e movimenti l’Europa progressista
non ha offerto- a mio giudizio- una sponda di riferimento, di collabo-razione.
Da qui, anche, lo scoraggiamento e il rifugio
entro uno sche-ma di tipo dittatoriale (vedi gli eccessi di Saddam Hussein in
Iraq) che hanno oggettivamente favorito la nascita e lo svi-luppo dei gruppi
integralisti.
Molti intellettuali, dirigenti politici e
sindacali progressisti hanno abbandonato i loro Paesi e vivono all'estero, in
Fran-cia, in Italia, in Europa.
Forze importanti, qualificate che bisognerebbe
aiutare a ri-prendere il loro ruolo nei rispettivi paesi.
Non per farne “fantocci ammaestrati”
dell’Occidente, ma autentici dirigenti dei loro popoli.
Questo potrebbe essere uno dei compiti della
sinistra euro-pea: dare a queste forze una possibilità d’impegno nei paesi
arabi e non lasciarli morire di nostalgia a Parigi.
Dietro gli attentati,
una nuova teoria islamista
Dove porta la prospettiva confusamente indicata
dal radi-calismo islamico?
A mio parere, mira oggi alla drammatizzazione
della realtà per ottenere domani un controllo politico e ideologico totali-taristico.
E’venuto il tempo di scoprire, approfondire ciò
che vera-mente vogliono l' ideologia, la cultura e la pratica di questi
movimenti.
I giornali informano di ogni loro azione violenta,
ma non spiegano quali fonti teoriche
attingono tali gruppi.
Ad esempio, nessuno dice che dietro Al Qaeda c'è
l'ideologia di un “certo” Sayd Qutb, eminente teologo egiziano, ex mem-bro dei
“fratelli musulmani”, autore di una nuova teoria dell’islamismo radicale. Per
queste sue idee fu perseguitato da Nasser e alla fine giustiziato.
Ha lasciato comunque una vasta produzione di
scritti ideolo-gici che noi sconosciamo, cui attingono i gruppi integralisti.
Il gruppo di studenti che, nel 1981, ha attentato alla
vita di Sadat era imbevuto di queste teorie. Lo stesso Bin Laden ha avuto come
professore, nella facoltà d'ingegneria dell'uni-versità di Gedda, un fratello di Sayd Qutb.
Insomma, è importante capire che questi gruppi
non si carat-terizzano soltanto per il fattore militare (kamikaze, l'attentato
ecc), ma anche per una loro ideologia e visione del mondo.
Scontro o
incontro di civiltà?
C’è,
dunque, alla base del conflitto fra Occidente e Oriente islamico
un’incomprensione di carattere storico e culturale che non può essere risolta
con l’opzione militare, con lo scontro di civiltà, ma solo sulla base dello
scambio e della conoscenza reciproca.
Anche per superare una nostra grave distorsione
che ci fa vedere il mondo arabo come un’entità monolitica, indistinta,
caratterizzata soltanto dall’elemento religioso.
Non riusciamo a vedere oltre l’Islam, per altro
in un’accezio-ne negativa, senza riuscire, cioè, a scomporre questo mondo in
culture, nazioni, Stati, popoli, individui.
D’altra parte, gli islamisti hanno la stessa
visione deformata nei riguardi dell'Europa e degli Usa, visti come luoghi da
cui si originano i mali attuali del mondo e i fenomeni del neo-colonialismo e
dello sfruttamento degli uomini e delle risorse del terzo e quarto mondo.
In realtà, Occidente e Oriente islamico si
conoscono poco e male. Oggi ancor meno di ieri.
Perdurando questo deficit di conoscenza
reciproca, due agguerrite minoranze estremiste potrebbero imporre il loro
disastroso punto di vista a due sterminate maggioranze: ossia lo scontro di
civiltà.
(relazione all'Assemblea nazionale "Un
ponte per…”, Roma 15/4/ 2005)
YEMEN: PAESE DI BIN LADEN
O DELLA REGINA DI SABA?
C'era una
volta ...il viaggio in Oriente
C'era una volta il viaggio nell'Oriente islamico
che faceva sognare, e partire, schiere d'artisti vagabondi, scrittori, eremi-ti,
esteti, avventurieri e dame stravaganti.
Si andava per deserti sconfinati, sotto cieli di
vivide stelle, alla scoperta di luoghi e città favolose per abbeverarsi alle
fonti della sapienza antica, alla ricerca di emozioni forti e nuovi stili di
vita o di "qualcosa" d'indefinito, di magico, che era vano cercare in
Occidente.
Bagdad, Damasco, Beirut, Gerusalemme, il Cairo,
Tripoli, Alessandria, Istanbul, Aden, Sana'a, erano le gemme più pre-ziose di
questo mirabolante Oriente.
Oggi, l'Oriente è in fiamme e queste favolose
metropoli ci vengono propinate come "nemiche", soltanto come ricetto
di truci dittature e d'intrighi menzogneri, evocatrici di odio e di vendette e
stragi sanguinose, di miserie e lussi scandalosi.
Immagini ripugnanti che si vorrebbero cancellare
con una lunga serie di guerre "preventive".
Non resta che andare in massa a Sharm el Sheikh,
a Hurgha-da...ovvero due lembi di costa romagnola trapiantata sulle rive del
Mar Rosso.
Le guerre e i fondamentalismi di tutte le risme
stanno deterio-rando i rapporti fra Occidente e mondo arabo e deformando l'idea
che nell'immaginario collettivo si aveva degli arabi e dei loro paesi. E
viceversa. Se in Occidente cresce una forma ottusa di arabofobia che mira a
rimuovere l'Arabia dai nostri orizzonti, fra gli arabi si sta diffondendo un
antioccidentali-smo cieco, astioso, ideologico.
Tutto ciò, mentre sullo sfondo si sente
aleggiare la minaccia più grave: la cosiddetta "guerra fra civiltà",
propugnata (e forse anche programmata) dagli sciovinisti d'entrambi le parti.
Yemen: il
più bel Paese del mondo
Perciò, il viaggio nelle terre d'Arabia, un
tempo tappa obbligata per introdursi nei meandri di un Oriente fascinoso,
esoterico, oggi sta perdendo molto della sua attrattiva poiché è considerato
rischioso e, da taluni, perfino antipatriottico.
Anche nel caso di un paese bellissimo e gentile
qual è lo Yemen riunificato: un piccolo mondo a se stante, incuneato fra
l'Oceano Indiano, il mar Rosso e l'infuocato deserto del Rab-Al Khali o
"Quarto vuoto" su cui si propaga l'Arabia dei Saud, il più ricco stato
petrolifero del Pianeta.
Purtroppo, dello Yemen si parla e si scrive
assai di rado e solo in occasione di qualche attentato come quello, gravis-simo,
di Marib in cui sono rimaste vittime ben nove persone, fra le quali sette
turisti spagnoli.
Un'altra tragica occasione di cui si spera siano
chiarite circo-stanze e responsabilità, evitando, per favore, insulse genera-lizzazioni
che rischiano di trasformare questo bellissimo Paese da erede del regno della
favolosa regina di Saba in feu-do di Bin Laden , l'ineffabile capo di Al Qaeda,
la cui famiglia ha origini yemenite.
Peccato, davvero, poiché "Lo Yemen -
scrive Pier Paolo
Pasolini (in "Corpi e luoghi", 1981) - architettonicamente, è
il più bel Paese del mondo. Lo stile yemenita, un enigma solo parzialmente
risolto, o di cui solo pochi sanno, se c'è, la soluzione".
Scrigno
dei tesori d’Arabia
Visitandolo si prova la gradevole sensazione di
viaggiare dentro la favola di un Oriente mitico che, nonostante tutto, resiste
alle tentazioni del falso modernismo e si propone come soggetto del dialogo fra
le civiltà.
Il viaggio nello Yemen è come un cammino a
ritroso nel tempo, dentro un medioevo islamico che sopravvive, isolato, a
contatto con una natura aspra e incontaminata, aggrappato a città e villaggi
popolati di gente fiera ed ospitale, di torri e minareti e palazzi carichi di
storia.
Lo Yemen è come un grande scrigno che contiene i
tesori più pregiati di tutta l'Arabia: da Sana 'a, la capitale, con i suoi
famosi "grattacieli" ad Aden il grande porto coloniale (un tempo importante
quanto quello di New York); da Mareb, con i ruderi della grande diga (costruita
3700 anni fa) e i templi di Bilqis, la celebrata regina di Saba a Taiz coi
palazzi- fortezza degli ultimi folli Imams (sovrani il cui potere millenario fu
abbattuto da un golpe militare nel 1962); da Zabid, nel cuore della Tihama, dove Pasolini girò il
film "Il fiore delle mille e una notte" a Mokka il porto da dove
partì il primo carico di caffè verso le corti di Vienna e di Parigi; da Jiblah,
città-presepe dominante la montagna yemenita, già capitale dei regni medievali
di altre due celebri regine, Asma e Arwa, al deserto infinito che da Sa'da
scende fino al porto di Mukallà, passando per la vasta distesa dell'Hadramaut,
fino al confine con l'Oman.
Nomi e luoghi che illuminano di luce smagliante
i superbi resti di una fra le più antiche e celebrate civiltà che, ancor oggi,
emana un magnetismo esotico cui è difficile sfuggire. Per illustrarla, tenterò,
qui, una descrizione sintetica dei luoghi più rinomati che ho visitato qualche
anno addietro.
Fra i
"grattacieli" dell'antica Sana'a
Eccomi a Sana'a, la capitale dello Yemen
riunificato, situata a 2000
metri d'altezza.
Oltrepassato il mercato delle erbe, retrostante
la porta Bab el Yemen, s'imbocca un'ampia strada brulicante di donne
interamente velate, di uomini smilzi, con la guancia rigonfia da un bolo di
foglie di qat, che portano un "jambia" (pugnale tradizionale)
attaccato alla pancia, di mendicanti storpi e/o con gli occhi cuciti, d'asini
stanchi che paiono nuotare in quei budelli che scompaiono nell'intricato
labirinto della casbah.
La selva dei "grattacieli" è lì di
fronte. Finalmente si possono ammirare da vicino: sei, sette, otto piani di
pietra granitica su cui si aprono finestrelle sbarrate da grate lignee di un
azzurro tenue che contrasta col bianco accecante delle eleganti geometrie di
stucchi.
Ai piani alti le finestre sono molto più grandi
e decorate con lastre di alabastro e vetri colorati che compongono motivi
floreali.
I grattacieli di Sana'a rappresentano uno stile
costruttivo unico al mondo che ha dato vita a questo fantastico tessuto urbano,
per fortuna tutelato dall'Unesco.
Si tratta di case-torri concepite per difendersi
dagli assalti dei nemici e dalle razzie dei predoni (nel passato molto frequenti
anche all'interno delle città) che, al contempo, materializzano lo status
economico e politico del proprietario nel quartiere e il suo prestigio
nell'ambito della gerarchia sociale e familiare.
Dalle terrazze si ammira uno spettacolo
fantasmagorico, indescrivibile: da ogni lato scorrono filari di torri imbacuc-cate
di fregi e cromature un po' naif.
Improvvisamente, fra un grattacielo e l'altro,
spiccano le chiazze verdi di orti di legumi e verdure e di giardini di pal-me e
di altri frutti tipici, fra i quali, molto diffusi, il melo-grano, il fico, gli
agrumi, il carrubo, ecc.
Una corona di montagne brulle cinge l'abitato di
Sana'a.
Fra queste spicca, per la sua perfetta forma
conica, il jebel Nogum sulla cui vetta si possono ammirare i ruderi di un'an-tica
fortezza costruita -si dice- sui resti del castello di Sem, figlio di Noè e
capostipite della stirpe semitica (poiché il "semitismo" non è una
prerogativa dei soli ebrei).
Il suq,
luogo di confluenze e di libertà
Nel centro storico di Sana'a tutte le strade
confluiscono al suq (insieme di mercati), uno spazio enorme, intricato che
costituisce il cuore pulsante della città. Nei paesi arabi il suq è anche il
principale luogo di libertà e di socialità.
Sotto le tettoie di stuoie di paglia si condensa
un'eterna frescura che, anche nelle ore più torride, rende piacevole lasciarsi
trasportare dalla corrente umana.
Il suq è anche lo spazio eletto della confluenza,
dove si stem-pera il dualismo, altrimenti insanabile, fra la città dominata dai
mercanti e la campagna dominata dalle tribù. Il suq è un palcoscenico della
vita sociale della città araba e anche un indicatore attendibile della
congiuntura economica e politica.
Il mercato di Sana'a, il più antico della
penisola arabica, è ripartito in circa 40 settori merceologici, con 1700 fra
botte-ghe commerciali e laboratori artigianali.
Il più ricco e variegato è quello dei tessuti.
Nel quartiere degli artigiani si lavorano il
legno, il cuoio e vari metalli. Una particolare attrazione destano i
fabbricanti di "jambia", il caratteristico pugnale a punta ricurva
che gli uomini, anche le più alte cariche dello Stato, portano in bella mostra
poiché esprime un forte valore simbolico e di prestigio.
I beduini,
per patria il deserto infinito
Viaggiamo in direzione di Mareb, l'antica
capitale del mitico regno dei sabei. Qui sono custoditi i grandiosi templi di
Bilqis, la celebre regina di Saba, i resti della grande diga del 1700 a.c. e altri tesori di
quella fiorente e raffinata civiltà.
Sull'altopiano s'incontrano case isolate in
mezzo a campi di granoturco, di angurie e piantagioni di alberi del qat (la
malapianta da cui si ricava una droga molto diffusa) che ha soppiantato le
floride colture di caffè che offrivano al mondo il rinomato "Moka".
Oggi, col qat i contadini ricavano un reddito 4-5 volte superiore a quello del
caffè.
Superata
la catena del Rem, c'immettiamo in una sterile valla- ta che "non produce da almeno 1000 anni"-
ci dice la guida- "da quando è
crollata la Dam
(diga), definitivamente".
Il paesaggio è arido, monotono, spezzato da rari
gruppi di tende nere beduine. Sono nomadi che vagano nel deserto, da un'oasi
all'altra, alla ricerca di acqua e di pastura per gli armenti.
Qui il nomadismo è ancora diffuso soprattutto
lungo tutta l'ampia fascia desertica, detta "terra di nessuno", che
dovreb-be segnare i contesi confini con l'Arabia e l'Oman.
Il beduino (dall'arabo "badawi",
abitante del deserto) non riconosce i confini convenzionali degli Stati; per
casa ha la tenda e per patria il deserto infinito, senza barriere, con i suoi
segreti e suoi tormenti.
Ed è qui, nella solitudine delle sabbie, che
inevitabilmente incontra Dio. Non è casuale che le tre principali religioni
monoteiste (ebraica, cristiana e islamica) siano nate nei deserti a nord dello
Yemen, fra la Palestina
e la Mecca.
A Mareb,
fra i templi della regina di Saba
L'attuale città di Mareb è la terza edificata
negli stessi luoghi. La prima, la florida e potente capitale del regno di
Bilqis, è sepolta sotto la sabbia.
La seconda, ancora in piedi, si scorge a pochi
km, disabitata, ombra impietrita di un vile passato; abbandonata per vendetta
dai vincitori repubblicani che vollero punirla per aver stretto alleanza col
nemico (saudita) durante gli otto lunghi anni di sanguinosa guerra civile.
Di
quella colossale diga (una delle sette
meraviglie dell'anti-chità) restano due enormi bastioni che segnano le
estremità della barriera e alcuni canali interrati.
A poche centinaia di metri, il governo ha fatto
costruire un nuovo invaso e la nuova Mareb che senza acqua non potrebbe
sopravvivere.
La gran parte della città sabea riposa sotto
dolci colline di sabbia finissima, dalla quale emergono due gruppi di colonne
quadrate, alte anche 7 metri,
che sono i resti dei templi dove officiava Bilqis.
Quello più grande è dedicato al dio Illumquh (la Luna) che nel pantheon
astrale dei sabei era la divinità preminente e di sesso maschile, mentre il
Sole era la sua sposa.
Oltre le colonne, s'incontra un muro ovale nel
quale si aprivano numerose finestre, cosicché l'orante poteva scorgere il sole
in ogni ora del giorno.
All'interno di questo tempio risiedeva la regina
di Saba, il cui nome ogni yemenita porta nel cuore, poiché essa simboleggia
l'apogeo della potenza e della gloria yemenite.
Bilqis creò un nuovo ordine economico e politico
che si espanse in tutta l'Arabia meridionale, fin oltre le coste abissine del
Mar Rosso dove sorsero colonie commerciali e importanti avamposti militari
sabei. Mareb divenne il centro di un formidabile sistema di traffici carovanieri
che assicuravano il flusso di merci preziose (spezie, oro, incenso, gemme,
profumi, ecc) dalle Indie e dall'Hadramaut verso i ricchi empori del
Mediterraneo: egizi, fenici e romani.
Oggi, tutto questo è soltanto un intimo ricordo
di pochi appassionati, giacché l'islam zaidita (la confessione sciita dominante
nello Yemen) non ammette che una donna avesse potuto creare e governare un
regno così potente e rinomato.
Quasi che Bilqis fosse stata Satana in persona
nelle sembianze di una bellissima regina.
(in” La Rinascita” del
13/9/2007)
QUANDO UN SULTANO SBARCA
A PALERMO
1…La visita privata di S.M. Qabus Bin Said,
sultano dell'Oman, è stata per Palermo l'evento principale di questa calda e
bislacca estate.
In una città dove, da un certo tempo, non succede
quasi nulla di sensazionale, di rilevante, l'arrivo di un sultano, inevita-bilmente,
fa rumore.
Anche se Qabus è venuto in vacanza, per starsene
qualche giorno appartato sul suo panfilo ancorato nel porto del capo-luogo
siciliano. Un desiderio più che legittimo che meritava più rispetto e
un'accoglienza più sobria, meno chiassosa.
Dalle cronache, invece, si coglie il senso di
una ressa intorno alla presenza, quasi invisibile, di uno fra i pochi sovrani
del pianeta che non ama il gossip e gli schiamazzi festaioli.
Un monarca che per accreditare il suo status non
ha bisogno d'ostentare amanti, armamenti o ricchezze favolose, ma preferisce
rifugiarsi nelle sue passioni per l'arte, la musica, la poesia e la caccia col
falcone.
Altro che le fanfaronate circolate in questi
giorni: le trecento mogli e i molti panfili del sultano, gioielli e spese pazze
e chissà quante altre fantasiose congetture.
2…Certo, la curiosità stimola la fantasia, gli
entusiasmi, ma non può oltrepassare certi limiti. Forse, se ci fosse stata una
corretta informazione sul personaggio e sul Paese che governa, si sarebbero
potute evitare certe scene imbarazzanti e soprattutto talune ingenue pretese
come quella che il sultano potesse risolvere i nostri guai con qualche mancia.
Dimenticando che Palermo e la Sicilia fanno parte
dell'Italia ossia di uno degli otto paesi più ricchi del mondo (G8) e che
pertanto i problemi dei siciliani li devono risolvere i loro governanti locali
e nazionali.
In ogni caso, non ci si può presentare davanti ad
un ospite col cappello in mano. Tutto ciò contrasta con il senso dell'ospita-lità
siciliana che nel trattare un ospite non dovrebbe guardare né al censo né al
suo stato sociale.
Per altro- è bene chiarire- che il sultano non
rappresenta un ricco eldorado petrolifero, ma un popolo laborioso e gentile,
anche un po' povero, che vive con dignità e in relativa tranquillità la sua
condizione di paese-cerniera del Golfo persico, stretto cioè fra due colossi
petroliferi, ideologica-mente contrapposti, quali sono l'Iran sciita e l'Arabia
saudita wahabbita.
Insomma, anche per il discorso dei petrodollari,
ritengo opportuno indirizzare la ricerca altrove, come abbiamo scritto, di
recente, a proposito d'investimenti turistici nel Mediterraneo.
Tutto ciò è accaduto perché poco si conoscono la
storia e la realtà dell'Oman che molti, addirittura, confondono con altri
piccoli regni della penisola arabica.
Può capitare a tutti, giacché ancora oggi in
Italia si sconta un grave deficit di conoscenza del mondo arabo.
Tracce di un Oriente
mitico e di un paese in evoluzione
3…Confesso che qualche lacuna l'ho accusata
anch'io, fino a quando non intrapresi un bellissimo viaggio nel Paese, su
invito del Ministero dell'informazione omanita.
Ho attraversato città opulente e miseri borghi
marinari, deser-ti sconfinati e ardite montagne, oasi e palmizi e forti
porto-ghesi; i fantastici paesi di Magan, dove cinque mila anni fa si fondeva
il rame puro, e di Ofir, nei paraggi del reame di Punt, dove dalla corteccia di
un arbusto nano si estrae, da millenni, l'incenso più odoroso.
Luoghi di un Oriente mitico che non troverete
sulla carta geografica, poiché la moderna geo-politica li ha cancellati
riunendoli sotto il nome di Oman: uno Stato esteso quanto due terzi dell'Italia
nel quale vivono poco più di 2 milioni di abitanti.
A parte il lato turistico, il viaggio in Oman
può essere un'esperienza sorprendente sul piano culturale e sociale. Si scopre,
infatti, che qui non si vive di sola rendita petrolifera, sostanzialmente
parassitaria. Lo Stato, che non tassa i redditi individuali ma solo i proventi
delle società, investe le sue entrate
per realizzare un welfare molto avanzato e moderne infrastrutture.
Certo, l'Oman non è il migliore dei mondi
possibili, tuttavia da quelle parti costituisce uno dei rari esempi in cui "i doni del petrolio e del gas" sono stati messi al servizio del
progresso civile del paese, in armonia con i valori della tradizione.
4…E qui si rivela la lungimirante saggezza del
sultano Qabus e della classe dirigente omanita (parte della quale è venuta al
seguito del sultano a Palermo) che non è formata da cortigiani che si
sollazzano fra i piaceri dell'harem o del bagno turco, ma da giovani (molte le
donne) dinamici, competenti che si danno molto da fare per proiettare il Paese
in un futuro di prosperità condivisa. Lontano, comunque, dal medioevo dal quale
è uscito soltanto nel 1970, con l'avvento al trono dell'attuale sultano.
Il cambio avvenne, dopo la scoperta dei primi
giacimenti petroliferi, su impulso della diplomazia e dei contingenti inglesi
che indussero il vecchio, recalcitrante sultano Taimur ad abdicare in favore
del figlio Qabus, preventivamente educato in Inghilterra.
A 38 anni da quello storico evento, si può
constatare che i risultati del governo di quest'uomo mite e sapiente sono
andati ben oltre ogni aspettativa (inglese).
Londra desiderava un cambio solo di facciata,
mentre Qabus ha realizzato, con un certo successo, un cambio radicale della
realtà del suo Paese.
E non si tratta solo di progresso materiale, ma
di un'evolu-zione globale della società e della cultura. L'azione del governo
mira alla buona amministrazione e al miglioramento della qualità della vita.
Perciò, sono abbastanza diffusi la sensibilità
ecologica e l’impegno a preservare il variegato patrimonio faunistico,
monumentale e paesaggistico.
Nella capitale Mascate, ubicata fra il mare e il
deserto, è stato creato un nuovo colore: il verde rigoglioso che straripa lungo
i viali pulitissimi e nei prati intorno alle ville sulle colline di Qurm e di
Ruwi.
Mentre ancora oggi ad Agrigento si soffre la
sete, a Mascate il problema non esiste giacché la città dispone di un'ingente
dotazione d'acqua (dissalata): circa 60 milioni di galloni al giorno, per gli
usi civili e per irrigare aiuole e giardini.
E scusate s'è poco, per un paese arido tagliato
in due dal tropico del Cancro.
…vi abbiamo dato ciò che perisce e voi ci avete
dato ciò che permane
5…Per quanto condizionato dal contesto climatico
della penisola arabica, il territorio omanita non è solo deserto. Al centro
spiccano alte catene montuose che attirano i venti alisei portatori di
benefiche piogge che alimentano l'antichissimo sistema dei "falaj"
(grandi canali sotterranei) che ancora oggi assicurano acqua ai centri abitati
e alla fiorente agricoltura dell'interno.
La terza dimensione dell'Oman è quella marina.
Il paese ha 1700 km di costa e un mare
pescosissimo e fonte di ricchi commerci e di mitiche avventure.
Il leggendario "Sindbad, il marinaio" di "Le Mille e una notte"
parrebbe provenire proprio dalla costa omanita.
Più precisamente dalla città di Sur, famosa per
i suoi cantieri di "dhow", leggere imbarcazioni che, da millenni,
solcano i mari del sub-continente indiano e della Cina.
Forse, a questa antichissima tradizione marinara
s'ispira Qabus che, per trascorrere le sue vacanze, preferisce il pan-filo alle
suites degli alberghi extralusso.
Anche a Palermo si è chiuso nel suo panfilo ad
ascoltare musica classica, dal quale non è sceso nemmeno per presen-ziare alla
cena di gala alla quale (lui) ha invitato le più alte autorità regionali e
locali. Una cena snobbata dall’anfitrione: davvero una bella soddisfazione! Per
l’anfitrione.
Ha lasciato Palermo con un dono davvero
insperato: 5,5 milioni di euro destinati all'ospedale dei bambini, a
"telefono azzurro" e al conservatorio. Ancora la musica e i bambini
bisognevoli di affetto e di cure. Stranezza o saggezza?
Molti palermitani si sono interrogati a
proposito di tali "stra-nezze". Difficile rispondere, giacché le vie
della saggezza mussulmana sono infinite, come quelle della provvidenza
cristiana, ma un po’ più contorte.
C'è una frase che il filosofo arabo-ispanico
Avempace , nel suo "Il regime del
solitario", mette in bocca al califfo Omar (uno dei primi quattro
califfi illuminati, rasiduna) che forse potrebbe spiegare tale
comportamento:"vi abbiamo dato ciò
che perisce mentre voi ci avete dato ciò che permane..."
Non è improbabile che il sultano, chiuso nel suo
panfilo, sia riuscito a vedere, con i suoi occhi d'orientale, qualcosa di spe-ciale
che c'è dentro e/o sopra Palermo. Qualcosa che noi, abbacinati dal luccichio di
una falsa modernità, non riuscia-mo più vedere.
(in "La Repubblica",
8/8/2008)
LE
MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI
Nonostante il maltempo e la Bossi-Fini, le
"carrette del mare" continuano a sbarcare sulle coste siciliane
frotte d'immigrati infreddoliti, brandelli di un'umanità povera, affamata e
derubata dei più elementari diritti di libertà e di giustizia.
Dall'inferno al paradiso il passo è breve:
duecento, trecento km di mare e, per i più fortunati, ecco spuntare la Sicilia, terra di miti e
di antiche e nuove migrazioni, oggi divenuta la principale porta dei flussi
clandestini verso l'Europa.
Vengono soprattutto dall'Africa per cercare
lavoro e anche per sfuggire agli orrori d'interminabili guerre fratricide,
fomentate da civilissimi governi e potentati occidentali, che sospingono questo
grande continente verso una disastrosa deriva.
Sbarcano col loro carico di bisogni e di
problemi ai quali le società ospiti dovranno, in qualche modo, far fronte.
Problemi atavici e complessi che, talvolta,
mettono a dura prova i nostri ordinamenti.
In questi giorni, per esempio, è esploso quello
della pratica, dolorosa e ripugnante, della mutilazione sessuale femminile
vigente presso alcune comunità d'immigrati, soprattutto quelle originarie
dell'Africa centro-orientale e nilotica e da taluni (pochi in verità) paesi
arabi contigui.
Una legge
a tutela dell’integrità fisica della donna
Oltre che sui media, la delicata questione è approdata
in Parlamento dove, proprio l'altro ieri, le Commissioni affari sociali e
giustizia della Camera hanno approvato (in sede referente) un testo di legge
unificato che all'art. 1 sancisce una pena da sei a dodici anni per "chiunque pratica, agevola o favorisce una
lesione o mutilazione degli organi genitali femminili..."
Anche il Parlamento, dunque, pur manifestando la
necessaria comprensione sociale e culturale, ha dovuto assumere, unitariamente,
una posizione che non ammette attenuanti per chi esegue tali mutilazioni, anche
quando - come sembrava ipotizzare un comitato tecnico istituito dalla regione
toscana - effettuate con metodi meno invasivi e crudeli di quelli tradi-zionalmente
praticati.
In realtà, la pratica ipotizzata sarebbe sempre
un’infibulazio-ne anche se “assistita" ed eseguita nella struttura
pubblica.
Perciò, la scelta del Parlamento corrisponde di
più allo spirito e alla lettera della Costituzione italiana che salvaguarda la
salute e l'integrità fisica dei cittadini.
Tuttavia, senza deflettere dai giusti principi,
appare utile accompagnare la norma con vere e proprie campagne di prevenzione e
di dissuasione presso le comunità e le singole famiglie interessate dal triste
fenomeno e d'informazione dell'opinione pubblica che sovente ignora la realtà
di questo dramma che si svolge anche nel nostro Paese.
Cos’è la
circoncisione femminile?
Di che cosa si tratta? Diciamo subito che i
sostenitori di tale pratica, per conferirle un carattere sacrale, l'annoverano
fra le circoncisioni derivate da una malintesa deduzione religiosa.
L'infibulazione o circoncisione femminile si
concentra nei paesi nilotici (Egitto e Sudan), in Somalia e in altri paesi
africani di tradizione animista (28
in tutto) e in taluni della penisola arabica. Secondo le
stime dell'Onu, almeno 75 milioni di donne (anzi bambine) hanno subito tali
assurde mutilazioni.
Esistono diversi tipi e metodi di circoncisione
femminile, tutti più o meno crudeli, praticati da barbieri e da donne anziane
su bambine in tenerissima età, spesso senza anestesia e con strumenti
rudimentali.
Per meglio descriverli attingeremo da uno studio
curato dal dottor Sami Aldeeb Abu-Sahlieh, una fonte scientificamente
attendibile e di confessione islamica, pubblicato, nel 1993, dal Cermac
dell'Università di Lovanio.
Il metodo meno brutale (ma anche meno diffuso) è
quello detto "sunnah" che, in conformità ad una presunta raccoman-dazione
di Maometto (nel Corano non c'è traccia), "si limita a tagliare la pelle che si trova alla sommità dell'organo
femminile. Si recide l'epidermide protuberante, evitando l'ablazione."
Come in un crescendo di assurda crudeltà, segue
la clitori-dectomia o escissione consistente nell'ablazione del clitoride e
delle piccole labbra.
Infine, l'infibulazione "faraonica",
praticata prevalentemente in Sudan e in Somalia, è la forma di circoncisione
più crudele e traumatizzante.
Secondo la descrizione di Sahlieh, consiste
"nell'ablazione totale del
clitoride, delle piccole labbra e di una parte delle grandi labbra. Le parti
della vulva così mutilate vengono poi cucite mediante punti di sutura di seta e
talvolta anche con spine vegetali. Si lascia aperto soltanto un piccolo
orifizio per consentire la fuoriuscita dell'urina e del flusso mestruale...
"Durante
la prima notte di nozze, lo sposo dovrà aprire la sua donna, spesso con l'aiuto
di un coltello... In caso di divorzio, si richiude l'apertura per evitare che
la donna abbia rapporti sessuali".
Scioccante? Purtroppo, pare che le cose stiano
proprio così!
La cultura
non c’entra, è solo maschilismo
Nel caso della circoncisione maschile (a ben
pensarci anche questa è una piccola forma di mutilazione!) lo scopo è di
carattere religioso ed anche igienico.
Quella femminile, invece, ha una pluralità di
fini tutti ricon-ducibili a una concezione della donna grettamente maschilista
che esprime "una volontà diabolica
di controllare la sessua-lità femminile, sotto l'alibi della cultura".
Ma cosa c'entra tutto questo con la cultura? Con
qualsiasi cultura.
Nel caso specifico non si tratta di affermare la
superiorità di una cultura sopra un'altra, ma semplicemente d'impedire una
patente violazione del diritto universale dell'integrità fisica della persona
umana.
Certo, bisogna sforzarsi per capire le cause di
tali pratiche e fare di tutto per prevenirle (a partire dai Paesi di
provenienza) e non per perpetuarle, addirittura all'interno delle nostre legis-lazioni.
Lo Stato democratico non può abbassarsi a tale
livello, sem-mai ha dovere d'innalzarlo e armonizzarlo con gli standard di vita
preesistenti, in primo luogo a tutela della dignità e della integrità di
milioni di vittime bambine.
(in "la Repubblica" del 25
gennaio 2004)
UNA
LETTERA DA DAMASCO
Finalmente, lo studente Usa, Tom MacMaster, ha
confessato di essersi inventato l’esistenza di Amina ossia il fantasma di una
ragazza gay siriana, che, secondo il suo inventore, è stata discriminata,
perseguitata, torturata e rapita e, forse, uccisa, dai servizi segreti del
regime di Assad.
L’aggiunta del risvolto relativo alla diversità
sessuale ha reso il “caso” ancora più lacrimevole e quindi più efficace.
Tanto che i media, anche i giornali più
blasonati, senza pro-cedere alle necessarie verifiche, hanno avallato la
storiella, rilanciandola come emblematica della repressione in Siria.
Insomma, anche “l’invenzione di Amina” è servita nella campagna contro alcuni
“spregevoli dittatori arabi (tal’altri invece sono bravi dittatori perché
amici) che, fino a pochi mesi addietro, gli stessi giornali intervistavano e
riverivano come rispettabili capi di Stato.
Trionfo dell’incoerenza o di una malafede ben
remunerata?
Ma non desidero addentrarmi nel tunnel buio
della disinfo-rmazione professionale, solo prendere spunto dall’episodio per
raccontarvi della mia “invenzione di una Dalila”
di Damasco alla quale feci scrivere un’accorata lettera a una collega
parlamentare.(1)
Ovviamente, fra i due episodi non c’è alcuna
attinenza, poiché Amina è stata utilizzata per uno scopo indegno nel vivo di
una tragedia reale come quella siriana, mentre Dalila fu solo uno scherzo fra
amici, fino ad oggi noto solo al mit-tente, alla destinataria e all’on. Ugo
Spagnoli, mio compa-gno di banco a Montecitorio.
Se lo richiamo, è solo per rilevare come, anche
senza Internet, si potevano costruire notizie fasulle foriere di azioni
politiche anche clamorose.
Andiamo al fatto. Trovandomi a Damasco (1984),
per una conferenza internazionale sul Medio Oriente, scrissi una lettera, su
carta intestata del “Cham Palace” (l’albergo in cui alloggiavo), a nome di una
certa Dalila inesistente femminista damascena, a una stimata amica deputata, in
quel tempo attivissima promotrice della legge contro la violenza sessuale.
Dalila, infelice e disperata, chiedeva aiuto e
consiglio per la loro lotta contro il maschilismo islamico imperante.
Dopo qualche giorno, in Transatlantico, mi venne
incontro la collega destinataria, tutta raggiante e commossa, mi prese in
disparte, e mi mostrò la busta con i timbri e i francobolli siriani.
Mi finsi meravigliato e le chiesi del contenuto
della missiva.
“Una
lettera bellissima, commovente- esordì-
inviatami da una ragazza di nome Dalila, impiegata presso un grande
albergo di Damasco, che segue sul Corriere la mia battaglia per la legge contro
la violenza sessuale…”
“E di preciso
cosa ha scritto?" - l’incalzai.
“Ah!-
sospirò- Tu non puoi immaginare! E’ stupendo. E’ la più grande soddisfazione
della mia vita politica. Tu capisci? Da Damasco!”
Nella foga dell’entusiasmo ancora non aveva
detto nulla nel merito, perciò la ri-sollecitai.
“Hanno
costituito un club clandestino di donne che in mio onore hanno denominato “El
Boctar”. Ti rendi conto? In Siria un club segreto in mio nome per portare
avanti la lotta contro la violenza sessuale. E’ meraviglioso… Scrive che la mia battaglia infonde tanto coraggio alle donne siriane, fra le più
oppresse dalle violenze sessuali…”
In questo passaggio riscontrai una piccola
imprecisione in cui era incorsa la collega, forse per pudicizia. Poiché, Dalila
aveva posto il problema in chiave intima, personale: “Mentre subisco le quotidiane violenze sessuali di mio marito, penso a
Lei e solo così riesco a sopportarle…”
L’onorevole, per nulla sfiorata dal dubbio, mi
chiese- come esperto di relazioni col mondo arabo- se era meglio rispon-derle
per posta o andarla a incontrare a Damasco.
Avevo previsto, e temuto, una pensata simile,
perciò Dalila aveva sconsigliato “una
risposta epistolare a causa della censura e nemmeno di andarla a cercare a
casa, in quanto “il mio violento marito avrebbe potuto prendersela anche con
Lei”.
Il contatto poteva avvenire al “Cham Palace”
dove lavorava. Per nulla scoraggiata dai pericoli prospettati, la collega era
decisa a recarsi a Damasco.
Suggerii di desistere giacché ignoravamo chi
fosse realmente questa Dalila. E poi, trattandosi di un club segreto, c’era il
rischio d’incappare nelle grinfie degli occhiuti servizi siriani. Il
coinvolgimento di una parlamentare italiana sarebbe stato considerato un’ingerenza
negli affari interni della Siria e avrebbe turbato i buoni rapporti fra Pci e
Baas siriano.
Insomma, un po’ esagerando, tentai di farle
capire che il viaggio a Damasco poteva provocare serie conseguenze nelle
relazioni fra gli Stati e fra i due partiti. Lei fu irremovibile.
“Me ne
frego dei buoni rapporti politici, quando vi sono situazioni drammatiche come
quella descritta dalla povera Dalila”
Stavo per scoppiare a ridere e confessare lo
scherzo, ma mi resi conto che, forse, avrei tarpato le ali al suo sincero
impeto solidaristico.
Non sapevo che pesce pigliare; temevo che
potesse fare qual-cosa di clamoroso.
Preoccupato, informai Ugo Spagnoli, che si
mostrò molto di-vertito, pregandolo, anche nella sua qualità di vice-presidente
del gruppo Pci, di fare qualcosa per fermare l’infervorata col-lega.
La
cosa finì lì. Però, poco ci mancò per montare, sul nulla, un caso politico
internazionale.
Nota:
(1) Per
rispetto alla privacy non faccio il nome della collega destinataria, alla
quale, dopo 27 anni, chiedo scusa per lo
scherzo che non ha minimamente alterato la mia stima per Lei.
(in”Osservatorio-Sicilia”
13/6/2011)
PRIMAVERA
ARABA:
RIVOLTA O
RIVOLUZIONE?
Democrazia
per tutti i Paesi arabi poveri e ricchi
Povertà e dittature, istruzione e social network: agitando per bene questi
fattori si ottiene un mix esplosivo che nel mondo arabo è giunto a mettere in
discussione anche i rais più autocratici.
E’ accaduto prima in Tunisia e poi, a catena, in
Egitto, nello Yemen… Domani chissà!
Le piazze delle loro capitali si sono sollevate
per chiedere libertà, lavoro e benessere economico e riforme democra-tiche.
Richieste giuste, sacrosante contro regimi cristallizzati che parevano
eterni.
Stranamente, però, le proteste si sono scatenate
nei Paesi più poveri, anche se i più carichi di cultura e di storia.
Nulla, invece, si è mosso nelle “petro -
monarchie”, nei paesi grandi produttori d’idrocarburi. Come se qui tutto
andasse nel migliore dei modi.
In realtà, in molti di questi Paesi non esistono
Costituzioni, Parlamenti, elezioni (nemmeno col trucco), libertà civili e
religiose, e i cittadini, soprattutto le donne, vivono dentro un medioevo
lugubre e penoso, senza speranza di rinascimento.
Eppure, nessuno, in Occidente e in estremo
Oriente, osa disturbare, censurare, diffidare il manovratore ossia quella caterva
di re, sultani, emiri e loro corti al seguito il cui potere deriva dal
sottosuolo dove si nascondono enormi riserve petrolifere e di gas.
Quasi che la libertà non fosse un valore
universale inaliena-bile, ma una merce da barattare con altre merci, caso per
caso.
La transizione democratica, l’uguaglianza fra
uomini e don-ne, la tolleranza, la convivenza fra culture e religioni diverse?
Se ne parlerà alla prossima rivolta.
Due pesi e due misure? Soprattutto, a me pare,
un’incor-reggibile miopia politica dell’Occidente che non riesce a vedere oltre
il barile di petrolio
La
“rivoluzione” degli internauti
E così, oggi, abbiamo le piazze di alcune
importanti capitali arabe invase dalle proteste sacrosante soprattutto di
studenti, diplomati e disoccupati.
Nessuno l’aveva previsto. Nemmeno i potenti
servizi segreti. I giornali, le Tv, che raramente si sono occupati di questi
paesi, per altro, a noi vicini, le hanno frettolosamente battezzate
“rivoluzioni”, aggiungendovi una bizzarra tipicità locale (quella tunisina
l’hanno chiamata dei gelsomini) quasi a volerla ingentilire per non spaventare
i lettori in Occidente.
In realtà, si tratta di rivolte che sono espressione di uno stato d’animo
colmo di rabbia e di amarezza accumulate nel tem-po, di una condizione sociale
che, finalmente, insorge contro le ingiustizie e le più sfacciate ricchezze.
L’obiettivo è chiaro: cacciare i tiranni a capo
di regimi auto-ritari e corrotti, garantire la libertà per tutti e riformare i
siste-mi elettorali fatti su misura per il rais di turno.
Il dato nuovo di queste sorprendenti proteste è
la presenza dei giovani in gran parte istruiti e disoccupati.
Specie, di quelli appartenenti alla fascia
intermedia, fra i 18 e i 29, che secondo l’analista Abdel Moneim Said, (“Ahram-hebdo” del 2/2/2011) costituiscono
il 23, 5% della popolazio-ne ossia 19,8 milioni di unità. Il 36% di questi
giovani raggi-unge la scuola secondaria tecnica, mentre il 28% l’insegna-
mento superiore.
Giovani che hanno un rapporto molto intenso con
Internet e con i network.
Secondo un’inchiesta “Il mondo elettronico in Egitto”- citata da Said- il numero degli
utenti d’Internet è passato da 300.000 del 1999 a 14,5 milioni del 2009 a oltre 22 milioni nel
2010.
L’Egitto è in testa ai paesi arabi per utilizzatori
di Facebook e Youtube, mentre i blog egiziani corrispondono al 30,7% di quelli
arabi e allo 0,2% di quelli mondiali.
Sarà, forse, per questo che taluni hanno
proclamato leader della rivolta, icona del nuovo Egitto, un giovane dirigente
di Google in Medio Oriente, Wael Ghonim, arrestato e rilasciato dietro le
potenti pressioni del governo Usa.
Prudenza, signori inviati! Il mondo non è solo
quello virtuale. Anche Bin Laden e i suoi seguaci usano Google e i
social-network.
Per altro, la crescita della componente
giovanile egiziana internettizzata, - sostiene Said- denuncia un fenomeno relati-vamente nuovo :
quello dei “giovani ideologici”.
“In
effetti, diversi indicatori, rilevano come certi gruppi di giovani cominciano
ad adottare visioni e ideologie che si basano su concetti religiosi. E così
sono apparsi i giovani salafisti, i giovani della Fratellanza e i giovani
copti.”
Egitto: i
due fantasmi più temuti
Comunque sia, la protesta resiste, anzi si
allarga ad altri settori sociali e città egiziani. Tuttavia, non si va oltre le
richieste di dimissioni di Mubarak e di annullamento delle recenti elezioni
politiche. Stenta, cioè, ad emergere una piattaforma programmatica globale
capace di aggregare uno schieramento sociale e politico alternativo al blocco
di potere dominante.
L’Egitto è un Paese - chiave del mondo arabo,
con oltre 80 milioni di abitanti, è uno dei più popolosi del Mediterraneo e del
Medio Oriente; un paese di contadini, d’impiegati pub-blici, di operai e con un
ceto medio diffuso. Un paese povero, a tratti disperato, col 40% della sua
popolazione che, statisticamente, vive con meno di due dollari il giorno.
L’economia egiziana è fragile poiché si regge su
tre pilastri fortemente influenzati dalla contingenza internazionale: il
turismo, le rimesse degli emigrati e le entrate del Canale di Suez.
La domanda che molti si fanno è la seguente:
quanto di questo Egitto è presente in piazza Tahrir?
La piazza è ritornata piena, tuttavia fuori di
essa c’è una moltitudine che guarda, inquieta, in attesa di conoscere il corso
risolutivo degli eventi.
Cosa è questa calma apparente? Una tregua o
l’anticamera di una reazione violenta ?
O, forse, un segnale che oltre non si può
andare?
E’ difficile dare risposte esaustive a queste
domande.
Tuttavia, bisogna mettere in conto il timore di
molti per un cambio radicale che farebbe materializzare i due fantasmi oggi più
temuti in Egitto e dalla comunità internazionale: il crollo dell’economia e il
dilagare, sul terreno politico ed elet-torale dei “Fratelli musulmani”, l’unica
forza politica e cultu-rale realmente alternativa al regime di Mubarak.
I Fratelli
Musulmani
Per quanto moderata e defilata da piazza Tahrir,
nessuno sottovaluta (semmai qualcuno sopravaluta) il peso di questa potente
Associazione che, dal 1928, (anno della sua fonda-zione) lavora per plasmare
con la sua ideologia islamista la società e i settori più sensibili della
cultura, dell’ammini-strazione, delle professioni e delle forze armate egiziani
e di altri Paesi del Maskrek quali Giordania, Siria, Yemen, ecc.
Non potendo sconfiggere la Fratellanza sul
terreno del con-fronto politico e del consenso di massa, i regimi l’hanno messa
al bando, anche se l’hanno tollerata e talvolta usata per combattere le spinte
laiciste provenienti dai settori progres-sisti e di sinistra della società.
Solo le forze armate sono state capaci di
tenerla a bada.
Così è stato dal 1954, da Nasser fino a
Mubarak.
Oggi, in Egitto, la Fratellanza è sempre
molto forte e bene organizzata. Secondo gli specialisti, conterebbe circa due
milioni di aderenti, mentre nelle penultime elezioni politiche (2005) le sue
liste “indipendenti” hanno ottenuto il 20% dei voti e 88 seggi in Parlamento.
Comunque sia, oggi, la Fratellanza resta la
principale forza di opposizione, anche se divisa al suo interno. Negli ultimi
anni, infatti, è in atto un duro confronto fra tendenze riformatrici e Un
risultato importante visto che non era presente con i pro-pri simboli e
programmi e considerati i meccanismi truffal-dini del sistema elettorale
egiziano.
Alle elezioni del 2010, l’Associazione ha deciso
di non par-teciparvi per protesta contro i brogli e le pressioni indebite degli
apparati di regime il quale, così, si è assicurato circa il 90% dei seggi in
Parlamento.
conservatrici che, nel gennaio 2010, ha portato ad un
cambio di “Guida”.
Il nuovo leader è Mohamad Badie, un medico
pragmatico appartenente al “gruppo del 1965”, l’anno della repressione nasseriana in cui fu
arrestato con altri fratelli puri e duri fra i quali Sayyid Qutb, il vero,
grande teorico dell’islamismo ra-dicale moderno, a sua volta condannato a morte
e giustiziato nel 1966.
Un nome sconosciuto quello di Qutb in questo
stravagante Occidente che ha promosso disastrose “guerre preventive” per
sconfiggere l’islamismo radicale e terrorista, senza pren-dersi la briga di
conoscere i suoi teorici e le sue principali fonti d’ispirazione.
La Fratellanza in posizione d’attesa?
Ma questa è un’altra storia. Anche se, come
scrive May Al-Maghrabi, su Ahram Hebdo del
20/1/10 a commento del cambio di Guida, “i fratelli musulmani sono uniti sull’instaurazione di un sistema
fondato sull’Islam e la Charia
(legge coranica, ndr), ma sono profondamente divisi sulla strategia da tenere.
I conservatori vogliono mettere l’accento sull’islamizzazione in profondità
della società, mentre i riformatori preconizzano un approccio più politico e
sono aperti alle alleanze con le forze d’opposizione. Attualmente, la sfida dei
Fratelli musulmani è quella di sopravvivere e di restaurare la loro immagine.
Il prezzo sarà un ritiro provvisorio dalla scena politica.”
Grosso modo, quello che i Fratelli stanno
facendo oggi, ad un anno dall’analisi di
Al-Maghrabi.
Ne è convinto anche Makram M. Ahmed, un altro
analista di Al-Ahram, il quale scrive il 2 febbraio 2011, nel vivo delle
drammatiche proteste cairote, “la Fratellanza continua ad incitare la popolazione a
piazzarsi sulla prima linea degli scontri. Ma, all’ultimo momento, essa
prenderà posizione negli ultimi posti e attenderà il risultati…”
Insomma, in Egitto, la questione dei movimenti
islamisti (non solo dei Fratelli musulmani) è piuttosto complessa e
richiederebbe molto più spazio per trattarla.
Per dare un’idea, ricordo quanto detto (ad Al-Ahram Weekly, aprile 1993) da Nagib Mahfuz, premio Nobel per la lettera-tura
e vittima egli stesso di un grave attentato degli islamisti: “Anche se non sono d’accordo con gli
islamisti, debbo constatare che essi sono il primo partito politico di questo
Paese e che la loro politica corrisponde ai tre grandi problemi storici che si
pongono in Egitto: l’indipendenza nazionale, la giustizia sociale e lo
sviluppo”.
Egitto, un
nuovo Iran?
Oggi, molti, a cominciare dai dirigenti
israeliani, temono che in Egitto possano prendere il sopravvento le forze
dell’isla-mismo, come avvenne in Iran nel 1979.
Gli israeliani enfatizzano il pericolo perché,
con l’uscita di scena di Mubarak, temono di perdere un prezioso alleato che fa
parte di quella strana rete di “nemici” che si sono scelti per affrontare più
comodamente la “questione palestinese”.
A parte l’enfasi israeliana, il problema esiste.
Anche se un nuovo Iran non è all’orizzonte immediato o a medio termine. Diverse
sono le condizioni politiche, culturali ed economiche fra i due Paesi, così
come differenti sono le caratteristiche religiose: in Iran domina lo sciitismo,
in Egitto la tradizione sunnita che convive, con qualche problema, con una
forte comunità cristiana copta (circa otto milioni)
Perciò, è difficile fare previsioni attendibili
sugli esiti di queste rivolte.
Anche nel 1979, in Iran, nessuno
poteva immaginare la piega che presero gli avvenimenti dopo i primi governi di
transizio-ne.
L’abbattimento del regime repressivo dello Scià
fu opera di una eccezionale mobilitazione popolare unitaria: dai comu-nisti del
Tudeh ai “mujahiddin del popolo”, dalle vecchie for-mazioni liberaleggianti ai
seguaci dello sciitismo dell’aya-tollah Khomeini.
Bani Sadr fu eletto presidente come espressione
di questo contesto unitario di forze rivoluzionarie. Dopo pochi mesi fu
costretto all’esilio. Al suo posto, vennero i chierici di Khome-ini che si
appropriarono di tutto il potere in nome di Allah.
L’ayatollah Khalkali, il braccio della morte di
quella “rivolu-zione”, fu incaricato di liquidare con la tortura e le impicca-gioni
tutti coloro che non si sottomisero alle pretese illiberali di Khomeini.
L’entusiasmo
per la “rivoluzione” iraniana
Anche allora grande fu l’entusiasmo per quella
“rivoluzione” da parte di ampi settori democratici e della sinistra europea e
italiana.
Ricordo che nel PCI c’era una forte corrente di
simpatia per quella strana “rivoluzione” fatta in nome di Allah.
Molti esponenti e intellettuali erano con
Khomeini, con la sua costituzione basata sulla “charia”, anche quando cominciaro-no
a funzionare le forche di Khalkali.
Personalmente, da deputato del PCI, sono stato
fra i pochis-simi che non hanno condiviso tale analisi e contestato, anche
pubblicamente sui giornali, quella “rivoluzione” e la repub-blica islamica
degli ayatollah che è ancora lì, a provocare un sacco di problemi interni e
internazionali.
Versailles, giugno 1999. Agostino Spataro
ricevuto dall’ex presidente iraniano
Bani Sadr
Giacché, siamo in argomento, desidero aggiungere
un altro fatto che, stranamente, tutti sembrano dimenticare.
Dopo la fuga del presidente Bani Sadr arrivarono
al potere i chierici integralisti, fra i quali un certo Hossein Moussawi, uno
dei primi ministri più longevi.
Durante i suoi otto anni di governo, in Iran si
realizzò la “grande repressione” nella quale furono eliminati fisicamente circa
33 mila oppositori politici.
Sì, avete letto bene Hossein Moussawi, lo stesso
mite profes-sore che in Tv sembra uno che stia uscendo con la moglie dal
supermercato, il quale, nelle ultime elezioni, è stato contrap-posto dai
“riformatori”dello “squalo” Rafsanjjani, in combut-ta con i liberal europei e
Usa, al candidato del potere Mah-mud Ahmadinejad.
Il Cairo
non è Berlino
Perciò, prima di parlare di “rivoluzione”
bisognerebbe approfondire le vicende storiche e un po’ meglio conoscere la
realtà attuale di questi Paesi.
La rivoluzione, se è tale davvero, deve essere
capace di sovvertire l’ordine sociale esistente e di crearne uno nuovo di segno
contrapposto.
E in tutto il mondo arabo, l’unica rivoluzione
così carat-terizzata è stata quella, eroica e sanguinosa, del popolo algerino
per liberarsi dal giogo coloniale francese.
In altri Paesi non ci sono state rivoluzioni, ma
esperienze cospirative quasi sempre culminate in colpi di stato militari,
spesso etero diretti e/o favoriti dai servizi dell’Est e dell’Ovest, che hanno
generato molti regimi ancora al potere.
Perciò, mi pare una forzatura stabilire una
similitudine fra queste rivolte e la “rivoluzione” del 1989 (simbolicamente
rappresentata dall’abbattimento del muro di Berlino) che, in realtà, fu una
presa d’atto, senza spargimento di sangue, dell’implosione di un sistema ormai
esausto.
In Egitto, ma anche in Tunisia e nello Yemen, i
vecchi regimi non sembrano intenzionati alla resa.
Semmai, faranno qualche concessione politica ed
elettorale.
Sono caduti diverse centinaia di manifestanti
(300 solo in Egitto) ma ancora non c’è una vera svolta. L’unico elemento di
novità è la nomina a vicepresidente del fidato generale Suleiman e la
trattativa che questi ha avviato con le delegazioni dei partiti, fra le quali,
per la prima volta, quella dei Fratelli Musulmani.
Per il resto, Mubarak, nonostante le caute
pressioni interna-zionali, non si è dimesso e intende restare per guidare il
processo di transizione.
La situazione, dunque, resta tesa e potrebbe
degenerare in più gravi disordini e perfino in un vuoto istituzionale che i
milita-ri non potrebbero consentire.
Una cosa è certa: la situazione di stallo non
può continuare a lungo, dovrà evolvere o nel senso della democrazia o della
repressione.
Il Cairo non è Berlino. E fra i due sistemi ci
sono grandi differenze. Il blocco sovietico ha mollato un impero senza spargere
una goccia di sangue.
La
Cina
"comunista", addirittura sta facendo di meglio: tras-formare, con
autoritarismo e a tappe forzate, il suo socialismo rurale in un capitalismo
avanzato, industriale e finanziario, per altro molto competitivo e
mondializzato
Nella sua millenaria storia, il capitalismo non
ha mai ceduto nulla senza prima aver provocato una guerra disastrosa. E l’Egitto
è pienamente inserito nel sistema del capitalismo globale.
Nel mondo arabo è mancata
la “rivoluzione francese”
Rivolta o rivoluzione, dunque? Gli avvenimenti e
la storia s’incaricheranno di fornire la risposta esatta.
Tuttavia, una cosa si può auspicare: la
rivoluzione che oggi si richiede all’Egitto e agli altri paesi arabi è quella
per afferma-re la laicità dello Stato e i diritti civili e politici.
Insomma, una rivoluzione come quella che fecero
i francesi nel 1789 (non nel 1989).
Il più grande evento della storia moderna che, a
parte qualche eccesso, consentì ai popoli europei di passare dalla condi-zione
di sudditi di regimi assolutistici alla dignità di cittadini liberi.
(in
“Infomedi”, 11 febbraio 2011)
N.B.
questo articolo è stato pubblicato 24 ore prima dell’annuncio delle dimissioni
del presidente egiziano Mubarak.
Capitolo
sesto
EUROPA
SOTTO ATTACCO
L’uovo del serpente
L’UOVO DEL
SERPENTE
L’Europa
in pieno subbuglio
A poco più di vent’anni dal crollo del muro di
Berlino, l’Eu-ropa sta vivendo la sua crisi più grave. Molteplici sono i fat-tori,
interni ed esterni, che, nel tempo, l’hanno determinata.
Dopo il default greco e le avvisaglie che
minacciano altri Paesi del sud, fra i quali l’Italia, l’Europa è in pieno subbuglio.
Inquietudini e paure si stanno impadronendo
dello spirito pubblico; si temono fallimenti a catena, disordini sociali e
instabilità dei governi dall’Atlantico agli Urali, dalla Fin-landia alla
Grecia.
Sul versante politico il dopo- Berlino ha provocato
un forte ridimensionamento del ruolo e della forza della sinistra (comunista,
socialista e socialdemocratica), mentre si stanno affermando movimenti e partiti nazionalisti e neo
fascisti anche come risposta alle “insicurezze”, vere e/o presunte, dei ceti
più colpiti dalla crisi.
Sul terreno morale la crisi scuote le basi della
cultura, dell’informazione e persino della religione, soprattutto quelle della
chiesa cattolica al centro di un ciclone che non accenna a placarsi.
Il neocapitalismo finanziario globalizzato,
uscito vincitore unico dal lungo confronto, alla prova dei fatti, sta dimos-trando
di non essere all’altezza della situazione, anche se ha preteso e ottenuto
l’asservimento ai suoi disegni della gran parte della classe politica e della
stessa rappresentanza sociale.
Dal dopoguerra, mai si era verificata una
condizione di predominio così incontrastato. Eppure, il risultato è lo
sconquasso generale: dal disordine monetario e fiscale al mancato controllo
della spesa pubblica, dalla corruzione dilagante alla crescita esponenziale
della disoccupazione, alle nuove povertà.
E’ stata pianificata e attuata una
destrutturazione degli assetti dei poteri, un’iniqua redistribuzione delle
ricchezze nazionali (PIL) a tutto danno dei ceti produttivi medio - bassi; un
colossale ri-equilibrio, in senso classista, a vantaggio dei ceti più ricchi.
Il
liberismo è incapace di governare le economie e gli Stati
Insomma, alla sua prima uscita in pubblico,
questo neo capitalismo, liberista solo a parole giacché i conti dei suoi
disastri li continuano a pagare gli Stati e i cittadini (vedi crisi delle borse
in Usa e, oggi, la crisi dell’euro in Europa), si sta dimostrando incapace di
governare gli Stati e i processi da esso stesso generati.
Nel campo della politica è stato un disastro,
così nei campi di sua pertinenza: della finanza e dell’economia.
Le banche, le borse valori, le società di
rating, manager e consulenti prezzolati, le teste d’uovo avevano promesso il
paradiso in terra, un “nuovo ordine internazionale” più giusto e più equo.
Invece, ci ritroviamo con un mondo in disordine e segnato da nuove ingiustizie,
da mortali pericoli per l’ambi-ente, per il pianeta.
Tutto ciò, mentre si riducono gli spazi di
democrazia e dei diritti dei singoli e delle nazioni.
Incapaci di governare il caos e decisi a
fuorviare lo spirito pubblico, i “liberisti”cercano a destra gruppi e partiti
disponi-bili ad accendere la miscela esplosiva che minaccia l’Europa.
Nulla di nuovo sotto il solo: è solo un gioco
vecchio e ai più noto.
Si riaccendono, così, nazionalismi,
anacronistici rivendica-zionismi territoriali, intrighi secessionisti,
frustrazioni razzis-te, xenofobe, integralismi religiosi, intolleranze
politiche, ecc.
Come dire:
non potendo addomesticare per bene i popoli e gli Stati si tenta di
frantumarli, schierarli l’uno contro
l’altro. Chissà se, alla fine, non ci esca una bella guerra patriottica e/o di
religione?
La destra
estrema: il nuovo pericolo per l’Europa
Si delinea, dunque, una prospettiva davvero
inquietante per un continente che ha conosciuto la tragedia del fascismo e del
nazismo e, per altri versi, quella delle dittature stataliste filosovietiche.
Sta emergendo, infatti, una nuova destra nazional-popolare, xenofoba,
antisemita (ossia antiaraba e antiebraica) con punte dichiaratamente razziste e
neo-naziste.
Il fenomeno è preoccupante poiché non si tratta
dei soliti gruppi minoritari, ma di movimenti e di partiti che nelle più
recenti consultazioni elettorali hanno fatto registrare risultati davvero
rilevanti e inattesi, oscillanti fra il 10 e il 16%.
Tutta l’Europa è attraversata da tali tendenze.
Si va, infatti, dal 15,6% del partito FPOE austriaco al 16,38% di quello della
“Nuova era” in Lettonia, dal 9% del FN di Le Pen in Francia al 14,4% del
Partito del popolo danese, dal 10% dei “Veri finlandesi” al recentissimo 16% del Jobbik ungherese, dal
13% di “Ordine e giustizia” lituano al 16% del “partito della libertà”
olandese, ecc.
Questa- ci sembra- la vera novità politica che
sta emergendo dalla crisi europea. La destra estrema oggi spinge quella
moderata a indossare la divisa dell’intolleranza per domani soppiantarla in
tutto e per tutto.
E, con i tempi che corrono, questo domani
potrebbe verifi-carsi anche a breve.
Italia,
Berlusconi ha attutito le spinte più gravi?
L’Italia non è esente da tale travaglio.
Tuttavia, bisogna costatare che sul terreno non operano importanti formazioni
neo-fasciste. Forse, perché gran parte di tale disagio è stato intercettato
dalla Lega nord la quale mantiene al suo interno forti ambiguità secessioniste
e evidenti connotati xenofobi, ma non può essere tacciata di simpatie fasciste.
Perché tutto questo?
Le cause sono diverse, ma c’è né una che, forse,
prevale sopra le altre. Anche a rischio d’incappare nell’accusa d’eresia, penso
che parte del merito sia riconducibile a Silvio Berlusconi il quale, coinvolgendo,
per sua convenienza, la Lega
e An nei suoi governi e nelle sue alchimie politiche, ha contribuito,
oggettivamente, a contenere le mire elettorali e secessioniste di Bossi e alla
frantumazione del blocco residuo della destra neofascista proveniente dal
vecchio MSI di Almirante.
Una volta al governo, si sono affievoliti i
propositi più bellicosi e i vizi hanno prevalso sulle virtù catartiche dei
sacri carri.
Il sottile, irresistibile fascino del potere, le
comode poltrone ministeriali, gli agi per amici e parenti più intimi, sono
riusciti a fiaccare anche gli spiriti più rudi e indomiti.
Quest’opera di contaminazione probabilmente avrà
influito di più degli anatemi, delle risse dei centri sociali e di certe alta-lenanti
incoerenze (specie verso la Lega)
della sinistra tradizionale.
Tuttavia, prima o poi, il problema si aggraverà
anche in Italia e non si potrà continuare
a “confidare” nelle piroette di Ber-lusconi. Anche perché il suo tempo va a
scadere.
C’è bisogno di ben altro.
L’uovo di
Bergman e il male del secolo
Ma torniamo al contesto europeo sempre più
segnato da foschi fermenti che deprimono e, al contempo, esasperano lo spirito
pubblico. Anche nelle società più progredite del centro-nord dove-secondo la
metafora cinematografica di Ingmar Bergman- fu depositato “l’uovo del
serpente”.
In questo film, terribile e un po’ presago, il
regista svedese ricorse, infatti, alla metafora dell’uovo del rettile più
inviso per denunciare il male incubatosi, nei primi anni ’20 del secolo
trascorso, nelle pieghe della società tedesca in preda ad una gravissima crisi
economica, morale e politica.
Da quell’uovo nacque il nazismo ossia il potere
più perfido e micidiale che l’umanità abbia conosciuto.
Confesso che ho usato la metafora di Bergman un
po’ controvoglia giacché, personalmente, non ho nulla contro i serpenti. Anzi,
quando mi capita di vederli, liberi in natura, resto ammirato della loro
misteriosa bellezza e abilità di mimetizzarsi, di cibarsi e di cambiare pelle.
Soprattutto, m’incanta il loro accoppiamento in
verticale, esercizio complicatissimo per creature viscide e sprovviste di arti,
dal quale verrà l’uovo che, secondo una certa mitologia, riprodurrà il male
tentatore. Così è nell’immaginario collet-tivo. Anche se l’immagine evocata non
ha alcun riscontro scientifico razionale.
Tuttavia, andiamo avanti, sperando che la
metafora almeno ci aiuti a rendere meglio l’idea del pericolo che si sta incubando
nel corpo della società europea.
Sottrarre
i giovani alle manovre della destra
Purtroppo, allora, il mondo sottovalutò, ignorò
quelle tendenze che si affermarono, sulla spinta di grandi movimenti di massa,
al governo dell’Italia e della Germania.
Nel cuore dell’Europa si crearono il clima e
l’habitat adatti per far schiudere l’uovo malefico che vi era stato depositato.
Come sia andata a finire è a tutti noto. Anche
se qualcuno vorrebbe negarla, la tragedia del nazismo e del fascismo è rimasta
scolpita nei libri di storia e nelle menti atterrite di chi l’ha vissuta e di
quanti hanno ereditato, e conservato, la memoria.
Oggi, la domanda che più inquieta è la seguente:
quella terri-bile realtà può ritornare?
La risposta non è facile. Forse, è presto per
dirlo.
Eppure qualcosa del genere s’intravede
all’orizzonte.
Al momento, fra quel passato e il presente non
vi sono analo-gie così pregnanti (è il caso di dire).
Tuttavia, dovrebbero preoccupare, più delle
stesse esibizioni di forza, le tendenze elettorali evidenziate che denotano un
certo grado di consenso popolare, più o meno esasperato, a sostegno di tali
disegni.
L’obiettivo è chiaro: introdurre nuovi elementi
di divisione e di scontro all’interno dei settori popolari e, quindi, rompere
una certa coesione politica (democratica e di sinistra) che li ha connotati.
Perciò, il fenomeno va affrontato lucidamente,
senza allarmi-smi e senza
sottovalutazioni; con spirito dialogante, aperto cioè al recupero di
settori sociali, specie giovanili, che stanno per essere trasformati in massa
di manovra.
Non servono anatemi e violenze gratuite. Anzi, è
questo il terreno più propizio per il dispiegamento della strategia della
destra radicale. Servono idee, proposte innovative per superare la crisi senza
condannare alla disperazione e alla disoccupazione i giovani, i lavoratori e i
ceti meno abbienti, gli immigrati.
Se la
sinistra non vuole morire d’inedia
E’ inutile girarci intorno: così come è stata
costruita, specie negli ultimi vent’anni, l’Europa va bene solo per pochi, non
per tutti.
La gestione della crisi può essere decisiva per
il suo futuro, anche istituzionale. Il progetto europeo o si realizza come
Unione dei popoli nella democrazia o non avrà vita facile.
In questa nostra civilissima Europa tira una
brutta aria. Riappaiono i fantasmi di un passato che si pensava fosse stato
sepolto sotto le rovine della seconda guerra mondiale.
Occorre uno sforzo più coerente e generoso per
costruire una vera Unione, politica e sociale, dei popoli europei.
Se non vuole morire d’inedia, la “sinistra”,
comunque conno-tata, deve rigenerarsi e impegnarsi a giocare un ruolo trai-nante
in questa svolta, abbandonando sterili condotte mino-ritarie e posizioni di
governo che, talvolta, non le competono.
Oggi, il problema prioritario è quello di
difendere il potere d’acquisto, i diritti al lavoro e ai servizi fondamentali
delle masse emarginate o in via di esclusione.
Diritti non adeguatamente difesi da una sinistra
sempre incer-ta e penitente, oltre che divisa.
Da qui, anche, la disillusione, la sfiducia di
taluni settori sociali sempre più attirati dai richiami razzisti e fascisti.
Come se quel seme malefico stia cominciando a
ingravidare anche le parti più sane della società.
L’Italia
si salva tutta intera
Concludo, restando dentro la metafora, con una
domanda: il (la) serpente potrebbe depositare il suo “uovo” anche in Italia?
Nel 1919 è accaduto, partendo da Milano e dalle
lande più ricche e attive del nord italiano.
Il Sud,
pur essendo prevalentemente conservatore, sfilò sotto le romaniche insegne ma
non credo abbia aderito al fascismo con convinzione: glielo impedirono la sua
ironia e la sua repulsione verso un ordine cialtrone e militaresco.
Oggi, che dire? Speriamo che non avvenga mai.
Tuttavia, non si possono chiudere gli occhi di fronte alle crescenti pulsioni
xenofobe, alle squadre e ai gagliardetti, alle minacce di rottu-ra dell’unità
nazionale. Bene ha fatto il presidente Napolita-no, l’altro giorno a Marsala, a
denunciare con forza questi pericoli.
Spiace rilevare queste cose che, in fondo, sono
imputabili a una minoranza egoista e rumorosa.
Noi preferiamo restare legati alla visione di un
nord dinami-co, solidale e aperto al mondo che ha visto nascere il più grande
evento della nostra storia nazionale: la gloriosa Resistenza al nazi-fascismo
per la liberazione e l’unità dell’Italia.
Certo, sappiamo dei disagi sociali, sovente
reali e motivati, di difficili problemi di vivibilità che travagliano alcune
grandi città del nord, principalmente a causa delle contraddizioni create da
quel modello di sviluppo, oggi, in affanno.
Problemi da considerare che, come quelli del
Sud, vanno risolti nel quadro di uno rinnovato sforzo unitario e solidale.
Certo, la convivenza è difficile anche in
famiglia, figurarsi fra popolazioni così distanti e diverse per cultura,
reddito e condizioni di vita civile.
Credo che si possa convivere, nella legalità e
nella libertà. Checché ne pensino i
sacerdoti del fiume più inquinato: l’Italia si salva tutta intera o non si
salva.
(in
“Rivista europea” 21/5/2010)
LA DITTATURA DEGLI INVESTIMENTI
1.. Credo che
nell’opinione pubblica stia crescendo l’intima consapevolezza che l’ingiunzione
della Fiat non riguardi solo i lavoratori dei due stabilimenti (Mirafiori e
Pomigliano), ma l’intera società italiana poiché, oltre a importanti conquiste
del lavoro, mette in discussione taluni principi regolatori della convivenza
sociale e democratica.
Perciò, è auspicabile spostare il confronto,
anche dopo il refe-rendum, dai tavoli “istituzionali” alla società nelle sue molte-plici
articolazioni, evitando l’eccessiva personalizzazione su Marchionne che appare
fuorviante, persino troppo comoda per chi gli sta sopra.
Non bisogna essere grandi economisti o esperti
di relazioni industriali per capire che, oggi, la Fiat vuol fare in Italia ciò
che, nei decenni trascorsi, è stato fatto in diverse regioni del “terzo mondo”
(Pvs) da talune multinazionali della “triade” (Usa, Europa, Giappone) le quali
hanno imposto legislazioni e contratti basati sulla mercificazione dei diritti
e della dignità dei lavoratori.
Oggi, questa strategia, operante anche in alcuni
Stati Usa, si vorrebbe applicare in Italia e in Europa.
A quel tempo, pochi si preoccuparono per la
brutta piega che stava prendendo la questione degli investimenti che le grandi
multinazionali usarono come clava per dettare le loro pesanti condizioni ai
governi locali che potevano solo prendere o lasciare.
Quello fu l’inizio di un processo destinato a
estendersi all’intero pianeta, sulla falsa riga delle pretese contenute nella
bozza di Accordo Multilaterale sugli Investimenti (Ami), approntata in sede
OCDE, e bloccato a causa del ritiro della Francia dai negoziati.
2.. E così, oggi, i
gruppi più agguerriti, senza alcun vincolo sociale e morale, sono alla ricerca
del più vantaggioso “investionklima”, delocalizzano per “ottimizzare” il
prodotto e “massimizzare” i profitti.
A
pagare il conto delle conseguenze sociali e ambientali, in primo luogo della
disoccupazione anche dei paesi industrializzati, sono gli Stati nazionali che le
multinazionali non vogliono abolire, ma
solo asservire ai loro interessi.
Insomma, nei Pvs più poveri e sovra popolati, e
spesso dominati da governi corrotti e illiberali, si affermò una sorta di “dittatura degli investimenti” che ora si
vorrebbe trasferire in Italia, nelle regioni più avanzate dell’Occidente.
Il nostro fallace eurocentrismo non ci fece
vedere la pericolo-sità di tale “dittatura”: molti ritennero che potesse
attecchire solo in quelle remote regioni, mai nei Paesi d’origine degli
investimenti, democratici e super industrializzati.
Ecco,
invece, arrivare la botta anche in Italia, sotto forma di ricetta infallibile
per “salvare” due stabilimenti Fiat (Mira-fiori e Pomigliano) e per chiuderne
un altro (Termini I.)
Un comportamento gravissimo quello della Fiat
che, con le sue pretese impositive, mira ad acuire la lacerazione dei rap-porti
intersindacali e industriali e aprire scenari destrutturanti dei sistemi di
garanzia vigenti.
Un programma avventuroso, unilaterale che punta
a dividere i lavoratori e a umiliare il sindacato più rappresentativo, affi-dando
il tutto a un referendum sul quale grava lo spettro del disinvestimento e della
disoccupazione.
3.. In altri Paesi
europei di primo livello una cosa del genere sarebbe improponibile,
irricevibile.
Si propone in questa Italia in crisi e senza una
leadership autorevole, secondo un calendario prevedibile: oggi nei due
stabilimenti della Fiat, domani nel resto dell’Italia, dopodo-mani in Europa.
Si sta giocando una decisiva partita, impari e
letale, fra un colosso multinazionale e un sindacato (la Fiom) glorioso, combattivo ma
isolato.
Di fronte a tutto ciò, cosa stanno facendo
governo e forze politiche?
C’è chi tifa apertamente per Marchionne, chi gli
fa il coro dall’altare maggiore, chi si dimena nella contraddizione di volere
conciliare ragioni insanabili. Qualcuno contesta.
In questo pantano il ministro del lavoro Sacconi
continua a invocare “meno Stato e più mercato” e a proclamare la “fine delle
ideologie”.
Che differenza di stile e di concetto con i suoi
predecessori Carlo Donat Cattin, Tina Anselmi!
Ministri democristiani, cattolici, espressione
di quella Cisl che ieri ha lottato per ottenere le conquiste che oggi annulla
con gli accordi separati.
Un ministro che frequenta le stanze ovattate di
Confindustria dovrebbe sapere che non tutte le ideologie sono scomparse, ma
solo quella della sinistra marxista (alla quale egli, da socialista (o ex?),
dovrebbe essere sensibile) perché ha perduto la competizione a favore dell’ideologia
di questo capitalismo arrogante, rimasta unica e sola a dominare il mondo.
La verità è che questi signori, per non
ammettere il fallimento delle loro politiche economiche e sociali, hanno
bisogno di montare una colossale mistificazione della realtà, di rompere la
coesione sociale, di promuovere, favorire la divisione dei sindacati, della
società, addirittura delle famiglie.
4.. Un’altra offensiva che si vorrebbe
scatenare, magari affi-dandola a quel decadente corteo di bulli, pupe e
ruffiani che gironzola per redazioni giornalistiche e televisive, è quella di
portare la divisione, lo scontro anche all’interno delle famig-lie, fra le
generazioni.
Sei disoccupato? Non trovi lavoro? La colpa non
è di governi incapaci di creare opportunità per i giovani, di una legislazio-ne
iniqua introdotta per favorire il precariato, il lavoro nero, clandestino, ma
di tuo padre, di tuo nonno che, da biechi egoisti, si vogliono godere la sudata
pensione e magari far studiare, vivacchiare i figli inoccupati e/o sfruttati da
contratti vergognosi.
Alla stessa ipocrita risposta si ricorre per
spiegare la crisi del-la scuola e dell’università pubbliche, la mancanza di
servizi efficienti, d’infrastrutture, ecc.
Nessuno parla delle scandalose e sospette
fortune accumula-te, della voragine dell’evasione fiscale che, certo, non
riguar-da i pensionati e i lavoratori dipendenti.
L’intento è chiaro: deviare sui genitori
l’immensa rabbia dei giovani che non intravedono un futuro degno.
Mettere i figli contro i padri è un risvolto
davvero odioso, pericoloso (altro che difesa della famiglia!) che potrebbe
sfociare in una sorta di guerra fra generazioni.
Un perfido tranello nel quale- si spera- i
giovani non dovreb-bero cadere.
5.. Tutto ciò per
nascondere le crescenti disparità sociali, le disuguaglianze, le povertà che,
finalmente, anche la Banca d’Italia ha notato.
Non è vero che in questa ventennale transizione
in Italia non sia successo nulla. No. Si è verificato un processo di accumu-lazione
scandaloso, un colossale spostamento di reddito dalle fasce medio/basse della
società a favore di quelle più alte:
il 10%
delle famiglie oggi possiede il 45% della ricchezza dell’Italia che, nonostante
tutto, è il decimo paese più ricco del mondo.
Secondo una bizzarra aritmetica, in Italia,
ricchezza e pover-tà, e disoccupazione, crescono insieme, contemporaneamente.
Colpa dei padri o dei nonni? O di chi manovra, in pubblico e in segreto, per
favorire pochi ceti contro tutti gli altri?
Le risposte a questo tentativo potrebbero essere
tante.
La migliore sarebbe di ricominciare a lottare, a
marciare insieme figli, padri e nonni, a difesa dei diritti fondamentali dei
cittadini, contro chi vuole impossessarsi, letteralmente, della ricchezza, del
futuro di questo nostro bellissimo Paese.
Su questo crinale corre anche lo spartiacque fra
destra e sinistra, fra progresso e conservazione, fra individualismo e
solidarietà, fra libertà e liberalismo selvaggio.
Gli stessi partiti, in preda a ricorrenti crisi
d’identità, potreb-bero trovare, finalmente, una degna e coerente collocazione:
o da un lato o dall’altro.
L’obiettivo non è la “rivoluzione”, né il cambio
di sistema, ma quello di trasformare l’Italia in aderenza con le sue
specificità storiche e culturali e con i principi di equità sanciti dalla
nostra Costituzione unitaria e solidale.
*Agostino
Spataro è coautore, con Naom Chomsky e altri, del libro “Il Pianeta Unico”,
Eléuthera edizioni, Milano, 1999.
(in
“Lavalledeitempli.net” 8/1/2011)
Società di
rating
ATTACCO ALL’EURO,
ATTACCO ALL’EUROPA
1… La
crisi c’è ed è grave. Nessuno può negarla. Le cause sono molteplici e di natura
complessa, interne e internazio-nali.
Nell’Italia repubblicana le crisi, anche gravi, ci
sono sempre state, tuttavia, mai era successo, come oggi accade, che a
decretarle, a pilotarle e a indicarne le soluzioni siano tre agenzie private
straniere (quasi tutte Usa) i cui soci hanno da difendere corposi interessi
societari, per altro concorrenti con altri dei paesi sottoposti al loro vaglio.
Chi sono, chi controlla queste società di rating
che stanno facendo tremare l’Europa?
E’ questa una domanda banale che tutti si fanno,
ma alla quale nessuno dei tanti esperti, banchieri e uomini del potere
risponde.
Una risposta, forse, si può trovare in due
articoli (allegati) scritti dal giornalista indipendente Alberto Puliafito (che
ho travato sul web) che danno un’idea circa la proprietà delle famose “società
di rating”, dei loro compiti e comportamenti (non sempre lineari), dei loro
rapporti con il “dio-mercato” e con le varie consorterie finanziarie, con i
singoli Stati e forze politiche più o meno influenti.
Non c’è bisogno di essere esperti d’alta finanza
per cogliere il valore destabilizzante di questi ben mirati e tempestivi
verdetti emanati dalle “agenzie di rating” a carico di questo o quell’altro
Stato.
2… Se ci
fate caso, la loro scure si è abbattuta soprattutto contro i Paesi dell'
eurozona più esposti ai contraccolpi della crisi, nell’ordine: Grecia,
Portogallo, Spagna e ora Italia.
Contro, cioè,
gli anelli più deboli della catena dell’euro, per indebolirlo, per
smantellare lo stato sociale e deprimere i consumi di massa e acuire la
conflittualità interna, ecc, ecc.
Insomma, una miscela davvero esplosiva che può
mettere a dura prova il processo di costruzione unitaria dell’Europa e la
stabilità politica dei singoli Stati.
Insomma, un attacco all’euro che tanti problemi
sta creando al re-dollaro che galleggia in un mare di debito pubblico interno e
di deficit commerciali spaventosi e sottoposto a incursioni finanziarie di
governi stranieri (specie cinese e saudita).
E’ chiaro che, comprando il debito, questi Paesi
comprano quote di sovranità degli Usa ossia della prima potenza econo-mica e
militare del Pianeta.
Tuttavia, il rischio maggiore, già in atto, è la
tendenza dell’euro a sostituire il dollaro Usa come principale moneta di
scambio nelle transazioni commerciali internazionali.
Perciò, oltre- atlantico non hanno gradito il
varo dell’euro e il conseguente rafforzamento e allargamento del processo di
unità europea.
Un’Europa unita, con una moneta forte e
apprezzata sul piano internazionale, non è nei programmi delle oligarchie domi-nanti
statunitensi.
3... Così come sono considerati ostili quei
governi che vorrebbero vendere il loro petrolio in euro (non più in dollari) e
per questo hanno dovuto subire le rivoluzioni arancione e, in alcuni casi,
perfino l’aggressione militare.
La Casa Bianca, infatti, li ha bollati
come “Stati canaglia”, “paesi dell’impero del male”, inserendoli in liste di proscri-zione
nelle quali figurano soltanto le dittature a lei ostili e non le dittature
amiche, munifiche e anche un po’ servili.
Perciò, è necessario attaccare l’euro,
indebolirlo. Per elimi-nare un pericoloso concorrente.
Se così fosse davvero, sarebbe un attacco
all’Unione europea, al suo progetto di crescita autonoma, al suo importante
ruolo, economico e politico, nel mondo.
Senza più l’euro, l’Unione non ha futuro,
rischia la divisione, la dissoluzione e di nuovo la subordinazione all’impero
americano.
Gli Usa hanno bisogno di un’Europa debole e
allineata, pro-babilmente in vista del regolamento di conti (speriamo solo
commerciali) con la Cina
e con altre potenze regionali emer-genti.
Certo, questa è solo un’ipotesi da verificare ed
eventualmente da smentire, ma con dati e argomenti convincenti.
4… Purtroppo, di queste cose in Italia quasi non
si parla e non si scrive. Tacciono i grandi giornali, i grandi media, i grandi
partiti, i grandi sindacati, i grandi…
Tutti grandi, tutti muti! Ma che succede?
Perché nessuno di questi soggetti informa la
gente di come stanno realmente le cose?
Possibilmente usando la lingua ufficiale dello
Stato cioè l’italiano e non questa miscellanea di tecnicismi inglesi frutto di
un provincialismo briccone al servizio del manovratore.
Perché, invece di andare in giro con il
“pizzino” delle nuove privatizzazioni (leggi svendita di quel che resta del patrimo-nio
pubblico del popolo italiano) i grandi leader di governo e d’opposizione non
spiegano ai cittadini le cause vere, struttu-rali della crisi italiana e la
loro mancanza d’idee e di progetti per superarla?
Certo, si può tener conto dei verdetti delle
società di rating e/o degli andamenti, talvolta bizzarri, dei mercati
borsistici, ma non fino al punto di farsene scudo per chiedere le dimis-sioni
di un governo. Poiché, oggi, toccherebbe a Berlusconi, domani un altro potrebbe
subire l’indebita pressione.
Le scelte economiche, politiche, le elezioni
anticipate non si possono decidere sull’onda delle reazioni emotive provocate
dai verdetti di società di rating straniere o degli umori delle borse valori.
Sarebbe come affidare le sorti del Paese a
potentati stranieri senza volto e senza alcuna legittimità politica
democratica.
Più che un “errore”, questo sarebbe un comportamento
dis-sennato che cambierebbe il senso e la sostanza della demo-crazia.
In Italia, i governi si cambiano con le lotte
politiche e sociali e con il voto degli elettori!
La politica, le scelte si fanno alla luce del
sole, nel Parlamen-to e nelle altre istituzioni repubblicane, sulla base del
con-fronto democratico delle idee fra le forze in campo.
Oppure, in fasi eccezionali come l’attuale,
ricorrendo a solu-zioni politiche e programmatiche che esaltano la coesione e
la responsabilità nazionali, come chiede di fare il presidente Napolitano.
(in
“Ticinolive” 9/10/2011)
CRISI EUROPEA:
FINIRA’ COME IN ARGENTINA?
La via imboccata è quella giusta o si stanno
commettendo nuovi errori?
Il titolo del pezzo non scaturisce dalla paura che,
in questo periodo, un po’ tutti avvertiamo e che non osiamo esternare in
pubblico, ma dall’analisi, libera e schietta, fatta da un eco-nomista Usa, Joseph
Stiglitz, premio Nobel per l’economia, nel corso di un’intervista pubblicata su
un importante quoti-diano argentino “Pagina
12” (del 10/12) di cui daremo ampi brani.
Ho aggiunto soltanto un punto
interrogativo quasi per esor-cizzare il pericolo di quella esperienza che, trovandomi a Buenos Aires, per qualche giorno ho vissuto, indirettamente.
Infatti, è un interrogativo da
incubo che intimamente un po’ tutti inquieta, al quale nessuno dei responsabili
vuole dare una risposta convincente e pubblica.
Non sappiamo bene cosa stia
effettivamente bollendo nelle cucine dei “mercati”, nella mente di taluni chefs
di queste strane entità, senza volto e senza nomi, che continuano a imporre le
loro ricette e i loro uomini a Stati e a continenti interi.
Ovviamente, sto parlando di
grandi opzioni, di scelte strut-turali non delle quisquilie cui ricorrono le
varie “compagnie di giro” nostrane per tenere aperto il baraccone degli
scanda-letti a buon mercato e deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dai
veri malanni che affliggono l’Italia e l’Europa.
Altra domanda drammatica. La via
imboccata è quella giusta o si stanno commettendo nuovi errori che, questa
volta, potrebbero risultare esiziali?
Per i nostri “decisori” nazionali
ed europei la strada e le scelte adottate sono le uniche possibili. Gli
altoparlanti di stampa e media s’incaricano, senza verificare, approfondire,
senza sentire tutte le campane, di confermarle, amplificarle e di propinarle
come oro colato a un’opinione pubblica frastornata e inquieta.
I mercati: un Golem insaziabile, senza volto e senza
nome
Per Joseph Stiglitz, invece, c’è
poco da stare tranquilli poiché “lo schema che la Germania sta imponendo al
resto dell’Europa porta alla stessa esperienza che l’Argentina ha vissuto sotto
la guida del Fondo monetario internazionale (Fmi)”… “l’incapacità dei governi europei è evidente: invece di trarre
insegnamento dagli errori compiuti in precedenza, li stanno ripetendo”.
Ovviamente, l’economista Usa,
parlando dell’Argentina, si riferisce ai governi neo liberisti degli anni ’90
guidati da Carlos Menem e dal FMI che portarono il Paese all’insol-venza
(default).
Oggi, grazie ai governi della
sinistra peronista guidati prima da Nestor Kirchner e ora da Cristina Fernadez
(insediatasi ieri per il suo secondo mandato consecutivo), l’Argentina non solo
ha saldato il debito col FMI e rifiutato la sua pelosa assistenza, ma ha varato
politiche di sviluppo e d’inclusione sociale che, in pochi anni, l’hanno vista
passare dall’insol-venza a una crescita del 7% nel 2010, (seconda solo alla
Cina).
Ora, qui, non si desidera
esaltare il punto di vista di un premio Nobel, ma soltanto ascoltarlo,
valutarlo e, almeno, farlo conoscere al pubblico.
Temo che in Italia nessuno abbia
un tale interesse poiché contrasta con i comportamenti e le direttive dei
“mercati” ossia di questo Golem insaziabile che sovrasta l’Europa e il mondo.
Secondo Gustav Meyrink, il Golem
era una mostruosa crea-zione alchemica di un ebreo praghese, animata da un'
irre-frenabile voglia di crescita e di annessione. Sulla fronte aveva scritta
la parola “Ameth” ossia verità.
Era mostruoso e potente il Golem,
ma aveva un punto debole: per dissolverlo bastava togliere la “A” (aleph),
restava “meth” cioè morte. Ogni riferimento alle “A” delle società americane di
rating è puramente casuale. Per quanto anche loro quando tolgono le “ A”
conducono gli Stati alla rovina, alla morte.
La crisi: colpa dei “costi della
politica” o dei costi delle politiche speculative?
E così vediamo “grandi” giornali
e canali televisivi, econo-misti di grido, personalità politiche e di governo,
opinion leader e comici di turno, ecc, tutti a sgolarsi per inculcare nelle
menti atterrite della gente che la crisi italiana è princi-palmente dovuta ai
“costi della politica”.
E, quindi, dagli alla politica,
al politico, al deputato, al consigliere locale, a chiunque sia stato eletto in
un organo istituzionale di questa Repubblica democratica, fondata sulla
sovranità del popolo e non sugli interessi dei mercati, dei mercanti e dei loro
lacchè in divisa d’ordinanza.
Ma quanto diavolo costa la
politica italiana?
Forse di più delle spese militari,
dell’evasione fiscale (275 miliardi/anno secondo Istat), dei finanziamenti
pubblici all’editoria, dell’anarchia del mercato delle professioni, delle assicurazioni, delle banche che pretendono di
essere libere quando vanno in attivo, mentre quando vanno ( o si fingono) in
perdita bussano a quattrini alle casse dello Stato?
La politica costa molto meno e lo
sanno benissimo i fustiga-tori a senso unico.
Con ciò non si vuole negare
l’esigenza (che da tempo propo-niamo) di una riforma del sistema di finanziamento
pubblico dei partiti, dell’abolizione dell’attuale legge elettorale (porcata)
introducendo le preferenze e riducendo il numero dei parlamentari, della
soppressione delle province, ecc.
Riformare la politica, per recuperare la
sovranità e i poteri delle istituzioni democratiche
Se questo veramente si vuole, si
può fare subito dopo l’approvazione della manovra finanziaria.
Chi lo impedisce? L’altro giorno,
in Sicilia è stata approvata, all’unanimità, una legge che riduce del 30% il
numero dei deputati regionali, da 90
a 70.
E’ un buon segnale per il resto
del Paese. Ma pare che queste riforme non le voglia nessuno.
Forse perché verrebbe a mancare
la materia dello scandalo e bisognerebbe spostare i fari dei grandi giornali e
televisioni sui reconditi interessi di chi sta dietro questa campagna
qua-lunquistica che, in realtà, mira a delegittimare il Parlamento e il sistema
della democrazia rappresentativa.
Insomma, dopo avere spostato a
loro favore quote enormi del Pil nazionale (leggi della ricchezza degli
italiani), questi signori si vogliono prendere il governo, il Parlamento e
quant’altro non possono controllare con i loro giochi di borsa.
Spero di sbagliarmi, ma questa è
gente che sa il fatto suo e certo non intraprende una campagna simile solo per
far vendere qualche copia in più ai loro giornali.
C’è un obiettivo nascosto? E qual
è?
Difficile dirlo. Tuttavia, è
chiarissimo che si punta a demolire il ruolo, insostituibile, degli organi
parlamentari costituziona-li, per altro, senza dire che cosa si vuole fare,
dopo.
Gli uomini della concentrazione
mediatica e finanziaria sanno benissimo che “il costo della politica” non è il
problema prin-cipale.
Lo stanno ingigantendo ad arte,
per usarlo come un separè per non far vedere alla gente cosa stanno combinando
i loro committenti nel boudoir dell’alta finanza.
Andate a guardare, per favore.
Altro che “casta” (dei politici!) Vi troverete di fronte uno scenario
variegato, fantasmagorico, una bolgia di caste vere, palesi e occulte, cui
attingere per far fare le ossa a generazioni di giornalisti d’inchiesta.
Una colossale, deviante mistificazione per favorire il
disegno dei “poteri forti”
Prima o poi la verità verrà
fuori. La gente comincia a capire che trattasi di una colossale mistificazione.
Taluni la subiscono in assenza di
una politica e di un'infor-mazione alternative, altri la rifiutano, la
contestano e mirano al giusto obiettivo.
Come hanno fatto, nei giorni
scorsi, i movimenti degli studenti italiani (non quelli degli “indignati”
telecomandati) che hanno indirizzato la loro protesta contro le banche e i
poteri forti.
E qui mi fermo perché desidero
riprendere il punto di vista di Joseph Stiglitz che in Italia nessuno ha
ripreso perché si teme potrebbe turbare il clima di “pensiero unico” dominante.
Avverto che probabilmente la
traduzione non sarà perfetta (si fa quel che si può); chi lo desidera può
leggere il testo originale sul sito del quotidiano.
Alla domanda circa il ruolo
giocato dalla Banca centrale europea (Bce),
il Nobel risponde senza molto tergiversare:
“La BCE non è democratica. Può
decidere politiche che non sono in linea con quanto chiedono i cittadini.
Fondamentalmente, rappresenta gli interessi delle banche, non regola il sistema
finanziario in maniera adeguata e ha un’attitudine di stimolo ai CDS (Credit
Default Swaps) che sono strumenti molto dannosi. Questo dimostra anche che le
banche centrali non sono indipendenti…”
A proposito dei governi
tecnocratici di Monti in Italia e di Papademus in Grecia dice:
“Il principale problema è quello di avere creato un contesto economico
a partire dal quale la democrazia è rimasta subordinata ai mercati finanziari.
E questo la Merkel
lo sa bene. La gente vota, però si sente ricattata. Si dovrebbe riformulare il
quadro economico, affinché le conseguenze di non seguire i mercati non siano
tanto severe”.
E’ la Grecia a finanziare le banche tedesche, non
viceversa
Richiesto di un parere sullo
strano ruolo trainante assunto da Francia e Germania e sulle loro “idee errate”
circa la crisi europea, così risponde Stiglitz:
“E’ chiaro che stanno ponendo l’interesse delle banche sopra quelli
della gente. Questo è molto più chiaro nel caso della BCE, però non credo che
sia lo stesso per Sarkozy e Merkel…Credo stiano proteggendo le banche poiché
temono che se le banche dovessero crollare, l’economia crollerà. Per questo
dico che hanno una visione errata, quantunque non creda che stiano ponendo gli
interessi dei greci o degli spagnoli in capo all’agenda.
Questo è l’altro problema: manca la solidarietà. Essi dicono che non
sono una “unione di trasferimento di denaro”. Di fatto, lo sono, però il
trasferimento del denaro va dalla Grecia alla Germania.”
Sono cose che, specie nelle alte
regioni del lucro, tutti conoscono: è la povera Grecia che finanzia le potenti
banche tedesche. Tutto è andato a meraviglia fino a quando non s’intravide il
pericolo dell’insolvenza (default). Com’è noto, l’insolvenza è il terrore degli
strozzini, degli usurai i quali hanno tutto l’interesse di far sopravvivere la
loro vittima fino a quando ci sarà qualcosa da spremere.
Se ci fate caso, anche le banche
più esposte (poche quelle italiane) si sono comportate come i soggetti prima
citati: terrorizzate dal pericolo d’insolvenza di alcuni Paesi loro debitori,
hanno preteso dai rispettivi governi di fare carte false pur di salvare… non i
Paesi debitori, ma le banche creditrici.
Insomma, il Nobel ci offre
tantissima materia per un' utile riflessione, per capire meglio come stanno
andando veramen-te le cose e per correggere eventuali scelte sbagliate.
Ovviamente, se dovesse ritornare
la voglia d’informare correttamente i cittadini vi sarebbero altri autori da
prendere in considerazione. E’ tempo che si operi alla luce del sole, si
ritorni in Parlamento e fra i cittadini che non servono solo a pagare la
bolletta.
(in “Oggi7- AmericaOggi”, N.Y, 18/12/2011)
Capitolo
settimo
IL SUD E LA SICILIA FRA TENSIONI E
COOPERAZIONE
Mappamondo di Al-Idrisi, (1100-1166)
SICILIA FRA EUROPA E
MEDITERRANEO
L'on.
Giorgio La Malfa,
presidente del Partito repubblicano, aprendo la campagna elettorale a Palermo,
pare abbia affer-mato che la
Sicilia per svilupparsi, "deve guardare al Nord, non al Sud".
Dove
per "Nord" deve intendersi l'Europa e per "Sud" i paesi
rivieraschi del Mediterraneo.
Un
punto di vista come tanti, autorevole ma non condivisibi-le, anche se espresso
con ammirevole chiarezza.
Virtù
rara, anzi rarissima, fra i politici della cosiddetta "seconda
Repubblica". Infatti, La
Malfa viene dalla “prima”.
Si tratta di un rigurgito di una vecchia
posizione repubblicana basata più sul pregiudizio antiarabo che sul calcolo
politico ed economico.
È arcinoto che l'on. Spadolini, anche da
presidente del Consi-glio, fece dell'antiarabismo il tratto distintivo della
sua poli-tica estera. Con risultati disastrosi.
In questa sede, non vogliamo disquisire su tale
tendenza, per altro molto residuale, ma tentare di ragionare sull'assunto del
candidato repubblicano che sembra accusare un "eccesso di antitesi"
che, in fin dei conti, rafforza la tesi (e la realtà) largamente condivisa in
Sicilia e altrove.
In primis, osservo che nelle analisi più serie
riguardanti la prospettiva economica siciliana, e di altre regioni meridiona-li,
mai ha trovato posto il dilemma lamalfiano: o nord o sud.
La Sicilia è, e intende restare, in questa Europa
che cresce e si allarga in varie direzioni. Semmai, il problema è stato, ed è,
quello di starci a pieno titolo, in armonia con gli standards socio-economici e
civili europei, acquisendo, cioè, tutte caratteristiche delle regioni
sviluppate.
Una
proiezione bi-direzionale della Sicilia
Purtroppo,
a mezzo secolo dall'adesione al MEC (oggi UE), la Sicilia è ancora lontana
dal raggiungere tali obiettivi, non solo a causa di certe politiche
comunitarie, ma soprattutto per colpa delle scelte miopi dei governi di Roma e
di Palermo nei quali, peraltro, è stato, quasi sempre, presente il partito dell'on.
La Malfa.
L'ultimo, indecoroso esempio di tale miopia è la
dispersione clientelare dei fondi di Agenda 2000.
L'idea, che da decenni andiamo coltivando, è
quella di una Sicilia proiettata in senso bi-direzionale: verso l'Europa
comunitaria e verso l'area mediterranea, della quale siamo il luogo
baricentrico.
Non sfuggirà all'on. La Malfa che, nel 1995 a Barcellona, l'Unione
europea ha compiuto una vera è propria svolta nella sua politica mediterranea,
sottoscrivendo con i Paesi rivie-raschi, quasi tutti arabi e di tradizione
islamica, gli accordi cosiddetti "euro-mediterranei" che dovrebbero
favorire la creazione, entro il 2010 (cioè fra sei anni), della più grande zona
di libero scambio mondiale.
Eppure, secondo il candidato repubblicano, la Sicilia dovreb-be voltare
le spalle a questo grandioso progetto politico, eco-nomico, commerciale,
culturale e sociale, a forte valenza geostrategica e pacifica, che si sta
sviluppando tutt'intorno.
La pace condizione dello
sviluppo e della cooperazione
Aggiungo, per i tanti guerrafondai (che amano
rischiare la vita... degli altri), che se non si dovesse stabilizzare il fianco
di sud-est dell'UE, attraverso una vera politica di cooperazio-ne
intra-mediterranea reciprocamente vantaggiosa, l'Europa entrerà in forte
fibrillazione e la Sicilia,
come altre regioni
sud-europee, sarà ulteriormente emarginata dai
processi di sviluppo e dai mercati.
Rischiando di essere coinvolte nel ciclone delle
pericolose tensioni provocate dal sanguinoso e non sanato conflitto mediorientale
e dai conseguenti movimenti radicali politico-religiosi, islamici e no.
D'altra parte, non è esatto affermare che i
paesi mediterranei non costituiscono, già oggi e da molto tempo, un
interessante mercato di sbocco per le produzioni europee e italiane.
Purtroppo, molto meno per quelle siciliane.
Non perché contro di queste ultime ci sia una
qualche forma di ostracismo, ma semplicemente per il fatto che la Sicilia produce poco in
rapporto al mercato globale e ancor meno per quello mediterraneo.
Alla Sicilia l’import
petrolifero al centro-nord l’export
La nostra regione, infatti, subisce una pesante
contraddizione: quella di essere una fra le principali regioni importatrici
(soprattutto d'idrocarburi e derivati) dai paesi mediterranei e arabi e una
delle meno importanti esportatrici verso gli stessi paesi.
Al
contrario, le regioni italiane del centro-nord monopolizza-no, quasi per
intero, i flussi di beni e servizi verso quei paesi.
In tutto ciò pesano i ritardi e gli errori dei
governanti siciliani, ma ancor di più le responsabilità dei governi e delle
classi dominanti nazionali che hanno considerato la Sicilia come una sorta di
colonia sulla quale concentrare la gran parte delle importazioni e delle
lavorazioni petrolifere (con gravissime conseguenze inquinanti).
Mentre le esportazioni sono appannaggio delle
regioni del centro-nord, da dove partono le quote più rilevanti di quel 12%
dell'export italiano verso il mondo arabo. Circa il doppio della quota export
diretta verso gli USA.
Come si vede, i commerci fra l'Italia e i paesi
mediterranei già sono fiorenti e tenderanno a incrementarsi nella futura zona
di libero scambio che- ripeto- dovrebbe entrare in vigore fra 6 anni, non fra
un secolo.
Il
vero male che attanaglia la
Sicilia non viene dal contesto euro-mediterraneo, ma
innanzitutto dal suo interno, dalla mala politica e dalla inanità dei governi
che poco o nulla fan-no per promuovere un modello di sviluppo produttivo, mo-derno
e compatibile con le sue specificità, in grado di esaltare le risorse locali e
la sua vocazione europea e mediterranea.
(in "la Repubblica" del 25
maggio 2004)
L’ISOLA AL
CENTRO DI UN SISTEMA
AGROALIMENTARE
MEDITERRAMEO *
Una seria riflessione sulle prospettive
dell'agricoltura e dell'agro-alimentare siciliani e meridionale, non può
prescin-dere dalle diverse questioni indicate dalla relazione di Italo Tripi e
in particolare da una valutazione di merito delle due principali scelte geo-politiche
compiute, negli ultimi anni, dall'Unione Europea:
a) il Trattato di Barcellona per il partenariato
euro-mediterraneo sottoscritto, nel 1995, fra i quindici Paesi dell'U.E. e dodici
Paesi terzi mediterranei;
b) la recente decisione dell'allargamento
dell'Unione ad altri dieci Paesi dell'Europa centro-orientale, assunta nel
vertice di Copenaghen del dicembre 2002.
Col primo accordo è stato avviato un impegnativo
processo di partenariato globale, una forma più evoluta di cooperazione, fra i
15 paesi dell'Unione europea e i 12 PTM che si affac-ciano sulle rive sud ed est
del Mediterraneo: dal Marocco alla Turchia. (saltando per il momento la Libia) che, entro il 2010,
dovrebbe sfociare nella creazione di una Zona di Libero Scambio (ZLS).
Tuttavia, per evitare tensioni paralizzanti fra
le due parti contraenti, in questa prima fase sono state "accantonate"
talune questioni piuttosto spinose, quali la libera circolazione delle persone e
dei prodotti agricoli, che dovranno essere affrontati, in armonia con lo
spirito liberista del Trattato e sulla base del principio della reciprocità.
Produzioni
e mercati dell’ agroalimentare
Per la gran parte dei Paesi mediterranei
(soprattutto quelli non produttori d'idrocarburi) l'esportazione delle loro
produzioni agricole sui mercati europei è di vitale impor-tanza, poiché questi
prodotti costituiscono la principale risorsa esportabile, per tentare di controbilanciare
le massicce e variegate importazioni di beni e servizi provenienti dai paesi
dell'Unione.
Perciò, se si vuole dare corso agli accordi
bilaterali già sottoscritti in vista della creazione della Zona di libero
scambio, l'Europa non può continuare ad arroccarsi su una politica di
limitazione delle esportazioni agricole dei PTM, ma dovrà consentirne il libero
accesso sul mercato europeo, come già oggi chiedono i paesi partner.
Dall'altro lato, l'ingresso nell'Unione
Europea, dal 2004, dei 10 Paesi
dell'Europa centro-orientale (Polonia, Rep. Ceca, Ungheria, Slovenia, Rep.
Slovacca, Estonia, Lituania, Let-tonia, Cipro e Malta) aprirà le porte del
mercato alimentare europeo a nuovi, consistenti volumi di produzioni agricole,
anche qualificate, realizzate in questi paesi a costi più compe-titivi rispetto
a quelli medi italiani.
Queste due realtà, avviate su differenti
percorsi sulla via dell'integrazione nella UE, così diverse per esperienza
storica e politica, per il loro profilo sociale e culturale, hanno in comune alcuni
aspetti socio-economici basilari: un PIL fortemente caratterizzato dalla
componente agricola, un reddito
procapite generalmente basso e salari molto inferiori agli standard europei e meridionali.
Caratteristiche che confermano la previsione di
una consi-stente crescita dell'offerta di prodotti agroalimentare, a basso
costo di produzione, sul mercato alimentare europeo che po-trà squilibrare il sistema
generale dei prezzi e attivare mecca-nismi di concorrenza oltremodo spinta.
Per dare un'idea dell'incidenza che tale offerta
potrà determinare sul mercato europeo, riporto, di seguito, i dati relativi ad
alcune produzioni dei Paesi candidati i quali, in rapporto alla produzione complessiva
dell'Unione Europea, realizzano, fra l'altro: il 25% della produzione
cerealicola; l'85% della produzione di patate; il 20% della produzione di
zucchero; il 50% della produzione di mele; il 13% della produzione di pomodoro
e il 50% della produzione di carote.
(Fonte:
Eurostat- Yearbook- Edition 2001)
Sicilia
fra inquietudini e speranze
Per queste e altre ragioni, l'allargamento a est
e il partenariato a sud cominciano a suscitare, in Sicilia e altrove,
inquietudini e legittimi interrogativi circa il futuro d’ importanti comparti produttivi
tradizionali e no.
Tuttavia, i problemi non si possono risolvere
pensando a un impossibile ritorno all'indietro, ma affrontandoli nella loro
effettiva realtà, introducendo idonei correttivi e più efficaci misure di
compensazione.
Poiché non si può mettere in discussione la
scelta di fondo, adottata dai vertici dell'Unione, finalizzata a realizzare,
dopo la moneta unica, l'unione effettiva e democratica dell'Europa
(dall'Atlantico verso gli Urali, dal Mediterraneo al Circolo polare artico),
quale garanzia di pace e di prosperità dei popoli.
Per creare una nuova, forte entità politica ed
economica che si candida a divenire co-protagonista dello sviluppo del pianeta
in questo nuovo secolo, dominato dalla globalizza-zione dell'economia
all'insegna di un liberismo selvaggio e, talvolta, avventuriero.
In tale contesto, in evoluzione, la Sicilia, regione di frontiera
a duplice vocazione mediterranea ed europea, si mostra più sensibile ai
contraccolpi determinati dal processo di costruzione unitaria dell'Europa.
Appare, perciò, necessaria una riflessione
specifica, che coin-volga altre regioni meridionali e mediterranee per intra-prendere
tutte le azioni politiche e sociali onde evitare il ris-chio di un oggettivo svigorimento
della politica mediterranea dell'Unione.
Per fare in modo che l'allargamento a est non si
realizzi a scapito della prospettiva del partenariato euro-mediterraneo.
I rischi
d’indebolimento del partenariato euro-mediterraneo
In questo senso, qualche problema comincia ad
affiorare.
Nella lista dei nuovi stati aderenti figurano
tre Paesi mediterranei (Slovenia, Cipro e Malta, gli ultimi due facenti parte
degli accordi di Barcellona).
L'ingresso di questi tre Paesi se da un lato
rafforzerà la carat-teristica mediterranea dell'Unione, dall'altro lato
potrebbe indebolire l'impianto politico e multiculturale dell'ambizioso
progetto del partenariato euro-mediterraneo.
Poiché il passaggio di Malta e Cipro da membri
di Euromed a membri dell'Unione, oltre a ridurre il numero dei partners
mediterranei (da 12 a
10), impoverirà il contesto politico e culturale di riferimento che sarà
polarizzato intorno a due sole componenti fra loro contrastanti:
l'arabo-islamica e l'ebraica.
Perdurando il gravissimo stato di tensione fra
palestinesi e israeliani, (per non dire delle imprevedibili conseguenze che
potranno derivare da una disastrosa guerra "occidentale" contro
l'Iraq) sarà sempre più problematico continuare a vedere i rappresentanti del
governo
israeliano (isolato) a fianco di quelli dei nove
Paesi arabo-islamici, nel ruolo di parte contraente dell'Unione nel
partenariato euro-mediterraneo.
Sotto questo profilo, la situazione potrebbe
peggiorare a seguito del probabile ingresso della Turchia nella UE. Infatti,
l'uscita di questo importante Paese dagli accordi di Barcellona sarebbe un
durissimo colpo all'intero sistema del partenariato euro-mediterraneo, tale da
mettere in discussione perfino la fattibilità della zona di libero scambio.
Francamente, non si capirebbero il senso e
l'utilità di una zona di libero scambio costituita fra circa 30 Paesi della
futura Unione Europea, di gran lunga la prima potenza economica del pianeta, e
un gruppo ristretto di Paesi poveri del Mediterraneo.
All'interno di questa "zona" lo scambio
potrà essere "libero", ma sarà certamente ineguale e quindi andranno
ad accentuarsi le contraddizioni esistenti e a prodursi nuovi, abissali divari
di reddito e di servizi fra l'UE e i residui paesi terzi mediterranei.
In sostanza, il rischio che si comincia ad
avvertire nei paesi delle rive sud ed est del Mediterraneo, è quello di uno
sposta-mento del baricentro dell'interesse economico e dell'impegno finanziario
europei verso i Paesi di nuova adesione, a scapito di quelli dell'area
mediterranea.
Riva sud: crescita
demografica e nuove migrazioni
Dobbiamo avere piena coscienza che il fallimento
della prospettiva d'integrazione euro-mediterranea getterebbe questi Paesi
(quasi tutti retti da regimi politici illiberali) in una condizione di grave instabilità
politica e di estrema precarietà sociale ed economica, e li
spingerebbe nel vortice dell'integralismo
politico-religioso, divenendo facile preda dei movimenti dell'islamismo
politico più radicale.
Sarebbe questa una prospettiva drammatica,
rovinosa non solo per questi popoli e paesi, ma per l'intero bacino
mediterraneo e per l'Europa che, per crescere e affermare il suo ruolo nel
mondo, non può permettere una frattura così traumatica e destabilizzante ai
suoi confini.
Oggi più che mai, la convivenza pacifica tra
tutti i popoli del mediterraneo è la condizione primaria per lo sviluppo
economico e democratico di questo bacino, all'interno del quale si agitano
problemi e squilibri di vario tipo.
Fra i quali non sono da sottovalutare quelli che
potrebbero derivare dalla crescita demografica che da qui al 2025, secondo le
proiezioni delle Nazioni Unite, porterebbero la popolazione globale dei PTM
dagli attuali 229 milioni a 331 milioni di abitanti.
Più di 100 milioni di unità, in gran parte
giovani sotto i 25 anni, che, non trovando un inserimento nel mercato del
lavoro locale, saranno spinti ad emigrare, a qualsiasi costo, verso l'Italia e
verso altri paesi europei.
Un'incidenza davvero "destabilizzante"
in rapporto alla crescita prevista nei 5 paesi rivieraschi dell'Europa del sud
nei quali, nello stesso periodo, la popolazione si accrescerà di soli 4 milioni
di unità, passando dagli attuali 176
a 180 milioni di abitanti.
Cooperazione triangolare
agroalimentare
Perciò, dopo Copenaghen, è necessario rilanciare
il sistema di relazioni euro-mediterranee, verificare l'efficacia delle
procedure per spendere bene quei 13 miliardi di euro, messi a disposizione
dall'Unione col programma "Meda 2" per il pe-riodo 2000-2006, per
favorire lo sviluppo socio-economico, democratico e culturale dei PTM e la
realizzazione dei pro-getti di armonizzazione con gli obiettivi indicati nei
trattati.
Per altro, c'è da segnalare che a tale, enorme
mole di finan-ziamenti possono accedere anche enti pubblici e soprattutto
imprese private dei Paesi europei che desiderano attuare ini-ziative
economiche, culturali e sociali in compartecipazione con soggetti dei PTM.
Il ricorso a "Meda 2" può diventare
una via praticabile per mettere in atto iniziative di cooperazione anche nel
settore agroalimentare, soprattutto nel campo della manifattura e della
commercializzazione dei prodotti agricoli.
A titolo d'esempio, desidero qui ricordare
un'ipotesi messa allo studio dal nostro ministero dell'Agricoltura tempo addie-tro
e relativa ad un progetto di cooperazione "triangolare" in questo
settore fra Sicilia, Ungheria (importante produttore agricolo) ed alcuni paesi
mediterranei mirata a fornire gli interessanti mercati del Medio Oriente e
della regione del Golfo.
Mi domando: è possibile oggi, alla luce della
decisione di allargamento, esplorare nuove vie di cooperazione, di parte-nariato
in questo come in altri settori, fra le regioni mediter-ranee e i paesi che entreranno
nella UE?
Una divisione
internazionale delle produzioni agricole
Così come c'è da chiedersi perché la Regione, che tante
competenze si è vista attribuire in questi campi, non si è attivata
adeguatamente per usufruire, d'intesa con altre, dei fondi stanziati col
secondo programma Meda?
Purtroppo, i dati indicano il permanere di un
imperdonabile ritardo nella capacità di spesa dei vari paesi che nel caso di
Meda1 non ha superato complessivamente il 40% delle somme stanziate.
Insomma, anche nella gestione della politica del
partenariato euromed sta prendendo piede la triste piaga dei "residui
passivi" che- com'è noto- i meccanismi comunitari riescono a recuperare,
magari dirottandoli verso altre destinazioni.
Alla luce di queste difficoltà- e mi avvio alla
conclusione- l'inevitabile conseguenza appare essere quella di una concorrenza estrema,
reciprocamente dannosa, fra produzioni agricole dei PTM e delle regioni
rivierasche dei Paesi del sud-Europa; la tanto temuta "guerra tra
poveri".
La sfida che invece bisognerebbe lanciare, dalla
Sicilia, da Palermo, è quella di elaborare un'ipotesi concertata di
partenariato nel settore agricolo mediterraneo, mediante un coordinamento in
ambito Euromed per giungere a una sorta di nuova divisione internazionale delle
produzioni e delle specializzazioni per evitare esuberi e inutili duplicazioni.
Un sistema
agroalimentare mediterraneo
L'idea dovrebbe essere quella di creare un vero
e proprio sistema agroalimentare da proporre come punto di riferimento per
l'intero bacino mediterraneo ed anche, perché no, per quei tanti paesi
dell'Africa sahariana e subsahariana letteralmente devastati dalla fame e dalla
siccità, ai quali bisogna guardare con una più generosa solidarietà.
In tale contesto, la Sicilia e il mezzogiorno
dovrebbero puntare a diversificare e a qualificare la loro produzione agricola per
meglio rispondere alla domanda sempre più esigente proveniente dai mercati locale,
europeo e mondiale; senza trascurare la capacità di assorbimento del turismo,
un settore economico di fondamentale importanza e di grande prospettiva per
tutti i paesi del bacino mediterraneo.
La crisi che la Sicilia, ma anche
l'Italia, stanno vivendo come inizio di un preoccupante declino non è dovuta
solo all'inade-guatezza delle classi dirigenti, ma soprattutto alla mancanza
d'idee valide, dell'incapacità di progettare il futuro dentro i nuovi, vasti
orizzonti della globalizzazione, dell'innovazione scientifica e tecnologica,
del gigantesco sforzo di riassetto dei poteri nel mondo.
Abbiamo bisogno d'idee nuove, forti e
mobilitanti, per uscire dal torpore fetido di una gestione asfissiante del
quotidiano che rischia di relegare la Sicilia in una condizione di estrema marginalità,
dominata da un "rinnovato" sistema di potere politico e mafioso.
Per tornare ai tempi specifici del convegno, si
è detto- giustamente- delle grandi potenzialità del "biologico",
della notevole diffusione della dieta mediterranea in ogni angolo del pianeta e
quindi della capacità di penetrazione dei nostri prodotti su tutti i mercati
mondiali (clamorosi sono i dati relativi ai vini siciliani), desidero
concludere con una breve considerazione relativa alle opportunità offerte dal
settore turistico.
Agroalimentare
e turismo
La Sicilia è al centro del Mediterraneo ovvero del
più grande bacino turistico del pianeta dove, ogni anno, oltre al turismo interno
ai singoli paesi (che non si riesce a stimare con precisione) arrivano circa
180 milioni di turisti internazionali, appartenenti ad una fascia di reddito
medio-alta, in gran parte europei e di altri paesi OCSE.
Una massa enorme di persone, le quali oltre al
mare e al sole, alle bellezze archeologiche e paesaggistiche, sono alla ricerca
di una gastronomia tipicizzata e di qualità.
In Italia, nel 2001, il movimento turistico
interno e interna-zionale ha raggiunto la ragguardevole cifra di circa 80 milioni
di arrivi, dei quali soltanto 4 milioni in Sicilia.
Questi dati, seppure molto schematici,
confermano la vitalità del comparto turistico nazionale (uno fra i più
importanti al mondo) come campo privilegiato di sbocco dell'offerta
agroalimentare e rilevano le enormi difficoltà presenti in Sicilia che certo
non può continuare a sottoutilizzare una risorsa primaria e socialmente
proficua come il turismo abbinato al mare e alla terra.
Naturalmente, per raggiungere questo obiettivo è
necessario un concorso di sforzi e di azioni combinate, mirate all'espan-sione
programmata e compatibile con l'ambiente, alla quali-ficazione delle produzioni
agricole mediterranee,.
Capaci cioè di garantire sicurezza e qualità ai
consumatori, e quindi di produrre un innalzamento del valore aggiunto, a
garanzia dell'occupazione e dei redditi dei lavoratori e dei produttori.
Non ho una ricetta da proporre, tuttavia sappiamo
che è necessario, soprattutto in Sicilia, rimodulare lo sviluppo
dell'agricoltura alla luce delle innovazioni e dei grandi mutamenti cui abbiamo
accennato, sulla base di uno sforzo finanziario ed organizzativo coordinato.
Cominciando ad affrontare sul serio- e non come
un'eterna e clientelare emergenza- il suo problema principale: quello
dell'acqua e dei sistemi d'irrigazione.
Anche in questo campo, la ricerca delle
soluzioni deve tener conto della dimensione mediterranea, poiché la mancanza
d'acqua è comune a tutti i Paesi mediterranei i quali costitui-scono un insieme
solidale, visto che gli eventi si originano dagli stessi fenomeni.
* Relazione al convegno "Orizzonti
mediterranei" della FLAI-CGIL, Palermo 21 gennaio 2003.
MEDITERRANEO,
LA CENTRALITA’ RITROVATA
Punto di
congiunzione di tre continenti:
Asia,
Africa, Europa
Passata la sbornia delle candidature, si attendono
i prog-rammi. Sperando che qualche clone siculo non imiti il gesto, terribile e
inquietante, del signor Berlusconi.
Programmi seri, fattibili, non slogan
propagandistici e nem-meno l'elencazione oziosa, scopiazzata delle tantissime
cose da fare.
Servirebbero, cioè, quattro cinque idee forti,
selettive capaci di delineare un processo virtuoso che proietti la Sicilia in senso
bi-direzionale: verso l'Europa e il Mediterraneo.
Misure incisive per liberare, gradatamente, la Regione di tutta la
zavorra accumulata e affidarle un ruolo dinamico, in sinto-nia con talune
tendenze che vedono il Mediterraneo, final-mente, divenire punto di
congiunzione attiva di tre continenti: Asia, Africa ed Europa.
Nel
bene e nel male, il Mediterraneo sta recuperando la cen-tralità perduta a
seguito della scoperta dell'America.
Anzi,
oggi, la sua importanza si è accresciuta giacché allora non c'erano il canale
di Suez e le attuali immense risorse da trasportare e scambiare da e verso
l'Asia.
A me- che da decenni vado prefigurando questo
tipo di evoluzione- fa rabbia vedere la Sicilia,
che del Mediterraneo è luogo baricentrico, impreparata, inerte davanti ai nuovi
scenari, alle grandi opportunità che si profilano:
dalla zona di libero scambio euromediterranea
alle nuove relazioni econo-miche fra Europa e Asia, alla gran massa di
petrodollari dei paesi del Golfo che si orientano verso il Mediterraneo e
l'Africa del nord.
Insomma, mentre intorno all'Isola tutto è in
movimento, il ceto dominante locale è rimasto fermo a implorare un posto fra le
regioni dell'obiettivo 1, cioè fra i poveracci dell'U.E.
Ancora nel segno del clientelismo sprecone che
ha divorato una caterva di miliardi di fondi comunitari, spesi in mille rivoli
o non spesi affatto, cui seguirà un'altra più appetitosa, a copertura del
periodo 2007-13.
Il tempo della nuova legislatura.
Non a caso, il centro-destra siciliano (in difformità
dello schema nazionale) si è accordato per spartirsi la colossale torta, alla
quale spera di aggiungere i fondi Fas e i miliardi del ponte sullo stretto.
Investimenti
e crescita sostenibile del turismo
Per il Mediterraneo invece solo parole e nessuna
idea seria, lungimirante.
A cominciare dal settore del turismo, in forte
espansione in tutto il bacino, tranne che in Sicilia dove gli investimenti
privati arrivano col contagocce e quando qualcosa arriva è costretta a
dimenarsi fra mille difficoltà. Come nel caso del resort di lusso che sta
sorgendo fra Sciacca e Ribera per iniziativa della "Rocco Forte" la
quale minaccia di mollare tutto a causa dell'ennesima interruzione dei lavori.
Stiamo parlando di un investimento di oltre 120
milioni (in parte sovvenzionato dallo Stato) che tante speranze ha suscitato
nella zona.
Eppure, nei confronti di questa iniziativa si
sono abbattute diverse inchieste della magistratura sollecitata da una ventina
di esposti presentati da varie associazioni ambientaliste. L'ultima per la
realizzazione abusiva di un paio delle 18 buche del campo di golf.
Certo la legge è legge, anche quando equipara
una buca da golf ad un edificio.
Così, per far realizzare le due buche a sir
Rocco Forte biso-gna modificare la vecchia legge che l'Ars, in tutt'altre fac-cende
affaccendata, non ha modificato prima di sciogliersi.
Con ciò- sia chiaro- non si vuol secondare il
suo mancato rispetto, ma semplicemente auspicare una razionalità,
un'intelligenza della legge che deve garantire l'equilibrio fra giusta tutela
dei luoghi e crescita sostenibile del turismo e di altre attività.
Un percorso certo non facile. Qui sta il senso
delle nuove sfide per una regione davvero riformata. La politica, le forze
sociali, le stesse associazioni ambientaliste dovrebbero di più, e in linea
preventiva, farsi carico di tali problemi, anche per evitare che, in casi come
questo, si possa pensare a una sorta di "accanimento ambientalista".
Il gran
flusso di petrodollari verso la
Tunisia
Tutto ciò accade a Sciacca per un resort di 120
milioni di euro. Vediamo ora cosa succede a poco più di 200 km, sulla riva opposta,
in Tunisia, dove sono in arrivo investimenti per decine di miliardi di dollari.
La gran parte provengono dai paesi del Golfo che non sanno più dove allocare il
surplus monetario derivato dai vertiginosi aumenti dei prezzi del petrolio.
Rilevante è il caso degli Emirati arabi che
hanno deciso di puntare sulla Tunisia e su altri paesi nordafricani, nostri
dirimpettai.
Negli stessi giorni in cui a Sciacca la gente
scendeva in piaz-za per tentare di trattenere la Rocco Forte, a Tunisi
si sotto-scrivevano le intese governative per un nutrito pacchetto di progetti
proposti da diverse società degli Emirati.
Alcuni davvero eclatanti:
- "Al
Maabar international Investments", prevede d'investire di 10 miliardi
di dollari (mld$) per realizzare il suo più grande progetto immobiliare sul
continente africano;
- "Sama
Dubai" ne investirà 14 per realizzare, sul lago sud di Tunisi,
l'avveniristico progetto della "Città
del secolo";
- "Emiratie
Emaar" ha stanziato 1,8 mld$ per costruire, sempre ai bordi del lago
di Tunisi, il "Marina Al Qoussour"
ossia 4000 siti residenziali, sei grandi alberghi a mare, un porticciolo
turistico con 315 posti-barca, diversi centri sportivi e club
d'intrattenimento;
- il gruppo "Boukther" investirà 5 mld$ per la creazione della nuova città
dello sport nel parte nord del lago di Tunisi.
In totale 31 miliardi di petrodollari sonanti
che produrranno redditi e centinaia di migliaia di posti di lavoro. Una
presenza, forse, troppo invasiva che abbiamo richiamato non per proporla come
modello, ma per dare un'idea della dimensione dei flussi finanziari e dei
progetti con i quali si dovrà confrontare la Sicilia.
(in “La Repubblica”26/3/2008)
DA SIGONELLA LA
GUERRA AL TERRORISMO?
Ci risiamo! Invece di smantellarla, si vorrebbe
trasformare la base italiana di Sigonella in una postazione avanzata delle
forze armate Usa nella guerra al terrorismo internazionale.
Questo è il succo di una recente intervista che
il gen. James Jones, comandante in capo delle forze armate Usa e alleate in
Europa, ha concesso alla rivista militare "Stars and Stripes".
L'alto ufficiale quantomeno non esclude tale
eventualità nel quadro di una prevedibile (se non programmata) guerra
antiterroristica a vasto raggio che dall'Est europeo si potrà estendere
all'Africa, passando per il Medio Oriente e per il Caucaso.
Si vorrebbe caricare la Sicilia, già
abbondantemente milita-rizzata, di nuove micidiali strutture per avventure
decise, al di fuori dell'Onu e della Nato, da un governo che ha fatto della
guerra preventiva (contro chi sul momento più gli aggrada) il suo pericoloso
emblema.
Una prospettiva
allarmante
Una prospettiva a dir poco allarmante che
farebbe della provincia di Catania il centro di una strategia straniera contro
un terrorismo di difficile identificazione e dotato di un'alta potenzialità
devastatrice, che punterebbe il suo terrificante armamentario (autobombe,
kamikaze e perfino - si teme - ordigni nucleari e batteriologici) contro i
luoghi che ospitano le postazioni da cui si dipartono le operazioni miranti al
suo annientamento.
Attacco e rappresaglia, anche indiscriminata,
secondo la logica bestiale della guerra, come vediamo tutti i giorni a Bagdhad,
in Afghanistan, in Cecenia, nei Territori occupati, ecc.
Insomma, un frutto amaro piantato nel cuore
della lussureg-giante piana di Catania, la zona più promettente dello svilup-po
isolano che ha tutte le carte in regola per rilanciare i settori portanti della
sua economia: l'industria informatica, il turi-smo, l'agricoltura, i servizi
all'impresa, i sistemi di trasporti.
La Sicilia, che si liberò per il rotto della cuffia
dei 120 micidiali missili nucleari di Comiso, oggi rischia di essere gravata di
una postazione così pericolosa.
Ieri i
missili a Comiso oggi la base antiterrorismo a Sigonella
Certo, prima di gridare allo scandalo è doveroso
procedere alle necessarie verifiche, tuttavia non si può sottovalutare la
portata di una notizia così "esplosiva" e gravida di dannose
conseguenze.
Tuttavia, meglio mettere le mani avanti, anche
perché non sarebbe questa la prima volta che in Sicilia le voci e le ipotesi
giornalistiche si trasformano in realtà drammatiche.
Ricordo che quando (3 febbraio 1981) presentai
la prima (in assoluto) interrogazione al ministro della Difesa circa la
ventilata ipotesi d'installare i missili nucleari a Comiso molti, anche nel mio
gruppo, non vollero dare peso alla questione.
In pieno agosto, col Parlamento e con gli
italiani in ferie, il governo Spadolini confermò quelle “voci” e ci fece la “bella
sorpresa” di scegliere Comiso.
Tornando a Sigonella, c'è da dire che l'ipotesi
non è tanto peregrina giacché - ammette il generale Jones nella citata
intervista - "stiamo cercando una
postazione a sud delle Alpi che si possa rivelare il luogo migliore per
concentrare le nostre operazioni speciali antiterrorismo e per agevolare le
operazioni nell'area del Mediterraneo e in Medio Oriente".
Il campo di tale ricerca si riduce a due basi:
Rota in Spagna e, appunto, Sigonella. Anche se l'allarme è stato lanciato per
primo dal quotidiano spagnolo "El Pais", è da ritenere impro-babile
che la scelta possa cadere su Rota.
Sia in considerazione dell'indirizzo politico
del governo Zapatero sia per ragioni logistiche che, oggettivamente, propendono
per Sigonella, ovvero per la più grande base attrezzata nel Mediterraneo per il
cui potenziamento gli Usa hanno stanziato 670 milioni di dollari.
E poi "a
sud delle Alpi" non c'è Rota ma Sigonella.
Il
ministro signorsì
Una prospettiva a dir poco inquietante contro la
quale hanno assunto posizione vari esponenti dei partiti del centro sinistra,
mentre tace la CdL,
compreso lo squadrone dei 61 eletti in Sicilia.
A rilevarne i rischi, in primo luogo, per la Sicilia è stato il
senatore DS Costantino Garraffa che, unitamente ad altri col-leghi di gruppo
(Montalbano, Battaglia, Lauria, Rotondo e Montagnino), hanno prontamente
interrogato il ministro della Difesa, on. Martino, per sapere cosa intende fare
per accer-tare "i veri intendimenti
dell'amministrazione Usa e quali procedure verranno inoltrate alla luce di
quanto stabilito dal Memorandum of understanding".
Per tutta risposta, Martino, da buon siciliano,
invece di precipitarsi in Parlamento per rispondere alle interrogazioni, ha
rilasciato una dichiarazione (all'Ansa) con la quale, pur riservandosi una
valutazione nelle sedi istituzionali, avalla l'ipotesi formulata dal gen.
Jones, ritenendola "un'idea valida... non solo per l'importanza del
tipo di struttura che si verrebbe a creare, ma anche perché sarebbero creati
nuovi posti di lavoro in Sicilia".
Ancora fumo negli occhi per i disoccupati,
giacché si sa che a Sigonella verrebbe a operare, magari trasferito da altre
basi, soltanto personale militare americano dei corpi speciali e dei servizi. E
poi, anche se si dovesse creare qualche posto di scopino non lo potremo
barattare con la nostra relativa tranquillità e sicurezza e - se il signor
ministro permette – con la nostra dignità di siciliani che non sono disposti ad
accettare un lavoro macchiato dal sangue della guerra.
Per altro, ne sarebbe stravolta la prospettiva
generale dell'Iso-la che - come rileva Garraffa - si fonda sul rifiuto della
guerra e su un ruolo di pace nel contesto del partenariato euro mediterraneo
che, nel 2010, dovrebbe dar vita alla più grande zona di libero scambio del
pianeta.
(in "la Repubblica" del 8
maggio 2005)
BASI
MILITARI:
PATTI
SEGRETI E FINTI BISTICCI
La polemica infuria e la protesta popolare monta
intorno al via libera dato da Prodi all’enorme ampliamento della base militare
Usa di Vicenza, pattuito e autorizzato dal precedente governo Berlusconi.
In questo tourbillon di posizioni confuse e di
legittime prote-ste c’è qualcosa di non detto, una sorta d’ipocrisia che certo
non aiuta a fugare le giuste preoccupazioni dei vicentini, anzi le aggrava.
Sullo sfondo, oscuro, di questa vicenda si
agitano aspetti delicati riguardanti la sicurezza e la sovranità dell’Italia
che, per altro, potrebbero mettere a dura prova la coesione dell’attuale
maggioranza, offrendo spunto a Berlusconi e soci di tentare un’insidiosa
manovra per debilitare e dividere il centro-sinistra.
Una trappola in cui non si dovrebbe cadere,
senza per questo rinunciare ai chiarimenti necessari e a esperire tutti i tentativi
possibili per concordare con l’amministrazione statunitense eventuali modifiche
alle intese precedenti.
Uscendo dalle logiche del fatto compiuto e dei
diktat, inammissibili fra paesi sovrani e alleati.
Sopra di tutto aleggia un interrogativo che in
questo acceso dibattito nessuno ha posto: Prodi poteva negare agli Usa il via
libera?
Certo, egli avrebbe potuto agire diversamente,
più collegial-mente e tenendo in maggior conto la volontà delle popola-zioni
locali, ma- credo- che, per il tipo di accordi bilaterali vigenti fra Italia e
Usa, in gran parte segreti, non avrebbe potuto decidere diversamente.
E non si tratta di filo o di anti americanismo.
Queste sono sciocchezze cui ricorrono coloro che sono stati colti con le mani
nel sacco. Si tratta di ben altro che richiama la natura segreta e vincolante
del sistema di accordi bilaterali fra Italia e Usa a proposito di basi e
servitù militari.
Prodi non
può bloccare un accordo firmato dal
governo Berlusconi
Per Prodi questo passaggio è stato sicuramente
drammatico, anche se poteva risparmiarci l’infelice boutade della “questione
urbanistica”.
Ai piani alti del governo, delle istituzioni e
della politica si sa che così non è...
Bisognava parlare chiaro e investire la
responsabilità del Parlamento per cancellare, finalmente, il "buco
nero" della riservatezza che inghiotte quasi tutti i patti di questo tipo.
Il no italiano poteva essere espresso (e non lo
fu) solo in sede di negoziazione della richiesta d’ampliamento avanzata dagli
Usa.
In quella sede, il governo Berlusconi ha
acconsentito e
sottoscritto il relativo patto, con tutti i
vincoli derivanti.
Perciò, nessuno crede che tali patti non
esistano o siano sconosciuti ai responsabili.
Due sono i casi: o si è trattato di una graziosa
concessione, sulla parola, del governo Berlusconi o di un patto soscritto (dai
due governi) e classificato segreto.
Nel primo caso l’accordo non avrebbe alcuna
legittimità e validità, nel secondo caso il governo in carica avrebbe dovuto
conoscerlo.
Spiace che non siano stati informati, nelle
forme dovute, Parlamento e cittadini.
Data la natura vincolistica degli accordi
bilaterali esistenti fra Italia e Usa (che più avanti vedremo) a Prodi non
restavano molte carte da giocare.
Forse si poteva (si potrebbe ancora?) trattare
una diversa ubicazione.
Il “buco nero” dei
segreti e delle complicità
La nuda verità è che tuttora non si conoscono
gli oneri e i vincoli contratti con tale patto e quindi non si sa quale impatto
avrà sulla città di Vicenza in termini di vivibilità e di sicurezza e, in
generale, sul Paese visto che comporta
una certa cessione di sovranità, al di fuori del quadro Nato, in favore di uno
Stato estero seppure alleato.
Per questo, la gente vuol capire e soprattutto
vedere le carte e, se possibile, evitare questo nuovo fardello all’Italia che
già ospita un numero eccessivo di basi militari straniere (Nato e non solo) che
la espone a pesanti condizionamenti e a pericolose responsabilità.
D’altra parte, non è questa la prima volta che
si verifica una situazione così imbarazzante.
Visti i precedenti, relativi ad altre basi Usa
installate in Italia, c’è da ritenere che l’ampliamento di Vicenza sia stato
pattuito in virtù dell'accordo generale bilaterale, stipulato il 20 ottobre
1954, il cui contenuto rimane "riservato", che disciplina la
concessione e l'uso di basi militari a favore degli Usa.
L’inghippo nasce dal fatto che fra segreti
militari e misteri politici questo tipo di accordi finiscono per essere
inghiottiti dal “buco nero” della riservatezza, creatosi a partire dagli anni
’50, che non consente di vederci chiaro nemmeno ai parlamentari e alla gran
parte dei ministri.
Tale accordo è un testo di esecuzione del
trattato militare bilaterale del 1952 "sulla
mutua sicurezza tra Usa e Italia"
che, nella fattispecie, non può essere considerato come accordo di esecuzione
del Trattato Nato. Con l'aggravante che non è stato mai portato in Parlamento
per la ratifica.
Tutto in segreto, dunque. In Italia. Mentre i
Parlamenti di altri Paesi che ospitano basi Usa, quali Spagna, Portogallo,
Grecia e perfino Turchia, hanno sempre deliberato sul delicato argomento.
Evidentemente, il Parlamento italiano è da meno.
L’Urss è
crollata, ma in Italia la “guerra fredda” continua
Questo è il punto politico da cui partire per evitare
in futuro situazioni incresciose come l’attuale e per tutelare sul serio la
nostra sovranità nazionale.
A quasi 60 anni dal primo accordo bilaterale (27
ottobre 1950), non è cambiato nulla: permane il regime di segretezza a cui si è
aggiunto il vincolo della reciprocità in caso di disdetta, come ricordato
dall'ex ministro della difesa Martino, nell'audizione del 21 gennaio 2003, alle
commissioni di Senato e Camera.
Si tratta, dunque, di una vecchia storia che
affonda le radici nella “guerra fredda” e ancora condiziona la vita delle
istituzioni democratiche. Anche dopo il crollo dell'Urss e lo scioglimento del
Patto di Varsavia.
Ricordo che, a metà degli anni '80, sollevammo,
per conto del PCI, la questione in Parlamento chiedendo la declassificazio-ne
dell'accordo del 1954 e dei relativi annessi e la regolariz-zazione dell'intera
materia ai sensi dell'art.80 della Costi-tuzione che impone la ratifica
parlamentare sui trattati che comportano, in qualche modo, una cessione di
sovranità. Forse è venuto il tempo di ri-sollevarla. Questa volta, avendo al
governo una coalizione progressista, la questione potrebbe essere degnamente
risolta.
(in "Liberazione"- 27 gennaio
2007)
ESISTE ANCORA LA QUESTIONE MERIDIONALE?
Il Sud e la Sicilia verso la nuova frontiera
mediterranea *
Esiste
ancora la questione meridionale?
Non è una boutade, ma una domanda pertinente che
sollecita una verifica della realtà attuale di questa grande area poco
sviluppata che comprende 8 regioni, suddivise in 28 province, che rappresentano
il 75% delle acque territoriali, il 41% della superficie e il 35% della
popolazione italiane.
Un territorio carico di storia e di cultura, ma
segnato da acute contraddizioni sociali ed economiche che parevano insanabili
per via ordinaria.
Tanto che, agli inizi degli anni ’50, la
politica italiana decise di affidare il Sud alle cure di un ministero ad hoc
istituito e agli interventi operativi speciali della Cassa per il Mezzogiorno
(Casmez).
Da allora a oggi qualcosa è cambiato in meglio,
tuttavia la questione meridionale resta come palla al piede dell’Italia. Se non
altro perché è rimasto immutato il divario col Nord.
Recenti dati Istat ci dicono che l’apporto del
Sud alla formazione del PIL italiano è stato nel 2007 del 23,8% mentre nel 1979
era del 24,0%.
Addirittura una leggera flessione che segnala il
permanere di una difficoltà di fondo che acuisce il disagio sociale e scoraggia
gli investimenti italiani e soprattutto stranieri.
Secondo l’ultimo rapporto Svimez, nel 2006, solo
lo 0,66% degli investimenti diretti esteri è stato allocato nel Sud mentre il
99,34% si é orientato verso il centro nord.
All’interno del dato globale di segno negativo,
si registrano significativi progressi a macchia di leopardo, concentrati specie
nelle 4 regioni più piccole che stanno “fuoriuscendo” dal Mezzogiorno.
La svolta riguarda Abruzzo, Molise, Basilicata e
Sardegna che, nel 2007, hanno fatto registrare un Pil pro-capite superiore alla
media meridionale attestatasi su 17.552 euro.
I fattori di tale performance sono molteplici:
innovazione, prossimità con i mercati, efficienza delle infrastrutture e dei
servizi, ecc. Tuttavia, il fattore più influente, e unificante, sembra essere
l’assenza del predominio mafioso sui loro territori.
L’esatto contrario di quanto accade nelle
rimanenti regioni Calabria, Sicilia, Campania e Puglia, tutte al di sotto della
media del Pil, segnate da una soffocante presenza della crimi-nalità
organizzata (rispettivamente: Ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra e Sacra Corona
Unita) che condiziona l’economia, l’amministrazione e, in una certa misura, la
società civile.
Un
Mezzogiorno dentro il Mezzogiorno
Una vistosa divaricazione interna che ha creato
un mezzogiorno dentro il mezzogiorno.
In Calabria, Sicilia e Campania non c’è un vero
mercato, non c’è libera concorrenza, ma prevalgono forme di produzione e di
accumulazione pre- moderne, basate sulla violenza e sulla illegalità, che
consentono alle mafie di produrre un “fattura-to”stimato (forse per difetto) in
130 miliardi di euro, corris-pondente al 40% del Pil meridionale e al 10% di
quello italiano.
Un’incidenza davvero ragguardevole, ben oltre i
limiti fisiologici tollerabili, maggiore di quella derivata dal fatturato di
alcuni grandi gruppi industriali italiani.
Un fiume di denaro che, oltre a sfuggire in gran
parte al fisco, fa della criminalità uno degli attori principali dello scenario
economico e finanziario del Paese, con articolazioni impor-tanti in diversi
Stati europei, dell’est e dell’ovest.
A ben pensarci, senza questo 10% d’origine
malavitoso forse l’Italia non potrebbe sedere nel club del G8.
Molti, soprattutto all’estero, si chiedono:
perché lo Stato democratico, i diversi governi succedutisi non hanno mai
intrapreso una lotta seria, definitiva contro le organizzazioni criminali?
Il pensiero corre ai voti che le mafie
convogliano sui partiti di governo. Ma il voto, da solo, non basta a spiegare
un fenome-no così potente e radicato.
In realtà, la motivazione principale credo stia
in questi enor-mi flussi di capitali che, per vari canali, anche leciti,
affluis-cono nel sistema economico e nel circuito finanziario nazio-nale e
internazionale.
Insomma, senza tale apporto, ormai consolidato,
verrebbe a mancare un pilastro finanziario importante, difficilmente sostituibile
con risorse lecite.
Immigrazione
e federalismo egoistico
Ma torniamo al Meridione dove al permanere di
dinamiche così perverse si registra l’attivazione di alcune più virtuose che
hanno favorito l’emancipazione economica di talune regioni.
Tutto ciò è successo nel corso degli ultimi tre
lustri (1992-2007) ovvero durante la lunga e confusa (e non conclusa) fa-se
della transizione politica italiana, apertasi con l’esplosione di
“tangentopoli” (1992) che ha travolto il sistema politico della ”prima Repubblica”
e capovolto i termini del tradizio-nale rapporto nord-sud.
Nel senso che, anche grazie alle pressioni
ricattatorie della Lega di Bossi, nell’agenda politica e di governo non figura
più la “questione meridionale”, ma quella “settentrionale”, accompagnata dalla
rivendicazione di un “federalismo fisca-le” caricato di un significato punitivo
verso il sud “sprecone”.
Il progetto di riforma federalista, già varato
dal governo Ber-lusconi, se attuato rischia di perpetuare, di acuire il divario
fra nord e sud e quindi d’innescare una contrapposizione fra regioni ricche del
centro nord e regioni meno sviluppate del sud che potrebbe disarticolare
l’autorità dello Stato e l’unità della nazione.
Si creerebbe, così, il clima perfetto per
consentire alla Lega di far passare la sua idea costitutiva di secessione del
nord, mai veramente abbandonata.
Un progetto subdolo, disastroso per l’Italia e
per l’Europa, che non si nutre soltanto dell’egoismo razzista di taluni gruppi
improvvisamente arricchitisi, ma che fa leva su alcuni fenomeni sociali nuovi
che stanno modificando il tradizionale rapporto fra nord e sud del Paese.
Fra questi, grande importanza assume
l’immigrazione extracomunitaria. L’afflusso, piuttosto recente, nelle regioni
del centro-nord di milioni d’immigrati ha fatto venir meno uno dei presupposti
del “patto scellerato” sul quale si è fondato, dall’Unità in poi (1860), il
difficile equilibrio fra nord e sud. Com’è noto, quel “patto”, mai
ufficialmente ammesso, assegnava al Sud una doppia funzione subalterna verso
l’industria del nord: di fornitore di braccia e cervelli e di grande mercato di
consumo.
Oggi, il nord, giunto a uno stadio di
saturazione del suo sviluppo e in forte competizione con altre realtà
industriali europee e mondiali, alle braccia meridionali preferisce quelle
provenienti dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina.
Meglio se clandestine poiché costano meno e non
hanno diritti da rivendicare.
Tuttavia, il Nord non può fare a meno del
Mezzogiorno che resta pur sempre un importante mercato (circa 20 milioni di
consumatori) e luogo strategico di deposito, trasformazione e distribuzione di
prodotti energetici. Soltanto in Sicilia si raf-fina il 40 % delle benzine,
mentre sulle sue coste approdano due giganteschi metanodotti provenienti
dall’Algeria e dalla Libia.
Nei nuovi programmi, in corso di attuazione, è
prevista, sempre in Sicilia, la realizzazione di due grandi impianti di ri-
gassificazione e almeno di una centrale nucleare.
Insomma, il sud sempre di più acquisterà un peso
decisivo nella strategia di approvvigionamento energetico del Paese.
Il
Mezzogiorno ponte europeo nel Mediterraneo
Anche se la Casmez è stata abolita, l’intervento speciale nel
Sud, in misura ridotta, è continuato sotto altre forme.
In particolare, utilizzando i vari progetti
comunitari, purtrop-po concepiti ed attuati in continuità col vecchio
meccanismo e, pertanto, con risultati vicini allo zero.
Peccato! Poiché si è persa un’altra importante
occasione per il Sud.
Infatti, oltre ad avere sprecato una gran
quantità di denaro pubblico, si rischia di non cogliere le tante opportunità
che si produrranno, nei prossimi anni, grazie allo sviluppo globale e multi
polare nella zona mediterranea.
Il
Mezzogiorno, fisicamente e storicamente proiettato
nell’area
mediterranea, potrebbe candidarsi a divenire zona-cerniera, ponte del
partenariato e della zona di libero scambio euro-mediterranei.
Cambierebbe
così il suo ruolo: da area emarginata a punta più avanzata dell’Italia e
dell’Europa del dialogo e della coopera-zione con i Paesi rivieraschi.
Inoltre, sappiamo che nel Mediterraneo, speriamo
al più presto pacificato e politicamente co-gestito, si materializzerà,
attraverso il canale di Suez, una fra le più sconvolgenti novità sul terreno
dei rapporti economici, culturali e politici fra Europa e Asia.
Per il sud italiano, così come per altri sud
europei, si apre, infatti, una prospettiva inedita, rappresentata dai crescenti
flussi commerciali e finanziari provenienti dall’Asia e dal-l’Africa, in
particolare, oggi, da Medio Oriente, Cina, India, Giappone, Oceania.
Una prospettiva che potrebbe consentire al
Mediterraneo un “ritorno” al ruolo storicamente assolto fino al 1492.
Spostare a sud l’asse
dello sviluppo italiano ed europeo
Il sud è attrezzato per intercettare, accogliere
almeno una parte di tali flussi? Credo, proprio di no o solo in parte. Anche
perché non supportato da una politica estera orientata a tale scopo.
La politica italiana verso il Mediterraneo
continua a essere eclettica, senza un centro, in qualche caso pittoresca, e
soprattutto condizionata dagli egoismi
razzistici della Lega nord.
Anche questo è un segno evidente del declino.
Una grande nazione non può, davvero, presentarsi
al mondo così conciata.
L’Italia, cogliendo il nuovo clima derivato dall’elezione
di Obama, deve operare una svolta nella sua politica estera, per mettere il
Mezzogiorno al centro del nuovo scenario geo- economico mediterraneo che si
configura come uno dei prin-cipali poli dello sviluppo mondiale in questo nuovo secolo.
D’altra parte, se si vuole uscire dalla “crisi”
rinnovati, biso-gnerà puntare sul riequilibrio produttivo del Paese, prendendo
atto che lo sviluppo del nord è prossimo alla saturazione e che, quindi,
soltanto il Mezzogiorno potrà garantire all’Italia una continuità di crescita
razionale ed eco-compatibile.
Appare necessario, pertanto, lo spostamento a
sud, verso il Mediterraneo, dell’asse dello sviluppo per delineare una
prospettiva economica virtuosa, di fuoriuscita dal parassi-tismo e
dall’illegalità.
Molto sta alla politica, ai governi, ma anche ai
cittadini del Sud, perché il mezzogiorno sarà- parafrasando un pensiero di
Fernand Braudel- come lo vorranno meridionali.
Una nuova
politica, un nuovo pensiero
A fronte di tali, possibili sconvolgimenti va
anche aggiornata l’analisi teorica e politica della realtà meridionale, per
indivi-duare nuove chiavi di lettura e nuovi strumenti d’intervento.
Riflessione necessaria anche per evitare che si
accrediti nell’opinione pubblica internazionale un’idea riduttiva del Sud così
com’è rappresentato da taluni libri o film di successo, compreso l’ottimo “Gomorra” di Roberto Saviano.
Bisognerebbe, pertanto, aggiornare e, se del
caso, superare talune teorie politiche e sociologiche meridionaliste che non
reggono più al confronto con la realtà e con le tendenze attuali.
Anche la sinistra, le forze progressiste devono
compiere uno sforzo coraggioso.
Un solo esempio. Davanti a mutamenti così
radicali, impre-vedibili, penso sia limitativo attardarsi sulla diagnosi di
Antonio Gramsci, com’è noto basata sul citato “patto scellerato” fra
industriali del nord e agrari del sud, al quale contrapporre l’alleanza fra
operai del nord e contadini poveri del sud.
Analisi lucidissima ma datata. Valida per
interpretare il vec-chio contesto storico e politico.
Oggi, la gran parte di questi attori sociali sono
ridimensionati nel loro ruolo politico ed economico, o fortemente emarginati
nell’odierno contesto. Nuovi soggetti sono entrati in campo e soprattutto si è
ampliata la prospettiva del Mezzogiorno in senso globale.
Insomma, fermo restando il suo ancoraggio
all’Europa, il Sud deve ripensare, anche in chiave teorica, la sua strategia di
crescita che necessariamente dovrà articolarsi in senso bi-direzionale: verso
la dimensione planetaria dell’economia globale e quella regionale del
partenariato euro-mediterraneo. Questa è la nuova, grande sfida per i prossimi
anni.
Il declino
della Sicilia, il suo fatale enigma
All’interno di tale prospettiva si dovrà
ricollocare il ruolo della Sicilia, grande regione europea e mediterranea,
segnata da aspri contrasti e da grandi potenzialità.
Isola-baricentro del Mediterraneo, in passato
sede d’incontro fra culture diverse, la Sicilia vanta una storia pluri-millenaria e un
ricco patrimonio archeologico e monumentale che ne fanno uno fra i più
importanti “giacimenti” culturali del Pianeta.
E’ da circa 40 anni che andiamo proponendo,
talvolta in soli-tudine, un’ipotesi euro-mediterranea per il futuro dell’Isola.
Ora tutti si scoprono “mediterranei”.
Anche se, nel migliore dei casi, il Mediterraneo
è argomento di conversazione, nel peggiore motivo per lucrare sui finanziamenti
europei.
In questi decenni, poco o nulla si è fatto per
valorizzare la naturale vocazione mediterranea della Sicilia e, soprattutto, per
superare gli ostacoli interni ed esterni che ne impediscono una sua proiezione
dinamica e moderna.
Quest’Isola lenta e dubbiosa verso un
“progresso” invadente e livellatore, battuta
dal vento di scirocco che qui giunge impregnato dell’eco torrida di lontani deserti africani, sembra chiudersi in se
stessa, rientrare nel suo fatale enigma. Alla politica è subentrata la cabala:
comanda chi meglio riesce ad interpretare il “mistero” della sua sopravvivenza.
Una fase difficile, dunque, segnata da una
tendenza al declino generale e diffuso.
Certo, anche nell’Isola si registrano
cambiamenti positivi, ma non tali da allinearla, per redditi e qualità di vita,
alle tenden-ze in atto in altre regioni italiane.
Si tratta, infatti, di poche realtà pregevoli,
anche d’eccellenza, che rischiano d’infrangersi contro una sorta di “circuito
dell’illegalità”, eretto intorno all’Isola da forze potenti, che svilisce gli
sforzi mirati a sviluppare la produzione e una moderna organizzazione dei
servizi e delle professioni.
Un declino evidente accelerato da taluni
passaggi cruciali, fra i quali il temuto capovolgimento di ruoli fra politica e
“poteri forti”, a favore di questi ultimi. Com’ è successo un po’ dovunque nel
mondo a seguito del prevalere delle pratiche neo-liberiste, la politica ha
perduto il suo primato, altre entità si sono insediate al posto di comando.
Con una differenza però che in Sicilia a
comandare non sono le grandi corporazioni multinazionali, ma oscure consorterie
locali.
E la palma
non potrà più salire…
Nonostante questa specificità, la Sicilia non è una scheggia
impazzita all’interno di un sistema sano. La sua condizione riflette
l’andamento generale della situazione italiana.
Esiste, infatti, un legame forte fra l’isola e
la penisola, di scambio e di reciproca influenza colto a più riprese anche
dalla letteratura, soprattutto straniera. Alcuni esempi.
Goethe, nel 1787, addirittura sentenziò: “Senza la Sicilia,
l’Italia non lascia alcuna immagine nell’anima: qui è la chiave di tutto”. (1)
Edmonda Charles Roux, premio Gongourt 1966,
forse più realisticamente, ha rilevato : “La Sicilia, nel bene e nel male, è l’Italia al
superlativo”. (2)
Il pensiero della Roux rende di più l’idea di
una Sicilia “eccessiva” o, se si vuole, laboratorio-politico, anticipatore
delle alleanze politiche nazionali.
Leonardo Sciascia intravide una “linea della palma” che dal-l’Isola sale
verso il nord. Una dolente metafora per segna-lare il pericolo di
un’esportazione del “modello siciliano”verso la penisola.
Punti di vista, naturalmente. Per altro, la
profezia sciasciana non potrà più avverarsi poiché le palme non potranno più
salire.
Almeno da Palermo, dove stanno morendo,
attaccate da un parassita (il punteruolo rosso) che, come la vendetta di un dio
spietato, sta facendo strage dei rigogliosi palmizi, fin dentro il celebre Orto
botanico dei borboni.
Un regime
a sovranità limitata
Per queste ed altre ragioni, il solco fra La Sicilia e il Paese si
allargato. Il nuovo spazio è stato occupato da un sistema di potere arcaico,
familistico, parassitario e mafioso che ha bru-ciato le migliori risorse e
prodotto una classe dirigente conso-ciativa, oscillante fra l’astrattezza
politica e il gattopardismo più deteriore.
Un sistema opprimente che ha generato un regime
a sovranità limitata che ha conculcato i diritti fondamentali dei cittadini,
trasformandoli in favori da concedere in cambio di voti e/o di tangenti, e
sfumato i doveri dei governanti.
E dire che il molto speciale Statuto di
autonomia, che fa della Sicilia “una quasi nazione”, avrebbe dovuto garantire
all’Iso-la il massimo dello sviluppo possibile.
A differenza di altre regioni autonome, quali la Val d’Aosta, il Trentino-Alto
Adige, il Friuli-Venezia Giulia, la stessa Sar-degna, l’Autonomia siciliana non
ha prodotto i frutti sperati, ha deluso le attese, ha subito una sorte
infelice: in parte non attuata e in parte abusata, stravolta.
Alla base di tale distorsione, penso ci sia un
equivoco mai chiarito che di tanto in tanto riaffiora: l’autonomia invece di
uno strumento di autogoverno e di crescita civile ed econo-mica, è stata
concepita come un surrogato del separatismo, per erigere intorno all’Isola un
recinto, una sorta
d’anello di fuoco, dentro il quale esercitare
uno spudorato dominio e bloccare di là del Faro (di Messina) le innovazioni, i
cambiamenti provenienti dall’Italia e dall’Europa.
Un secolo
di migrazioni
Di conseguenza, oggi vediamo una regione
bloccata nel suo naturale sviluppo, avvilita dal clientelismo, dalla disoccu-pazione,
dal lavoro nero, sfregiata dall’abusivismo edilizio e non solo.
Si vive una condizione per molti versi
insopportabile, con la quale devono fare i conti i cittadini e gli imprenditori
onesti, ossia la stragrande maggioranza della popolazione.
In primo luogo, i giovani ai quali restano
soltanto due alterna-tive: adattarsi o fuggire. Una terza via non è
praticabile.
Si calcola che, nel quinquennio 2002-07, siano
emigrati dall’Isola verso le ricche regioni del nord, almeno 150.000 giovani,
in gran parte diplomati e laureati.
Ancora emigrazione! Per i siciliani, il
novecento è stato il secolo dell’emigrazione.
Sono partiti a milioni verso le più lontane
contrade del mondo e insieme ad altri hanno scritto uno dei capitoli più
drammatici della storia universale delle migrazioni.
Si sperava che col boom economico italiano
l’esodo si fosse interrotto. Invece è ripreso, anche se- nel frattempo- la Sicilia è divenuta terra
d’approdo e di (mala) accoglienza per centi-naia di migliaia d’immigrati
provenienti dal sud del mondo.
Oggi, con la recessione in atto, non sappiamo
cos’altro potrà accadere.
Anche
Platone se ne fuggì deluso
In questo clima di grave incertezza, molti si
chiedono dove stia andando la
Sicilia. Verso quale approdo, quale futuro? La risposta non è
facile, anche se l’interrogativo non è più eludibile.
Il futuro è il grande assente nell’immaginario
dei siciliani. Un po’ tutti ne avvertono la mancanza: chi parte e chi resta.
Eppure non si chiede un avvenire mirabolante, ma
un futuro da normali cittadini europei, una prospettiva migliore di questo
opaco presente.
Ai siciliani questo futuro è stato negato,
rubato perciò prefe-riscono guardare al passato. Pensano e parlano al passato.
Addirittura, nella parlata locale per indicare il futuro si usa il (verbo)
presente.
Ostentano un orgoglio, talvolta smisurato, per
il loro passato visto come una sorta di eternità volta all’indietro nella
quale, come nota Pessoa “ciò che passò era sempre meglio”.
Ovviamente, questa assenza di futuro non è una
devianza grammaticale, ma la spia di un disagio psicologico collettivo che
nasce dall’esperienza storica e spinge i siciliani a rifugiarsi in un mondo
sepolto, mitizzato, ritenuto, più a torto che a ragione, migliore
dell’attuale.
C’è chi chiama tutto ciò “pessimismo”
inveterato, connatu-rato. Anche contro Leonardo Sciascia, per il quale la Sicilia era
“irredimibile”, fu lanciata questa accusa che lo scrittore respinse con serena
fermezza: “Come mi si può accusare di
pessimismo se la realtà è pessima?” (3)
In realtà, non si tratta di un’inclinazione
pessimistica dei siciliani, ma della percezione di un male oscuro che permane
nel tempo, fin dagli albori della storia siciliana, già durante la splendida
civiltà siculo- greca.
Significativa appare, a questo proposito, la “Settima lettera” di Platone (autentica o
meno che sia) nella quale il sommo filosofo chiarisce le ragioni che lo
spinsero a viaggiare, per ben tre volte e in condizioni drammatiche, da Atene a
Sira-cusa per aiutare il suo discepolo Dione ad insediare in Sicilia la sua
“Repubblica”.
Tentativi falliti, miseramente. Com’è noto, il
filosofo, per salvarsi, fuggì precipitosamente dalla Sicilia, portandosi die-tro
l’amarezza della delusione patita: “Mi
sembrava difficile dedicarmi alla politica mantenendomi onesto…”
Insomma, anche nei tempi antichi la vita
politica siciliana era piuttosto inquinata. Oggi la situazione è mutata, ma
temo in peggio. Se Platone ritornasse per la quarta volta nella Trina-cria
avrebbe ben altro di cui lagnarsi.
Il dovere
di cambiare
Per concludere. La Sicilia ha un grande
bisogno di libertà e di un forte recupero della sua identità culturale e
storica che, senza scadere nella velleità indipendentista, per altro
dolorosamente sperimentata, ridia ai siciliani il senso della loro storia e quindi la responsabilità di
costruire un futuro di progresso nella legalità.
Si può fare. Importante è partire, riavviare la
ricerca e la cooperazione fra tutte le forze sane dell’Isola che resistono e
attendono un segnale di autentica liberazione.
Ma i siciliani desiderano il cambiamento?
Talvolta parrebbe di no. Si accetta di vivere, rassegnati, in una società
immobile, individualista che tende a escludere i settori più problematici,
compresi i suoi figli ventenni.
In realtà, la maggioranza dei siciliani non è
contenta di tale condizione, anzi la vive nell’angoscia, come nell’attesa del
crollo. C’è una contraddizione latente fra consenso politico e spirito pubblico
che nasce dallo scetticismo verso ogni ipotesi di cambiamento, verso un sistema
politico, affaristico e consociativo, tale da far della Sicilia una regione “senza governo e senza opposizione” (4).
Tuttavia, sperare si può, si deve. Anche
attraverso una sorta di autocoscienza collettiva. Tutti devono riflettere sulle
con-dizioni e le sorti future della Sicilia, ripensare le loro azioni. Tutti e
di più. Anche i mafiosi, ossia coloro che rappresentano il “male assoluto”.
A questa gente, ferme restando le responsabilità
penali, bisogna provare a chiedere di riflettere sugli errori e sugli orrori
commessi, ponendosi dal punto di vista di chi li ha subiti, per capire il
dolore degli altri e cambiare rotta.
Soprattutto dovranno meditare e cambiare
registro quelli che hanno abusato del potere loro conferito dalla legge e dagli
elettori. Alla Sicilia bisogna offrire una nuova chance. Qualcosa si muove
sotto la superficie di questo mare cupo e limaccioso. Si agitano insofferenze e
fermenti di cambia-mento, s’intravede come una linea di riscatto in emersione
attorno alla quale aggregare e mobilitare forze e risorse in grado di spezzare
il circuito dell’illegalità, per riacquistare il futuro.
Note:
1) Johann W. Goethe in “Viaggio in Italia”, Garzanti Editore, 1997
2)
Edmonda Charles Roux, “Oublier Palerme”,
ed. Grasset, Paris,
1966
(3) Leonardo Sciascia “La
Sicilia come
metafora” (intervista di Marcelle Padovani), Arnoldo Mondadori Editore,
1979
4) A. Spataro in “La
Repubblica” del 17/4/2004
* in
“Portale del Sud”, versione italiana dell’articolo apparso, con altro titolo,
sul n. 68 della rivista francese “Confluénces Méditerranée”, edizioni “
l’Harmattan”, Paris, febbraio 2009.
LA SICILIA AL TEMPO DELLA GLOBALIZZAZIONE*
On. Spataro, ho l’impressione che lei provi
imbarazzo nel costatare che, da uomo appartato, ha una grande libertà di parola
e di scrittura. Non mi spiegherei altrimenti la sua cortese resistenza a non
farsi intervistare.
In verità, durante la mia lunga esperienza politica
ho sempre cercato di pensare e di agire da uomo libero; anche da dirigente e
deputato nazionale del Pci, partito regolato al suo interno dal “centralismo
democratico”.
Il fatto è che mi danno fastidio l’attuale
processo di omologa-zione, verso il basso, del ceto politico, l’asservimento
della politica e di certa informazione agli interessi dei grandi grup-pi
finanziari ed economici.
Questa corsa affannata di uomini e donne che per
un posto di consigliere o deputato o di assessore sono disposti a rinun-ciare
alla loro libertà e dignità.
La politica, i partiti mi appaiono costruzioni
artificiose, ingannevoli, mirate a conseguire obiettivi di affermazione
personale. Perciò, cerco di starne alla larga.
Anche se, collaborando con “La
Repubblica” e con altri giornali e riviste, mi sforzo di
continuare a dare un contributo al cambiamento, sempre dalla parte dei
lavoratori, dei giovani e della legalità.
Cose che non si possono fare più all’interno dei
partiti, anche di sinistra, dove il confronto delle idee è praticamente vicino
allo zero.
Andiamo al tema. Lei, che alla Camera ha
rivestito importanti incarichi nelle commissioni parlamentari, continua a
occuparsi di relazioni internazionali. Da poco è tornato da Parigi, dove ha
partecipato a un seminario promosso da un organismo governativo francese. A
bruciapelo le chiedo: ma ce l’ha oggi l’Italia una politica estera o si sente
nostalgia di Andreotti e De Michelis?
Il problema non è nominalistico. La tanto
biasimata “prima Repubblica”, pur con ambiguità e condizionamenti esterni (Usa
e Nato), riuscì a concepire un disegno relativamente autonomo al quale, da una
certa fase in poi, contribuimmo ad elaborarlo anche noi comunisti,
dall’opposizione.
Era la politica estera possibile di una media
potenza regionale legata agli Usa, ma in grado di sviluppare un’azione pacifica
e di cooperazione, soprattutto negli scacchieri mediterraneo e mediorientale,
che ha avuto un importante risvolto sul terreno politico e degli scambi
economici e commerciali.
Insomma, allora, si riusciva a parlare un po’
con tutti: arabi e israeliani, persino con i sovietici. Nel mondo, l’Italia
aveva tanti amici e non tanti nemici come oggi.
Nell’ultimo ventennio, l’immagine internazionale
dell’Italia è stata stravolta, indebolita,
ridicolizzata perfino. Pur essendo un paese co-fondatore dell’Unione
europea, dell’euro, l’Italia tende ad allontanarsi dall’Europa che conta per
collocarsi su una linea di ambiguità, oscillante fra gli interessi più
retrogradi degli Usa e quelli molto più concreti di taluni gruppi economici e
finanziari italiani. A cominciare dalle imprese del presidente del Consiglio….
Ecco, affidarsi a Putin e a Gheddafi cosa
significa e cosa comporta?
Per saperlo non bisognava, certo, attendere la pubblicazione da parte di Wikileaks
delle informative dell’ambasciata ame-ricana. Già da qualche anno, si poteva
notare la trasformazio-ne delle relazioni bilaterali dell’Italia con la Libia e con la Russia in rapporti
personali fra Berlusconi Putin e Gheddafi.
Bastava osservare i dati dell’interscambio
commerciale per accorgersi che la
Russia di Putin e la
Libia di Gheddafi erano diventati i nostri primi due
fornitori d’idrocarburi (petrolio e gas). Come abbiamo notato su “Infomedi”, i
due paesi, nel primo semestre del 2009, hanno coperto il 43% dell’import
italiano d’idrocarburi.
Una copertura a dir poco imbarazzante.
Certamente. Per altro, questa eccessiva
concentrazione delle fonti di approvvigionamento ha modificato l’equilibrio
tradi-zionale che poggiava su una più ampia diversificazione, soprattutto sui
paesi della penisola arabica verso i quali si registra, di conseguenza, una
caduta dei nostri volumi di export.
Un dato inquietante che potrebbe condizionare la
sicurezza e la continuità del nostro sistema di approvvigionamento ener-getico
e quindi lo sviluppo economico e civile del Paese.
In questo delicato campo, si è determinata una
condizione di scarsa affidabilità politica che ha spinto l’Europa a promuo-vere,
un po’ frettolosamente, la realizzazione di ben quaran-tasei nuovi rigassificatori,
di cui dodici in Italia e due in Sicilia.
Tutto ciò, a parte i colossali tornaconti di
società e di persone che maneggiano gli accordi e i relativi contratti, come
comincia a emergere dalle inchieste giornalistiche e d’altra natura.
I suoi numerosi saggi, a volte, hanno intravisto
l’evoluzione della situazione mediterranea e mediorientale.
Ha qualcos’altro in
preparazione?
Per adesso, sto focalizzando le mie ricerche sul
possibile nuovo ruolo del Mediterraneo all’interno dei nuovi scenari della
globalizzazione.
Questo, a me sembra, il punto di novità
essenziale che apre una prospettiva inedita per fare uscire l’Italia, la Sicilia dalla crisi
attuale.
A mio parere, in questo nuovo ordine
internazionale in for-mazione, pluricentrico e multiculturale, l’area
mediterranea potrebbe, addirittura, riacquistare il ruolo di centralità perduto
nel 1492, a
seguito della scoperta dell’America.
Se n’è parlato al seminario di Parigi?
In realtà, a Parigi si è parlato dell’India,
delle sue dinamiche economiche, demografiche e militari. Lo scorso anno è stata
la volta della Cina. Due grandi potenze (Cindia) fra loro in concorrenza che
influenzano la crescita economica e le relazioni fra gli Stati.
Anche il Mediterraneo, la stessa Sicilia, sono,
e sempre più saranno, influenzati dagli andamenti e dalle strategie espan-sive
di queste due supereconomie. Se non altro perché rap-presentano il luogo
privilegiato dello scambio fra Cindia, Europa e Paesi arabi.
Per avere un’idea del ruolo crescente di
quest’area vitale del mondo basta osservare l’imponenza dei flussi commerciali
da e per l’Europa che, attraverso il canale di Suez, solcano il Mediterraneo.
Siamo in presenza di una colossale
movimentazione di merci cui fa da pendant un flusso di capitali (in prevalenza
arabi) che rendono il Mediterraneo e le zone contigue una delle aree più
appetibili del Pianeta. Ovviamente, bisogna saper cogliere queste opportunità,
attrezzandosi per attirare produzioni, merci e capitali d’investimento.
La Sicilia, pur essendo il luogo baricentrico di
quest’area, non sta facendo nulla per intercettare tali flussi e predisporsi a
svolgere un ruolo dinamico di avamposto e non di periferia emarginata
dell’Unione Europea. E’ tempo, dunque, di pro-gettare, agire. Ma qui tutto
sembra fermo.
C’è oggi un partito, una politica adeguata a queste urgenze?
Spiace rilevarlo, ma all’orizzonte del nostro
futuro prossimo non s'intravedono un ceto politico e imprenditoriale preparati a questi compiti.
In Sicilia, le principali forze politiche sembrano
rassegnati alla marginalità, adattarsi all’eterna crisi che sta divorando
perfino la speranza nel cambiamento.
Altro che Cina e India! Qui manca la
progettualità politica e l’autentico spirito d’impresa. Si evita il rischio e
si brama l’incentivo. Si vivacchia con il clientelismo, con i contributi
pubblici, le raccomandazioni, le mazzette, il pizzo, l’evasione fiscale. Mentre
continua la fuga dei giovani siciliani verso il nord o l’estero.
Il nuovo rapporto Europa - Asia è già iniziato e
si svolge sotto i nostri occhi, nel cuore del Mediterraneo, ma la Sicilia è tagliata fuori.
Un solo esempio. Il movimento delle
navi-container che salta completamente la nostra Isola. E non certo per
malevolenza, ma perché la
Sicilia non é attrezzata per accoglierlo.
Gli approdi sono altrove: a Gioia Tauro, a
Malta, ad Algesiras. Ora anche Tangeri si sta organizzando per divenire il più
grande porto mediterraneo di collegamento fra i flussi asiatici e le Americhe. La Sicilia sembra condannata
ad accogliere solo pericolosi impianti energetici (rigassificatori, centrali
nucleari, discariche in gran quantità), per altro al servizio dell’economia del
nord. Mentre i nostri politici tardo-populisti continuano a piangere sulla
miseria del popolo e a crogiolarsi nelle loro modeste furbizie.
(dall’intervista
a Agostino Spataro raccolta da Diego Romeo per “Grandangolo” del 24/12/2010)
PORTAEREI
E HUB ENERGETICO:
I DUE POLI
DEL FUTURO SICILIANO
L’isola
diventa portaerei della Nato
Quello che si temeva sta accadendo o è già
accaduto: il mutamento del ruolo militare e della prospettiva generale della
Sicilia nei suoi rapporti con l’area mediterranea.
Da ponte di cooperazione pacifica e vantaggiosa
con i paesi rivieraschi a “ portaerei della Nato nel Mediterraneo” come l’ha
ribattezzata l’eclettico ministro della difesa, il siciliano Ignazio La Russa, che, già agli inizi
dei bombardamenti sulla Libia, l’ha messa a disposizione della triade
interventista: Sarkozy, Cameron e Obama. (1)
Si può obiettare che quelle del ministro sono
parole al vento, di circostanza.
Tuttavia, è pur sempre il titolare di un
dicastero delicato e nessuno le ha smentite o contestate.
Parole che meritano, pertanto, di essere
valutate attentamente poiché acquistano un significato sinistro, pericoloso,
specie dopo la decisione d’inviare gli aerei italiani a bombardare la Libia.
D’altra parte, la svolta era nell’aria, anche se
non percepita come imminente. La partecipazione italiana alla guerra in Libia
l’ha solo accentuata, accelerata.
La strategia Nato di “difesa avanzata” aveva
assegnato all’Isola la funzione di “piattaforma”
militare attrezzata per respingere improbabili aggressioni al fianco sud.
Oggi, il salto: il suo ruolo cambia da difensivo
a offensivo. L’Isola diventa portaerei.
Un’idea che, per quanto metaforica, produce,
anche psicolo-gicamente, l’effetto di un
mutamento esistenziale poiché la Sicilia viene proiettata in una dimensione mobile
della guerra, liquida o aerea, comunque fuori dei confini nazionali e della
Nato.
La Sicilia, l’Italia e la guerra in Libia
Sicilia portaerei, dunque, col bollo di La Russa e con l’avallo silente
di quasi tutte le forze politiche nazionali e senza alcuna protesta pacifista.
Ma che strano unanimismo, oggi in Italia! Ci si
divide su tutto. Solo le guerre, i bombardamenti, le costose missioni militari
all’estero e i rigonfi bilanci della difesa riescono a unire quasi tutti i
partiti, governo e alte autorità dello Stato.
Anche nella vicenda libica il copione si è
ripetuto. Con l’eccezione di IDV e della Lega nord che non si sono accodati.. Sorprendono
le forze d’opposizione del centro-sinistra che, invece d’invocare una soluzione
negoziata del conflitto di potere interno alla Libia (poiché di questo si
tratta), hanno pressato Berlusconi per fargli abbandonare la sua iniziale
ritrosia e allineare l’Italia alla gloriosa “triade”.
Seppure a denti stretti, dobbiamo rilevare la
calcolata pruden-za della Lega di Bossi che anche stavolta (dopo i Balcani) ha
frenato gli ardori, distinguendosi dall’unanimismo guerresco del ceto politico
italiano.
Comunque sia, il Cavaliere è intervenuto
pesantemente, a “gioco in corso”, schierando l’Italia su una posizione
avventurosa, unilaterale che la collocano fuori degli ambigui limiti della
risoluzione dell’Onu.
Insomma, l’Italia si è cacciata in un brutto
pasticcio che potrebbe degenerare in un lungo e sanguinoso conflitto, a un tiro
di schioppo dalle coste siciliane.
C’è chi parla o minaccia un nuovo Vietnam.
Difficile fare previsioni così impegnative. Tuttavia, ricordo che in Vietnam
l’avventura degli Usa iniziò con i bombardamenti di supporto alle truppe del
Sud e con l’invio di consiglieri militari che poi diventarono un esercito di
mezzo milione di soldati.
Quella guerra durò quindici anni e la persero
gli Stati Uniti e loro alleati fantocci. Da quella memorabile sconfitta taluni
fanno iniziare l’attuale declino della potenza Usa.
Vietnam o meno, un conflitto internazionalizzato
a circa trecento miglia dalle coste siciliane (a 200 da Lampedusa) non è,
certo, per la Sicilia
e per l’Italia di buon auspicio.
Armare gli insorti, inviare i nostri bombardieri
vuol dire schierarsi con una parte contro l’altra in questo conflitto
fratricida per il controllo del potere interno libico.
Due
ministri siciliani che fecero l’impresa…libica
Tutto ciò è immorale oltre che controproducente.
Specie per l’Italia che non può, davvero,
tornare a bombardare il suolo di un’ex colonia che ancora si lecca le terribili
ferite degli eccidi perpetrati, anche l’uso dei gas letali, dalle truppe
italiane d’occupazione.
Una nuova guerra alla Libia, a cento anni esatti
dalla prima (1911), in cui si riscontra una curiosa coincidenza, tutta
siciliana, che vede cioè due catanesi, entrambi di originari di Paternò, a capo
di ministeri-chiave.
Come dire: due paternesi che fecero
l’impresa…libica. Si tratta del sen. Antonio Paterno Castello, marchese di San Giuliano, nato a Catania (nel 1852) ma
discendente da una nobile famiglia originaria, come il cognome suggerisce, di
Paternò.
Egli,
da ministro degli esteri del governo Giolitti, inviò, in data 27 settembre
1911, al governo dell’impero ottomano una sorta di dichiarazione di guerra,
pretestuosa e immotivata, che faceva dipendere l’occupazione militare italiana,
prati-camente, da motivi di ordine pubblico interno alla Libia. (2)
Oggi, un altro prode paternese, l’on. Ignazio La Russa, ministro della
guerra, pardon della difesa, ha
proclamato la Sicilia
portaerei mettendola a disposizione dell’attacco contro la Libia.
Solo una singolare coincidenza o c’è qualcosa
che ci sfugge?
A ben pensarci, tanta solerzia, forse, si
potrebbe spiegare co-me rivendicazione di un legame antico, mitico fra la Sicilia e la Libia, risalente addirittura
alla fondazione di Tripoli che- secondo Sallustio- sarebbe dovuta “a coloni siciliani (eviden-temente fenici)
insieme ad africani”.
Un pericoloso conflitto
a trecento miglia dalla Sicilia
Per come si son messe le cose, appare sempre più
insoste-nibile la bufala dell’intervento “umanitario”. In Libia le forze dei
Paesi interventisti della Nato sono andate oltre i limiti della “no zone fly”
imposti dalla risoluzione Onu.
Lo confermano i bombardamenti quotidiani “fuori
zona”, in primis sulla città di Tripoli che stanno provocando vittime innocenti
e la distruzione di strutture sanitarie e industriali civili. A proposito:
quanto devono ancora durare questi bombardamenti?
La domanda l’ha posta a Berlusconi non un
rappresentante dell’opposizione, ma il ministro
dell’interno del suo governo, il leghista Maroni. (3) Anche noi, che
leghisti non siamo, aspettiamo risposta.
Domanda più che legittima, poiché non si può
continuare ad assistere, muti, a un conflitto, anomalo e asimmetrico, che
sempre più assomiglia a una guerra di rapina.
Anche perché- a quanto pare- ci sarebbe molto da
prendere dai forzieri libici: dai tanti giacimenti in produzione alle grandi
riserve accertate d’idrocarburi, alle enormi riserve di acqua (sì, avete letto
bene “acqua”!) che per uno scatolone di sabbia qual è la Libia è una risorsa più
preziosa del petrolio.
Nelle regioni meridionali del Fezzan sono stati
scoperti veri e propri laghi sotterranei che alimentano una rete di gigante-sche
condotte (lunghe migliaia di km) che riforniscono le città della costa per gli
usi civili, agricoli e industriali.
Nessuno lo dice: in Libia il problema dell’acqua
è stato risolto con successo, mentre in tante città e paesi siciliani l’acqua è
un pio desiderio.
Si dice anche che la Banca centrale di Libia (che
è dello Stato non della famiglia Gheddafi), oltre a controllare il sistema
finanziario e monetario interno, ad avere effettuato importanti investimenti
all’estero (in Italia ne sappiamo qualcosa), conservi nei suoi caveaux circa
140 tonnellate di oro.
Non siamo in grado di verificare la veridicità
quest’ultima notizia, riportata da Ellen Brown (4). Tuttavia, qualcosa di vero
potrebbe esserci, visto che i capi degli “insorti” (alti gerarchi gheddafiani
della prima ora e conoscitori della realtà finanziaria del Paese) prima di
formare il governo provviso-rio si sono preoccupati d’istituire una Banca
centrale. Davvero, una stranezza per una rivoluzione!
L’Isola
sede di trattative fra le parti in conflitto
Perciò, preoccupano l’evoluzione del conflitto e
la scelta di non voler favorire, nemmeno
tentare, una soluzione politica, negoziata. Come quella che, per
iniziativa dell’Unione africana, si sta cercando ad Addis Abeba fra
rappresentanti degli insorti della Cirenaica ed emissari del governo Gheddafi.
In assenza di una soluzione politica, si teme
che il conflitto possa degenerare, prolungarsi oltre misura.
La Sicilia, invece che a diventare portaerei,
doveva candidarsi a sede per trattative fra le parti per assicurare alla Libia
una transizione unitaria e democratica, senza Gheddafi.
Per altro, in questa crisi c’è, anche, un
importante risvolto economico e commerciale che riguarda la Sicilia e l’Italia che,
però, non sembra interessare i nostri apprendisti stregoni.
La
Libia
costituisce, infatti, una realtà molto speciale per l’economia italiana. Oltre
a farsi carico dei gravosi e discu-tibili impegni sull’immigrazione, ci
fornisce notevoli quanti-tativi d’idrocarburi, capitali preziosi per le nostre
imprese e banche e si offre come fiorente mercato per le nostre aziende di
servizi e manifatture.
Solo di petrolio, di ottima qualità e di facile
trasporto, l’Italia ne importa circa il 23 % (in valore) del suo fabbisogno e
di gas otto miliardi di metri cubi/annui tramite il metanodotto sottomarino che
approda a Gela.
Materie prime strategiche che sono trasformate
nell’Isola e da qui movimentate verso il mercato nazionale.
L’Eni si sta giocando parte del suo futuro in
questa brutta guerra fratricida fomentata da potenze nostre concorrenti in
campo energetico.
Che cosa potrebbe succedere, in Italia e in
Sicilia, se doves-sero venir meno questi contratti e forniture?
Con i bombardamenti, il governo tutela o
danneggia gli inte-ressi nazionali dell’Italia?
Gli
incerti scenari del post-conflitto
Domande legittime alle quali, però, nessuno
risponde.
Non sappiamo se e quali garanzie la triade abbia
offerto a Berlusconi per smuoverlo dalla sua iniziale inerzia. Con il governo e
il ceto politico che ci ritroviamo il dubbio è lecito. Anzi più d’uno. Perciò, oltre gli aspetti politici e
(im)morali della guerra, bisognerebbe fare un po’ di conti anche dal lato della
convenienza nazionale, visto che l’Italia è il primo partner commerciale della
Libia.
Probabilmente, gli strateghi nostrani non
avranno considerato la mutevolezza degli uomini e degli interessi in ballo, i
possibili esiti del conflitto e gli scenari che si potranno determinare in
Libia e nello scacchiere mediterraneo.
In particolare, due appaiono degni di nota: una
vittoria dei “ribelli” o un accordo unitario nazionale fra le parti in
conflitto.
Se dovessero vincere i “ribelli”, difficilmente
dimentiche-ranno i baciamano a Gheddafi e l’Eni dovrà andare a Parigi o a
Washington per ri-contrattare gli importanti accordi sottos-critti con la Noc libica. E pagare dazio
agli arroganti cartelli del petrolio.
Se, invece, dovesse vincere Gheddafi o si
giungesse a un accordo nazionale fra le parti, sarà difficile far dimenticare
al colonnello e ai suoi seguaci il voltafaccia dell’Italia, per altro a guerra
in corso.
Insomma, in entrambi i casi, l’Italia avrà un
bel da fare per recuperare quello che sta rischiando di perdere in questi
giorni.
Ritorna il
fantasma della guerra
Torniamo alla Sicilia dove gli annunci di La Russa e del premier
Berlusconi hanno materializzato il fantasma della guerra che pensavamo si fosse allontanato con la
vittoriosa lotta contro l’installazione dei missili nucleari a Comiso.
Vittoria memorabile alla quale, però, non seguì
una lotta altrettanto tenace e unitaria per fare uscire l’Isola dal
sottosviluppo.
Lo smantellamento dei missili avrebbe dovuto segnare
una svolta per progettare una nuova idea dello sviluppo bidirezionale,
orientato cioè verso l’Europa e il Mediterraneo e capace anche d’intercettare
le opportunità derivate dai flussi commerciali e finanziari provenienti da Cina
e India ossia dai nuovi colossi emergenti dell’economia mondiale.
L’idea di fondo, che da decenni coltiviamo, è
quella di far corrispondere alla centralità mediterranea dell’Isola una
centralità economica e culturale.
Purtroppo, negli ultimi due decenni, in Sicilia
si è rafforzata la componente militare (vedi articolo di Antonio Mazzeo),
mentre si è indebolita la capacità di attrazione e promozione d’investimenti
mirati alla produzione di beni e servizi da destinare al mercato arabo e
euro-mediterraneo.
Processi e tendenze pilotati dall’alto,
all’interno di un disegno politico-strategico che ha visto crescere, di pari
passo, milita-rizzazione, decadenza economica, crisi sociale e illegalità
diffusa.
Si è, così, delineata una prospettiva arida,
inquietante contro la quale si sono battuti Pio La Torre, fino al suo
assassinio, e il grandioso movimento pacifista unitario, siciliano e interna-zionale.
I due poli
del futuro siciliano
Il processo è in itinere, la situazione in parte
ancora confusa. Non è facile capire i suoi termini specifici, identificare
tutti gli interessi in campo.
Tuttavia,
credo si possa dire che negli ultimi anni il Mediterraneo e le zone contigue
del Medio Oriente siano divenuti terreno di aspro confronto fra vecchie e nuove
superpotenze per il controllo dei traffici marittimi (25% del totale mondiale),
di enormi risorse energetiche e finanziarie e dei nuovi, ricchi mercati dei
Paesi arabi produttori d’idro-carburi.
Come ho già scritto, in quest' area di vitale
importanza stra-tegica si concentrano fattori e risorse (soprattutto energetiche
e finanziarie) capaci di farne, in questo nuovo secolo, uno dei poli dello
sviluppo mondiale.
Anche sotto questa luce e in questa chiave
bisognerebbe leggere le rivolte arabe. Tutto dipenderà dagli equilibri fra le
vecchie e nuove potenze e dagli assetti di potere conseguenti sul piano
internazionale.
Se si dovesse andare a un' estremizzazione del
confronto, non c’è dubbio che la
Sicilia sarà chiamata a svolgere una funzione importante
soprattutto sul piano militare.
L’impressione è che, in questi anni d’apparente
non governo (fra Roma e Palermo), qualcuno abbia deciso di ridisegnare la
funzione generale strategica dell’Isola, imperniandola su un asse bipolare: da
un lato la portaerei o piazzaforte militare, dall’altro lato un grande hub
energetico.
Un hub al
servizio dell’economia del centro-nord
Stando alle scelte già programmate o in
esecuzione, in Sicilia, in aggiunta alla sua già esorbitante capacità
produttiva ener-getica, sarebbero previsti due mega-rigassificatori (Priolo e
Porto Empedocle) e una centrale nucleare.
Un hub, dunque, al servizio dell’economia di
altre regioni giacché l’energia prodotta andrà ben oltre le esigenze locali.
L’economia, la finanza, la politica,
l’informazione, le infra-strutture, la stessa criminalità organizzata, ecc,
dovranno ade-guarsi, piegarsi alla realtà tracciata da quest’asse strategico
che può, per altro, generare affari lucrosi, leciti e illeciti.
E pazienza se la Sicilia sarà ancor più
gravata di compiti onerosi, pericolosi, in contrasto con la sua vocazione
produttiva.
Una scelta dal sapore vagamente razzista che ha
indotto il governo Berlusconi - Bossi a scaricare sull’Isola anche il gra-voso
problema della (mala) accoglienza di masse d’immigrati provenienti da vari
continenti.
Sembra che altro non sia permesso alla Sicilia.
Una condizione anomala, squilibrante che può
ingenerare malumori e proteste.
A placarli ci penseranno la Regione e gli enti locali
in mano a governi deboli, clientelari e consociativi pronti a barattare la loro
acquiescenza con quote di spesa pubblica improduttiva destinata ad alimentare
il blocco di potere dominante e a raccogliere il necessario consenso
elettorale.
Treni lumaca e
sofisticatissime tecnologie militari
Insomma, oggi nel mondo, è in atto una corsa
avventurosa per ridefinire i nuovi assetti dei poteri che si stanno accor-pando
e ri -dislocando anche in Italia, in Europa e nel Mediterraneo.
Un contesto in evoluzione dentro il quale la Sicilia c’è tutta, ma con
una funzione marginale, subalterna agli interessi forti, produttivi e di
mercato, del centro-nord italiano.
Una subalternità evidente che non può essere
esorcizzata con qualche strillo autonomistico, ma ribaltata con idee e riforme
davvero innovative che solo una nuova classe dirigente, politica e
imprenditoriale, può proporre e attuare.
In Sicilia, oggi, si stenta a difendere persino
quel poco di tessuto industriale esistente.
La fine dello stabilimento di Termini Imerese ne
è una ripro-va drammatica ed eloquente: è l’unico che la Fiat sta chiu-dendo in
Italia, senza grandi contrasti e- si teme- senza alternative certe.
Di questo passo, il futuro dell’Isola sarà
sempre più condi-zionato, stretto nella morsa della militarizzazione e della
concentrazione intensiva di attività energetiche.
Il rischio che essa corre è quello di essere
trascinata in torbidi scenari di guerra, in vili mercimoni di armi e carne
umana e di diventare deposito di armi (anche nucleari) e scorie di ogni tipo
come quelle che cominciano ad affiorare dall’inchiesta sulla miniera
“Pasquasia”.
Vivremo, in sostanza, la contraddizione fra uno
sviluppo ritardato, frantumato e un’innovazione avanzata della dota-zione
militare installata e programmata.
Un solo esempio. Nella parte sud-orientale
dell’Isola vedre-mo coesistere treni-lumaca, che per coprire una tratta di 200 chilometri
(Agrigento - Siracusa) impiegano 9 ore e 15 minu-ti, e impianti e sistemi tecnologici militari
sofisticatissimi come quelli già esistenti a Sigonella e a Niscemi dove gli Usa
vorrebbero aggiungere uno dei terminali Muos, moderno si-stema di
telecomunicazioni satellitari delle loro forze armate.
Ai
siciliani bisogna dare una nuova chance
Si può invertire questa tendenza?
Più che un interrogativo, questo a me pare il
punto centrale di uno sforzo corale di analisi e di dibattito, una nuova sfida
per le forze sane siciliane che desiderano uno sviluppo moderno, di qualità.
Pertanto, l’obiettivo cui mirare dovrebbe
essere: meno armi, meno impianti inquinanti e più infrastrutture e servizi per
uno sviluppo auto centrato, ma non autarchico, che generi lavoro, anche
qualificato, per le nuove generazioni siciliane costrette a emigrare.
Si può fare. Importante è ripartire, riavviare
la collaborazione fra tutte le forze sane dell’Isola che resistono e attendono
un segnale di autentica liberazione dal malgoverno e dal predominio mafioso.
Ma i siciliani desiderano il cambiamento?
Talvolta parrebbe di no. In realtà, molti sono prigionieri della contraddizione
esistente fra la depressione dello spirito pubblico e l’espressione di un
distorto consenso elettorale, che genera sfiducia verso ogni seria istanza di
cambiamento.
Forse è necessario uno sforzo collettivo di
autocoscienza. Tutti devono riflettere su quest’opaco presente e sulle sorti
non proprio rosee della Sicilia.
In primo luogo, dovranno meditare, e cambiare
registro, coloro i quali hanno abusato del potere loro conferito dalla legge e
dagli elettori.
Insomma, ai siciliani bisogna offrire una nuova
chance. La Sicilia
ha bisogno di libertà e di progresso economico per tutti; di recuperare la sua
identità culturale storica che, senza scadere in velleità indipendentiste per
altro dolorosamente sperimentate, riaffidi ai siciliani la responsabilità di
costruire un futuro di benessere condiviso, nella legalità.
* In “I
quaderni de l’Ora”, maggio 2011.
Note:
(1) Non potendo riportare, per ragioni di spazio, il mio punto di vista sul
dittatore Gheddafi, sulla natura del conflitto in Libia, sulla genesi, sulle
modalità e finalità di questa nuova “guerra umanitaria”, rimando ai miei
articoli pubblicati in: www.infomedi.it
(2) in “La Stampa” del 30/9/1911
(3) on.
Roberto Maroni, dichiarazione del 11 giugno 2011.
(4) Ellen
Hodgson Brown, presidente del “Public Banking Insti-tute” (Usa) autrice di “The
web of Debt”, in “El Corresponsal de Medio Oriente y Africa” di Buenos Aires.
Capitolo
ottavo
L’IMMIGRAZIONE COME
RISORSA
Quello che manca: una
stretta di mano
QUANDO I CLANDESTINI SICILIANI SBARCAVANO IN TUNISIA
1…C’era un tempo, non molto
remoto, in cui erano i “disperati” siciliani ad attraversare le acque del
Canale di Sicilia per emigrare nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo: in
Tunisia, Libia, Egitto, Marocco, Algeria.
Un percorso inverso rispetto
all’attuale intrapreso dalle migliaia d’immigrati arabi e africani i quali,
come i nostri di allora, fuggono dalla miseria e dalle guerre.
Chi desidera documentarsi o
semplicemente rinfrescarsi la memoria, può attingere una vasta e variegata
bibliografia, inchieste sociologiche e giornalistiche, memorie e testimo-nianze
di grande interesse.
Sull’emigrazione siciliana in
Tunisia, Stefano Savona, giova-ne regista palermitano, ha realizzato un
cortometraggio “Un confine di specchi”,
premiato al 20° Torino Film festival edizione 2002.
Esiste, inoltre, una letteratura
(in gran parte in francese) dell’emigrazione europea e siciliana nel Maghreb.
E ricercando fra questi materiali
si trovano tantissimi riferi-menti all’emigrazione siciliana nel nord Africa,
in particola-re in Tunisia, iniziata a partire dal 1835, in piena epoca
bor-bonica, col trasferimento d' alcuni gruppi di tonnaroti e di corallari
(specie trapanesi) in diverse località costiere tunisine e algerine, a pesca di
tonni e del pregiatissimo corallo.
(vedi: Giuseppe Bonaffini-“Sicilia e Maghreb tra Sette e Ottocento”,
Salvatore Sciascia Editore)
Da emigrazione “specializzata”
(che detto per inciso operava in condizioni di vita e di lavoro davvero
disumane) i trasfe-rimenti acquistarono le dimensioni di veri e propri flussi
mi-gratori; a partire dagli anni 70 dell’800, quando la presenza degli
italiani, incoraggiata dal Trattato della Goletta (1868), veniva stimata fra
gli 11 e i 25 mila.
Anche allora era difficile
censire gli immigrati, perché in maggioranza erano clandestini.
Esattamente come accade, oggi, in
Italia.
Nel 1870, il 94% dell’emigrazione
siciliana era orientata ver-so la
Tunisia - sostiene A. Grisafi- I 4/5 della colonia italiana
in Tunisia erano d' origine siciliana.
Già nel 1860, nella sola città di
Tunisi- rileva F. Arnoulet- su una popolazione stimata in centomila abitanti,
vi erano fra 3 e 4 mila siciliani, 6-7 mila maltesi (anch’essi di origine
sicilia-na) e solo 600 francesi.
2…Un richiamo specifico va
dedicato a Lampedusa, divenuta uno dei simboli di questo dramma universale,
sperando di far riflettere quanti nella piccola isola pelagica manifestano
disagio o aperto rifiuto rispetto all’emergenza immigrati che, in quanto tale,
non dovrebbe durare in eterno. E va citato quel ristorante, pardon a quella
titolare di ristorante che si è schierata a fianco dei leghisti Bossi e
Borghezio in questa poco esaltante battaglia d’inciviltà. Anche se temo che
sarà un’impresa ardua far riflettere un “ristorante” alla ricerca di clienti
facoltosi.
“Ad Hammamet, la popolazione
italiana era composta unica-mente d’emigrati originari dalle isole di
Pantelleria e Lampe-dusa. Essi vivevano di pesca ed erano anche proprietari di
frutteti e vigneti dai quali traevano un reddito apprezzabile..”
Basterebbero queste poche righe,
tratte dal libro dello storico tunisino Mustapha Kraiem (“Le fascisme et les italiens de Tunisie,
1918-1939”) per aiutare a ricordare quanti non sanno o fingono
di non sapere.
Si scoprirebbe che, negli anni
venti e trenta del ‘900, erano lampedusani e, più in generale, siciliani,
sardi, calabresi e perfino toscani e genovesi gli emigranti che sbarcavano
sulle coste della Tunisia e d'altri Paesi del nord- Africa per sfug-gire alla
miseria, alle guerre e alle repressioni del fascismo imperante in Italia.
“Gli immigrati italiani- si legge
nell’inchiesta condotta, fra il 1918-20, da Arthur Pellegrin- sono circa 100 mila e appartengono in gran
parte alla classe lavoratrice e analfabeta. La maggioranza sono originari dalla
Sicilia e dalla Sardegna. I loro
costumi, in particolare quelli dei siciliani,
sono un po’ rozzi e violenti. Nella loro evoluzione mentale sono più passionali
che razionali…”
** (citato da Guy Dugas,
Università Paris 12)
3…Come si vede, anche i nostri
erano classificati rozzi, anal-fabeti, violenti, sporchi ecc, ecc. Addirittura,
la propaganda xenofoba francofona coniò un odioso slogan “le peril italien” per indicare la presenza degli immigrati italiani
come un rischio per la convivenza pacifica di quelle popolazioni e perfino per
la stabilità politica di quei regimi sotto tutela francese.
In particolare i siciliani erano
dipinti come “criminali incalli-ti,
irascibili, imprevedibili, violenti e molto pericolosi…nella
loro maggioranza gli europei della Reggenza e la popolazio-ne tunisina
accettarono questa rappresentazione negativa dell’elemento siciliano…Il luogo
comune del siciliano belli-coso, armato di coltello o di revolver, che uccide
per futili motivi rimase fisso nel
tempo…”
(Alì Noureddine: “Le cas de la “criminalità sicilienne”-
Sousse 1888-98)
Per altro, va dato atto a
Noureddine di avere, col suo prege-vole saggio, tentato di demolire la falsa
rappresentazione del siciliano “violento e arretrato”.
Si trattava, infatti, di
un’ingiusta generalizzazione, di uno stereotipo artatamente gonfiato e diffuso
dalla propaganda razzista che fece presa sulla maggioranza della popolazione
tunisina per un lungo periodo.
A pensarci bene, quanti
stereotipi anti-immigrati si stanno diffondendo in Italia, in particolare nelle
regioni ricche del nord che sono quelle che più sfruttano, a loro esclusivo
vantaggio, la presenza degli immigrati.
In buona sostanza, la xenofobia,
espressione di un egoismo gretto e ignorante solitamente al servizio
d’interessi econo-mici forti e sovente poco leciti, ha usato sempre e dovunque
lo stesso linguaggio, le stesse immagini distorte e le mede-sime tecniche di comunicazione
e di persuasione.
4…Rileggere queste cose, dette e
scritte più di un secolo addietro contro i siciliani, e come leggere oggi
quanto scritto e detto dai giornali e dai massimi esponenti della Lega Nord
contro gli arabi e gli africani immigrati in Sicilia e in Italia.
Tuttavia, fra le due esperienze
si può rilevare una differenza nella qualità del trattamento e nelle
opportunità d’inserimento nella società d’accoglimento, certamente più
favorevole ai nostri, allora, emigrati in Tunisia.
La numerosa colonia italiana,
distribuita lungo tutta la costa tunisina, era adeguatamente tutelata da
accordi di coopera-zione bilaterali stipulati sia con le autorità ottomane sia,
a partire dal 1870, con quelle francesi che esercitavano il “Protettorato”.
Gli italiani in Tunisia
disponevano di una efficiente organiz-zazione economica e finanziaria, di una
camera di commer-cio (fondata nel 1884), di alcune banche fra le quali la
“Ban-ca siciliana” e di una rete culturale e assistenziale di tutto rispetto:
un quotidiano (l’Unione), teatri, librerie, cinema, un ospedale italiano,
scuole di vario ordine e grado e numerosi enti di beneficenza.
Non si fecero mancare proprio
nulla. A Tunisi, durante il mi-nistero Crispi, fu creata persino una loggia
massonica deno-minata “Concordia”,
con l’intento di far fronte alla prepon-deranza (massonica) francese.
I nostri emigranti erano in gran
parte braccianti e contadini poveri, pescatori, artigiani, minatori, manovali,
piccoli com-mercianti, ecc; tutta gente di fatica che fuggiva dalla miseria e
dalla disoccupazione del sud e delle isole. E qualcuno anche dalle patrie
galere.
Cercavano l’America in Tunisia e
molti la trovarono fra i vigneti, nelle miniere di bauxite e nei fondali
pescosi.
Sebbene il governo di Parigi
incoraggiasse la “naturalizza-zione” di migliaia di nostri emigrati in Tunisia,
gli italiani erano molto più numerosi dei francesi: nel censimento del 1926, su
una popolazione europea di 173.281 abitanti, figu-ravano 89.216 italiani,
71.020 francesi, 8.396 maltesi, ecc.
( in Moustapha Kraiem, op.cit.)
5…Una prevalenza anomala che fece
scrivere a Laura Davi (nelle sue “Memoires italiennes en Tunisie”) che “La Tunisia è una colonia
italiana amministrata da funzionari francesi”.
A parte queste eloquenti
statistiche, c’è da aggiungere che i siciliani in Tunisia, oltre ad essersi
bene integrati nel tessuto economico, vissero quella esperienza in un clima di
reciproco rispetto, di tolleranza e di solidarietà con i locali.
Vi sono, ancora oggi, a Tunisi, a
Sousse, a Madia, a Sfax, quartieri dove si possono riscontrare i segni di
questa feconda convivenza, anche sul terreno difficile delle religioni.
La Goulette, la cittadina
balneare fra Tunisi e Cartagine, era chiamata “la piccola Sicilia” poiché era
stata creata (un po’ abusivamente in verità) dai siciliani provenienti dalle
provin-ce di Trapani, di Palermo e di Agrigento i quali crearono un idioma
tutto loro: un arabo infarcito di siciliano, tuttora usato come lingua locale.
In questa bella e solare
cittadina nacque, da genitori trapa-nesi, Claudia Cardinale che nel 1956, a Tunisi, fu
incoronata reginetta italiana e in questa veste partecipò al concorso di Miss
Italia, da dove spiccò il volo verso una fantastica carriera cinematografica.
Memore di tutto questo e d’altro,
la Sicilia,
democratica e solidale, deve contribuire a risolvere il problema degli
immi-grati, anche per evitare che si affermi una pericolosa visione xenofoba,
al limite razzista, che non rende onore al suo passato e al suo (purtroppo)
presente di terra d’emigrazione.
( In “La Repubblica”
del 28/6/2003)
SICILIA,
ISOLA DEI PARADOSSI
Mentre i giovani siciliani hanno continuato a
emigrare, l’Isola è divenuta la principale porta d’ingresso in Europa dell’immi-grazione
irregolare o clandestina e, al contempo, luogo d’in-sediamento di varie
comunità di lavoratori stranieri.
Per altro, c’è da dire che fra le due migrazioni
non c’è scon-tro, nemmeno concorrenza.
In Sicilia, quasi nessuno protesta contro gli
immigrati che “tolgono il lavoro” ai locali, anzi quest’ultimi sembrano ben
disposti a lasciarglielo visto che è a nero, mal pagato e a alto rischio.
Fra le tante, questa, forse, è la più curiosa
anomalie che l’Isola vive.
Poiché, generalmente, un paese, una regione, una
zona non sono, nello stesso tempo, esportatori ed importatori di manodopera. O
una cosa o l’altra.
Invece, dalla Sicilia vediamo partire verso il
nord frotte di lavoratori edili o di addetti a diversi servizi alle imprese,
giovani diplomati e laureati e, al contempo, arrivare quantità crescenti di
cittadini stranieri che saranno impiegati nei settori abbandonati o rifiutati
dai siciliani.
Un paradosso o c’è dell’altro? Nessuno emigra
per svago, per diletto. L’emigrazione è un dramma, sempre e dovunque. Chi
emigra ha sempre ragioni plausibili.
Le seguenti note non hanno la pretesa di
un’analisi esaustiva del problema, ma vogliono essere soltanto un tentativo per evidenziare taluni aspetti di
questa realtà in formazione, cogliendone
i disagi e le possibilità di
cambiamento.
L’Europa
si ferma a Latina
Si sperava che l’intervento europeo riuscisse a innescare
una dinamica nuova, di sviluppo e di rinnovamento, in Sicilia e nel meridione.
Purtroppo, le attese sono andate in gran parte deluse.
Anche la nuova Europa che abbiamo sognato si è
fermata a Latina. Molto prima di Eboli ossia il luogo-limite dove si è fermato
il Cristo di Carlo Levi.
Insomma, anche l’UE stenta ad avanzare nel
meridione; a ogni passo deve superare una serie di barriere, pagare esosi
pedaggi alle forze della conservazione affaristica e parassitaria.
Dopo un cammino così impervio, giunge in Sicilia
sfinita e con lo spirito infranto, e quel poco che porta non creerà sviluppo,
occupazione, ma andrà ad alimentare un sistema di potere retrogrado e
fraudolento.
Questa è la realtà e guai a chi vorrebbe
modificarla. Siamo arrivati al punto, altro paradosso, che il ceto politico e
imprenditoriale locali paventano, come la più grave minaccia, l’uscita della
Sicilia dal gruppo delle regioni del cosiddetto “obiettivo 1”
ossia quelle col reddito più basso dell’Unione.
Invece di festeggiarne l’uscita come un
avvenimento storico, c’è gente che porta il lutto al braccio perché teme il
venir meno dei cospicui flussi finanziari destinati alle regioni meno
sviluppate.
Fondi Ue:
come rendita da sottosviluppo
Insomma, in Sicilia si lotta per conservare
questa sorta di “rendita da sottosviluppo”. Forse, perché si paura del vero
sviluppo. Una farsa o un dramma che la classe dirigente del Paese sembra
ignorare o addirittura assecondare.
L'importante
è che dall'Isola continuino ad affluire a Milano, al nord braccia, intelligenze
e capitali, leciti ed illeciti, per far girare il meccanismo economico e
finanziario e a Roma mas-se di voti moderati per neutralizzare le riforme più
innovati-ve.
Per
premio, boss e notabili avranno opere (o promesse di opere) colossali e
burocrazie elefantiache dove “sistemare” i loro migliori clientes.
Negli ultimi anni, si è ridotto il flusso dei
finanziamenti per lavori pubblici, anche a causa dei dirottamenti dei Fas
operati dal governo Berlusconi a favore delle regioni del nord.
Tuttavia, la Sicilia non sta soffocando per carenza di
finanziamenti, ma soprattutto per mancanza di libertà d'impresa e di mercato
che scoraggia gli investimenti italiani e stranieri e inducono i migliori a
scappare.
Che cosa dovrà essere il cambiamento? Chi lo
desidera?
Interrogativi tuttora inevasi.
In ogni caso, più che una prospettiva
programmata è un'ardua scommessa che si rischia di perdere, come nel passato.
In oltre 60 anni di specialissima Autonomia, le
forze di pro-gresso non hanno mai vinto una battaglia di vero cambia-mento. E’
stata strappata solo qualche sporadica riforma presto vanificata dal malgoverno
e dal clientelismo.
In realtà, più che l’idea, è mancato un solido e
vasto blocco sociale per il cambiamento.
A causa della grande migrazione dei primi due
decenni del dopoguerra, il fronte moderato e della conservazione ha preso il
sopravvento e continua a dominare quasi incontrastato.
Sicilia:
una strategia mirata di espulsione
C’è stata (c’è) una strategia di selezione e di
espulsione mirata a ridurre e/o far scomparire i ceti tradizionali del lavoro
dipendente e autonomo che costituivano il nerbo dei movimenti democratici per
le riforme e per l’emancipazione dell’Isola.
Una politica odiosa, barbaramente classista, che
ancor oggi continua, giacché in Sicilia l’emigrazione non è stata fermata. Se
ieri partivano braccianti e minatori oggi emigrano lavora-tori edili e giovani
diplomati e laureati.
L’Isola sta perdendo le forze interessate al cambiamento.
Restano, infatti, le categorie “protette” non
dalle leggi (come sono gli invalidi o gli orfani di guerra), ma dal notabilato
politico e dal malaffare ossia parenti e amici più fidati, i portatori di voti
e di tangenti.
Si sono affermate figure sociali ibride e
de-regolate operanti nei servizi e una sottospecie di borghesia (burocratica e
delle professioni), un’imprenditoria che non intraprende, ma vivacchia
aggrappata alla spesa pubblica, facendo leva sul lavoro nero, sull’evasione
fiscale e contributiva.
Tutto ciò spiega il “paradosso” segnalato
all’inizio di un’emi-razione siciliana che continua e di una manodopera
straniera che si preferisce irregolare, clandestina.
Un nuovo
blocco sociale per il cambiamento
Una strategia diabolica messa in atto in Sicilia
e soprattutto al nord - Italia da sfruttatori senza scrupoli e ritegno,
sostenuta da forze politiche che, invece, di affrontare i problemi derivanti da
un certo disagio l’immigrazione irregolare comporta, li esasperano per
scatenare odiose campagne anti- immigrati, con l’obiettivo di perpetuare lo
sfruttamento e di pescare nel torbido.
Per debellare tale strategia le forze
progressiste, di sinistra devono mettere in campo iniziative e proposte capaci
di sottrarre agli speculatori il crescente consenso di settori di popolazione
che vivono l’immigrazione come una minaccia e non come un’opportunità di
sviluppo.
Effettivamente, in certe situazioni si creano
seri problemi di degrado e di convivenza cui
fanno le spese i ceti meno abbienti che vivono più a contatto con gli
immigrati.
Una forza politica seria, un movimento
solidaristico non può trascurare tali disagi, ma li deve affrontare e risolvere
in uno spirito di cooperazione e di solidarietà, distinguendo fra chi viene per
lavorare e chi per delinquere.
Il principio è il rispetto della legge. Chi
delinque va perse-guito, come accade con i cittadini italiani.
Insomma, diritti e doveri, per tutti. Certe
divagazioni sociolo-giche o, peggio, il non vedere i disagi reali che il
fenomeno comporta fra la gente sono il miglior viatico per le campagne razziste.
La Lega di Bossi
è specializzata in tali “campagne” che le rendono milioni di voti.
In
quel movimento c’è del razzismo, ma anche una buona do-se di disagio reale. Non
vederlo, sarebbe un errore. L’eccessivo di buonismo della sinistra può condurre
l’Italia e l’Europa verso nuove forme d’intolleranza razziale e, perché no, di
neo fascismo.
Una posizione più in sintonia con i problemi dei
ceti medi e meno abbienti, consentirebbe alle forze di progresso di riac-quistare
credibilità e seguito fra i settori sociali adescati dalla propaganda razzista e quindi una unificazione
di fronte, fra lavoratori immigrati e residenti, per una prospettiva di
sviluppo.
Addirittura, in Sicilia si potrebbe immaginare
una saldatura tra le forze sane rimaste e gli immigrati per costruire, insie-me,
un nuovo blocco sociale e politico per il cambiamento.
In Sicilia gli immigrati
sono l’unico elemento di novità
Nell’attuale condizione sociale e demografica
isolana l’unico elemento di novità è costituito dagli immigrati di varia
nazionalità e appartenenza sociale: dai disperati che vengono dall'Africa a
quelli che arrivano, con la borsa piena di soldi, per comprare o avviare un negozio,
un ristorante, un hotel, ecc. Questa “novità” vale sia per i grandi agglomerati
urbani e ancor di più per i piccoli e medi centri della provincia,
letteralmente abbandonati e disabitati a causa della nostra emigrazione vecchia
e nuova.
Chi potrà rivitalizzare i tanti piccoli centri
dell’interno sici-liano se non, appunto, gli immigrati già arrivati e gli altri
che verranno?
Ovviamene sulla base di una seria politica
d’accoglienza, di apertura culturale, di reciproca comprensione e di tutela dei
diritti umani e civili. Senza pretendere d’imporre i nostri schemi mentali e di
azione politica a persone provenienti da realtà nelle quali la democrazia e la
giustizia sociale difettano o sono del tutto assenti.
Così concepita e vissuta, questa presenza
favorirà un benefico "rimescolamento delle carte" e l'innesto di
nuove culture, mentalità, stili di vita che potrebbero entrare in conflitto con
le logiche prevaricatrici del sistema dominante e quindi contribuire a tracciare
una prospettiva di cambiamento nella legalità. Da sole, le residue forze
“progressiste” siciliane non ce la fanno. E all’orizzonte del nostro futuro non
s’intravvede un nuovo Garibaldi liberatore.
Perciò, lo sforzo principale è quello di
modificare l’approccio prevalente nell’opinione pubblica che vede la presenza
degli immigrati, in Sicilia e altrove, con preoccupazione, come problema
d’ordine pubblico.
Lo sforzo da compiere è quello di trasformare
l’immigrazione da “questione di polizia” a nuova risorsa, economia e politica,
da far pesare nello scontro fra forze di progresso e di conser-vazione.
Sarebbe questa una mutazione feconda, non solo
concettuale, capace di ri-aprire una prospettiva nuova e delineare un’alter-nativa
al sistema dominante.
Meglio
sarebbe chiamarli “nuovi siciliani”
Perciò, è necessario prestare particolare
attenzione alla realtà degli immigrati stanziali, residenti, dei quali
solitamente non si parla.
C’è, infatti, un serio deficit di conoscenza.
Mentre siamo abbondantemente informati su ogni episodio di cronaca nera e su
ogni sbarco a Lampedusa e sui programmi governativi per ricacciarli indietro,
quasi nulla sappiamo delle condizioni in cui vivono gli immigrati
regolarizzati.
Tutto ciò anche grazie a un’informazione
lacunosa, faziosa che contribuisce a presentare tali sbarchi come una sorta
d’invasione e non come episodi di un dramma infinito che nasce in remote
contrade dell'Asia e dell'Africa e si conclude, talvolta tragicamente, sulle
spiagge dell'Isola.
Lo schieramento laico e progressista dovrebbe
occuparsi seriamente della condizione di quanti vivono in Sicilia, senza
delegare tale compito all’impegno esclusivo, e benemerito, dell’associazionismo
cristiano.
Si tratta di una presenza significativa che, per
altro, contrad-dice un luogo comune secondo cui l'Isola è solo luogo di
"transito" e non d' attrazione per decine di migliaia d'immi-grati.
Chi sono? Quanti sono? Che cosa fanno? Che cosa
pensano? Come interagiscono con la società siciliana?
Un po' tutti dovremmo preoccuparci di scoprirlo.
Sapendo che non potremo definirli in eterno
"immigrati" o “clandestini”.
Più civile sarebbe chiamarli "nuovi
siciliani" come fanno in Australia, paese d'immigrazione per antonomasia,
dove al posto del termine "immigrato" è usato quello più ospitale di
"new australian".
Agli immigrati gli
stessi diritti degli emigrati siciliani nel mondo
I disagi sono l'altra faccia della stessa
medaglia che Stato e Regione dovrebbero affrontare con spirito nuovo, solidale
in base alle leggi.
Ricordando che bisogna attuare soltanto le leggi
relative all’espulsione, ma anche quelle mirate a combattere il mer-cato nero
delle braccia e le pratiche neo-schiavistiche per assicurare ai “nuovi siciliani” il godimento dei
diritti fonda-mentali civili e politici: dalla libertà di associazione,
all’istruzione, alla casa, alla salute. E, al più presto, al voto.
Insomma, riconoscere ai nuovi siciliani quello
che abbiamo chiesto (e in gran parte ottenuto) per i nostri emigrati in varie
parti del mondo.
Perciò, invece di lavorare per criminalizzare
l’immigrazione, occorre un grande progetto politico, sindacale e culturale,
mirante a fare emergere questa realtà, legalizzandola e riconoscendole pari
dignità e doveri all'interno della società siciliana.
Una
siffatta iniziativa potrebbe favorire la nascita di un fronte nuovo di lotta
sociale, mediante la saldatura degli interessi fra lavoratori e disoccupati
siciliani e immigrati, accomunati dal medesimo sfruttamento praticato da un
ceto padronale a dir poco retrogrado.
Sarebbe questo un segno del tempo che stiamo
vivendo all’insegna delle contaminazioni culturali e razziali che plasmeranno
l'umanità e faranno nascere un mondo speriamo migliore dell'attuale.
La Sicilia non potrà mancare a questo appuntamento.
Anche per non smentire la sua civilissima tradizione di convivenza, esempio
raro e fecondo in questo Mediterraneo che deve tornare a unire invece che
separare.
Chi sono i
“nuovi siciliani” ?
I "nuovi siciliani" costituiscono una
realtà fatta di piccole e grandi comunità di uomini e di donne provenienti dai
vicini paesi nordafricani e da continenti lontani, insediatesi stabilmente nella
nostra Isola.
Che cosa fanno? Lavorano senza orario e a paga
ridotta per far sopravvivere e rendere competitive piccole e medie aziende
agricole e artigianali, commerciano povere cose che leniscono i bisogni della
povera gente, badano ai nostri vecchi molti dei quali senza la loro
collaborazione vivrebbero nell'abbandono e nella solitudine. Certo, qualcuno
delinque, ma si tratta di un’incidenza fisiologica dovuta, in gran parte, alla
disoccupazione e/o al mancato riconoscimento dei loro diritti di lavoratori.
La gran parte è gente buona. Basta guardarli
negli occhi per rendersi conto della loro genuina bonomia.
S’incontrano un po’ dovunque per le viuzze dei
centri storici più antichi e fatiscenti delle nostre città. Vi può essere
avversione nell'osservare il visino sorridente di un bambino africano che corre
nell'ombra di un umido basso di Ballarò o gli sguardi pudichi di ragazze
inghirlandate per la loro festa o i movimenti languidi di una danza berbera?
O nel vedere fanciulli, dai volti puliti, sui
banchi di scuola? o uomini schivi che ballano e cantano e pregano in luoghi di
culto improvvisati? o le lunghe file nei
centri della “Caritas” di africani, asiatici e siciliani, accomunati dalla
stessa mise-ria, in attesa di un pasto caldo a mezzogiorno?
In qualche loro tugurio ho visto Madonne
convivere con un Dio indiano.
Una convivenza impossibile in una cattedrale, ma
che qui si realizza senza scandalo. Immagini emblematiche che indica-no la via
che il mondo sta cercando in questa fase buia della sua storia che potrebbe
sfociare in "una guerra di civiltà" all'insegna del conflitto fra
religioni.
Tutto ciò è saggezza, cultura che nulla toglie
alla nostra, anzi vi aggiunge qualcosa e l'arricchisce.
Bisogna, perciò, aprire uno squarcio dentro
questa umanità ancora irredenta ma con tanta voglia di affermarsi, che vive fra
noi, ma che noi ignoriamo del tutto o osserviamo di sbieco, attraverso le lenti
deformanti del pregiudizio razziale e dei resoconti insulsi di certa
informazione.
Dalla "casbah" di Mazara del Vallo
alle serre di Vittoria, dai vicoli maleodoranti di centri storici, un tempo
maestosi, di Palermo, d’Agrigento, di Catania ai quartieri abbandonati (dai
nostri emigranti) dei tanti paesi dell'interno, dalle piazze dove i "nuovi
siciliani" s'incontrano in giorni stabiliti a centri d'assistenza, dai
circoli culturali alle moschee, ai tanti luoghi di culto, precari e spogli,
dove pregano un Dio che non è "minore", ma lo stesso di quello
venerato in Sicilia e in Occidente.
Globalizzazione
e migrazioni
Problematiche complesse che ci aiutano a uscire
dai localismi e a cogliere la dimensione effettiva dell'emigrazione su scale
planetaria.
Per capire l’immigrazione in Sicilia è
necessario inquadrarla nel più vasto fenomeno epocale che è, prima di tutto,
effetto di un grandioso sconvolgimento politico, sociale, ecologico,
demografico, ecc. che ha travolto le barriere nazionali degli Stati e sta
trasformando il mondo in un immenso, disordinato mercato globale.
Ossia la cosiddetta “globalizzazione
capitalistica dell’econo-mia” che per affermarsi deve ri-dislocare produzioni,
saperi, servizi, capitali, tecnologie, spostando intorno alle grandi metropoli,
ai vecchi e ai nuovi insediamenti produttivi masse enormi di forza-lavoro
sottopagata e non tutelata.
Gli effetti sociali e politici di tale
sommovimento sono sotto gli occhi di tutti: il mondo è entrato in una fase di
convulsio-ne che ha rimesso in gioco i tradizionali meccanismi di pro-duzione e
di accumulazione, i sistemi sociali usciti vittoriosi dalla seconda guerra
mondiale e gli assetti di potere derivati.
Uno sconvolgimento epocale, senza regole e senza
un pen-siero forte che lo sostenga e l’orienti verso un approdo giusto e sicuro.
C’è molta inquietudine oggi nel mondo, mentre si annuncia una crisi dalle
conseguenze imprevedibili.
Molti si chiedono: dove sta andando il mondo? La
risposta non è facile. Forse, a naso, si può rispondere: dove vanno i migranti
o gli emigranti.
Migranti o
emigrati?
Migranti o emigrati? Anche questo è un problema
e non solo di lessico. Mi pare che "migranti" (più usato da certa
termino-logia sociologica) più si accosti al termine "migratori" che,
inevitabilmente, ci riporta ai volatili che solcano, gioiosi, i cieli del
Mediterraneo, degli oceani, per spostarsi da un conti-nente all'altro.
Non ci pare questa la condizione che vivono
grandi masse di uomini e donne e bambini costretti a fuggire, spogli e amma-lati,
dai loro paesi, avventurandosi per impervie vie, alla ricerca del lavoro e
della dignità negati.
Forse, è più adatto il termine "emigrante"
per indicare, come per il passato, una condizione umana che, ciclicamente, si
de-termina come conseguenza di politiche miopi e senza regole beffardamente
chiamate "liberiste".
Siamo nel pieno della rivoluzione neo-liberista
decisa a con-seguire il massimo della sua espansione economica e militare e
della sua egemonia culturale che si fonda sulla manipola-zione delle coscienze
e dei saperi.
Da qui lo stravolgimento di culture e di civiltà
sedimentate, di sistemi sociali, di valori e relazione umane, affetti,
solidarietà e di tutto ciò che potrebbe ostacolare la propensione al consu-mismo
e la velocizzazione dei ritmi di vita e di produzione.
L’umanità, oggi, è preda di una visione
egemonica unipolare che mira alla superproduzione e al massimo profitto, che di-vora
ingenti risorse energetiche e ambientali, che mette a rischio l'equilibrio
biologico e la stessa sopravvivenza del Pianeta.
Una realtà informe, a misura del profitto, anche
illecito, che comincia a mostrare crepe profonde e contraddizioni insana-bili
che taluno pensa di rimarginare ricorrendo alla guerra, anche preventiva.
Intorno alla Sicilia una
vasta rete di flussi migratori
La Sicilia, grazie alla sua posizione geografica, è
divenuta la principale porta d'ingresso in Europa per una gran massa
d'immigrati clandestini provenienti dai paesi rivieraschi me-diterranei,
dall'Africa e dal Medio Oriente, dal sub continen-te indiano e perfino dalla
Cina, dal sud est asiatico e dall'arci-pelago delle Filippine, ecc.
Una rete vasta e variegata di flussi che si
originano dai tanti Sud del mondo in preda a guerre civili, carestie e a regimi
politici corrotti ed indegni che costringono la gente, specie i giovani, a
scappare.
Perché la gran parte dell’immigrazione approda
in Sicilia?
La risposta non è facile. Tuttavia, appare
strano, per non dire sospetto, il fatto che tali flussi, addirittura
intercontinentali, scelgano la
Sicilia e la piccola isola di Lampedusa come principali
luoghi di approdo verso l'Europa.
In un Mediterraneo cosi ampio e oblungo, non si
capisce perché la gran parte delle "carrette del mare" puntino sulle
sperdute Pelagie e, in genere, sulle coste siciliane distanti dall'Africa diverse centinaia di miglia.
Anche gli emigranti provenienti dall'Africa
occidentale (Nigeria, Ghana, Senegal, Marocco, ecc) evitano lo stretto di
Gibilterra (largo appena 34 km)
e vengono ad imbarcarsi sulle coste libiche e per approdare a Lampedusa.
Così quelli provenienti dall'Asia che
potrebbero, più agevolmente, incanalarsi lungo le molteplici vie dei Balcani.
Evidentemente, vi saranno ragioni non tutte
chiare che consigliano di puntare sulla Sicilia, divenuta luogo emblematico di
emigrazione e d’immigrazione di massa.
I due fenomeni, apparentemente antitetici, sono
in realtà prodotti della stessa logica di rapina che si basa sul drenaggio
della parte migliore delle forze di cui un territorio dispone: i giovani
lavoratori, molti in possesso di un diploma o di una laurea.
Il Sud
aiuta il Nord, non viceversa
Questi giovani, emigrando, trasferiscono
gratuitamente verso un Nord, già ricco e iper- sviluppato, la parte più
pregiata del "capitale" intellettuale e fisico prodotto dai diversi
Sud del mondo a costo di enormi sacrifici e con uno sforzo finanzia-rio ingente.
A parte il dramma dello sradicamento degli
affetti, provate a calcolare quanto costa a una famiglia, ad una società del
Sud allevare e istruire un giovane. Un colossale investimento sociale il cui
rendimento va tutto a favore del Nord.
In sostanza, fra Nord e Sud non c’è scambio,
reciprocità.
Non è il Nord che aiuta i Sud nello sviluppo, ma
accade esat-tamente il contrario.
Poiché le regioni meridionali contribuiscono
doppiamente alla crescita del Nord italiano ed europeo, fornendo loro braccia
ed intelligenze e assicurando uno sbocco di mercato alle loro produzioni.
Si ripete uno schema antico, scellerato, che va
avanti dall'Unità (1860), secondo il quale alle regioni meridionali è riservata
solo questa duplice e subalterna funzione.
A garanzia del successo di tale politica è stato
selezionato e imposto (anche col voto) un ceto politico, burocratico e
imprenditoriale infingardo, corrotto e sempre bisognoso di assistenza e di
condoni e si è tollerata, quando non favorito, una criminalità che esprime una
potenza condizionante superiore a quella di uno Stato.
Perciò a molti non resta che...emigrare,
scappare.
Per i Sud emigrazione vuol dire distorsione dei
parametri fondanti del contratto sociale, abbandono di case e villaggi,
impoverimento materiale e culturale delle comunità, deca-dimento economico e,
ancor più grave, crisi della prospet-tiva,
mancanza di un futuro. I Sud pagano al nord un prezzo salatissimo e crudele che
nessuna rimessa potrà mai compensare.
(in
“Infomedi” settembre 2006)
LE STRANE ROTTE CHE
PORTANO GLI IMMIGRATI IN SICILIA
Un
fenomeno atipico
Analizzando il corso attuale dei flussi
migratori mediterranei sorge un interrogativo che nessuno riesce (o vuole)
chiarire all'opinione pubblica: perché la gran parte di tali flussi raggiunge
l'Europa attraverso la Sicilia?
La questione non è peregrina poiché produce una
serie di effetti a catena sul sistema delle relazioni italo - libiche e, in
particolare, sulla Sicilia generatrice di emigrazione e terra di accoglienza e
di transito d'importanti flussi d'immigrati.
Un fenomeno atipico dovuto in particolare al
fatto di essere un'economia debole e largamente sommersa e alla sua posi-zione geografica che ne fa una piattaforma posta al
confine fra il primo mondo, ricco e iper- industrializzato, e gli altri mondi poveri
o in via di sviluppo.
Un ruolo anomalo impostole dalle menti
direttrici del traffico di esseri umani che le hanno assegnato all’Isola la
funzione di porta principale dei flussi clandestini per il rifornimento del
mercato europeo di manodopera a basso costo.
Ma perché solo la Sicilia?
Se per gli immigrati il problema è di
raggiungere un lembo qualsiasi d'Europa per poi distribuirsi sul continente,
non si capisce perché le organizzazioni del traffico hanno optato per la Sicilia, visto che sulla
costa europea del Mediterraneo vi sono tanti altri approdi più vicini ed
agevoli.
Libia -
Sicilia: la rotta più lunga
Basta osservare la carta geografica e misurare
le distanze fra la costa africana e mediorientale e i possibili punti d'approdo
in Europa, per accorgersi che la rotta Libia - Sicilia è la più lunga e,
perciò, la più illogica e pericolosa fra le tante prati-cabili. E la più
affollata.
Si stima, infatti, che circa l'80% di tali
flussi si diriga verso le coste siciliane attraverso questa specie di ponte
della dispera-zione, lungo oltre 300 miglia di mare.
E' arcinoto che la gran massa dei disperati provenienti
dall'Africa (compresi marocchini e algerini) evita lo stretto di Gibilterra, si
sobbarcano altre migliaia di km e sofferenze indicibili per raggiungere i campi
di raccolta in Libia e da qui imbarcarsi per la lunga (e talvolta tragica)
traversata verso la
Sicilia. Da notare che Malta viene "saltata" anche
se è il primo lembo d'Europa, lungo questa rotta.
Un periplo molto disagevole e perciò strano,
molto strano per non essere sospetto.
E dire che esistono altre rotte molto più
agevoli di quella praticata.
Oltre allo stretto di Gibilterra (largo 34 km), ci sarebbe quello dei
Dardanelli (Turchia) che, con meno rischi, consentirebbe di raggiungere la Grecia o, attraverso le vie
dei Balcani molto più aduse ai traffici clandestini, l'Europa centro-orientale.
Più breve, inoltre, è la distanza che separa la
costa libica dall'isola di Creta o la costa algerina dalla Sardegna (entram-be
grandi isole europee) o quella fra Tunisia e Sicilia ch'era la vecchia rotta
stranamente abbandonata dai trafficanti.
Tutto,
invece, si svolge lungo l'asse Libia - Sicilia. Normalmente. Come se si
trattasse di una tappa obbligata di una crociera turistica mediterranea.
In Libia non si muove
foglia che Gheddafi non voglia
Chi conosce un po' questo Paese sa benissimo che
un traffico di esseri umani di tali proporzioni non può sfuggire all'occhio
vigile di un regime dotato di un efficacissimo sistema di controlli.
Un sistema, per capirci, che ha consentito a
Gheddafi di man-tenersi, per 36 anni, saldamente al potere e di soprav-vivere a
decine d' attentati e di tentativi di colpi di stato, taluni orga-nizzati
dai servizi delle più grandi potenze
mondiali o con la loro complicità.
Perciò, nessuno crede che in un paese siffatto
possano circolare impunemente, sprovvisti di documenti e di cibo, centinaia di
migliaia (c'è chi dice milioni) di clandestini provenienti dai quattro angoli
del pianeta-fame, in attesa d'imbarcarsi per la Sicilia.
A noi sfuggono le ragioni di tali comportamenti,
soprattutto quelli inerenti la sfera politica e governativa.
Si possono formulare solo ipotesi oppure
chiedere ragguagli al signor Abdul Rahman Shalgam, brillante suonatore di
"aud" (liuto) e attuale ministro degli esteri libico, un tempo molto
amico della Sicilia e, in generale, dell'Italia.
Ma lasciamo perdere, sono soltanto ricordi
personali. Oggi in Libia la situazione è profondamente cambiata. Il vecchio
ceto dirigente, sempre al potere, si trova a gestire relazioni e interessi
molto diversi di quelli di qualche anno fa.
E' chiaro però che la Sicilia non potrà
sopportare a lungo un traffico così ingente e problematico.
Le diplomazie italiana ed europea dovrebbero
attivarsi al Massimo livello, sulla base di proposte un pò più serie delle
precedenti, per avviare un negoziato che porti, entro un tempo ragionevole, ad
una consistente regolamentazione dei flussi e ad un accordo chiaro contro tutti
i traffici clandestini fra le due sponde.
Le nuove norme sugli accessi, annunciate dal
governo italia-no, la lunga telefonata di Prodi a Gheddafi, potrebbero favo-rire
un clima propizio per l'intesa e consentire ai lavoratori immigrati di
svincolarsi dalle maglie della tratta clandestina.
Fra Sicilia e Libia, così come con altri paesi
mediterranei, non possono continuare tali turpi commerci, ma bisogna intensificare
il dialogo culturale e gli scambi di beni e servizi per costruire insieme un
futuro di libertà e di prosperità.
(in "La Repubblica" del 11
agosto 2006)
MORTE
SOTTO LA LUNA
Undici
sacchi di plastica nera
L'altra sera sopra Porto Empedocle c'era la
luna. Una luna flebile e inquieta che, in compagnia di una stella insolita, si era
posata sul molo di levante dove una nave della nostra marina (la
"Spica") era attraccata col suo pietoso carico di salme avvolte in
sacchi di plastica nera.
Sono quelle di undici ragazzi africani annegati
in acque maltesi. Altri, dispersi, li cercano ancora. Le scendono a una a una e le depositano sopra
il basolato lavico. Penetrando la ressa dei fotografi, ne osservo alcune bell'impacchettate.
Corpi rigidi, eppure m'illudo che la loro storia sia ancora in itinere. Anche
perché la visione della luna mal si concilia con la realtà di quella vita
rubata.
Sino a quando quelli delle pompe funebri non
mettono il suggello della fine sopra la loro avventura di uomini e di clandestini
come, sbrigativamente, li chiama la burocrazia.
A parte il colore della pelle, non vi erano
altri segni di identificazione. Uomini morti, e sepolti, senza nome e senza
nazionalità, prototipi della globalizzazione che verrà.
La tragedia, una delle tante, si è consumata
sabato notte, nelle stesse ore in cui la notte del Mediterraneo si accende di
luci sfavillanti di panfili dorati, di club esclusivi e discoteche disseminati
lungo le sue incantevoli spiagge.
Pura coincidenza, per carità. Un'accidenti che,
in genere, capita a chi s'ammazza di lavoro, anche precario, o a chi lo cerca
disperatamente. Una disgrazia, dunque, che non turba più di tanto la nostra
farisaica falsa coscienza.
Se fossero annegati 11
gatti…
Eppure - mi domando- cosa sarebbe successo se
undici gatti di razza esotica, magari appartenenti a un ricco evasore, fossero
morti annegati in piscina?
Nessuno avrebbe accettato quel destino truce,
pretendendo che ne fossero accertate le cause e perseguite le responsabilità
che, ora, la legge punisce severamente.
Per questi undici uomini non è successo nulla.
Nessuno, o quasi, s'interroga sulle cause della loro terribile morte, del
permanere di realtà sociali e politiche scandalose, spesso ingovernabili, da
cui si origina il dramma che si svolge dentro, e intorno, il Mediterraneo il
quale, da culla delle più grandiose civiltà, si sta trasformando in un fossato
che divide, invece che unire, i popoli rivieraschi.
Tutto cambia, in fretta e in peggio. Anche
questo vecchio e generoso mare pare che stia diventando cattivo, ingrato e avaro
di risorse.
Ma il mare non c'entra nulla, poiché - come
scrive Braudel - "il Mediterraneo sarà come lo vorranno i
mediterranei". Evidentemente, per ora, così lo vogliono le super
potenze politiche e militari e le grandi corporazioni economiche e finanziarie,
associate da un comune disegno di predominio sul mondo. I
"mediterranei" non hanno voce in capitolo.
Il tragico esodo migratorio e i sanguinosi
conflitti in corso sulle sue rive e zone contigue ci dicono che nel
Mediterraneo è in atto una spaventosa mutazione. Eppure nessuno sembra
preoccuparsene. Non si va oltre la commiserazione momen-tanea: il tempo in cui
nasce e muore una notizia.
Purtroppo, nemmeno i governi se ne occupano sul
serio. Nonostante gli accordi e i buoni propositi, non riescono a immaginare
per i popoli mediterranei una strategia di pro-sperità condivisa, nella pace e
nella libertà.
Questa è la colpa maggiore, e imperdonabile, dei
ceti dirigen-ti dell'area euro-mediterranea i quali, pur rappresentando la più
grande potenza commerciale del pianeta, non riescono (o non desiderano?) a
favorire un'evoluzione pacifica e social-mente giusta dello scenario mondiale.
Il neoliberismo sta
affamando gran parte dell’umanità
Fino a quando potrà durare questa situazione?
Credo che sia venuto il tempo di mettere un punto fermo e provvedere. A
cominciare dalle politiche migratorie che dovranno regolare i flussi, nel
rispetto dei diritti umani dei migranti e anche di quelli delle popolazioni dei
paesi d'accoglienza.
Con quali politiche e con quali strumenti? Su
tutto ciò si dovrà discutere, andando oltre, per favore, le lacrime vere o
fasulle, le solidarietà ipocrite, la carità anche sinceramente motivata.
C'è un dato inconfutabile da cui partire: più la
ricchezza (prodotta dai lavoratori, particolare non trascurabile), si concentra
nelle mani di gruppi sempre più ristretti nazionali e internazionali, più si
espandono le aree di povertà e d'indigenza, anche in paesi iper- sviluppati,
com'è l'Italia.
E' la legge della ripartizione ineguale. Perciò,
non è necessario essere eminenti economisti per capire che il neo liberismo sta
affamando la gran parte dell'umanità.
E chi ha fame scappa, emigra, anche a rischio
della vita.
Come hanno fatto questi ragazzi, finalmente,
sbarcati sulla terra promessa da qualcuno che avrà loro estorto cifre
ragguardevoli.
Sono morti senza patria, perciò non si possono
rimpatriare. I lestofanti che comandano su quelle "patrie" non li
rivogliono nemmeno da vivi, figurarsi da morti.
Meno male che c'è Favara, l'unico comune
dell'agrigentino ad avere predisposto uno spazio cimiteriale adeguato per i
defunti immigrati. Un fazzoletto di terra, che già ospita molte salme anonime,
destinato a diventare una sorta di sacrario dell'immigrato ignoto.
E
tutto ciò rende onore (vero onore) ad una città, e per essa all'intera Sicilia,
che della morte hanno ancora un sentimento altissimo di devozione e di
partecipazione. A tratti, perfino gioioso.
E verso Favara partono le sfarzose
"mercedes" delle pompe funebri, ognuna con dentro una cassa
luccicante. Uno strano corteo, muto e senza parenti al seguito.
Poveri figli! Sono "arrivati" laceri e
avvizziti e se ne vanno dentro bare di mogano, a bordo di automobili lussuose
che nemmeno i loro presidenti, in terra d'Africa, si possono per-mettere.
Pare che provenissero dalla Sierra Leone. Da
Freetown o da Moyamba? Non lo sapremo mai. Solo la luna che li ha guidati nella
notte africana o il sole impietoso che li ha inseguiti per deserti e montagne
ce lo potrebbero dire.
(in "La Repubblica" del 22
giugno 2007)
OLTRE
LAMPEDUSA
La nostra
farisaica falsa coscienza
Parlando o scrivendo d'immigrati, solitamente ci
si ferma a Lampedusa. Sembra che questo immane dramma, umano e sociale, nasca e
finisca in questa piccola isola sperduta del Mediterraneo.
Come se decine di migliaia di uomini e di donne
e le loro putride carrette sorgessero, all'improvviso, dalle profondità
abissali del mare tutt'intorno e una volta consegnati, vivi o morti, al Cpt il
problema scompare. Tutto si placa e la nostra farisaica falsa coscienza si
acquieta.
Dopo Lampedusa, a nessuno sembra interessare la
sorte che li attende, le pene che dovranno sopportare nella loro triste
condizione di clandestinità.
Molti saranno rimpatriati verso la
"patria", miserabile e ingra-ta, da cui sono fuggiti. O, in mancanza
di documenti, verso una patria qualsiasi.
Chi riesce a sfuggire al fermo, vagherà senza
meta, per giorni o per mesi, per raggiungere regioni lontane o, addirittura,
altri stati di questa Europa opulenta e cinica che brama manodope-ra a prezzi
stracciati e scarica i disagi derivati sulle società e sui ceti più
emarginati.
Soprattutto
le donne, finiranno nelle grinfie di sfruttatori sen-za scrupoli, anche
compatrioti, (ancora la patria!) che le av-vieranno alla prostituzione o, nel
migliore dei casi, a badare, 24 ore su 24, ai nostri vecchi cui nessuno
bada.
Molti s'imboscheranno in un ovile o presso una
sperduta fattoria, nelle oscurità maleodoranti di un hotel, di un bar, di un
ristorante, di una bottega o chissà dove pur di sopravvi-vere senza incappare
nei rigori della Bossi-Fini.
La vecchia
e la nuova schiavitù
Fino a quando dovremo assistere a tutto ciò?
In mancanza di una regolamentazione dei flussi e
di una tutela giuridica e salariale degli immigrati, avremo (in parte già
abbiamo) in questa nostra civilissima Europa una moderna schiavitù, simile
a quella classica abolita con la Convenzione di Ginevra
del 1926.
Ovviamente, fra vecchia e nuova schiavitù c'è
qualche differenza fra le quali la più evidente consiste nel fatto che mentre
allora i giovani africani erano catturati nelle foreste da pii mercanti
islamici e trasportati, in catene, sopra galeoni olandesi, inglesi, portoghesi,
ecc, nei territori del Nuovo Mondo e qui acquistati da pii latifondisti
cristiani, oggi partono per il Vecchio Mondo volontariamente, vanno alla
ventura e pagano addirittura un esoso passaggio su natanti precari.
E, una volta arrivati, l'Europa se li tiene ben
stretti, perché ne ha un bisogno estremo: senza questa forza-lavoro a basso
costo non potrebbe competere con le nuove potenze commerciali protagoniste
della globalizzazione.
Questa è la verità che spiega quel cumulo di
contraddizioni che è l'attuale politica migratoria della Ue e dei singoli stati
membri.
Lampedusa è divenuta un emblema di questa
colossale ipo-crisia, principale punto di approdo e di snodo di una scan-dalosa
tratta di esseri umani "assistita", quando non aperta-mente
sostenuta, da governi e settori delle amministrazioni.
Senza volerlo, la piccola isola che li vede
arrivare e la Sicilia
che li vede in gran parte passare, sono testimoni di un feno-meno epocale provocato da un
grandioso sconvolgimento politico, sociale, demografico, ecologico che ha
travolto le barriere degli stati e sta trasformando il mondo in un mercato
globale dove merci e capitali possono circolare liberamente, mentre gli uomini
si devono arrestare ai confini nazionali.
Dove va il
mondo? Dove vanno gli emigrati
Una ben strana concezione dello sviluppo che per
affermarsi deve ri-dislocare produzioni, saperi, servizi, capitali, tecno-logie
spostando intorno ai nuovi insediamenti masse enormi di forza lavoro
sottopagata e non tutelata.
In realtà, stiamo vivendo una lunga fase di
convulsione senza che se ne intravedano gli approdi.
Dove sta andando il mondo?
E questo l'interrogativo più angosciante, al
quale, forse, si potrebbe rispondere: dove vanno gli emigranti.
Ma torniamo alle questioni più pregnanti di
questa dramma-tica attualità che non può essere ridotta ad un mero problema di
vivibilità e di sicurezza pubblica.
Soprattutto in Sicilia, terra dissanguata
dall'emigrazione, bisognerebbe reclamare una svolta politica e un nuovo
approccio culturale del fenomeno e quindi seri programmi di cooperazione (non
il fumoso "Piano Marshall" che di tanto in tanto rispolvera l'on.
Cuffaro) per favorire lo sviluppo dei paesi d'origine degli immigrati che
stanno perdendo le loro migliori energie.
Anche questo è un aspetto devastante di cui
cominciare a preoccuparsi, soprattutto da parte di quelle forze progressiste
che reclamano la totale "liberalizzazione" degli accessi, senza farsi
carico delle conseguenze che determina.
Per averne un'idea non c'è bisogno d'andare in
Burkina Faso. Basta venire, d'inverno, in un paese qualsiasi della Sicilia
interna per accorgersi dei guasti irreparabili provocati dalla vecchia e dalla
nuova emigrazione. Si vedrebbero centri storici abbandonati, interi paesi
agonizzanti, senza futuro, abitati da anziani sopra i sessanta anni e da
giovani sotto i diciotto anni. Paesi- fantasma che vivono solo d'estate, due
mesi l'anno, una vita virtuale animata da modesti baccanali e da feste
patronali che attirano frotte di nostri emigrati i quali non possono più
permettersi le ferie in Spagna o nelle isole greche.
(in “Girodivite” del 6/9/2006)
LA MODERNA SCHIAVITU’
Nessuno
espelle gli schiavisti
Seguendo i giornali, i telegiornali e le
truculente dichiarazioni dei rappresentanti del governo, sembra che lo stupro
sia divenuto la prima emergenza nazionale. Più degli effetti della crisi
economica e morale, delle efferatezze della criminalità organizzata.
L’allarme, seguito da severi provvedimenti,
scatta soprattutto quando lo stupro è commesso da giovani immigrati. Se
commesso in famiglia, come nella maggioranza dei casi, o da un giovane
connazionale al massimo diventa bullismo, disadattamento o cosucce del
genere.
Con ciò non si vuol negare la necessità di
misure adeguate di prevenzione e di repressione per scoraggiare e punire gli
autori di tali episodi obbrobriosi, ma rilevare l’enfasi eccessiva che si è
voluta dare a questi episodi che, per altro, induce a trascurare fenomeni ben
più gravi e diffusi, qual è- per esempio- la riduzione in schiavitù che, anche
in Italia, tormenta l’esistenza di decine di migliaia di donne e di bambini.
L’ultimo caso, l’altro giorno, ad Alcamo, dove una
ragazza rumena, con l’aiuto della polizia, è riuscita a liberarsi, speriamo per
sempre, dalle grinfie dei suoi aguzzini i quali per costringerla a prostituirsi
la tenevano praticamente in condizioni di vera e propria schiavitù.
Eppure, consumata la notizia, non è successo
nulla. Nessuno ha proposto un decreto contro gli schiavisti italiani e
stranieri che controllano un traffico enorme di uomini e donne.
Non è scattata nemmeno quell’indignazione
istintiva che è (era?) la controprova della sanità morale di un popolo, di una
nazione che, per altro, si professa cattolicissima e devota.
Si sta
spegnendo il sentimento della pietà umana?
Come se in queste nostre società “opulente”
anche il sentimento della pietà umana si stia spegnendo nelle nostre menti
alienate e terrorizzate da certa propaganda, a contatto con l’arido deserto
creato intorno a noi da egoismi sfrenati e devastanti.
E questo un altro aspetto, forse il più
inquietante, di questo nuovo ciclo mondiale delle migrazioni che, oltre a
creare nuovi dissesti sociali e morali nelle società d’origine e di
destinazione, produce forme diverse di schiavitù che, abolita ufficialmente
dalla convenzione di Ginevra del 1926, oggi ritorna e si afferma anche nelle
nostre civilissime contrade.
Chi pensava che fosse definitivamente scomparsa
deve ricredersi alla luce di quanto avviene nei mercati del lavoro e dell’emigrazione
clandestina che è una variante tragica del primo.
Secondo tali meccanismi, gli individui,
soprattutto i più emarginati e discriminati, non sono più esseri umani, ma
merce da acquistare e da vendere per pochi euro, bestie da sfruttare e spedire
su camion piombati, da traghettare su battelli precari verso i paesi di questo
Occidente immemore ed ipocrita.
Una condizione drammatica che i nostri occhi non
vedono forse perché abbagliati dal luccichio che promana il dio-mercato che sta
stravolgendo il sistema delle relazioni umane e portando il mondo sull’orlo
della catastrofe.
Una logica folle che - nel migliore dei casi-
considera le per-sone “capitale umano”, “risorsa umana”.
Una fraseologia “moderna” che, in realtà, serve
per educo-rare una concezione abietta che giunge a giustificare, a tolle-rare,
anche la tratta, su vasta scala, di uomini, donne e bambini.
Un commercio turpe, lucroso e criminale che non
potrebbe continuare a svolgersi senza la complicità di settori impor-tanti
preposti ai controlli e il beneplacito dei grandi utiliz-zatori finali della
“merce”.
Un’indagine
parlamentare sulla tratta degli esseri umani
Una moderna schiavitù che si diffonde in barba
alle leggi nazionali e alle convenzioni internazionali e in aperto spregio dei
valori umanitari e di libertà che stanno alla base delle nostre Costituzioni e
società.
Tutti lo sanno, ma nessuno fa nulla, sul serio.
Lo sa anche il Parlamento italiano che, negli anni scorsi, ha promosso
un’interessante indagine sulla “Tratta degli esseri umani” che documenta
l’estensione e l’abiezione del fenomeno e contribuisce a ridefinire il concetto
stesso di schiavitù alla luce della citata Convenzione di Ginevra e della più
recente normativa europea:
“La schiavitù è il possesso in un uomo e
l’esercizio da parte di questo, sopra un altro uomo, di tutti o di alcuni degli
attributi della proprietà. In tal modo, dunque, la schiavitù è identificata
come l’espressione suprema della reificazione umana.”
Non so quanti dei nostri parlamentari, ministri,
alti funzionari, imprenditori, amministratori locali, operatori del diritto,
giusvaloristi abbiano letto le risultanze di questa indagine.
Non molti, visto che non ha avuto alcun seguito.
Tuttavia, il documento parla chiaro e nessuno può chiamarsi fuori. La tratta,
infatti, esiste e colpisce diverse categorie di persone ridotte in stato di
schiavitù. In Italia, in Europa non nella repubblica centro-africana di
Bokassa!
A cominciare dal mercato del sesso, per
l’appunto, che - secondo le stime dell’Interpol- solo in Italia supera le
50.000 unità “tutte trattate come schiave.”
Europa: mezzo milione di
donne sul mercato della prostituzione
In Europa, sono almeno mezzo milione le donne,
di diversa nazionalità, avviate al mercato della prostituzione che (cito dal
documento conclusivo) “si traduce in un vero e proprio business del valore
oscillante fra i 5-7 miliardi di dollari l’anno e ciascuna donna “trattata”
vale 120-150 mila dollari l’anno. Questo denaro- continua il citato documento-
nelle mani della criminalità organizzata, alimenta la corruzione e consente- ed
allo stesso tempo impone- una capillare gestione di questo mercato”.
Il triste fenomeno non riguarda soltanto decine
di migliaia di donne immigrate (africane, asiatiche, sudamericane ed anche
europee) in gran parte minorenni, ma anche migliaia di schiavi-bambini
costretti a elemosinare, a rubare, quando non sottoposti all’espianto di organi
da trapiantare.
Queste e altre pratiche rientrano perfettamente
nella tipologia della schiavitù come definita dalle leggi e dalle convenzioni
internazionali vigenti. Eppure nessuno si scandalizza, interviene
adeguatamente. Quasi per il (falso) pudore di dover ammettere di convivere con
una realtà così tragica che invece di affrontare si preferisce occultare,
rimuovere. Il contrario di quanto avviene per i casi di stupro enfatizzati al
massimo per deviare contro gli immigrati l’esasperazione dei cittadini e la
violenza indiscriminata di gruppi di giustizieri metropolitani.
(in
“GuidaSicilia” del 17/2/2009)
GLI IMMIGRATI
NELL'ITALIA CHE VERRA'
Società
laica o mosaico di comunità?
"Penso che sia riduttivo, perfino
fuorviante, usare la locuzione "questione islamica" per indicare una
problematica più complessa e vasta riferita alla realtà del mondo arabo che, da
lungo tempo, si trova nella contraddittoria condizione di essere il principale
detentore e fornitore di risorse energetiche e, al contempo, una delle aree
meno sviluppate del pianeta".
A parlare
è Agostino Spataro, giornalista, già deputato al Parlamento nelle fila del Pci,
direttore del Centro Studi Mediterranei, membro della presidenza
dell'associazione nazionale di Amicizia Italo-Araba e autore di numerosi saggi
sul mondo arabo e sul Mediterraneo.
Dottor Spataro, la problematica è così vasta e
complessa, ma l'elemento religioso appare fondamentale.
Certo, oggi, l'elemento religioso caratterizza
la travagliata situazione delle società arabo-islamiche come fattore multi-plo
agente sulla grave crisi identitaria, politica, sociale e morale, tuttavia vi
sono altri fattori da considerare.
Le guerre, gli attentati terroristici, le stragi
quotidiane che, attraverso la tv, inondano minutamente le nostre case servono
ad alimentare la cultura della "guerra al terrorismo" e ad annebbiare
la vista di un'opinione pubblica impaurita la quale spesso agisce e pensa in
maniera irrazionale.
Si è voluto ridurre il confronto a un mero
conflitto fra demo-crazia occidentale, che si vuole esportare anche con
l'occupa-zione militare, e il "fondamentalismo" islamico terrorista
che fondamentalismo non è.
In
che senso?
Il discorso sarebbe lungo. Come scrivo nel mio
libro "Fonda-mentalismo islamico: dalle origini a Bin Laden". non si tratta di vero fondamentalismo, ma di
movimenti islamisti radicali che usano l'Islam per finalità politiche facendo
leva sul forte sentimento religioso di vasti settori delle società arabe. Del
resto, l'uso strumentale e per fini di potere della religione non è solo una
prerogativa delle società arabe. Si è verificato, e si verifica, in tanti altri
Paesi.
Anche in Italia?
Anche
in Italia. In Occidente, i gruppi
dominanti rifiutano di aprire un discorso, d’informare l'opinione pubblica
sulla vastità della crisi del mondo arabo poiché, forse, temono che ciò possa
mettere in discussione il collaudato sistema di rela-zioni economiche e
politiche con i vari Stati arabi, soprattutto esportatori d'idrocarburi e
importatori di costosi sistemi d'arma.
Si
continua a presentare l'Oriente islamico come un coacervo di popoli senza
identità storiche, etniche e culturali, tenuti in-sieme dal collante religioso.
Che fine hanno fatto il dialogo euroarabo e la
stessa iniziativa euromediterranea?
Per ora la parola è alle armi. L'Europa e
l'Italia, che pure ave-vano impostato e avviato una strategia di dialogo di
coopera-zione col mondo arabo, sono oggi al carro dell'iniziativa bellicista
unilaterale degli Usa che in Medio Oriente hanno ben altri interessi.
A cominciare dal controllo del mercato
petrolifero.
Dal punto di vista culturale, le classi
dominanti vedono (e ci propongono) l'Oriente musulmano come una barriera teneb-rosa
che s'interpone fra l'Europa e l'estremo Oriente.
E così può dirsi per il Mediterraneo che, invece
d'essere per-cepito come elemento d'unione, è visto come un fossato che separa
le due civiltà.
Un approccio molto approssimativo che ha
ingenerato con-fusione e sentimenti di reciproca diffidenza, di ostilità, anche
se- credo- non corrisponda al punto di vista della maggio-ranza delle nostre popolazioni.
Ma l'accecamento è anche dall'altra parte. Non è
accettabile che i settori radicali islamici continuino a demonizzare l'Europa
giudicandola sulla base di una visione deformante, manichea, come una terra
senza valori e senza ideali, eter-namente occupata a coltivare mire
imperialistiche verso il mondo arabo. Anche questa ritengo sia una
rappresentazione non condivisa dalla maggioranza delle società arabe.
Dunque?
Siamo in presenza di due bellicose visioni
minoritarie contrapposte, viziate da un comune distorto senso della realtà,
animate dal medesimo spirito aggressivo che postula l'ineluttabilità dello
scontro di civiltà. Finché c'è tempo, bisognerà prendere coscienza del pericolo
che due minoranze (razzista ed espansionista in Occidente e islamista e
terrorista in Oriente) riescano ad imporre a due sterminate e pacifiche
maggioranze il loro catastrofico punto di vista.
Esiste una schematizzazione, propugnata
dai media, secondo la quale l'Europa è filoamericana e imperialista e il Vicino
Oriente islamista e terrorista?
Credo che, in questa fase critica, la
maggioranza dei media occidentali (non tutti per fortuna) si siano posti al
servizio della cosiddetta strategia antiterroristica e quindi lavorino per far
passare nell'opinione pubblica questo tipo di rappresen-tazione ingannevole del
vicino Oriente.
Nei media arabi, al servizio dei regimi al potere generalmen-te filo
occidentali, non si riscontra una tendenza contrapposta. Solo i gruppi
estremisti islamici tendono a generalizzare, dipingendo l'Europa come succube
delle mire espansioniste Usa. Le cose non stanno così.
Nonostante le pressioni e gli imbonimenti, i
popoli e qualifi-cati settori delle classi dirigenti, politiche e
intellettuali, di queste due realtà sanno ancora distinguere il grano dal
loglio.
Purtroppo, tanta saggezza non si riesce a farla
diventare linea di politica estera e di cooperazione reciprocamente vantag-giosa.
Come se ne esce?
Non è facile indicare una soluzione specifica. Dobbiamo
sa-pere che il tempo e i conflitti lavorano contro la ricomposi-zione pacifica
dei problemi aperti. Bisogna far tacere le armi e che ognuno se ne torni a casa
propria. In primo luogo gli israeliani dai Territori palestinesi e dal Golan
siriano occupati nel 1967.
A causa dell'avventurismo dell'amministrazione
Bush e dei governanti israeliani, oggi in Medio Oriente sono aperti quat-tro
terribili conflitti: due vecchi (Libano e Palestina) e due nuovi in Iraq e in
Afghanistan.
Le guerre stanno distruggendo questi Paesi e
mietendo cen-tinaia di migliaia di vittime in gran parte civili e, fatto ancor
più grave, stanno incentivando la crescita e la diffusione del terrorismo. Si
dimostra che la guerra non è la soluzione, ma il suo contrario. Perciò,
l'Europa e l'Italia non possono più avallarla.
L'immigrazione araba in alcune zone
dell'Italia comporta seri di convivenza e di reciproco riconoscimento
culturale. Ritiene che sia possibile risolverli accentuando il processo
d'integrazione?
Siamo di fronte a una questione di dimensione
globale, com-plessa, la cui soluzione richiede tempi lunghi e una forte e
persistente disponibilità all'ascolto e alla comprensione reci-proca e una
revisione profonda dei rapporti fra l'Italia e i Paesi di provenienza.
Per sottrarre i flussi migratori dalle grinfie
delle organizzazi-oni criminali bisognerebbe stipulare trattati bilaterali e
multi-laterali sull'emigrazione.
Penso che l'integrazione non sia il processo
adatto per pro-muovere il progetto di costruzione di una società accoglienza,
multiculturale e multietnica, se è questo l'obiettivo.
Integrazione vuol dire assorbimento,
incorporazione di una minoranza o di una diversità nel corpo più vasto di
un'entità sociale definita e chiusa.
In
base a tale approccio non sarà facile
conseguire la convi-venza civile. C'è bisogno di contaminazioni, di
scambi, di cooperazione a tutti i livelli. Con un punto fermo però: che questo
processo non intacchi, ma rafforzi, le basi laiche e democratiche della società
italiana ed europea.
Su
tale aspetto non si deve arretrare nemmeno di un millime-tro. Prima di tutto
per aiutare i nuovi arrivati che spesso
pro-vengono da Paesi dove democrazia e laicità sono completa-mente sconosciute.
Un traguardo importante potrebbe essere
la formazione di un Islam italiano rispettoso della nostra identità nazionale e
delle nostre leggi. Che cosa pensa a questo proposito?
L'Islam italiano? Mi sembra un'idea un po' vaga.
Pur auspi-cando un radicamento nella società italiana dei cittadini im-migrati
di confessione islamica, non vedo come una tale ipotesi possa effettivamente
attuarsi e soprattutto funzionare. Non bisogna dimenticare che l'Islam, a
differenza della Chie-sa cattolica, non ha un clero né tanto meno una gerarchia
che organizza e verticalizza le istanze di base.
Lo stesso testo sacro, il Corano, è liberamente
interpretato da ciascun credente. Questa condizione crea un serio problema
anche ai fini di un collegamento fecondo e collaborativo fra Stato italiano e
comunità di religione islamica presenti sul nostro territorio. Insomma, un concordato
con l'Islam non è, per il momento, immaginabile.
La risposta, dunque, è la società
multiculturale?
Multiculturale e multietnica, laica e
democratica. Lo ribadi-sco. Per essere chiari, non si può favorire la tendenza
in atto della costruzione di una società che sia un mosaico di comu-nità
aggregate in base a fattori razziali e/o religiosi. Questa sarebbe la fine
della società laica, civile e democratica e l'inizio di una faida infinita come
accade in tante parti del mondo.
Quindi non soltanto il rispetto di tutte le
leggi vigenti in Italia, comprese quelle a tutela dei diritti sociali e
politici degli immigrati, ma una vasta azione d'informazione e di dialogo per
convincerli ad aderire ai principi e alle pratiche della società laica e democratica
che è la più efficace garanzia a tutela delle loro identità culturali e
religiose che la nostra Costituzione consente di professare liberamente.
Si tratta di un processo politico e culturale
che non può essere attuato con l'ingiunzione, ma con la persuasione; che
richiede tempi, strumenti e provvedimenti idonei ad aiutare gli immi-grati a
divenire cittadini italiani ed europei a tutti gli effetti, con gli stessi
diritti e gli stessi doveri.
(intervista
a cura di Salvatore Falzone, in “L’Abbazia”, maggio 2007)
FINE
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