Da Bagdad a Tripoli,
continua la guerra per il controllo del
petrolio arabo. Attacco all’euro e riconquista neocoloniale sono due
tasselli della strategia della oligarchie finanziarie per una nuova egemonia
mondiale.
L’Italia e la Sicilia sono le punte più
avanzate dell’interventismo della Nato in M. O. e nel Mediterraneo divenuto un mare di
conflitti e di migrazioni disperate.
Il libro analizza
percorsi e connessioni di tale strategia e indica un’alternativa di pace e di
cooperazione fra i popoli.
L’autore:
Agostino Spataro, giornalista, già deputato nazionale, direttore di “Informazioni dal Mediterraneo”
(www.infomedi.it), collabora con “La
Repubblica” e con altri giornali e riviste.
Ha scritto vari saggi, fra i
quali:
“Per la Sicilia”, (presentazione di Giorgio Napolitano), Agrigento, 1982
“Missili e mafia”(con P.
Gentiloni, A. Spampinato) Editori Riuniti, Roma,1985
“Oltre il Canale- Ipotesi di cooperazione siculo - araba”,
Edizioni Autonomie, Roma, 1986 (tradotto
in arabo)
“Missili addio!”, Edizioni
La Zisa,
Palermo, 1988
“I Paesi del Golfo”,
Edizioni Associate, Roma, 1991
“Il Mediterraneo” (con B. Khader), Editrice Internazionale , Roma,
1993
“La notte dello
sceicco-Reportage dallo Yemen”-
Edizioni Associate, Roma, 1994
“Il turismo nel Mediterraneo”,
Editrice internazionale, Roma,1998
“Mediterraneo, l’utopia possibile”,
Editrice internazionale, Roma, 1999
“Il Pianeta
unico” (con Naom Chomsky e altri),
Eleuthera, Milano, 1999
“ Le tourisme en Méditerranée”, Editions l’Harmattan, Paris, 2000
“Il
fondamentalismo islamico- Dalle
origini a Bin Laden”,
(presentazione di Yasser Arafat ) Editori Riuniti, Roma, 2001
“El fondamentalismo islamico- El Islam
politico”, Editora Rosario,
Argentina, 2004
“Sicilia,
cronache del declino”, Edizioni
Associate, Roma, 2006
“Monica - Storia di un’infanzia
ritrovata”, Ilmiolibro, Roma, 2011
ISBN 978-88-91014-44-3 euro 18,50
Agostino Spataro
PETROLIO,
IL SANGUE DELLA GUERRA
Da Bagdad a Tripoli: lo stesso disegno neocoloniale
(Carta di Laura Canali apparsa su “Limes”
1/11”. Un grazie a Lucio Caracciolo per la gentile concessione)
La foto in copertina è una rielaborazione tratta da: www.sullanotizia.com che ringrazio, insieme a
Klari Laky per la collaborazione.
Avvertenza:
per
ogni pezzo sono indicate fonte e data di pubblicazione per consentire al
lettore di contestualizzarne il contenuto. Quando non diversamente indicato, le
foto sono dell’autore.
INDICE
INTRODUZIONE
pag. 7
Capitolo
primo
pag. 15
DELLA
GUERRA E D’ALTRI ACCIDENTI
Le vere ragioni della guerra di Bush
Iraq: le stesse potenze per lo stesso petrolio
Verso un impero americano?
Armi chimiche, attenti al marchio
La guerra è anche contro l’Europa
Attentati suicidi: una terrificante novità
Capitolo
secondo pag. 53
GUERRA AL
TERRORISMO O A CHI?
Bin Laden come l’Araba fenice
Oriente e Occidente: la grande incomprensione
Saddam Hussein: il prima e il dopo
Saddam Hussein e l’Italia
Moro è caduto per aver troppo capito e troppo
osato
Capitolo
Terzo pag.
78
MEDIO
ORIENTE: IL CONFLITTO INFINITO
Per una vera pace in Medio Oriente
Dopo Arafat, arriverà la pace?
Andreotti terrorista?
Fermare il massacro israeliano a Gaza
Gerusalemme, la solitudine d’Israele
1988. Gli israeliani fanno saltare la “Nave del
ritorno” dei palestinesi
L’Italia riconosca lo Stato palestinese
Capitolo
quarto
pag. 124
GUERRA
ALLA LIBIA
Si può ancora trattare col regime libico?
Petrolio e dittature
Libia: Italia de nuevo en guerra
Sicilia-Libia, un’illusione mediterranea
L’Italia e la crisi libica
Libia:
la Nato può
vincere la guerra, ma perdere il dopoguerra
Capitolo
quinto
pag. 163
MONDO
ARABO, FASCINO E CONTRADDIZIONI
Fondamentalismo islamico o islam politico?
Yemen, paese di Bin Laden o della regina di Saba
Quando un sultano sbarca a Palermo
Le mutilazioni genitali femminili
Una lettera da Damasco
Primavera araba: rivolta o rivoluzione?
Capitolo sesto
pag. 201
EUROPA
SOTTO ATTACCO
L’uovo del serpente
La dittatura degli investimenti
Attacco all’euro, attacco
all’Europa
Crisi europea: finirà come in
Argentina?
Capitolo
settimo
pag. 223
LA SICILIA FRA TENSIONI E COOPERAZIONE
La Sicilia fra Europa e Mediterraneo
L’Isola al centro di un sistema agro-alimentare
mediterraneo
Mediterraneo, la centralità ritrovata
Da Sigonella la guerra al terrorismo
Basi militari: patti segreti e finti bisticci
Esiste ancora la questione meridionale?
La Sicilia al tempo della globalizzazione
Portaerei e hub energetico: i due poli del
futuro siciliano
Capitolo ottavo
pag. 275
L’IMMIGRAZIONE
COME RISORSA
Quando i clandestini siciliani
sbarcavano in Tunisia
L’immigrazione come risorsa
Le strane rotte che portano gli immigrati in
Sicilia
Morte sotto la luna
Oltre Lampedusa
La moderna schiavitù
Gli immigrati nell’Italia che verrà: società
laica o mosaico di comunità?
Introduzione
DA BAGDAD A TRIPOLI: LO STESSO DISEGNO NEOCOLONIALE
Da “Il
lamento della pace”:
“…mi rendo conto che tra i principi non solo
non dimora la pace, ma anzi sono proprio loro che spargono i semi di tutti
quanti i conflitti….I principi hanno più potenza che sapienza e sono mossi più
dalla loro cupidigia che dal retto giudizio della coscienza.”
Erasmo da Rotterdam, 1517
La campana suona per te
“La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,
perché io sono parte dell’umanità.
E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana:
essa suona per te.”
perché io sono parte dell’umanità.
E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana:
essa suona per te.”
John Donne, citato da Franco Soldani in “Cambiailmondo”
15/11/2011
ESPORTARE LA DEMOCRAZIA CON
I “DRONE”
Questa pubblicazione nasce dall’esigenza di far
circolare, in forma di libro, una selezione di miei articoli, in gran parte,
pubblicati sul mio sito “www.infomedi.it”
e su altri periodici on line, alcuni all’estero, i cui direttori, sentitamente,
ringra-zio. Come dire: finché c’è il web (libero) c’è speranza!
Poiché, è sempre più difficile trovare
accoglienza nei “gran-di” giornali e tv italiani dove è invalsa l’attitudine di
rifiutare punti di vista divergenti
dalla loro linea politica editoriale.
Così operando, i padroni del “cartaceo” e i loro
direttori exe-cutive, oltre a non
informare correttamente, non si rendono conto di accelerare la crisi, la fine
dei giornali, lasciando al web il futuro dell’informazione.
Perciò, per non incomodare nessuno, ho preferito
stampare il libro a pagamento. Si tratta, pertanto, di un lavoro artigianale,
fatto in casa, senza pretese, nel quale si potranno trovare ripe-tizioni e
qualche svarione (e di ciò me ne scuso), ma anche qualche esatta previsione
analitica e tanta sincera passione politica e tanto amore per la pace e la
giustizia sociale.
Il
libro, partendo dall’invasione dell’Iraq, si snoda lungo un filo conduttore che
evidenzia un inquietante disegno occiden-tale, della Nato in particolare, di
“riconquista” neocoloniale di taluni paesi del Medio Oriente e della sponda sud
del Mediterraneo.
Così
la penso e così la dico. Un punto di vista, intimamente, da molti condiviso ma solo da pochi
dichiarato.
In realtà, il punto di svolta è stato l’orribile
attentato alle “torri gemelle” di New York col quale i suoi autori, dichiarati
o presunti, hanno inteso inaugurare il nuovo secolo.
Il 9/11 bisogna ricordarlo per la morte di tremila vittime innocenti e anche perché ha
aperto un’altra fase della tenebrosa regressione “liberista” che sta mettendo a
rischio le conquiste di libertà e di democrazia e la stessa convivenza pacifica
fra le nazioni.
Con la scusa di esportare (con gli F16 e con i
“drone”) la democrazia, i diritti umani, ecc, le più forti potenze della Nato,
(alcune ex coloniali: Francia, Inghilterra e- in seconda fila- Spagna, Italia,
Belgio, Portogallo), vogliono
impadronirsi delle aree più pregiate del mondo
arabo e islamico, specie di quelle che sfuggono alla loro influenza politica ed
economica.
Sono stati perpetrati interventi politici e
militari gravissimi che, fino a qualche anno fa, il Consiglio di sicurezza dell’Onu
condannava come inammissibili ingerenze negli affari interni di Stati sovrani.
Oggi, invece, stranamente, li ratifica, li
autorizza.
Evidentemente, al Palazzo di Vetro c’è qualcosa
che non sta funzionando secondo la prassi e lo Statuto.
Per gli arabi
non c’è pace
E’ inutile fingere. Gli obiettivi sono il
petrolio, questo male-detto petrolio che sta avvelenando gli uomini, l’aria e la Ter-ra, e il controllo
strategico delle grandi vie commerciali e dei nuovi mercati, delle
infrastrutture di approvvigionamento e
delle enormi risorse finanziarie dei Paesi arabi.
Perciò per gli arabi non ci sarà pace. Sembra
che a questi popoli sia negato il
diritto a vivere in pace!
Il principale conflitto che li tormenta, quello
arabo-israeliano, dura da 63 anni e non s’intravvede una conclusione a breve.
Liberatisi dal colonialismo europeo nel secondo
dopoguerra, i popoli arabi rischiano di passare dalla padella di regimi
militaristi illiberali e, talvolta, perfino tribali, alla brace di potenze
straniere promotrici di un neo-colonialismo che non esclude- come si è visto in
Afghanistan, in Iraq, in Somalia, in Libia, ecc - l’intervento militare diretto
e/o eterodiretto.
Tale condotta evidenzia una tendenza allarmante:
il ricorso, sempre più frequente, da parte delle “potenze” occidentali
all’intrigo politico e all’opzione militare per risolvere le controversie
internazionali.
In realtà, il colonialismo, la guerra sono
scelte disperate operate da gruppi di potere dominanti che non riescono a
vedere altre vie di soluzione dei problemi.
Scelte, dunque, irresponsabili, inquietanti che
stanno cam-biando i termini dello scambio fra Occidente e Oriente islamico, fra
Europa e Mediterraneo.
Si sta passando, infatti, dall’auspicato
rapporto paritario per il co-sviluppo a una nuova dipendenza dei paesi
produttori da quelli consumatori d’idrocarburi.
Quello che
abbiamo temuto sta accadendo
Quello che abbiamo temuto sta accadendo: invece
del dialogo, della cooperazione euro-
araba e mediterranea, sta
tornando la guerra, comunque camuffata e combattuta, per il controllo delle
risorse energetiche e finanziarie.
Una guerra asimmetrica, crudele che ha già
mietuto centinaia di migliaia di vittime e distrutto culture e Paesi, che le
potenze occidentali devono vincere in fretta poiché la Cina si avvicina, sempre più
minacciosa, a quest' area vitale del mondo. La madre di tutte le battaglie
(speriamo solo politiche e commerciali) è, per il momento, rinviata.
Forse, si combatterà fra qualche anno, nell’area
del Pacifico. A tale, tenebroso appuntamento sembrano prepararsi Usa e Cina, i
due principali protagonisti del confronto che- non è escluso- si possa
concludere con un accordo spartitorio globale.
All’orizzonte
del futuro del mondo, si profila un nuovo dua-lismo egemonico che non sopporta
un terzo soggetto primario qual è l’Unione europea, così come si va
configurando: una entità politica dotata di una moneta forte (com’è l’euro) e
di una politica di scambi e di cooperazione che guarda al mondo arabo,
all’Africa e alle altre regioni emergenti.
Sembra che nei programmi degli strateghi Usa e
cinesi non ci sia posto per questa “vecchia” Europa autonoma, democratica che
si rinnova e rilancia la sfida.
Sarebbe d’ostacolo e soprattutto una concorrente
forte e con le carte in regola. Perciò, deve essere indebolita, divisa e
ri-allineata al potente alleato d’oltre Atlantico.
Attacco
all’euro e riconquista neocoloniale
Da qui, il micidiale attacco all’euro, muovendo
dai punti più deboli della catena (Grecia, Spagna, Italia, ecc).
Ironia della logica, della buona finanza: l’euro
è sotto attacco non per la sua debolezza ma per la sua forza.
Fa paura, perciò, devono fiaccarlo, degradarlo,
possibilmente estrometterlo dal paniere delle monete che contano.
Devono farlo oggi, prima che si completi il processo
di unione politica da cui nasceranno un nuovo governo europeo e la prima
potenza economica del Pianeta.
Domani sarebbe davvero imbarazzante,
impossibile.
L’attacco all’Europa e la “reconquista” del
mondo arabo costituiscono, pertanto, due tasselli- chiave nella più generale
lotta per la nuova egemonia mondiale.
In ogni caso, servono a puntellare la
traballante primazia del dollaro e a garantire alle multinazionali (in gran
parte Usa) affari colossali e una quota rilevante dell’approvvi-gionamento d’idrocarburi e un
flusso di petro- capitali indispensabili per le dissestate finanze occidentali.
Sotto tiro
i principali partner dell’Italia
L’Italia, e la Sicilia, sono state
trascinate in questa “nuova avventura” un po’ controvoglia. Anche perché, stranamente,
queste guerre e/o “primavere”, scoppiate in pieno inverno, si stanno scatenando
soltanto contro i regimi di quei paesi di cui l’Italia è il primo o il secondo
partner commerciale, con pesanti conseguenze per l’interscambio italiano.
A conferma segnalo alcuni dati recenti
riguardanti gli scambi fra Italia e i 5 Paesi arabi in crisi, elaborati dalla
Camera di commercio italo araba (su base Istat) e relativi al periodo
gennaio-settembre 2010-2011.
Var.% export Italia Saldo (mn. euro) Differenza
2010 2011 (mn. Euro)
-------------------------------------------------------------------------
Libia - 76,6 - 7009 - 2863
- 4326
Tunisia - 10,5 789 414 -
375
Egitto -
7,6 735 86 -
649
Siria -
3,2 24 -
208 - 184
Yemen -
60,2 100 29 -
71
|
(da”Bollettino
mensile Camera di commercio itarab”, gennaio 2012)
Vi sono da considerare anche i danni indiretti
provocati
dall’aumento dei prezzi degli idrocarburi a
causa degli interventi in Libia e delle crisi in altri Paesi.
Nello stesso periodo, infatti, le importazioni
italiane d’idro-carburi dal mondo arabo sono diminuite (in volume)
rispetti-vamente del 7,4 e del 3,5%, ma l’esborso in valuta è aumen-tato del
20,5% (da 39 a
47 miliardi di euro).
Insomma, un affarone per l’Italia!
L’Italia e la Sicilia, usate come avamposti
strategici
Casualità o c’è dell’altro? La risposta potrebbe
venire da chi tiene l’agenda politica e i conti dell’Italia.
Non vogliamo gridare al complotto, ma nemmeno
ignorare la realtà dei dati derivati
dalla sequenza degli avvenimenti: Iraq, Libia, Tunisia, Egitto, Yemen e domani,
forse, anche Siria e Iran, tutti principali clienti e fornitori dell’Italia.
Per altro, quasi tutti Paesi poveri, mentre la
calma regna sovrana nelle più ricche e illiberali dittature petrolifere del
Golfo: dall’Arabia saudita al Qatar.
Una
doppiezza arrogante che evidenzia una sensibilità demo-cratica a senso unico
che non si applica- per esempio- alla dittatura dello sceicco del Bahrein
impegnato, da quasi un anno e con l’aiuto diretto dell’esercito saudita, a
reprimere nel sangue una rivolta popolare che chiede libertà di voto e di
espressione.
Nessuno parla e scrive di questa tragica
“primavera”. Forse perché il Bahrein ospita le sedi di grandi banche e una
poten-te flotta Usa?
Perciò, sarebbe tempo che gli interventisti
nostrani spiegas-sero al popolo italiano le vere ragioni per le quali hanno
schierato le nostre Forze Armate in operazioni politico-militari che, oltre a
violare i principi di non ingerenza e di sovranità di paesi esteri, danneggiano
gli interessi nazionali del nostro Paese.
L’Italia e la Sicilia sono territori strategici, al centro di
questo Mediterraneo turbolento e attraversato da conflitti vecchi e nuovi,
perciò devono essere politicamente normalizzate e militarmente pronte per
svolgere al meglio il loro ruolo.
Questo parrebbe il “programma”.
Tuttavia, non tutto è scontato.
Tra il dire e il fare c’è di mezzo il…mare.
C’è il nostro Mediterraneo delle grandiose
civiltà che, certo, non accetterà di essere ridotto a mero ricetto di traffici
e di materiali altamente inquinanti e a zona nevralgica di una strategia
aggressiva contro popoli e Paesi che con noi, della sponda nord, hanno dato
vita alla filosofia, alla scienza, alla democrazia.
Inoltre, la militarizzazione delle relazioni
intra-mediterranee vanificherebbe l’ipotesi, che da tempo immaginiamo, di
trasformare l’area mediterranea in uno dei
principali poli dello sviluppo mondiale, per riportarla al ruolo antecedente al
1492.
Insomma, un disegno troppo sbrigativo, brutale e
inaccettabile anche per le masse di giovani
internauti.
La risposta neocolonialista potrebbe non
funzionare.
L’errore è sempre in agguato. Come abbiamo visto
in anni recenti, gli strateghi dell’interventismo non sono infallibili, anzi,
più volte, hanno sbagliato analisi e alleanze, tempi e modi d’intervento.
Unire
l’Europa, unire il Mediterraneo
Nel mondo, anche in quello arabo, persino negli
Usa, c’è tanta gente che rifiuta questa oscura prospettiva; che lotta e spera
in un avvenire diverso, di pace e di fratellanza univer-sale.
Cito per tutti l’esempio più chiaro: l’America
del Sud, dove è nata una grande speranza per il mondo intero.
Qui, infatti, governi e movimenti democratici,
progressisti stanno lottando, con successo, per liberarsi dalla perniciosa
influenza delle multinazionali, per affermare la loro sovranità e libertà, il
loro diritto all’indipendenza economica, al benessere condiviso, alla vita.
Lottano anche per noi che non riusciamo a vedere
oltre il telefonino e l’automobile.
E’ tempo che i cittadini arabi ed europei
facciano, insieme, la loro parte per
riaffermare le loro autonomie e diversità cultu-rali, i loro stili di vita, per
unire l’Europa e il Mediterraneo.
A tal fine, bisognerebbe ri-orientare i
movimenti dei giovani e dei lavoratori verso un grande progetto di co-sviluppo
euro-mediterraneo, alternativo al fallimentare modello sedicente “liberista” e
bellicista delle relazioni economiche e commer-ciali internazionali.
Denunciando tale disegno, non ho inteso
difendere dittatori e satrapi, già abbattuti o ancora al comando, con i quali i
capi delle potenze “castigatrici” hanno fatto affari scandalosi, anche privati,
ma riaffermare i principi (sanciti nella vigente Carta dell’Onu e nella
Costituzione italiana), di non ingeren-za e di rispetto della sovranità
nazionale degli Stati.
Ed anche la necessità di una lotta popolare per
la democrazia vera e per la pace e il benessere condiviso, per salvare
l’uma-nità da una prospettiva tragica e miserabile.
Si può fare! Ma ci vorrebbero idee nuove e
soggetti politici ben orientati e determinati.
Agostino
Spataro
Joppolo Giancaxio, 22
gennaio 2012
Capitolo
primo
DELLA GUERRA E D'ALTRI
ACCIDENTI
Manifestazione di solidarietà tra
ipopoli mediterranei, Barcelona, 1995
LE VERE RAGIONI DELLA
GUERRA DI BUSH
Berlusconi
con Bush per spartirsi i "dividendi di guerra"
Per volontà di Bush, la guerra contro l'Iraq,
purtroppo, appare inevitabile.
Tutti gli uomini e le donne amanti della pace
hanno il dovere di battersi fino all'ultimo istante utile per impedire questa
guerra rovinosa, ingiusta e impopolare.
Se esistesse un sistema mondiale di
consultazione democrati-ca scopriremmo che, nonostante il martellamento
psicologico della propaganda bellicista, i propugnatori di guerra sono una
ristretta minoranza che si sta imponendo sopra una sterminata maggioranza.
Il governo Berlusconi, discostandosi dalle
posizioni respon-sabili dei suoi principali partner europei e accantonando la
tradizionale, saggia politica estera italiana d' amicizia col mondo arabo e di
"equidistanza attiva" rispetto al conflitto mediorientale, ha voluto
schierare l'Italia a fianco di un alleato che, senza consultare nessuno, ha già
pianificato l'intervento militare che minaccia di effettuare anche al di fuori
dei sistemi Onu e della Nato.
Il dato davvero abominevole è che l'adesione del
governo di centrodestra alla guerra di Bush non sembra ispirata, come si vuol
fare credere, a principi di legalità internazionale e di lot-ta al terrorismo,
ma a ben più torbide pretese di spartizione del "bottino di guerra" o
dei "dividenti di guerra" - dirà qual-che elegantone - per
accaparrarsi una fetta del petrolio irache-no, quote di appalti per ricostruire
il Paese distrutto, sciente-mente, dalle bombe anglo-americane, ecc, ecc.
Gli italiani devono sapere che in cambio di
questo immorale ed improbabile "bottino", in ogni caso appannaggio
per po-chi, l'Europa e l'Italia si dovranno fare carico delle pesanti
conseguenze provocate da questa sporca guerra, sia in termini finanziari sia di
aiuti in favore delle centinaia di migliaia di vittime innocenti e di almeno
due milioni e mezzo di profughi (stime ONU), la gran parte dei quali cercheranno
scampo verso le nostre città e paesi.
Come il solito, gli Usa non avranno di questi
problemi visto che si trovano a circa 14 mila km dal teatro di guerra.
La
criminalizzazione del movimento per la pace
In questa guerra sono in ballo interessi forti e
inconfessabili che non ammettono contestazioni "sul fronte interno".
Si vuole, perfino, delegittimare l'amplissimo e
composito movimento che si oppone alla guerra di Bush e reclama la pace, anche
per evitare all'Italia di essere trascinata in questa pericolosissima
avventura.
Chi l'avrebbe mai pensato? Un governo, sorretto
da una forte componente cattolica, che considera reato l'esposizione del
vessillo iridato del movimento pacifista internazionale e bolla come
antipatriottici e "nemici" quelli che invece di guerra chiedono pace,
per altro in sintonia con la ferma e solenne richiesta del Sommo Pontefice.
È in atto un tentativo gravissimo e senza
precedenti, di delegittimare e criminalizzare un movimento così ampio e
trasversale che, superando le categorie dell'appartenenza partitica, si propone
come autonomo punto di aggregazione e di mobilitazione della coscienza
democratica e civile del Paese.
È davvero bizzarro sentirsi accusati di fare il
"gioco" del dit-tatore Saddam o del terrorista saudita "Bin
Laden" da gover-nanti che agiscono e predicano in sintonia e/o in
continuità con interessi che con questi due tristi personaggi hanno com-binato
affari di varia natura, negli Usa come in Italia.
L’Iraq di Saddam: da
guardiano degli interessi occidentali a "Stato canaglia"
L'efferata dittatura di Saddam Hussein è, prima
di tutto, un problema del popolo iracheno che, da circa 30 anni, ne subisce le
più gravi conseguenze politiche, economiche e dei diritti umani.
Fino a pochi anni addietro, per l'Occidente e
per il vicino Oriente islamico "moderato", vale a dire ricco di
petrolio, il regime dispotico di Saddam non era un problema, ma una risorsa
politica e militare interpostasi, come diga anti-fondamentalista, fra la
rivoluzione komeynista e le ingenti riserve di petrolio dell'area del Golfo.
Ancor prima, fino all'instaurazione della
dittatura personale di Saddam Hussein, anche i movimenti e i partiti
progressisti e di sinistra hanno guardato, con interesse e simpatia,
all'esperienza politica irachena portata avanti da una coalizione di forze
democratiche che, seppure dominata dal partito Bath, aveva avviato (con qualche
risultato) un progetto di economia mista e di riforma della società e dello
Stato in senso laico e pluralista, che ambiva a proiettare in avanti la
contraddittoria esperienza panarabista nasseriana.
Oggi, l'amministrazione Usa definisce l'Iraq
"stato canaglia", nel 1980 i governi degli Stati Uniti e di vari
paesi europei, incuranti delle degenerazioni morali e politiche del regime
iracheno, hanno armato e incitato Saddam a scatenare una disastrosa guerra di
aggressione contro l'Iran, durata otto anni.
L’obiettivo era chiaro: bloccare nelle paludi
dello Shatt-el Arab l'ondata trionfante dello sciitismo komeynista che minacciava
di dilagare in tutte le petromonarchie del Golfo e in primo luogo in Arabia
Saudita.
Una parodia della favola
di "Alì Babà e i 35 ladroni"
I guai per Saddam sono cominciati con l'improvvida,
inaccettabile invasione del Kuwait. Da quando, cioè, si è messo, incautamente,
a "scherzare con le cose serie" ossia con le risorse energetiche del
Golfo.
Per detronizzare Saddam Hussein, viene
esercitata, da oltre un decennio, contro un Iraq sconfitto e territorialmente
disarticolato, una forte pressione militare, mediante bombardamenti quotidiani
anglo-statunitensi, aggravata da un sistema avvilente quanto sterile di
sanzioni dell'Onu che hanno soltanto esasperato la condizione alimentare e
sanitaria del popolo iracheno.
Nonostante tutto ciò, Saddam è sempre saldamente
al comando del secondo Paese per riserve di petrolio che - come vedremo - sono
ritenute indispensabili dagli strateghi delle oligarchie petrofinanziarie
nordamericane.
In sostanza, si vuol fare la guerra non per
punire le malefatte passate o per disarmare Saddam, ma per rimuoverlo, con ogni
mezzo, giacché la sua permanenza al potere impedisce l'accesso delle compagnie
Usa alle riserve di petrolio irachene. Al suo posto andrebbe un governo
fantoccio, già confezionato dalla Cia, che aprirebbe le porte alla razzia delle
grandi compagnie.
"Apriti sesamo!" ovvero una
sconcertante parodia della favola di Alì Babà - com'è noto ambientata da quelle
parti - nella quale si capovolgono i ruoli dei protagonisti: ad accaparrarsi
del tesoro non sarà più Alì, ma i “35 ladroni” ossia i Paesi della coalizione
che si preparano ad occupare l’Iraq per conto del nuovo cartello petrolifero
internazionale.
A quel punto, forse, non sarebbe più necessario
continuare a cercare, per deserti e ora anche per mari sconfinati, gli ordigni
di distruzione di massa di Saddam.
Sotto un governo amico o addirittura sotto un
protettorato anglo-americano, tali armi non farebbero più scandalo.
Poiché si ritroverebbero in compagnia d'
arsenali chimici e batteriologici, altrettanto micidiali, regolarmente
posseduti da almeno 160 Stati di questo pianeta che, a quanto sembra, non
preoccupano nessuno.
Incompatibilità fra
petrolio e democrazia in Medio Oriente
Si dice che la guerra è necessaria per abbattere
la dittatura e instaurare la libertà in Iraq. Anche quest' argomento apre una
catena di contraddizioni.
A parte i limiti sempre più degeneranti delle
democrazie occidentali, c'è da rilevare che, oggi, nel mondo si contano diverse
decine di regimi dittatoriali di varia coloritura politi-ca, taluni sicuramente
peggiori di quello di Saddam.
Soprattutto, in Medio Oriente si registra
un'alta densità di dit-tature che, sotto forma di regni feudali e assolutisti o
di repubbliche "ereditarie", dominano la vita politica ed econo-mica
di tutti i paesi ricchi di petrolio.
I popoli mediorientali sono le prime vittime di
questo specia-le regime politico che appare segnato da una sorta d'incompa-tibilità
fra petrolio e democrazia.
Sembra
ineluttabile: dove abbonda il pertrolio difetta o manca del tutto la democrazia.
La dittatura, infatti, è il sistema più efficace
per controllare le ingenti risorse energetiche e per garantire la continuità
dello scambio ineguale e corruttivo fra i poteri patrimoniali locali (sovente
di natura tribale) e le grandi multinazionali domina-trici del mercato
petrolifero mondiale.
Da quando è mondo, le dittature non si abbattono
con le guerre, addirittura preventive, né con rissosi convegni di op-positori,
in gran parte prezzolati, tenuti in alberghi di lusso di Londra o di
Washington, ma le combattono, a viso aperto, anche militarmente, i movimenti
unitari di liberazione nazio-nale che se ne assumono la responsabilità politica
e rischiano quello che c'è da rischiare.
Tuttavia, se davvero si vogliono combattere le
dittature con la guerra, allora bisognerebbe mettere in cima alla lista i
regimi feudali delle petromonarchie del Golfo dove un potere asso-lutista e
retrogrado non consente le Costituzioni, i parlamenti, i partiti politici, i
sindacati, i giornali indipendenti, le libertà di culto, di associazione, ecc,
ecc;
I popoli
arabi stretti fra dittature e oscurantismo religioso
Ormai, dovrebbe essere chiaro che le vere
preoccupazioni da cui muovono i guerrafondai non sono le dittature che negano
le libertà a centinaia di milioni di cittadini arabi.
In mezzo secolo, nessuno si è presa la briga di
andare a libe-rare gli arabi obbligati a vivere sotto regimi politici speciali,
dentro Stati-caserma, stretti nella ferrea morsa di sistemi illiberali, fondati
su privilegi scandalosi, e dell'integrismo fanatico e terrorista che vorrebbe
annullare quel tanto di progresso civile e culturale faticosamente conquistato.
In questa guerra la vera posta in gioco è il
controllo politico e militare delle risorse petrolifere che il liberismo
globalizzante si vuole assicurare a tutti i costi, anche a rischio della pace
mondiale.
Secondo la propaganda bellicista, non c'è più
spazio per una iniziativa negoziale per giungere al disarmo iracheno, secondo
il dettato delle risoluzioni dell'Onu.
"Solo
un miracolo potrà evitare la guerra" ha sentenziato l'on. Berlusconi,
all'uscita del vertice straordinario della UE.
Tali posizioni confermano il più che legittimo
sospetto secondo il quale, da tempo, ai piani alti della finanza e del
complesso militare-industriale Usa è stata decisa e pianificata la guerra
preventiva contro l'Iraq e nulla potrà fermare la poderosa e micidiale macchina
bellica nord-americana.
Tranne, appunto, un miracolo, a quanto pare
improbabile nonostante l'accorata presa di posizione del Papa e l'accorta
iniziativa della diplomazia vaticana il cui responsabile, mons. Touran, si è
spinto a definire "un crimine contro la pace" la guerra unilaterale
che vorrebbero scatenare Bush e soci.
O forse "il miracolo" potrebbe essere
l'abbandono volontario del potere (e l'esilio) da parte di Saddam e del suo
entourage? Vedremo.
Non regge più la teoria
manichea del "bene" e del "male"
D'altra parte, Bush ha forzato la situazione
fino a un punto di quasi non ritorno. Questa volta, la partita non si potrà concludere
con un rinvio, ma con la vittoria di uno dei due contendenti. Una lotta
all’ultimo sangue nella quale per il perdente non ci sarà scampo.
Bush n'è consapevole (come dall'altro lato anche
Saddam) perciò è deciso a giocarsi il tutto per tutto pur di assolvere, con
profitto, al compito assegnatogli dai suoi potentissimi sponsor elettorali:
impossessarsi, anche con la guerra, delle enormi riserve petrolifere dell'Iraq
che, aggiunte a quelle della confinante Arabia saudita e delle altre
petromonarchie del Golfo, assicureranno alle compagnie Usa il controllo del
mercato energetico mondiale e il rifornimento, a prezzi minimi, del voracissimo
mercato interno.
Nessuno crede alle storielle manichee del
"bene" e del "male, alla missione salvifica dello zio Sam per
liberare il terzo e il quarto mondo dalle grinfie di una masnada di dittatori
(in gran parte allevati e sostenuti dalla Cia) e, fino a prova provata, al
paventato connubio fra Saddam Hussein e Bin Laden, ossia fra "il diavolo e
l'acqua santa".
Le farneticanti accuse
contro i pacifisti più si attagliano agli accusatori
Le accuse contro il movimento pacifista e la
sinistra di fare il gioco di Saddam o, peggio ancora, del terrorista Bin Laden,
vanno rinviate ai diversi mittenti.
A questi signori bisogna ricordare, fra l’altro,
che:
a) la dittatura di Saddam si è affermata
passando sopra migliaia di cadaveri di militanti kurdi e di dirigenti del
Partito comunista iracheno;
b) la gran parte delle armi e delle tecnologie
(chimiche e batteriologiche) che gli ispettori dell'Onu vanno cercando sono
state vendute, e lautamente, dai principali Paesi della Nato, fra cui Stati
Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia, oltre che dall'ex URSS;
c) il miliardario saudita Osama Bin Laden non ha
mai militato nei ranghi del movimento operaio e della sinistra;
d) è stato proclamato emiro del terrore
direttamente sul campo, nella "guerra
santa" afgana contro gli invasori sovietici, con l'evidente sostegno
(in istruttori e armi) della Cia e con fondi messigli a disposizione da vari
governi della regione amici degli Usa.
Scrive Gilles Kepel, eminente orientalista
francese, sul quotidiano marocchino "Libération":
"Negli Stati Uniti, la causa (del
"Jihad=guerra santa" n.d.r.) era ben compresa: i jihadisti combattevano
"l'impero del male" sovietico, evitando ai boys del Middle West di
rischiare la loro vita, e le petromonarchie pagavano la fattura... Nel 1988,
Osama Bin Laden crea in Afganistan
una base di dati, schedando tutti i
militanti jihadisti e gli altri volontari che transitano per i suoi campi di
addestramento: da ciò nascerà una struttura organizzativa, creata attorno ad
uno schedario informatizzato, da cui il nome arabo al-Qaeda ("la
base"di dati)..."
(citato nel mio”Il
fondamentalismo islamico”, Editori Riuniti, 2001)
Perché gli Usa hanno
bisogno del petrolio iracheno?
In realtà, la lotta al terrorismo e per la
libertà è il paravento sgangherato dietro cui si tenta di nascondere
l'inderogabile necessità di mettere le mani sul petrolio iracheno.
Per verificare la plausibilità di tale assunto,
basta fare quattro conti, con l'ausilio dei dati contenuti in "Annual
Statistical Bullettin - 2001" dell'Opec.
Con 5,8 milioni di barili/giorno (mln b/g), gli
Stati Uniti figurano al terzo posto della graduatoria mondiale dei produttori
di petrolio (dopo i paesi ex URSS e l'Arabia Saudita) e al primo posto in
quella dei consumatori (18,5 mln b/g nel 2001).
Gli Usa, infatti, con poco più del 4% della
popolazione mon-diale (276 mln d'abitanti), consumano il 26% della produzio-ne
petrolifera mondiale, alla quale bisogna sommare i consu-mi derivanti da altre
materie prime energetiche quali il carbo-ne, il gas naturale, il nucleare, ecc.
che portano il consumo medio/annuo per abitante a 8,8 Tep (tonnellate
equivalenti di petrolio). La media italiana è di 2,9 Tep.
Come nota Nicolas Sarkis, uno dei massimi
esperti mondiali di energia e direttore di "Pétrole e gaz arabe":
"I dati di base dicono che la
produzione petrolifera degli Usa è in costante calo da circa 30 anni, durante i
quali il loro consumo è aumentato e la loro dipendenza dalle importazioni di
petrolio è in forte e rapida crescita.
Da un
picco di 9,44 mln di b/g del 1972, quando gli Usa erano il primo produttore
mondiale di
petrolio,
la produzione
americana di petrolio greggio è caduta
del 38,6% per scendere a 5,8 mln/bg nel 2001... Nel 2020, secondo le previsioni
disponibili, non supererà 4,3 mln di b/g."
(in: www.infomedi.it, n. 17 del dicembre
2002).
Si è determinato, così, un notevole saldo
negativo (12,7 mln b/g) fra produzione e consumi petroliferi, coperto con
quote, sempre crescenti, d'importazioni.
Bush, no a
Kioto sì all'opzione petrolifera
L'amministrazione Bush, invece di avviare una
politica di contenimento dei folli consumi
energetici americani, ha re-vocato l'adesione degli Usa all'accordo di
Kioto, la cui attua-zione diveniva incompatibile col mantenimento di una realtà
consumistica davvero scandalosa e altamente inquinante che provoca danni
insostenibili al delicato equilibrio ecologico del Pianeta.
L'opzione petrolifera presuppone la certezza
della continuità del rifornimento del mercato interno a prezzi bassi, che non
può essere fronteggiata con le sole, scarse riserve nazionali, stimate in 22
miliardi di barili (mld/b).
Per correre ai ripari, la potentissima lobby
petroliera Usa (alla quale non sono estranei gli interessi della famiglia Bush
e di altri autorevoli rappresentanti dell'attuale Amministrazione) ha deciso
una strategia mirante ad accaparrarsi risorse petroli-fere in gran quantità e a
condizioni di massima agibilità poli-tica.
Dove andare? Ancora una volta nel Golfo,
nell'area a più alta concentrazione petrolifera del mondo, giacché sulle
risorse del Caucaso e dell'Asia centrale ha allungato gli artigli l'orso di
Mosca.
Da sole, le ingenti riserve dell'Arabia saudita
(ammesso che resti sempre "saudita", ossia feudo della tribù dei
Saud), non potranno assicurare, nel medio-lungo periodo, la continuità del
rifornimento alle condizioni desiderate dalle compagnie Usa.
Perciò, urge mettere le mani sull'Iraq ovvero
sul secondo Paese al mondo per riserve petrolifere accertate (112,5 mld/b)
dove, da 30 anni, da quando al potere c'è Saddam Hussein, nessuna compagnia
statunitense ha potuto mettere piede.
Paesi del
Golfo: riserve accertate per 700 miliardi di barili di petrolio
Le risorse irachene, aggiunte a quelle di Arabia
saudita (262,6 mld/b), Emirati arabi uniti (97,8 mld/b), Kuwait (96,5 mld/b),
Qatar (15,2 mld/b), Oman (5,8 mld/b), fanno la bellezza di 590, 4 miliardi di
barili. Ossia una quantità 27 volte superiore al totale delle riserve Usa.
Da questo conto restano fuori le importanti
riserve petrolifere dell'Iran (99 mld di barili). Tuttavia, il Paese degli
ayatollah è sempre in cima alla lista nera degli "stati canaglia". Magari
in un secondo tempo...
Gli scenari che si potranno verificare pongono
seri problemi e non solo ai movimenti pacifisti.
Esiste concretamente il pericolo di una
destabilizzazione a cascata di quasi tutti i regimi arabi il cui sbocco sarà o
quello di una deriva "fondamentalista" o quello di un ulteriore
inasprimento dei sistemi dittatoriali.
Così come c'è da temere che la crisi investa,
soprattutto sui versanti politico ed economico, l'Europa fortemente esposta ai
contraccolpi derivanti dalle conseguenze del conflitto e dagli aumenti
incontrollati dei prezzi petroliferi (già oggi il prezzo del barile è a 37
dollari. A guerra scatenata l'UE teme che possa aumentare fino a 70 dollari).
Perciò, gli esponenti politici e
dell'imprenditoria, italiani ed europei, dovrebbero prendere atto che questa
guerra è anche un serio problema sulla strada della costruzione Unione europea.
La strategia Usa punta, infatti, al controllo di
queste ingenti risorse, per altro concentrate in un ambito territoriale
ristretto ed omogeneo, anche politicamente, (l'unica anomalia, quella irachena,
la si vuole eliminare con la guerra preventiva), per condizionare l'economia
mondiale per i prossimi 40-50 anni, in primo luogo quella dei Paesi concorrenti
industrializzati, forti consumatori e scarsi produttori di petrolio e di altre
materie prime energetiche.
Dal
controllo delle risorse al dominio del mercato petrolifero
Una volta acquisito il totale controllo,
politico e militare, delle risorse petrolifere sarà facile assicurarsi il dominio
sul pingue mercato della distribuzione e del consumo dei prodotti petroliferi.
L'affare è di quelli pesanti ossia un mercato
dal valore annuo di circa 650 miliardi di dollari. Nell'ultimo ventennio
(1981-2001), il consumo mondiale di prodotti petroliferi si è incrementato di
circa il 20% , passando da 57,5 mln di b/g a 71,1 mln di b/g (+13,5 mln di
b/g).
La parte più consistente di tale incremento è
stata attribuita alla regione "Asia e Pacifico" che è passata da un
consumo di 10,1 mln b/g del 1981
a 19,3 mln b/g del 2001.
L'America del nord, (il dato è attribuito
principalmente agli Usa) ha visto aumentare il suo già elevato consumo d'altri
3 mln di b/g, mentre l'Europa occidentale di circa 2 mln di b/g. Significativo
anche l'aumento dei Paesi del Medio Oriente che praticamente hanno visto
raddoppiare la loro quota-consumi: da 1,8 a 4,1 mln di b/g.
Lievi aumenti fanno registrare le già deboli
quote di Africa e America Latina. In controtendenza, soprattutto nel periodo
1991-2001, è il dato concernente i Paesi dell'Europa orientale che fa
registrare una forte caduta (un dimezzamento) dei consumi (da 9,3 a 5,0 mln di b/g).
Nel 2001, il valore (in dollari) del mercato
petrolifero mondiale si è attestato intorno ai 650 miliardi di dollari Usa, una
cifra ragguardevole, corrispondente a circa il 10% del valore delle
esportazioni mondiali.
Per quanto riguarda la spartizione di questo
"bottino", la parte del leone la fanno le cinque principali società
petrolifere le quali, dal 1997 al 2001, hanno visto crescere i loro ricavi di
circa 100 miliardi di dollari.
Naturalmente, bisognerebbe considerare la
disastrosa inci-denza che l'elevato aumento dei consumi petroliferi ha determinato
nel già precario (o compromesso?) equilibrio ecologico del pianeta, soprattutto
in riferimento ai volumi di emissione di gas venefici nell'atmosfera.
Il
monopolio sulle risorse per condizionare la nuova Europa
Nella lista dei principali Paesi
consumatori/importatori di petrolio figurano, oltre a Giappone e a Corea del
Sud, i più importanti paesi dell'UE: Germania con un consumo di 2,7 mln di b/g
e un import di 2,1 mln b/g (ovvero 77%); la Fran-cia 1,9 mln di consumo / 1,7 mln d'import
(89,4%); l'Italia 1,7 mln di consumo / 1,66 d'import, (97%); la Spagna 1,3 mln di consumo/
1,1 d'import (87,6%). La
Gran Bretagna, con 1,7 mln di consumo e 0,9 mln
d'importazioni (52,9%), è il Paese europeo meno dipendente dalle importazioni
petro-lifere. Questi dati, in parte, spiegano i propositi bellicisti del
laburista Blair.
Ma non giustificano l'allineamento passivo,
perfino auto-lesionista, dei governi di centrodestra di Berlusconi e Aznar che
forse si saranno lasciati incantare da qualche illusoria promessa di
trattamento privilegiato, fatta loro sottobanco da qualche
"ministro"del governo-fantoccio o dal miraggio di una partecipazione
ai dividendi della guerra.
In realtà, il predominio statunitense sulle
risorse e sul mer-cato dell'energia ipotecherà il futuro dell'Unione Europea e
del più grande polo economico dell'area del Pacifico, ossia di due temibili
potenze che potrebbero insidiare, o quantomeno limitare, la supremazia
"imperiale" degli Usa.
(in
“Informazioni dal Mediterraneo”
24/2/2003)
IRAQ: LE STESSE POTENZE
PER LO STESSO PETROLIO
La presa
in giro della guerra “umanitaria”
Confesso di essere stato colpito dall'analisi
schietta e lungimirante che Arnaldo Cipolla svolge nel suo libro di viaggio
"Sino al limite segreto del mondo" del 1937 che, nei giorni
scorsi, ho trovato a Budapest, scartabellando sulla bancarella di un libraio
antiquario.
Alla luce della guerra anglo-americana contro
l'Iraq, le considerazioni di questo scrittore, un tempo molto popolare oggi
completamente sconosciuto, acquistano, dopo 65 anni, un significato quasi
profetico poiché, pur tra retorica e risentimenti di regime (fascista), ci
propongono una verità sul petrolio irakeno valida per il triste passato del
colonialismo e per questo opaco presente della globalizzazione.
Lo scritto anticipa e rafforza un punto di vista
oggi condiviso dalla quasi totalità dei cittadini, ma solo da pochi
commentatori dichiarato: la guerra di Bush è stata scatenata innanzitutto per
il controllo del petrolio iracheno. Tutto il resto non conta o viene dopo.
Si sperava che i propagandisti del Pentagono
(che nel mondo sono un esercito più numeroso che quello inviato contro Saddam)
ci risparmiassero almeno questa penosa presa in giro della guerra
"umanitaria". Ma così non è stato.
Perciò, ci conforta leggere quanto annotava
Cipolla nel lontano 1936, durante il suo viaggio in Mesopotamia: "Noi vediamo e vedremo sempre l'Irak sotto
l'aspetto petrolifero. Il primo accordo anglo-francese per i petroli dell'Irak
data dalla grande guerra (1916)...
L'accordo
di San Remo finì per attribuire ai francesi la parte germanica sequestrata
all'Armistizio, cioè il quarto della produzione dell "Irak
Petroleum", mentre altri due quarti erano assegnati all'Inghilterra e
l'ultimo quarto agli Stati Uniti d'America..." (1)
Poche righe che confermano un'amara realtà
storica e culturale che, certo, non fa onore all'Occidente che ha sempre visto
l'Iraq e il Medio Oriente come un immenso giacimento petrolifero su cui mettere
le mani.
Verità imbarazzante che ieri si tentava di
mascherare (ma non tanto) sotto le bandiere della civiltà, oggi sotto quelle
della democrazia.
Com'è noto, le potenze vincitrici della prima
guerra mondiale, a conclusione della conferenza internazionale di San Remo, si
accordarono per la spartizione delle ricchezze petrolifere irakene, già allora
considerate di grande valore economico e strategico.
Dal bottino fu esclusa l'Italia dei Savoia i
quali - da lì a poco - l'avrebbero consegnata agli squadristi fascisti di
Benito Mussolini.
Il Cipolla, che è uno scrittore di regime,
marchia tale esclusione con parole di fuoco: "Quando si parla della
preda coloniale germanica della grande guerra che Inghilterra e Francia hanno
carpito in Africa ed altrove non facendone menomamente partecipe l'Italia, loro
alleata, anzi la vera salvatrice delle fortune dell'Intesa, si dimentica il
petrolio dell'Irak il tesoro inesauribile dal quale l'Italia venne
inesorabilmente esclusa. Egoismo più odioso di questo non si poteva attuare.
Esso giustifica qualunque rivendicazione italiana nell'avvenire..." (2)
Ottant’anni
dopo, le stesse potenze si contendono lo stesso petrolio
A distanza di 80 anni, sulla scena mediorientale
i "protagonisti" sono sempre gli stessi e sempre animati dallo stesso
vorace proposito: accaparrarsi del petrolio iracheno; visto che già dispongono
di quello dell'Arabia saudita e delle altre petromonarchie del Golfo.
È cambiato soltanto l'ordine (d'importanza), il
ruolo guida fra le parti in causa. Chissà, se modificando l'attribuzione dei
"quarti" (o magari dei "quinti") a favore degli Usa, nel
frat-tempo divenuti l'unica superpotenza di riferimento, non si possa avviare,
a partire da quel vecchio schema di partizione, un negoziato segreto per la
futura ricostruzione e pacifi-cazione dell'Iraq.
Fantapolitica? In ambienti diplomatici si
sussurra che nei mesi antecedenti la guerra si sia trattato su una ipotesi simile,
senza tuttavia giungere ad un accordo.
D'altra parte, non è questa la prima volta in
cui le principali potenze occidentali rivaleggiano per il controllo delle
immense risorse petrolifere irakene.
Il petrolio - scrive Cipolla - è stato sempre
considerato il bottino più prezioso: "Al di sopra di questa ricchezza
sotterranea e ormai tangibile sulle rive del Mediterraneo, la vita biblica
continua, semplice e frugale, le greggi e i tramonti e il vecchio pastore col
suo cane. Il suolo è a loro e per poco. Ma non il sottosuolo..." (3)
Nella sola regione del Golfo sono concentrate
riserve petrolifere accertate per circa 700 miliardi di barili. (4)
Non c'è dubbio che chi controllerà queste
ingenti risorse potrà condizionare il mercato petrolifero e lo sviluppo econo-mico
mondiali per i prossimi decenni.
Questo, e non altro, è il vero, inconfessabile
obiettivo della guerra illegale scatenata da Bush e da Blair e dai loro soci e
manutengoli. In Iraq il petrolio c'è sempre stato in abbon-danza, di ottima
qualità e a basso costo. ("La nafta a Kirkuk costa una lira sterlina a
tonnellata").
Arnaldo
Cipolla visitando nel 1936 la zona di Kirkuk (per il cui controllo in questi
giorni è in atto una feroce battaglia fra tutte le parti belligeranti:
anglo-americani, kurdi, tribù e forze fedeli a Saddam, reparti delle milizie
integraliste di Ansar Al-Islam) rimase impressionato dall'eccezionale portata
del poz-zo di Rabu Gurgur: "Il rendimento del solo pozzo n. 1,
sull'anticrinale chiamato di Kirkuk, gettò fuori una formi-dabile tromba di
petrolio di 12.000 tonnellate giornaliere che inondò il territorio... "
A
Kirkuk furono perforati 42 pozzi il cui "rendimento sor-passava
talmente i bisogni che venne deciso di far lavorare soltanto 15 pozzi. Essi
forniscono i 4 milioni di tonnellate annue che gli oleodotti inglese (lungo 750 km) e francese
trasportano rispettivamente a Caifa (allora Palestina, oggi Israele n.d.r.) e a
Tripoli di Siria." (oggi Libano n.d.r.) (5)
Quant'è
mutevole la geopolitica in Medio Oriente!
Da
sempre, disegnata a tavolino dalle potenze coloniali euro-pee. Con riga e
compasso e sempre seguendo le vie del petrolio.
Dal
“diritto” coloniale alla guerra preventiva
Un tempo queste potenze non si peritavano di
reclamare in nome della “civiltà” occidentale la spartizione d'intere regioni
dell'Asia e dell'Africa e l'appropriazione delle loro risorse minerarie
invocando il “diritto” alla colonizzazione.
Il
diritto coloniale, sancito da varie conferenze internazionali, s'incaricava di
legittimare le stragi, l'occupazione militare, il protettorato, la rapina dei
beni, lo sfruttamento bestiale degli uomini e delle risorse naturali
appartenenti a popoli e Stati, colpevoli soltanto d'essere poveri e quindi
"destinati" a soc-combere alle mire imperialistiche delle grandi e
delle medie potenze occidentali.
Oggi, la coscienza democratica e anticoloniale
delle nazioni costringe i governi, asserviti agli interessi delle grandi impre-se
multinazionali, a mimetizzare le loro mire di conquista sotto forma di guerre
"umanitarie" e "preventive".
Per rabbonire l'opinione pubblica si ricorre ai
metodi più dis-parati: dalla censura alla disinformazione pianificata, dal
fotomontaggio alla valanga mediatica (anche sulla TV "pub-blica") che
ci assilla con la bella frottola del nuovo "eroe metropolitano"
(nelle cui vene scorre "il sangue della guerra", alias il petrolio,
come lo chiama Cipolla), partito per infidi deserti, dove rischia la vita per
eliminare uno solo fra i tanti dittatori esistenti nei paraggi.
Per esportare la "democrazia" dei
miliardari e liberare il mondo da un terrorismo islamista che sembra essere
stato creato e foraggiato a bella posta, per fare da sponda alle azioni più
spregevoli.
Concludo come ho cominciato, con un'altra
efficace pennellata di Arnaldo Cipolla che mostra di avere capito, già allora,
la causa principale dell'odierno conflitto.
"Così dal cuore dell'Asia arriva in
Europa il sangue della guerra, l'essenza dionisiaca della velocità, il petrolio
di Kirkuk. Arrivare e combattere per il petrolio. Strike oil! Grido
dell'americano del 1860, grido attuale di tutti gli uomini, grido delle brigate
inglesi inviate in Palestina a salvaguardare il 30 per cento d'interesse netto
che il petrolio largisce agli azionisti della City" (6)
Note
1 Arnaldo Cipolla in "Sino al limite
segreto del mondo", Edizioni Bemporad, Firenze, 1937.
2
A. Cipolla op. cit.
3 Ibidem
4 Nel dettaglio, vedi su www.infomedi.it
(n. 17)
5
A. Cipolla op. cit.
6 Ibidem.
(in
“Peacelink” del 1/4/2003)
VERSO UN
IMPERO NORD-AMERICANO ?
Una guerra
asimmetrica
Le armate anglo-americane sono alle porte di una
Bagdad stremata, ma non domata, da migliaia di micidiali incursioni aeree.
Difficile prevedere cosa accadrà nel caso il conflitto si trasformasse da
attacco ipertecnologico a scontro feroce uomo a uomo, strada per strada, casa
per casa.
Tuttavia (stiano tranquilli i fan di Bush), alla
fine la smisurata potenza militare e tecnologica dei due super alleati dovrebbe
prevalere sull'esercito scalcinato di un dittatore sanguinario che ha avuto il
torto di attardarsi al comando di un paese che naviga sopra un mare d'oro...
nero.
Come tutte le guerre, anche questa è pura
follia, anche quando i suoi fautori cercano di ammantarla con nobili ragioni
umanitarie.
Guerra per modo di dire! Quando, come in questo
caso, non c'è equilibrio fra le forze in campo, non c'è guerra, ma solo una
proditoria aggressione del più forte che mira a schiacciare il più debole per
imporgli, con la violenza e con la morte, le sue inconfessabili ragioni.
Guerra anomala, immorale, soprattutto quando gli
improvvisati "giustizieri" sono i rappresentanti di Paesi che possono
vantare una lugubre storia di sanguinosi intrighi e colpi di stato per installare decine e decine
di dittatori senza scrupoli che hanno portato morte e infelicità in mezzo
mondo.
Molti di questi dittatori ancora comandano, a
cominciare da taluni Paesi del Golfo, ma alla Casa Bianca nessuno si sogna di
metterli in mora. Evidentemente, sono più diligenti di Saddam Hussein che,
certo, non si vuole liquidare per le sue arcinote efferatezze contro i kurdi,
gli sciiti e in genere contro gli oppositori interni quasi tutti, non a caso,
esponenti e militanti comunisti e della sinistra irachena.
Anche di questo si dovrebbe scrivere sui
giornali e parlare nelle interminabili cicalate della Tv, un tempo pubblica,
affinché si possa illuminare per intero la figura e l'opera del sanguinario dittatore. Evidenziando un dato
stranamente trascurato: mentre gli uomini della sinistra irachena venivano
impiccati, incarcerati, torturati e le popolazioni kurde letteral-mente
"gasate", gli amici e i compari degli attuali governanti americani,
inglesi, italiani, ex sovietici, francesi, tedeschi,ecc, realizzavano affari
d'oro con Saddam Hussein oggi accusato di essere una sorta di genio del male.
Come detto, sugli esiti finali di questo
conflitto non dovreb-bero esserci dubbi: la vittoria "arriderà"-
assicurano gli esperti della guerra - alle forze anglo-americane.
Arriderà? Che terminologia blasfema!
Come si può chiamare sorriso il ghigno funesto
della morte?
Bush
vincerà la guerra, ma potrebbe perdere il dopoguerra
Ma la vittoria sul terreno militare non
risolverà i nodi politici e strategici insistenti nella regione.
Anzi, li potrà acuire ulteriormente e renderli
persino esplosivi, sia per quanto riguarda il futuro assetto politico e
territoriale (etnico e confessionale) dell'Iraq, sia in relazione ad altre
questioni nodali mediorientali.
Quali: il conflitto israelo - palestinese che
Sharon, profittando della disattenzione mondiale, ha trasformato in azione di
pura "macelleria" israeliana; la stabilità politica del Medio Oriente
dove, sull'onda di una sollevazione nazionalistico - religiosa, potranno cadere,
uno dopo l'altro come birilli, la gran parte dei governi arabi, compresi quelli
"moderati" (leggi alleati degli
Usa); più in generale, il tormentato rapporto fra Oriente islamico e Occidente.
Come dire: Bush vincerà la guerra, ma potrebbe
perdere il "dopoguerra".
Se tutto ciò ha un fondamento- come sembra-
viene da chie-dersi: perché l'amministrazione Usa ha operato questa grave
scelta di rottura, dagli esiti incerti e perfino controproducenti?
Non è facile rispondere a questa domanda, anche
perché nella strategia politica di Washington ci sono molti "buchi
neri" che non aiutano a capire dove Bush voglia andare a parare.
L'ipotesi che comincia a farsi strada è quello
di un presidente succube dei "consigli", un po' troppo interessati,
di un gruppo di specialisti bellicosi che mirano a trasformare gli Usa, anche
mediante la guerra, da unica iperpotenza a impero mondiale. Siamo dunque al
delirio di potenza?
L'ipotesi appare francamente azzardata, se non
altro perché la statura dell'imperatore in pectore non è minimamente accostabile
al genio di un Augusto, di un Adriano, di un Federico II, di un Carlo V, ecc.
Tuttavia, sono in tanti, soprattutto nel terzo
mondo, a perce-pirla come una seria minaccia sulla base di argomentazioni
solide e rispettabili.
Pur di farsi "incoronare" imperatore,
Bush sta demolendo il sistema delle relazioni internazionali e l'impianto
politico e diplomatico costruiti nel dopoguerra.
Mettendo perfino in discussione consolidate
alleanze e importanti istituzioni multilaterali (Onu, Nato, Wto, Unesco, ecc)
che hanno garantito al mondo circa 60 anni di quasi pace e agli Usa una
crescita davvero spettacolare.
Perciò, tenta di sabotare ogni ipotesi e/o
iniziativa che potrebbe ostacolare o rallentare l'attuazione di questo
delirante progetto di egemonia mondiale.
Intrighi Usa per
destabilizzare la “vecchia” Europa
Dopo gli "Stati canaglia", nei piani
di demolizione preparati dall'establishment Usa ci sono la "vecchia
Europa", che ambirebbe diventare un'Unione politica ed economica (ovvero
la più grande potenza commerciale del Pianeta) e, ora, anche, questa vecchia
Chiesa cattolica che si rifiuta di avallare la nuova crociata contro il
petrolio islamico, di scatenare la cosiddetta "guerra di civiltà"
invocata dai mentori giudaico/sanfedisti che ispirano la condotta del
presidente Usa.
In realtà, quella di Bush rischia di essere
soltanto una disa-strosa velleità, una politica avventurosa che si configura
come una minaccia per la convivenza pacifica e democratica e che - se attuata -
potrebbe produrre effetti molto indeside-rati, in primo luogo per la sicurezza
e gli interessi degli stessi Stati Uniti.
Se questa fosse, per davvero, la nuova dottrina
strategica dell'amministrazione Bush, nessuno si sentirebbe tranquillo in casa
propria. Poiché sarebbero messe in dubbio solidarietà considerate acquisite,
anche fra i paesi industrializzati, nasce-rebbero nuove opposizioni
ideologiche, nuove organizzazioni terroristiche. Un'enorme, spaventosa ondata
d'odio e di risen-timento, soprattutto antiamericani, salirebbe dai popoli del
terzo e quarto mondo, specie da quelli di tradizione islamica.
Un bel risultato insomma per il popolo degli
Stati Uniti che dovrebbe continuare a vivere nella paura e nell'isolamento
internazionale!
Se il signor Bush ha perso o si è montato la
testa, la risposta della nostra "vecchia" e cara Europa deve essere
quella di non farsi coinvolgere in questa pericolosa avventura e di tenere
ferma la barra dell'unità politica ed economica del Continente e del dialogo e
della cooperazione pacifica con tutti i popoli e gli Stati del mondo, e in
primo luogo con quelli arabi e del Mediterraneo.
(in
“Sicilynews” del 4 aprile 2003)
ARMI CHIMICHE, ATTENTI
AL MARCHIO
L’ira di
Bush e il “rinnegato” Blixen
Vedrete che gli eserciti liberatori troveranno
almeno un po' delle famigerate armi chimiche di Saddam che gli ispettori del
"rinnegato" Blixen non sono riusciti a scovare. In caso contrario
svanirebbe ogni barlume di legittimità di questa guerra unilaterale e
preventiva che viola i principi - chiave della legalità internazionale e
rischia di distruggere la residua credibilità delle Nazioni Unite.
Il giovane Bush non si accontenta della
"vittoria" sul piano militare, della testa di Saddam, vuole il
trionfo politico e diplomatico, perciò necessita di qualche bidone di letali
componenti chimici per dimostrare al mondo che aveva ragione a muovere guerra,
anche senza l'autorizzazione dell'Onu. Altri hanno sbagliato, in buona o in
mala fede, perché hanno troppo indugiato, confidando nel perfido tatticismo del
dittatore iracheno.
Insomma, oltre al controllo sull'Iraq e
soprattutto sul petrolio, il presidente Usa ambisce a realizzare un vero
capolavoro dell'arte della guerra intesa - diceva quel Tale - quale
continuazione e perfezionamento della politica.
Come si conviene a un vincitore assoluto,
vedrete che Bush si mostrerà perfino magnanimo con quelli che non lo hanno
seguito in quest'avventura: egli cercherà di chiarire gli "equivoci",
di smussare gli angoli, di dare assicurazioni sul rispetto dei contratti sottoscritti
da Saddam, mentre lascerà ad intendere che la ricostruzione dell'Iraq, fermo
restando il ruolo primario delle poche potenze vincitrici, può diventare un
affare per molti.
Gli strateghi di Washington vorranno anche
recuperare, dopo averlo mortificato, il ruolo dell'Onu che sarà chiamato a
ratificare il fatto compiuto e a organizzare gli aiuti umanitari.
Insomma, siamo alle solite: prima si bombarda
senza alcun freno, provocando morte e distruzioni, miseria ed esodi biblici,
poi si lascia all'Onu e all'Unione europea l'onere di saldare gran parte della
fattura dei danni provocati e il compito di accogliere milioni di profughi che
la guerra ha sradicato.
Sì, le troveranno le armi di distruzione di
massa, ma al momento opportuno. Lo ricordo per i tanti, impazienti direttori di
giornali e conduttori di programmi Rai che, ai primi bidoni avvistati, hanno
esultato per l'avvenuta scoperta, senza attendere uno straccio di riscontro.
Peccato che in quei bidoni ci fosse soltanto
insetticida.
Pazienza, dunque! E, soprattutto, si raccomanda
di fare attenzione all'etichetta appiccicata sulle eventuali armi e/o
contenitori ritrovati.
Prima di mostrarli al pubblico, bisognerà
ripulirli da imbarazzanti scritte dalle quali si potrà risalire ai fornitori
dei componenti e delle tecnologie più sofisticate.
Com'è noto, i pezzi più "pregiati"
dell'arsenale chimico del dittatore iracheno, almeno fino ai tempi
dell'invasione del Kuwait, parlano le lingue di tutti i Paesi membri permanenti
del Consiglio di sicurezza dell'Onu e dei loro alleati e amici europei dell'est
e dell'ovest, fra i quali sicuramente l'Italia...
Le buone bombe che
Saddam usava contro gli iraniani
Non sappiamo se, negli ultimi 10-15 anni, Saddam
abbia rimpinguato il suo potenziale chimico con altri acquisti e/o con nuove
produzioni, tuttavia fino ai primi anni '90, il suo arsenale era ben dotato e
costituiva un lugubre campionario di morte nel quale erano rappresentate
società fornitrici dell'ex URSS e della gran parte dei Paesi occidentali: Usa,
Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna, Italia, Svizzera, Belgio, Austria,
ecc.
A dimostrazione di quest' asserzione, mi sia
consentita un'auto citazione, tratta da un mio libro del 1991 "I Paesi
del Golfo" (1) nel quale (al capitolo "L'arsenale chimico di Saddam
Hussein") fra l'altro scrivo: "Già nel 1983 un rapporto della Cia assicurava che un gruppo di Paesi
quali Siria, Israele, Iraq, Libia, Etiopia, Cina, Taiwan, ecc erano in grado di
produrre ed utilizzare l'arma chimica. (fonte: CIA, rapporto SNIE n. 11-17-83
del 15/9/1983)
L'Iraq è stato certamente fra i primi del
"nuovo club" a produrre e a sperimentare la bomba chimica sulla pelle
degli iraniani e delle popolazioni del Kurdistan iracheno. E' accertato,
infatti, che ripetutamente nel corso del 1984 l'Iraq ha fatto uso di gas
"mustard" e "tabun" contro le truppe iraniane, provocando
migliaia di vittime anche fra la popolazione civile.
Le proteste iraniane giunsero all'Onu e il
Segretario generale del tempo promosse un' inchiesta e "sulla base delle prove accumulate l'Iraq,
nonostante che esso sostenga il contrario, risulta un criminale internazionale,
in quanto ha violato il Protocollo di Ginevra del 1925.
Ma gli
opportunismi politici, connessi alla guerra del Golfo, hanno protetto l'Iraq da
una condanna formale e da sanzioni. (fonte: Rapporto Sipri 1985)
Gli Usa riallacciarono i rapporti diplomatici
con un Paese accusato dal Segretario generale dell'Onu, e con prove
schiaccianti, di aver fatto uso di gas letali, che per giunta si rifiutava di
firmare una dichiarazione per il non uso e che- come si sapeva da qualificate
fonti americane ("Washington Post"del 3/11/1984)- aveva
abbondantemente rimpiazzato le scorte chimiche esaurite a seguito dei ripetuti
attacchi contro le forze armate e i villaggi iraniani. Allora a Saddam tutto
era consentito, anche la più brutale nefandezza non faceva scandalo...
Ecco chi ha rifornito
l’arsenale chimico di Saddam
Chi ha aiutato l'Iraq a fabbricare queste armi
micidiali e ad accumulare questo spaventoso arsenale?
Stando a un rapporto riservato redatto dalla
Mednews di Parigi (2) sono 207 le società appartenenti a 21 Paesi, in gran
parte occidentali, che hanno commerciato con le autorità irachene... Apre la
lista la Germania
Federale (con 86 società), seguita da Usa (18), Gran Bretagna
(18), Austria (17), Francia (16), Italia (12), Svizzera (11), Belgio (8),
Spagna (4), ecc.
Le società italiane chiamate in causa dal citato
rapporto sono: "Technipetrole", fabbriche di gas nervino; "Saia
BPD", carburanti per razzi; "Euromac", detonatori Krytron;
"Saia Techint", cellule per Thuwaitha; "BNL", finanziamenti
(ricordate lo scandalo della Bnl di Atlanta, Usa? n.d.r.); "Danieli",
laminatoi; "Ilva", materiali per ferriere; "Società
Fucine", pezzi per supercannone; "IRI", proprietario società
Fucine; "Audiset", elementi gas Sarin per Montedison;
"Montedison", elementi Sarin per Melchemie; "Snia Techint",
laboratori armi chimiche per Saad 16..."
Queste ed altre notizie, pubblicate in riviste e
libri specializzati, non sono state mai contestate dai governi né dalle singole
imprese fornitrici e sono la più clamorosa conferma delle responsabilità che
portano quasi tutti i Paesi che oggi indicano Saddam come il nemico pubblico
numero uno.
Naturalmente, la questione delle armi chimiche e
batteriolo-giche non riguarda soltanto l'Iraq, ma oltre cento Paesi, gran-di e
piccoli, ricchi e poveri, che hanno dichiarato di esserne in possesso e una
trentina che non l'hanno dichiarato, ma sono fortemente indiziati di
possederle.
Siamo, dunque, davanti un problema enorme,
planetario, che ha indotto le Nazioni Unite a tenere, nel 1997, una Confe-renza
internazionale per la non proliferazione e per il disarmo chimico e
batteriologico.
Per liberare l'umanità da questa minaccia
apocalittica (senza dimenticare gli arsenali nucleari), la via più praticabile
è quella intrapresa dall'Onu, lungo la quale bisogna andare avanti, senza
guardare in faccia a nessuno.
A volerlo, è già in programma un'importante
occasione di confronto su questo tema: a Ginevra, ai primi di maggio 2003, si
svolgerà una conferenza mondiale per esaminare l'andamento di questa prima fase
di applicazione del Trattato di non-proliferazione.
Note:
1 Agostino Spataro- "I Paesi del
Golfo", Edizioni Associate, Roma, 1991;
2 Pierre Salinger / Eric Laurent in
"Guerra del Golfo", Edizioni Mursia, 1991.
(in “Clarence”,
11/4/2003)
LA GUERRA E’ ANCHE
CONTRO L’EUROPA
La
guerra dell'Iraq propone il confronto tra le culture isla-mica e occidentale. On.
Spataro, quali sono, a suo parere, i punti di convergenza impossibili tra le
due civiltà?
Ritengo che, per fortuna nostra, non siamo
ancora alla guerra di civiltà. Ci sono, però, due potenti minoranze internaziona-li,
una razzista e guerrafondaia in Occidente e l'altra fonda-mentalista e terrorista
in Oriente, che lavorano per precipitare il mondo nella catastrofe. Dietro agli
appelli alle religioni, ai valori astratti di democrazia da esportare, anche
con le guerre preventive, ci sono obiettivi ben più concreti e inconfessabili
che mirano alla conquista del potere politico e al controllo delle risorse
energetiche.
Nonostante la guerra irachena e i conflitti
ancora aperti in Medio Oriente, è possibile rilanciare il dialogo e la coopera-zione
economica e culturale fra i due mondi, che non sono incomunicabili, ma possono
collaborare per rafforzare la pace e la giustizia nel mondo.
Quale incidenza ha avuto, ha, sulla
situazione irachena il doloroso conflitto israelo - palestinese nei termini del
cosid-detto fondamentalismo islamico e del terrorismo interna-zionale?
Sono avvenimenti distinti, tuttavia fra loro in
qualche misura collegati all'interno della strategia più globale che punta al
controllo politico e militare del Medio Oriente e delle sue im-ponenti risorse
petrolifere.
Nello specifico, il conflitto israelo -
palestinese vede il gover-no israeliano, diretto dal falco Sharon, esercitare
il massimo della pressione per frustrare le legittime rivendicazioni nazio-nali
del popolo martire di Palestina creare in quest'area strate-gica, tra il Mediterraneo
e i giacimenti di petrolio, uno stato ebraico forte, ben oltre i confini
sanciti dalla ripartizione decisa in sede ONU.
E' noto che alcune influenti organizzazioni
fondamentaliste israeliane, talune facenti parte dell'attuale governo Sharon,
puntano alla creazione del "grande Israele", perciò considera-no i
palestinesi come un ostacolo per l'attuazione del loro fol-le disegno
espansionistico. Ma non tutti gli israeliani condivi-dono la politica
aggressiva di Sharon e dei partiti ultrareligio-si. Esistono forze importanti
che si battono, perfino all'interno dell'esercito israeliano, per una
prospettiva di pacificazione, sulla base dello schema "due popoli e due
Stati", condiviso dagli organismi internazionali.
L'atteggiamento
dell'Europa nei confronti del problema ira-cheno è quanto mai differenziato e
contrapposto. Quali le ragioni dei diversi atteggiamenti?
La guerra irachena è anche contro l'Unione
europea ossia contro lo sforzo in atto per costituire una unità economica e
politica. Com'è noto, l'Europa, soprattutto alcuni paesi come l'Italia, la Spagna, la Germania, la Francia sono fortemente
dipendenti dal petrolio arabo. Sul territorio iracheno insistono le più grandi
riserve petrolifere, dopo l'Arabia Saudita, perciò chi controllerà l'Iraq
condizionerà lo sviluppo economico e politico europeo e di vaste regioni del
mondo.
Perciò l'interesse europeo non può coincidere
con quello degli Usa. Anzi nel caso specifico sembra essere esattamente
contrapposto. La pace e la cooperazione reciprocamente vantaggiose sono le
uniche vie che l'Europa dovrà praticare verso i popoli del mondo arabo e del
Mediterraneo per difendere i veri interessi degli europei.
La recente conferenza dei capi spirituali
delle religioni del mondo, svoltasi a Roma, può aprire nuove strade verso una
pacificazione complessiva?
La questione religiosa è importante, ma è
strumentalizzata da ambedue le parti. Soprattutto, le associazioni integraliste
islamiche ne hanno fatto una molla per la mobilitazione delle masse popolari
arabe. Gli appelli alla "guerra santa" nei paesi arabo-islamici o
alle "nuove crociate" nei paesi dell'Occi-dente cristiano
rappresentano una colossale mistificazione della realtà sociale e politica
poiché usano la religione come strumento di lotta politica per conseguire
obiettivi di potere molto terreni.
L'Islam radicale sta commettendo gli stessi
eccessi oscuran-tisti compiuti, nei secoli scorsi, in Occidente dalle diverse
fazioni cristiane. Per evitare tali errori, penso che nel mondo arabo-islamico
debba essere incoraggiato un processo di ma-turazione politica e culturale e di
sviluppo economico diffuso che possa portare a un'incruenta
"Rivoluzione" alla francese.
L’obiettivo principale dovrebbe essere la
creazione di uno Stato laico e democratico che permetta di separare la sfera
religiosa da quelle politica, culturale e civile.
Il
modello della civiltà occidentale, e in particolare quello democratico
anglo-americano, che possibilità hanno di innestarsi in un'area geografica come
l'Iraq, storicamente e culturalmente distante da questi modelli?
Il solo pensare di esportare, o peggio d'imporre
con la guerra, il proprio modello di democrazia ad altri popoli sovrani è una
pretesa inaccettabile e un fattore di pericolosa destabilizza-zione mondiale.
Ogni popolo ha proprie peculiarità storiche e
politiche e
d'altra natura. Perciò la democrazia dovrà
scaturire da un pro-cesso di riforma e di maturazione autonomo nazionale, indi-viduando
le forme e le istituzioni più appropriate alla sua specifica condizione.
Importante è rispettare il principio sancito
nella Carta dei Diritti delle Nazioni Unite: garantire a tutti i cittadini,
senza distinzione alcuna, i diritti e le libertà fondamentali di voto, di
stampa, di espressione, di organizzazione politica e sinda-cale, di professione
religiosa, ecc.
Ogni Stato aderente all'Onu è impegnato ad
attuare la Carta
dei Diritti. Chi non rispetta tali diritti e non attua la Carta può subire delle
sanzioni da parte della Comunità internazionale, fino all'espulsione dalle
Nazioni Unite. Lo Statuto dell'Onu prevede una serie di sanzioni a questo
riguardo. Pertanto si dovrà ricorrere all'intervento militare umanitario nei
casi estremi e solo sulla base di una decisione comune degli organismi
dell'Onu. Senza mai dimenticare che spesso i conflitti e le dittature nel terzo
mondo trovano motivazioni nella fame e nelle malattie che mietono milioni di
vittime.
Se gli Usa e l'Occidente desiderano aiutare
l'affermarsi del processo democratico in queste regioni dovranno tagliare i
ponti con tutti i dittatori (non c'era solo Saddam!) e favorire lo sviluppo
economico e civile dei paesi poveri, trasferendo investimenti e tecnologie
appropriate. Anche per riequilibrare il dislivello dei consumi che oggi si
fonda sui seguenti nume-ri: all'85% della popolazione mondiale è riservato il
20% delle risorse disponibili sul pianeta, mentre al rimanente 15% ( ossia la
popolazione dei paesi industrializzati dell'Occi-dente) l'80% di tali risorse.
Fino a quando ci saranno tali, abissali disparità, le guerre e i terrorismi
saranno all'ordine del giorno.
(intervista raccolta da Luisa Guida, in
“Porta di ponte” 8/5/2003)
ATTENTATI SUICIDI: UNA TERRIFICANTE NOVITA’
E’ tempo di riflessioni e di bilanci
Kabul brucia mentre continuano le
guerre “preventive” scatenate da Bush e soci in Medio Oriente.
A quasi dieci anni dal loro
inizio, è tempo di fare un bilancio per capire quali altri disastri ci riserva
il futuro e soprattutto se e come uscire dal micidiale pantano nel quale si
continua-no a bruciare decine, centinaia di migliaia di vite umane ed enormi
risorse finanziarie pubbliche.
I cittadini hanno diritto di
chiederne conto e ragione ai governanti e questi hanno il dovere d’informare e
provvedere alle necessarie correzioni.
Un bilancio da fare, in primo
luogo, in Parlamento che, davvero, non può continuare a tacere e a pagare il
conto della crescente spesa per missioni impossibili e comunque dagli esiti
deludenti. Mentre in Italia si chiudono fabbriche, scuole, ospedali, ecc.
Le guerre continuano e non
s’intravvede una conclusione.
Anzi, in Afghanistan la
coalizione Nato ha deciso d’inviare altri 40 mila uomini di rinforzo per
“finire il lavoro”, come ha carinamente chiamato la guerra anche il presidente
Barak Obama, neo premio Nobel per la
Pace.
Eppure, in queste ore, la
capitale afghana è nella morsa dei micidiali attentati suicidi, sotto il tiro
dei taleban cha pare abbiano raggiunto anche il palazzo presidenziale.
In realtà, da tutte le parti si
punta a un' escalation del conflitto che, di fatto, coinvolge anche il Pakistan
e potrebbe, da un momento all’altro, estendersi ad altri Paesi della regione.
Nella lista nera c’è sempre
l’Iran e, da qualche settimana, anche lo Yemen, a causa di un ragazzo nigeriano
che non si sa bene come sia salito e cosa abbia combinato sopra quell’aereo per
Detroit, il giorno di Natale.
Nell’attesa di scoprirlo, è stata
avviata la vendita di nuove, costose apparecchiature per la sicurezza aerea.
Tutto ok? Non credo proprio. Se il pericolo è così grave e diffuso, la gente si
chiede: perché metterle solo negli aeroporti e non anche sulle navi, sui treni,
sugli autobus?
Nessuno può escludere attentati
contro questi altri mezzi di trasporto.
A parte gli effetti nocivi sulla
salute (da non sottovalutare), queste apparecchiature, se applicate su larga
scala, potrebbero paralizzare i sistemi di trasporto, con tutte le conseguenze
del caso.
La storiella dell’islamista cattivo e delle bombe
buone della Nato
Ma dove si vuole arrivare? Quando
finirà tutto questo?
La faccenda è troppo seria per
essere gestita sulla base dell’intrigo e della propaganda ingannevole.
Anche perché non si possono più
trattare i cittadini come bambini cui raccontare la storiella dell’islamista
terrorista e cattivo e delle bombe buone, “intelligenti”, talvolta finanche
“umanitarie”, della Nato che metteranno le cose a posto, in ogni parte del
mondo.
Così come non è indispensabile
continuare ad agitarsi per rimarcare le differenze d’approccio fra destra e
sinistra, fra neocon e liberal, per altro, così sfumate da risultare
imper-cettibili.
Serve una presa di coscienza
generale, in primo luogo dei popoli e delle classi dirigenti dei Paesi
interessati dai conflit-ti, per trovare una via che conduca al più presto alla
pace, nel rispetto dei diritti dei popoli all’autodeterminazione, alla
sovranità e alla prosperità condivisa.
A tempo debito si dovranno
valutare anche le responsabilità del disastro che è davvero immane.
Nel solo Iraq si parla di circa
600mila vittime, in maggioran-za civili inermi.
E dire che Bush e la coalizione
occidentale hanno fatto carte false (letteralmente) per occupare il Paese e
impiccare Saddam Hussein accusato di avere gasato tre mila suoi concittadini
sciiti!
Se la vita degli uomini e i
numeri hanno ancora un senso, bisogna prendere atto che il rimedio è stato
molto più letale del male che si voleva curare.
Perciò la gente comincia a
riflettere sulla realtà e sulle conse-guenze determinate da questi conflitti sanguinosi
e inconclu-denti che producono stragi e nuovo terrorismo.
La guerra, infatti, sta agendo
come moltiplicatore delle for-mazioni e delle attività terroristiche.
A queste e ad altre questioni i
responsabili sono chiamati a rispondere e soprattutto a chiudere il sanguinoso
capitolo, per tornare alla pace e alla cooperazione economica e culturale col
mondo arabo.
Una terrificante novità
Per altro, in queste guerre
anomale, asimmetriche c’è una no-vità terrificante: il ricorso da parte dei
movimenti islamisti ai cosiddetti attentati “kamikaze”, agli “shahid” o “bombe
uma-ne”.
Una forma inedita, inaccettabile,
di terrorismo basata sul sacrificio umano e sull’assoluta imprevedibilità
dell’azione. Perciò, è quasi impossibile prevenirla, fermarla in tempo utile.
Un’impotenza conclamata che mina
il morale delle truppe e angoscia le popolazioni locali esposte agli attentati
suicidi.
In Occidente, nessuno riesce a
capacitarsi del fatto che gli eserciti delle più grandi potenze non riescano a
disinnescare l’unica “arma” davvero micidiale di cui dispongono gli isla-misti
radicali.
Si tratta, infatti, di “un’arma”
molto speciale, imprevedibile e devastante, il cui nucleo non è costituito da
un sofisticato congegno tecnologico, ma da una persona umana.
Nei conflitti mediorientali si
sta sperimentando, cioè, una nuova tipologia di martirio che ha rari precedenti
nella storia dell’Islam e di altre religioni.
Un po’ si avvicina ai “kamikaze”
giapponesi i quali, però, puntavano soltanto su obiettivi militari, ma è molto
diverso da quello praticato dai primi cristiani il cui martirio era “passivo”,
nel senso che subivano, senza reagire, la violenza del potere dominante.
I nuovi shahid, invece,
s’immolano per procurare la morte dei nemici e, talvolta, di chiunque si trovi
nei paraggi.
L’Occidente sconosce il dramma dei
popoli arabi
Una tipologia diversa perfino da
quella dei fedayn ismailiti, appartenenti alla setta medievale degli
“assassini” (assuntori di hascish), che il famoso Vecchio della Montagna
inviava per i paesi del medio - oriente (e non solo) a compiere omici-di eccellenti,
soprattutto politici.
In quel caso, infatti, il
martire-fedayn aveva una pur minima speranza, qualche possibilità di uscire
vivo dall’agguato; nel caso in esame, invece, nessuna poiché il primo a
esplodere è l’autore dell’attentato.
Insomma, per il neo-martire non
c’è scampo. Riflettiamo su cosa possa provare, pensare un ventenne che si appresta
a compiere quest’atto devastante. Sì, certo, la causa, la fede, la ricompensa
nell’Aldilà lo potranno sorreggere, confortare, ma fino a un certo punto. Ci
sarà almeno un attimo di esitazione quando vedrà scorrere nella sua mente le
sequenze di una vita sognata ed, ora, da lui stesso troncata. Terribile! Ancora
di più se si pensa che la sua morte sarà causa della morte di tanta gente
innocente.
Eppure, aumenta il numero degli
aspiranti e degli attentati sempre più clamorosi, micidiali.
Questo fenomeno dovrebbe pur dire
qualcosa ai promotori delle guerre preventive.
Invece, in Occidente se ne parla
poco, anche se tutti ci pensano e, nell’intimo, ne restano atterriti.
Nemmeno i più patinati
commentatori e analisti l’hanno vagliato a dovere, con obiettività e in
profondità.
Quasi si volesse rimuovere
dall’immaginario collettivo per il timore che si possa scoprire, sotto questi
atti irrazionali, la disperazione in cui si dibattano i popoli arabi e
islamici, specie i ceti più poveri ed emarginati.
Sotto le terre arabe le più grandi
risorse, sopra le più grandi miserie
Alla base di questi gesti
estremi, da meglio indagare ma da condannare senza esitazioni, infatti, non c’è
solo la protesta contro l’occupazione straniera, comunque camuffata, ma anche
per il diffuso malessere arabo, per le tante ingiustizie sociali irrisolte, per
la mancanza di libertà e per la negazione dei diritti fondamentali.
Non a caso la gran parte dei
neo-martiri sono giovani disoc-cupati provenienti da famiglie povere.
Purtroppo, da noi, quasi si
sconosce la drammaticità della crisi del mondo arabo.
Anche, nella conoscenza non
c’è reciprocità.
D’altronde, anche i media non
aiutano a recuperare questo deficit di conoscenza, anzi danno una lettura
adulterata, parziale di questo mondo, eternamente occupato a difendere il velo,
il burqa contro l’invadenza delle mode parigine.
Se si andasse a cercare si
scoprirebbe che sotto le terre degli arabi si celano le più grandi risorse
energetiche del pianeta, ma sopra quelle stesse terre prosperano le più grandi
povertà.
Specie nei paesi petroliferi,
convivono ricchezze scandalose, lussi sfrenati con spaventose ingiustizie. Un
mix male assor-tito che genera odio, risentimenti nelle masse escluse.
La religione cerca di mediare, ma
non sempre ci riesce. Da qui, la rivolta in nome di Allah, sovente
strumentalizzata da interessi economici e politici molto materiali, interni e
inter-nazionali.
In assenza di un'ideologia laica
del progresso, capace di mo-bilitare le masse e d’incanalare il malcontento
verso obiettivi di confronto democratico e civile, nascono, e si diffondono,
“forme di lotta” assurde e disperate, incomprensibili in Occi-dente.
Maledetto petrolio!
Nell’immaginario europeo e
occidentale in genere, il vicino Oriente resta, dunque, un mondo cupo,
arretrato, come una barriera tenebrosa che s’interpone fra l’Europa e l’estremo
Oriente.
Una “terra” incognita dove
s’incontrano sentimenti estremi e ciniche bramosie di potere. Agitando per bene
questa miscela si hanno i neo-martiri e i nuovi emiri.
Chi dovesse incappare in questo
meccanismo sarà stritolato, senza pietà. Sì, perché in questa guerra la prima
vittima è stata la pietà umana.
Non c’è pietà per i bambini, per
le donne, per i vecchi di Gaza, di Bagdad, dell’Afghanistan, del Pakistan, del
Libano, ecc. Come non c’è stata pietà per le tremila persone sepolte sotto le
“torri gemelle” di New York.
Maledetto petrolio! Sta uccidendo il nostro bellissimo Piane-ta,
ha già ucciso la pietà e la solidarietà fra gli uomini.
Il vicolo cieco
In questi conflitti non si
scontrano solo interessi economici e geo-politici contrapposti, ma anche
valori, simboli e senti-menti, identità culturali e tendenze politiche.
Il dato più drammatico, che però
non fa riflettere abbastanza, è rappresentato dalle coorti di giovani (talvolta
anche bravi padri di famiglia) che aspirano al martirio per contribuire a
sconfiggere il nemico.
Comunque sia, questa non è strada
che spunta.
Siamo in vicolo cieco, a un punto
altamente critico delle relazioni fra Occidente e mondo arabo e islamico.
E’ interesse di tutti bloccare i
conflitti e tentare di tornare alla convivenza pacifica, alla cooperazione
economica e culturale, reciprocamente vantaggiosa.
In questa regione l’Europa ha
suoi interessi precipui da tutelare che non sempre coincidono con quelli delle
grandi oligarchie Usa.
Non dovrebbe essere difficile
capire cause ed effetti di tale tragedia. Forse le parole non bastano,
Per meglio capire questa realtà
forse sarebbe il caso di provare a mettersi nei panni di un ragazzo, di un uomo
o di una donna, che vivono negli inferni di Gaza, di Bagdad e di altre infelici
città mediorientali e dopo giudicare i compor-tamenti di chi veste
effettivamente quei panni.
Credo che ci avrà provato perfino
Giulio Andreotti quando, parlando della tragedia insoluta dei palestinesi,
dichiarò, pubblicamente, che “se fossi
nato in campo-profughi libane-se, probabilmente, anch’io sarei diventato un
terrorista”. (intervista alla “
Stampa” del 7 marzo 2005)
Il gioco delle facili attribuzioni
Il tempo, il nostro tempo, sembra
essersi fermato. Dopo dieci anni di guerra si ha la sensazione di essere
all’inizio delle ostilità. Si continua con la solita solfa degli attentati
tutti attribuiti a una “Al Qaeda” quasi invincibile che scorazza da un capo
all’altro del pianeta.
Siamo all’assurdo. Se succede un
furto d’acqua nel Sahel non c’è la mano di un uomo assetato, ma quella
sanguinolenta di Bin Laden, il “fantasma” ubiquitario che appare e sparisce al
momento opportuno. Si sfiora il ridicolo quando la Fbi - come scrive il
quotidiano spagnolo El Mundo- per
“aggior-nare” l’immagine del capo terrorista, ha invecchiato la foto di Gaspar
Llamazares, ex leader della Sinistra unita spagnola.
Strano. Dopo gli allarmi e le
severe reprimende, continuano errori, distrazioni, omissioni, ritardi,
complicità, scambi illeciti, tangenti, ecc.
Ogni cosa serve per alimentare il
gioco perverso delle facili attribuzioni che fa comodo a tutti.
Conviene ai servizi occidentali
(e russi) che, scaricando ogni attentato su Al Qaeda, non devono faticare a
cercare le vere responsabilità. Conviene
ai governi e agli strateghi occiden-tali che possono giustificare le guerre, le
missioni all’estero e la gran mole di spesa pubblica per finanziarle.
Conviene, infine, ad Al Qaeda
medesima che così vede accrescere il suo potenziale militare, il suo prestigio
presso taluni settori popolari del mondo islamico.
Una Conferenza di pace per il Medio
Oriente
Ma quanto deve ancora durare
questo gioco?
E’ tempo di smettere d’inseguire
fantasmi e passare alle cose serie.
Per esempio, a riprendere
l’ipotesi di una grande Conferenza di pace e di cooperazione fra Occidente e
Medio-Oriente, con particolare riguardo ai punti più critici fra cui la
questione palestinese che si trascina da oltre 60 anni..
L’Italia, divenuta uno fra i
paesi più coinvolti nei conflitti, dovrebbe essere fortemente interessata a
tale ipotesi, per altro affacciata, durante il precedente governo, dal ministro
degli esteri Massimo D’Alema. Se la caldeggiamo non è perché l’ha formulata
D’Alema, ma perché ci sembra la via più giu-sta, e più saggia, per conseguire
la pace e la cooperazione fra i popoli, per uscire con onore da queste guerre
assurde e disastrose.
Se ribadiamo la necessità della
pace non è solo perche siamo contro la guerra, contro tutte le guerre, ma
perché riteniamo che con la pace meglio si difendono i nostri veri interessi
nazionali.
Da non confondere con quelli di
taluni gruppi che amano blandire le nostre Forze armate per contrabbandare per
patriottismo le loro oscure manovre affaristiche.
Infine. La pace è necessaria,
urgente non solo perché queste missioni ci costano troppo in termini di vite
umane (italiane, afghane e di altre nazionalità) e di spesa pubblica, ma perché
la nostra partecipazione, comunque aggettivata, alle guerre contrasta con lo
spirito e la lettera della Costituzione e con gli interessi veri del popolo
italiano.
(in “Città Nuove Corleone” 19/1/
2010)
.
Capitolo
secondo
GUERRA AL TERRORISMO O A
CHI?
(immagine tratta da Google)
BIN LADEN
COME L'ARABA FELICE
Bin Laden,
l'ubiquatario
Osama Bin Laden è come “ l'araba fenice, che ci sia ognuno lo dice, dove sia nessuno lo
sa..." (Metastasio)
Ormai, sembra che dovremo rassegnarci a
convivere (chissà per quanto tempo) con l'immagine evanescente del capo di Al
Qaeda che i mass-media hanno fabbricato, su input degli imbonitori del
Pentagono: una "araba fenice", molto speciale che muore e risorge
dalle proprie ceneri, nei momenti opportuni.
E ogni resurrezione è annunciata da terrificanti
attentati suici-di che mietono vittime a centinaia, a migliaia, come avvenne a
New York, l'11 settembre.
Dopo la recente "guerra" contro
l'Iraq, che gli anglo-americani si sono illusi d'aver vinto con l'abbattimento
della statua gigante di Saddam Hussein, e nel bel mezzo dell'im-passe politica
e organizzativa del dopoguerra, l'emiro del terrore sembra essere risuscitato
dalle ceneri della guerra in Afghanistan, per annunciare nuove sciagure e
quindi legitti-mare altre guerre, prossime venture.
Carico di colpe tremende e inenarrabili, seppure
descritto in precarie condizioni di salute, si vorrebbe dotato del dono
dell'ubiquità: dovunque esplode una bomba "islamista" c'è la mano
insanguinata di Bin Laden.
Nei giorni scorsi, è stata intravista dietro gli
attentati suicidi fra le lussuose ville di Ryadh, capitale del regno saudita, e
di quelli avvenuti nelle periferie di Grozny, la martoriata capitale della
Cecenia.
L'arma del petrolio al
servizio della "Umma" musulmana
Nell'attesa che qualcuno si decida a
interrompere questo spietato "romanzo a puntate", vediamo di
abbozzare un ragionamento politico per tentare di capire gli obiettivi
principali della strategia di Bin Laden (o di chi ne fa le veci) e della sua
multinazionale islamista "Al Qaeda".
La guerra, nella sua ottusità, ha rafforzato
nell'opinione pubblica mondiale il fondato sospetto che Bush l'abbia scatenata
per il controllo strategico dell'area del Golfo e delle immense risorse
petrolifere irachene.
Così come - dall'altro lato - Putin si ostina a
mantenere lo sta-to d'occupazione russa della Cecenia per il predominio sulle
risorse petrolifere insistenti nelle regioni dell'Asia centrale.
Da notare che queste regioni costituiscono i due
principali poli nei quali si concentrano le maggiori riserve energetiche del
pianeta e che entrambi insistono in paesi di tradizione islamica o della futura
"umma" (comunità) musulmana propugnata da Bin Laden e, in genere,
dalle organizzazioni islamiste radicali.
Ovvero nei territori dell'Islam che nel
sottosuolo detengono immense ricchezze mentre in superficie mostrano la più
gran-de ingiustizia, fatta di miseria, disoccupazione, analfabetismo e
arretratezza cronica, ecc. Il petrolio "islamico", che per al-cuni
decenni farà ancora girare l'economia mondiale, è l'unica risorsa strategica di
cui dispone il mondo arabo, fino ad oggi malamente gestita dai gruppi dominanti
dei singoli paesi.
Soprattutto da quelli delle petromonarchie che
hanno pro-dotto una scandalosa ingiustizia sociale e una pesante subalternità
agli interessi delle grandi corporazioni econo-miche nord-americane e
occidentali.
Nell'era della globalizzazione dell'economia, i gruppi
islamisti vorrebbero appropriarsi del petrolio e trasformarlo in un'arma
formidabile non tanto per distruggere l'Occidente (obiettivo quantomeno
improbabile, poiché nessun venditore si sognerebbe di distruggere il suo
miglior cliente), quanto per condizionarlo nel meccanismo basilare del suo
sviluppo e garantire allo Stato islamico che verrà un ruolo decente nei nuovi
assetti del potere che si andranno a determinare nel quadro del "nuovo
ordine internazionale".
Per Osama,
Saddam e re Fadh quasi pari sono
Non c'è dubbio che il primo, grosso ostacolo al
dispiega-mento della strategia islamista è rappresentato dagli attuali regimi
al potere corrotti e succubi alla politica neo-coloniale dell'Occidente che gli
islamisti vogliono abbattere senza eccezione alcuna.
Per gli integristi non c'è grande differenza fra
il laico Saddam Hussein e la dinastia fondamentalista ("wahabbita")
dell'Ara-bia saudita.
Se, dunque, Bush, facendosi malissimo i conti,
s'incarica di togliere di mezzo Saddam fa una cosa gradita agli islamisti e
perciò ponti d'oro... alle armate anglo-americane in Iraq.
In Arabia, dove il potere petrolifero è
saldamente nelle mani dei Saud, i più fedeli alleati degli Usa, ci pensano i
martiri di Al Qaeda a scuotere il regime a colpi d'attentati suicidi, in attesa
della sollevazione generale che, com'è successo nell'Iran dello Scià,
travolgerà la dinastia più ricca e potente del Medio Oriente, alla testa di un
Paese che - per la prima volta - accusa un fortissimo deficit di bilancio e un
crescente disagio sociale.
Bush, che proviene da una dinastia di petrolieri
texani, è molto sensibile all'argomento petrolio e mostra di avere bene
avvertito la pericolosità del disegno politico del capo di Al Qaeda e perciò ha
deciso d'ingaggiare con lui (almeno a parole) una guerra mortale.
In questa guerra anomala contro "il
terrorismo", combattuta fra ex alleati e per interessi inconfessabili,
alcuni governi europei, fra i quali quello italiano, fanno a gara per potervi
intervenire, anche con mansioni subalterne, per andarsi a sedere al tavolo dei
vincitori e spartirsi i dividendi prodotti dallo sforzo bellico.
Anche questo è un segno dei tempi (bui) che
stiamo vivendo: ieri ci si attivava per partecipare ai dividendi della pace,
oggi ci si accapiglia per accaparrarsi qualche modesto e sanguinolento
dividendo della guerra.
Qualcosa non quadra fra
pratiche e teorie islamiste
L'altro elemento della strategia dei gruppi
islamisti, da considerare con inquietudine, è il ricorso, ormai sistematico,
agli attentati stragisti come metodo privilegiato di lotta contro i nemici
interni (Arabia Saudita, Algeria, Egitto, Yemen, Libano, ecc) ed esterni (Usa,
Israele, Kenia, ecc.).
Tradizionalmente, i vari gruppi hanno usato il
terrorismo, anche suicida, soprattutto in azioni di tipo resistenziale (come
nei Territori palestinesi e nel Libano del sud occupati dagli israeliani),
secessioniste (Kashmir, Filippine, ecc) o per il rovesciamento dei poteri
cosiddetti "empi" (Egitto, Algeria, Siria).
Quasi mai l'attacco terroristico è stato portato
fuori dei terri-tori dell'Islam.
In tutto ciò c'è qualcosa che non quadra
rispetto alle più accreditate teorie integriste.
Come se si fosse entrati nella seconda fase del
"Jihad" (guerra santa), nella guerra per l'instaurazione della Umma
mondiale alla cui direzione Sayyid Qutb, massimo teorico dell'islamismo
contemporaneo, candida "un nucleo
scelto di credenti plasmato nella fede in un sol uomo".
E ancora presto per confermarlo. Tuttavia, Bin
Laden, nei suoi minacciosi proclami, ha teso ad accreditarsi, agli occhi delle
masse dei credenti, come il più autentico interprete del pensiero di Qutb,
atteggiandosi a leader indiscusso, quasi predestinato, della rivoluzione
islamista mondiale.
La guerra
"al terrorismo" rafforza i terroristi
In questa guerra atroce, oltre a copiosi mezzi
finanziari e a complicità politiche e logistiche, il terrorismo islamista dis-pone
di un'arma davvero impareggiabile: le coorti dei martiri della fede che
alimentano questo assurdo rito sacrificale, im-prevedibile quanto micidiale,
contro il quale è difficile approntare rimedi e strategie efficaci.
Questi neo-martiri, infatti, si caratterizzano
per un autismo impenetrabile, per una volontà fredda e determinata che solo il
fanatismo estremo può sorreggere.
Contro questa nuova piaga può essere
controproducente la risposta militare (la guerra senza quartiere al terrorismo
proclamata dal giovane Bush) e/o lo scontro di civiltà, come in Occidente
taluni sconsiderati propongono di scatenare. In entrambi i casi non si andrebbe
a incidere sulle cause deter-minanti questo complesso e devastante fenomeno.
Il problema è lo sviluppo socio-economico e
democratico del mondo arabo che - anche tramite il petrolio - vorrebbe affran-carsi
dalla duplice dipendenza derivante dalle politiche delle grandi multinazionali
del petrolio e dalle dittature nazionali.
Le forze democratiche europee, ma anche quelle degli
Usa, dovrebbero avviare un dialogo con tutte le componenti progressiste e
pacifiste, laiche e religiose, che costituiscono la stragrande maggioranza del
mondo arabo, per meglio individuare e rimuovere le cause generatrici
dell'attuale malessere arabo e per costruire insieme una prospettiva di
co-sviluppo e di sicurezza reciprocamente garantita.
Europa:
dialogo e cooperazione col mondo arabo
In primo luogo, e subito, bisognerà rimuovere il
più grave ostacolo che si frappone fra Occidente e Medio Oriente: il conflitto
israelo-palestinese.
Un accordo di pace, equo e duraturo, fra
israeliani e palesti-nesi, che assicuri a questi ultimi la creazione di uno
Stato sovrano e a tutti i paesi della regione confini sicuri, avrebbe contro il
terrorismo un effetto pari a migliaia di missili, poi-ché farebbe venir meno il
suo principale elemento di agita-zione fra le masse arabe.
Per contribuire a questo sforzo, bisogna far
chiaramente capire al signor Bush che l'Europa non è disposta a seguirlo nel
suo azzardoso unilateralismo imperiale e notificare al falco Sharon e soci un
no deciso alla sua politica repressiva ed espansionistica in Palestina.
L'Europa e altri importanti Paesi occidentali
dovranno fare queste cose, oggi, se non vogliono essere costretti, domani, a
trattare con Bin Laden, o con suoi consimili, i nuovi termini del rapporto di
scambio fra Occidente e Oriente.
(in “Peacelink”
del 5/1/2004)
ORIENTE E OCCIDENTE:
LA GRANDE INCOMPRENSIONE
Due minoranze minacciano
due sterminate maggioranze
Finché c'è tempo, bisogna prendere coscienza del
pericolo, sempre più incombente, che due agguerrite minoranze (raz-zista e
sanfedista in Occidente, fanatica e integralista nell'Oriente islamico)
riescano a imporre a due sterminate maggioranze il loro catastrofico punto di
vista, ovvero l'ine-luttabilità dello scontro di civiltà.
E di tempo ne resta sempre meno, poiché sembra
che gli uomini e gli eventi congiurino per dimostrare l'inutilità del dialogo e
la necessità della guerra, anche preventiva, per regolare i conti tra potentati
e regimi e, in generale, i rapporti fra le nazioni.
Le nuove, inammissibili minacce dell'amministrazione
Usa contro la Siria
suonano come un inquietante segnale d'allarme per la pace mondiale e per la
sovranità dei singoli Stati nazionali. Dopo queste minacce, nessuno si sente
tranquillo in casa propria. Sempre più sbigottita, la gente si chiede: dove si
vuole arrivare? Chi sono veramente i nuovi inquilini della Casa Bianca: angeli
vendicatori o un clan bramoso di potere e petrodollari?
In nome di quali valori, per conto di quali
interessi agiscono?
Domande legittime alle quali, fino ad oggi, non
sono state date risposte chiare e rassicuranti.
I fatti sono eloquenti e disegnano scenari da
incubo che si sperava seppelliti per sempre, sotto le ceneri di Hiroshima e
Nagasaki.
Catastrofismo, si dirà!
Tuttavia, è innegabile che, da quando c'è il
giovane Bush al comando, stiamo assistendo a una successione di eventi davvero
inquietanti, oscuri che sembrano pianificati con calcolato cinismo prima
dell'11 settembre e che non lasciano presagire nulla di buono.
La lista dei cosiddetti "stati
canaglia" (con quale autorità morale si rilasciano tali spregevoli
attestati!), la confisca della procedura delle Nazioni Unite e la conseguente
paralisi del loro ruolo politico e istituzionale, le pesanti interferenze nelle
situazioni interne di numerosi Paesi del Pianeta, (compresi quelli dell'Unione
Europea) e ora le minacce alla Siria sono indizi evidenti di una strategia a
dir poco delirante che potrebbe trascinare l'umanità nella rovina.
Un nuovo patto di Bagdad
per il dominio sul M.O.
La guerra all'Iraq rientra perfettamente in
questa logica: oltre che per mettere le mani sulle sue immense risorse
petrolifere, è stata scatenata per il controllo della sua posizione geo -
strategica, per giungere a un nuovo Patto di Bagdad col quale assicurarsi un
lungo dominio sul M.O.
Si potrebbe osservare che per la riedizione del
famigerato Patto manca l'Iran. Forse per poco, giacché il paese degli ayatollah
è nelle lista Usa degli "Stati canaglia".
Per queste ed altre ragioni, il dopo-Saddam
resta la più grave incognita per il futuro dell'Iraq e dell'intera regione e -
in generale - per il sistema di relazioni fra M. O. e Occidente europeo e
nordamericano.
È probabile, infatti, che la situazione irachena
non evolva nel-la direzione desiderata dagli Usa, ma si disarticoli in forme
anomale di conflittualità interna (politica, etnica e religiosa).
Un’evoluzione talmente ingovernabile da fuoriuscire
dalla dimensione nazionale e confluire nel grande alveo della contestazione
islamista che, con o senza Bin Laden, continua ad alimentare (in Afghanistan ed
altrove) lo scontro militare e ideologico contro gli eserciti "dell'Occidente materialista tor-nati ad invadere la "Dar al- Islam",
ovvero la terra dell'Islam.
Il rischio di una
ripresa dell'integralismo di massa
Invece di attivare un processo
"virtuoso", questa singolare forma d'esportazione della democrazia
(con i carri armati e con le bombe a grappolo) potrebbe contribuire a
rinfocolare, in tutta la regione mediorientale e altrove, l'iniziativa dei
gruppi fondamentalisti islamici i quali si sono astenuti dal partecipare alla
guerra, giacché anche loro desiderano la li-quidazione del "laico"
Saddam, considerato un traditore dell'Islam autentico e "Satana in
persona".
Che bizzarria! Il truce dittatore iracheno si
ritrova a essere, nello stesso tempo, nemico di Bin Laden e della coppia Bush e
Blair che lo vogliono eliminare per contrapposti motivi.
Fra loro, gli accusatori, dovrebbero mettersi
d'accordo.
O, forse, in questo caso vale la massima
"il nemico del mio nemico è mio amico"?
Del resto, questa imbarazzante amicizia è già
stata sperimen-tata, prima dell'11 settembre, sul campo della "guerra
santa" in Afghanistan contro i sovietici invasori, quando Bin Laden era
più che un amico, per la Cia
e per il Pentagono.
L'occidente
visto dall'oriente
Sullo sfondo di tali vicende si agitano problemi
e propositi davvero divaricanti che ripropongono, in termini fortemente
conflittuali, il rapporto fra Occidente e Oriente, specie oggi che è percepito
attraverso le lenti deformanti dell'intolleranza, del fanatismo e del razzismo.
Questione centrale nel confronto interno al
mondo arabo impegnato nella ricerca di una identità smarrita o fortemente
indebolita e soprattutto nella rivendicazione di una effettiva indipendenza
economica e culturale che lo Stato-nazione post-coloniale non è riuscito a
realizzare.
Per recuperare questa identità, la ricetta della
corrente islamista radicale è quella di liberare l'Oriente musulmano dalla
deleteria influenza dell'Occidente materialista.
Nella visione islamista, l'Occidente- assicura
Fatima Mernissi - è percepito "come una potenza che schiaccia ed
assedia i nostri mercati e controlla le nostre risorse..." (in”La
peur-modernité”, 1992)
La sciagurata politica Usa non fa che
alimentare, con fatti compiuti, tale tendenza che rischia di diventare
un'ossessione antioccidentale di massa.
Il punto critico si potrà toccare se e quando si
dovesse verifi-care una saldatura politica sul terreno del panarabismo fra
gruppi integralisti islamici, forze nazionalistiche e movimenti politici e
culturali di tendenza democratica i quali, fino ad oggi, non si sono voluti
confondere con l'iniziativa del fana-tismo religioso.
L'oriente
visto dall'occidente
Per tutta risposta, le classi dominanti
dell'Occidente conti-nuano a percepire l'Oriente musulmano come un immenso
giacimento di petrolio, mentre per le elite intellettuali è un'en-tità
indistinta, caratterizzata soltanto dal fattore religioso.
Per l'Europa, l'Oriente è un corpo estraneo, una
realtà lontana dominata dal dispotismo politico e dal fanatismo religioso.
Il Mediterraneo, invece che come elemento
d'unione, è visto come un fossato che separa le due civiltà, poiché segna il
confine fra la barbarie e la modernità, fra il progresso e l'os-curantismo. Molti
vedono l'Oriente musulmano come una barriera tenebrosa che s'interpone fra
l'Europa e l'estremo Oriente.
Un
approccio molto approssimativo che ha ingenerato confusioni e sentimenti di
reciproca ostilità e alimentato la storica incomprensione fra le due civiltà.
Un'analisi
puntuale e obiettiva del mondo arabo impone che "si ristabilisca
innanzitutto l'esistenza dei popoli situati nella geografia e nella storia:
bisogna finirla con l'astrazione isla-mica per comprendere questi popoli nella
loro specificità umana multidimensionale".(G. Corm, L’Europe et l’Oriente)
Così dall'altra parte- aggiungo io- si dovrà
smettere di demo-nizzare l'Europa e gli europei, di giudicarli in base ad imma-gini
false e calunniose che li dipingono come gente senza valori e ideali, eternamente
occupati a coltivare le loro mire imperialistiche verso il mondo arabo, come il
regno di Satana da cui si originano tutti i mali che affliggono le società
arabo-islamiche.
Il dialogo per rompere
il gioco delle immagini deformanti
Siamo, dunque, alla presenza di due visioni
minoritarie e antagoniste, viziate da un comune, distorto senso della realtà,
animate dal medesimo spirito aggressivo che postula l'inelut-tabilità dello
scontro.
Visioni deformate, poiché la stragrande
maggioranza degli arabi non condivide l'ossessione antieuropea degli islamisti
radicali, così come la stragrande maggioranza degli europei non condivide le
teorie e le pratiche razziste della destra e l'egemonismo economico e culturale
di taluni gruppi di potere verso il mondo arabo.
Se si vuole evitare la trappola apparecchiata in
base a queste rappresentazioni ingannevoli, bisognerà rompere il gioco delle
immagini deformanti e fare emergere la vera realtà di questi due mondi, diversi
per storia e cultura, ma legati da antiche e nuove interdipendenze.
(in
“Villaggio globale”, 16/4/2003)
SADDAM
HUSSEIN: IL PRIMA E IL DOPO
La lezione
irachena e la lotta per la libertà
La cattura di Saddam Hussein è stata, certo, un
importante evento mediatico e propagandistico, ma per nulla eroico.
Secondo fonti israeliane ben informate, pare che
il dittatore sia stato "impacchettato" dai suoi fedelissimi che
l'hanno venduto agli americani per intascare la favolosa taglia di 25 milioni
di dollari.
Un'indiretta conferma di tale ricostruzione si
può ricavare dalle modalità di svolgimento dell'operazione "alba
rossa" in cui sono stati impegnati 600 uomini (fra curdi e statunitensi) i
quali, senza colpo ferire, hanno catturato il dittatore, già prigioniero, in
quella tana per topi.
Cattura rumorosa, dunque, ma non eroica. In
questa strana guerra "preventiva" si sta stravolgendo perfino il
concetto, un po' romantico, di eroismo mediante un abuso dell'aggettivo
"eroico", in altri tempi riferito a casi davvero emblematici ed
eccezionali.
Comunque siano andate le cose, l'arresto di
Saddam libera il campo di una presenza ossessionante, perciò è una buona
notizia per tutti gli amanti della pace e della libertà e soprattutto per
quanti hanno, effettivamente, subito morte e sofferenze inenarrabili a causa di
quella spietata dittatura.
Per molti, invece, dovrebbe essere, più
sommessamente, un'occasione di sincera meditazione affinché, passandosi una
mano sulla coscienza, dicano al mondo se hanno o non hanno fatto tutto il
possibile per impedire al dittatore iracheno di costruire e rafforzare il suo
sistema di potere assolutistico e crudele.
Senza una seria riflessione di questo tipo, la
lezione irachena non servirà a nessuno: né agli iracheni che l'hanno subita sul-la
loro pelle, né a quanti si sono assunti - in modo unilaterale - il ruolo di
liberatori.
Da
baluardo a nemico dell'occidente
Non bisogna, infatti, dimenticare che c'è stato
un tempo, non tanto remoto, in cui molti dei suoi attuali, acerrimi nemici
blandivano il dittatore di Bagdad come un baluardo della civiltà occidentale,
magari per strappargli contratti miliardari.
Erano gli anni '80, un periodo d'oro per Saddam
saldamente insediato al potere dopo aver soppiantato il presidente legit-timo
ed eliminato, anche fisicamente, centinaia di oppositori interni al suo stesso
partito (il Baath) e fra i partiti naziona-listi e di sinistra ex alleati di
governo, fra cui l'intero gruppo dirigente del Partito comunista iracheno.
Fra le prime immagini inviate dalla CNN nel
giorno della cattura del dittatore, ne abbiamo visto una davvero autentica e
fugace (forse sfuggita alla censura di guerra) che mostrava le manifestazioni
di giubilo dei militanti comunisti che sventolavano le loro eroiche bandiere
rosse. Qui l'aggettivo "eroico" è più che appropriato, poiché sotto
Saddam chi si professava comunista era incarcerato, torturato e sovente anche
ucciso.
Insieme ai comunisti iracheni, hanno sicuramente
diritto di gioire le popolazioni curde, soprattutto quelle che sono state
gasate col micidiale "sarin", e gli sciiti del sud perseguitati per
tutto il periodo della guerra Iran- Iraq.
Queste sono state le principali vittime, e non
casuali, della sanguinosa repressione di Saddam Hussein.
Tutti gli altri, quelli che oggi inalberano i
vessilli della libertà, soprattutto all'esterno dell'Iraq, prima di esultare,
dovrebbero spiegare al mondo alcuni "passaggi" cruciali, ancora non
del tutto chiari.
Non è un mistero che vari governi occidentali e
arabi (Usa e sauditi in testa) mobilitarono i loro mass-media per presen-tare
Saddam all'opinione pubblica mondiale come l'eroe che, scatenando la guerra di
aggressione contro l'Iran sciita, s'in-terponeva come una diga (armata di tutto
punto dalle potenze della Nato e del Patto di Varsavia) fra l'ondata minacciosa
della rivoluzione khomeynista e gli immensi giacimenti di petrolio iracheni e
della penisola arabica.
Tutto era
permesso al tiranno, anche l'uso delle armi chimiche
Quella sporca guerra durò otto anni e fece
milioni di morti. Fra i quali decine di migliaia di bambini/martiri inviati al
fronte da Khomeyni a farsi saltare sopra le mine per spianare la strada
all'avanzata dei suoi carri armati e centinaia di migliaia di donne, vecchi e
bambini iracheni periti sotto le bombe dell'aviazione iraniana.
Già in quella guerra, Saddam usò le armi
chimiche, tuttavia nessuno in Occidente e in Oriente si scandalizzò più di
tanto, né sui giornali né nelle assisi internazionali.
Addirittura, al Consiglio di sicurezza e
nell'Assemblea gene-rale dell'Onu furono bloccate diverse risoluzioni di
condanna presentate dagli iraniani.
Allora
tutto era consentito al grande dittatore che stava sal-vando i pozzi di
petrolio (e quindi garantito il regolare rifor-nimento all'occidente) e che
continuava ad acquistare costosi sistemi d'arma dai principali Paesi della Nato
e del blocco orientale.
Un affare lucroso per decine e centinaia di
miliardi di dollari, al quale parteciparono anche diverse imprese italiane, pub-bliche
e private, che vendettero all'Iraq di Saddam un'intera flotta militare,
componenti per costruire il temutissimo "supercannone" e perfino
materiali per la fabbricazione di ordigni chimici.
Alcune di queste operazioni scatenarono,
all'interno del varie-gato mondo dei mercanti d'armi, gravi contrasti e oscure
trame. In una di queste restò impigliata la filiale di Atlanta della Banca
Nazionale del Lavoro.
A parte questo, tutto filò liscio come... il
petrolio. Con la benedizione dei vari governi che facevano a gara per ingra-ziarsi
i favori di Saddam e del suo entourage, ovvero di tutti quei personaggi
raffigurati nel famoso mazzo di carte da poker.
Un
processo internazionale per accertare tutte le responsabilità
Tutto ciò e altro, bisognerebbe ricordare a chi
finge di aver dimenticato e ai giovani che non hanno vissuto quella fase
terribile per la vita del popolo iracheno e della sue forze progressiste.
E non per ritorsione polemica, ma per amore
della verità sto-rica e soprattutto per evitare che questo improvviso
"impulso di democratizzazione", che si vorrebbe imporre con la guerra
preventiva, si possa esaurire con la cattura di Saddam.
Lasciando indisturbati altre decine di
dittatori, arabi e non, di continuare ad opprimere miliardi di uomini nella più
assoluta impunità, coperti dal più inverecondo silenzio-stampa.
Per queste ragioni è auspicabile che Saddam
Hussein arrivi vivo e cosciente al processo, che dovrà essere svolto secondo le
norme del diritto internazionale, evitando sentenze som-marie e vendicative,
affinché l'imputato abbia la possibilità di raccontare ai giudici tutta la
verità riguardo alle sue tremende responsabilità e a quelle di chi lo ha
collaborato e aiutato, dentro e fuori l'Iraq.
Poiché è chiaro che, da solo, non poteva fare
tutto quello di cui è accusato.
Il processo potrebbe essere, dunque, l'occasione
per fare piena luce sugli ultimi 30 della storia politica e sociale dell'Iraq e
delle sue relazioni internazionali.
Solo partendo da questo fondamentale
chiarimento, si potrà avviare, con l'intervento dell'Onu, un autentico processo
di riconciliazione nazionale e di transizione democratica, basato sulla
partecipazione e sull'autogoverno del popolo iracheno.
Dopo Saddam:
l'autogoverno del popolo iracheno.
La drammatica sequenza di attentati
conferma che, anche dopo l'arresto di
Saddam, la guerriglia continua a tirare colpi micidiali. Solo uno sprovveduto
può ritenere che un uomo ridotto nelle condizioni penose in cui è stato trovato
potesse progettare e dirigere azioni così clamorose e micidiali. Certo, non
conosciamo il quadro reale delle forze in campo nella confusa situazione
dell'Iraq occupato, tuttavia non era difficile prevederne gli attuali, tragici
sviluppi.
È davvero stupefacente assistere alla perdurante
inefficienza dei servizi segreti più agguerriti del mondo, dotati di sistemi
informativi e di mezzi sofisticatissimi, i quali non riescono a prevenire nulla
(dall'attentato dell'11 settembre alle torri gemelle a quello di Nassirya e ai
tanti altri che si verificano quotidianamente) e soprattutto ad arrestare,
senza l'incentivo di cospicue taglie, gli strateghi e i responsabili dei vari
gruppi operativi.
Così come non si capisce cosa stiano facendo i
famosi e super pagati analisti della Casa bianca, del Pentagono, della Cia e
dei vari Paesi della coalizione. Quali analisi stanno fornendo ai governi
committenti visto che li stanno spingendo verso le sabbie mobili di una
guerriglia atipica, condotta con metodi terroristici e sulla base di una forte
motivazione religiosa e patriottica, che potrebbe addirittura sfociare in una
guerra civile e quindi infiammare l'Iraq e le aree contigue.
Tutto ciò è strano, inspiegabile, in base ad una
normale logica politica.
Sorge, perfino, il dubbio che, forse, i
responsabili politici desiderino far degenerare e allargare il conflitto. Per
quali obiettivi? Forse per legittimare la "guerra di civiltà" già
preventivata dai fondamentalisti d'Occidente e d'Oriente?
Mai la politica dei grandi Paesi democratici si
è mostrata così avventata come, oggi, in Iraq.
Perciò, l'Europa e l'Italia non dovrebbero farsi
trascinare in questa pericolosa avventura. Anzi, devono reclamare, con più
forza e unità, la fine dell'occupazione militare straniera dell'Iraq e
l'affidamento all'Onu della responsabilità della transizione, verso un governo
nazionale e democratico, espressione della volontà di rinascita degli elettori
iracheni.
Senza pretendere d'indicare o peggio di
esportare il nostro modello.
( in
“Siciliano.it”, 20/12/2003)
SADDAM
HUSSEIN E L'ITALIA
Per un bel po', ce ne ricorderemo delle
agghiaccianti imma-gini dell'impiccagione di Saddam Hussein. Soprattutto, del
contegno del condannato nel momento estremo del passaggio dalla vita alla
morte.
Non so se calcolato, ma in questo dram-matico
frangente il dittatore iracheno si è mostrato padrone della sua morte, trasformandola
in un formidabile colpo propagandistico as-sai imbarazzante per gli esecutori e
per il mandante politico dell'impiccagione che, a quell'ora, fingeva di dormire
nel suo ranch texano.
La
vita di Saddam è lastricata di orrori indicibili, ma la sua morte è stata una
sorprendente lezione di dignità. Egli, che aveva una certa familiarità con la
morte violenta (degli altri), ha usato la sua per riaffermare il suo smisurato
orgoglio, af-frontandola a viso aperto, quasi collaborando con i due boia incappucciati
mentre gli stringevano il cappio al collo.
Finzione o realtà?
La risposta è difficile, ma credo che questa
morte abbia molto impressionato i suoi seguaci e in generale la gente che ha
assistito al triste spettacolo.
Una morte dignitosa che, certo, non può far
dimenticare la sua lunga e crudele dittatura. Al pari di altre decine di ditta-tori esistenti nel
mondo che continuano, indisturbati e riveriti, a servire gli interessi delle
grandi multinazionali Usa e non solo.
Com'era riverito Saddam, il sanguinario, il
quale- se ci fate caso- è stato mandato alla forca nell’indifferenza generale,
in base ad un processo-farsa e per un delitto compiuto nel 1982, quando gli
attuali suoi acerrimi nemici d'Oriente e d'Occi-dente lo blandivano come
baluardo della civiltà occidentale, magari per strappargli contratti
miliardari.
Non bisogna dimenticare, infatti, che fino a
vent’anni addie-tro molti governi occidentali e arabi (dagli Usa all'Arabia
saudita, passando per l'Europa, Italia compresa) mobilitarono i loro potenti
media per presentare Saddam all'opinione pub-blica mondiale come l'eroe che
riuscì a bloccare la minaccia della rivoluzione khomeinista nelle paludi dello
Shatt-el- Arab, salvando così gli immensi giacimenti di petrolio irache-ni e
delle petromonarchie della penisola arabica.
Finisce la
guerra, iniziano i guai per Saddam
La guerra contro l'Iran durò otto anni e provocò
milioni di vittime da ambo le parti. Un conflitto lungo e sanguinoso che si
concluse senza vincitori né vinti. Una guerra inutile, visto che tutto rimase
come prima: Khomeini restò al potere a Teheran e Saddam a Bagdad.
E così i vari re ed emiri del Golfo.
Pur essendo stato proclamato eroe, per Saddam i
guai comin-ciarono dopo l’armistizio. Egli subì, infatti, un’inattesa meta-morfosi:
da baluardo a nemico degli interessi occidentali nel-la regione.
Prima tutto era consentito al grande dittatore
che, per conto dell'occidente, stava salvando i pozzi di petrolio e che conti-nuava
ad acquistare costosi sistemi d'arma dai principali paesi della Nato e del
blocco orientale.
Chi si vuol documentare su questo turpe
commercio può consultare le lunghe liste d'imprese fornitrici, fra le quali
molte italiane, o andare a sbirciare fra le carte dell'inchiesta sulla filiale
di Atlanta della Banca nazionale del lavoro che restò impigliata nella trama di
uno dei più grandi scandali internazionali del secolo scorso.
Nell'epoca d'oro del catto-craxismo, l'Iraq era
l'ospite d'onore, in Italia. Furono organizzati convegni e ricevimenti sontuosi
per accogliere qualificate delegazioni ministeriali irachene che venivano a
Roma e in altre città italiane a comprare di tutto. Fu in quel tempo, auspice
il ministro della difesa Lagorio, che l'Italia vendette all'Iraq in guerra
un'intera flotta militare per un valore di 1.200 miliardi di lire.
Ricordo che, a copertura di questa colossale
operazione, fu ideata in ambienti socialisti un'associazione di amicizia
italo-irachena che prima di nascere aveva un presidente designato: l'on. Seppia
del PSI. Tuttavia, per essere più convincente, l'associazione doveva essere
"unitaria", comprendere cioè rappresentanti della Dc e del PCI. Quest’ultimo molto critico sulla
politica di Saddam e diffidente sull'improvvisa apertura di credito italiana. Ci
furono insistenti richieste, anche al massimo livello del PCI, di una nostra
partecipazione.
Fu così che, seppure restio, mi ritrovai
co-vicepresidente in rappresentanza del Pci (l'altro era il democristiano on.
Aiardi) di questo sodalizio che abbandonai, precipitosamente, a poche settimane
dall'insediamento.
Nulla di straordinario, per carità. Soltanto un
piccolo episodio che aiuta a capire il clima di allora e a meglio individuare
responsabilità e omissioni di partiti e imprese italiani che, pur di realizzare
affari, finsero d'ignorare i massacri a danno delle popolazioni curde e sciite
e la feroce repressione contro un'intera generazione di comunisti.
Stranamente nessuno lo ricorda, ma le prime
vittime di Saddam furono i dirigenti del Partito comunista iracheno, il più importante
del Medio Oriente, incarcerati, torturati e sovente uccisi per essersi opposti
alla nascente dittatura.
Se si fossero celebrati processi equi e
internazionalmente garantiti molte di queste responsabilità sarebbero venute
alla luce e l'opinione pubblica avrebbe meglio capito le nefaste conseguenze
dei comportamenti omissivi di allora e quelle dell'iniqua guerra di occupazione
attuale che di vittime ne ha mietuto a
centinaia di migliaia.
Invece si è scelto di svolgere un
processo-farsa, all'insegna della vendetta tribale, per evitare l'imbarazzo di
una ricostruzione integrale, magari con la collaborazione degli imputati, di
oltre un ventennio di disinvolta cooperazione fra il regime tirannico di Bagdad
e le principali cancellerie e imprese occidentali.
(in "Liberazione" del 5/1/2007
MORO E' CADUTO PER AVER
TROPPO CAPITO E TROPPO OSATO *
Nelle avvincenti pagine autobiografiche del suo
"Viaggio nella memoria", Agostino Saviano rievoca taluni episodi
accadutigli in un particolare momento della sua lunga vita, nel vivo del
secondo conflitto mondiale.
Un viaggio a ritroso dentro una guerra tremenda
ai cui esiti erano affidate da un lato le sorti della dittatura nazi-fascista e
dal lato avverso le speranze di dignità dei popoli. Una scommessa risolutiva in
cui la posta erano la libertà e il suo contrario.
Una vicenda umana, la sua, comune a tantissimi
altri commilitoni, a milioni d'europei che vissero la guerra chi al fronte e
chi in città e paesi bombardati e annichiliti dalla fame e dalle violenze di
ogni tipo.
Insomma, un bel tratto di strada nel solco di
una grande tragedia che portò Saviano dalla sua Arzano alle aspre montagne
d'Albania, dalla Puglia alle sterminate steppe della Russia fra le vittime e i
sopravvissuti della disastrosa spedizione militare italiana.
Lungo questo tormentato percorso incontrerà
tanta gente. Alcuni cadranno sul campo, molti si sperderanno per il mondo,
taluni affioreranno dal fantastico gioco dei ricordi.
E fra questi ultimi, il primo della lista è
certamente il giovane sergente-allievo Aldo Moro che l'Autore incontrò, casual-mente,
in terra di Bari.
Con Moro, che era già presidente nazionale della
Fuci, Saviano spesso parlò delle libertà negate e delle smisurate ambizioni
imperialiste del fascismo. Posizioni coraggiose, purtroppo isolate, che
attireranno contro Saviano la dura reazione del sistema.
Fra i due si stabilì una comunione di sentimenti
antifascisti a quel tempo molto rari e rischiosi, soprattutto all'interno delle
forze armate.
Sentimenti e umori che, sfidando le occhiute
maglie della censura, sono giunti a noi in forma d'epistola che Saviano ha
gelosamente conservato e che oggi ci rende come il dono più pregiato di questo
suo libro di memorie.
Al solo sentir il fratello Franco parlare di una
lettera inedita di Aldo Moro ebbi come un sussulto, pensando a ben altre
lettere che lo statista scrisse durante quei terribili 55 giorni di prigionia,
prima di essere assassinato dalle Brigate rosse.
Si tratta, invece, di corrispondenza fra
commilitoni che la guerra aveva allontanato. Una lettera del settembre 1942,
sincera e amichevole, dalla quale traspare il disagio, l'avver-sione contro una
guerra assurda e contro la dittatura che l'ave-va provocata.
"Alla tua anima, sconvolta, smarrita e
desolata per aver troppo capito - scrive Moro a Saviano- ho osato avvicinare la mia che conosceva uno
stesso dolore..."
Un passaggio molto significativo nel quale,
oltre al richiamo ad un comune sentire, si può apprezzare il senso di una rara
sensibilità politica e morale che quando non è temperata dall'autocensura può
sfociare nel dramma.
Giacché il "troppo capire" può
diventare un azzardo, quando capir non si deve, né troppo né poco, ma solo
obbedire ed eseguire! Ieri come oggi. Specie se il troppo capire ti spinge a
osare oltre certi limiti.
Forse un
giorno sapremo, o sapranno, la verità
La verità sul caso Moro è ancora lontana. Un
caso o un affaire come lo definì Leonardo Sciascia col quale più volte ebbi a
parlare quando veniva a Montecitorio.
Lo scrittore aveva ragione: quel tragico evento
non poteva es-sere ridotto a un "caso", perché caso non era, ma un
delitto politico complesso, ideato e programmato in tutti i suoi aspet-ti
militari e politici.
Forse,
un giorno sapremo (o sapranno) tutta la verità sul-l'affaire Moro. Tuttavia, credo si possa senz'altro affermare che
Egli è caduto per avere troppo capito e troppo osato.
E qui mi fermo, perché desidero aggiungere al
ricordo di Agostino Saviano alcune mie impressioni sull'atmosfera che si
respirava in Parlamento durante quei 55 giorni e sulla figura e sul ruolo
dell'on. Aldo Moro col quale- chiarisco- non ho avuto alcuna relazione diretta,
ma solo qualche scambio di saluti.
Confesso che io, approdato giovanissimo in
Parlamento nel 1976 sull'onda della clamorosa avanzata elettorale del Pci,
percepivo il gruppo dirigente della Dc come un blocco dominante composito,
talvolta anche rissoso, che, al bisogno, sapeva far quadrato a difesa di un
potere gretto, fine a se stesso che si voleva conservare al governo, in eterno.
Un punto di vista piuttosto diffuso, giacché un
po' questo era il volto del potere democristiano, soprattutto in Sicilia e nel
meridione.
Erano quelli i tempi del "governo
dell'astensione" (del Pci). Una formula per molti di noi deludente,
indigeribile anche perché basata, sostanzialmente, solo su un'intesa riservata,
quasi sulla parola, fra Berlinguer e Moro.
Quell'accordo, tuttavia, produsse un clima di
rasserenamento, di relativa fiducia tra i partiti, soprattutto fra Dc e Pci che
insieme disponevano di quasi l'80% della rappresentanza parlamentare. Insieme i
due partiti rappresentavano l'anima popolare della società italiana, una vera
superpotenza politica capace di riformare finalmente il Paese. E le riforme- si
sa- suscitano grandi speranze ma anche grandi paure in chi se ne sente
minacciato.
Preoccupazioni che si propagarono anche nel
cuore dei principali centri decisionali internazionali.
Saranno state la sorpresa e/o la paura del
cambiamento o altro, fatto sta che taluni settori della classe dirigente
italiana si mostrarono poco convinti, quando non ostili, nell'affrontare un
passaggio così innovativo.
Cercai di capire questo travaglio. Ogni
occasione era buona per scandagliare atteggiamenti e comportamenti della classe
dirigente.
Una mattina, partecipando a una seduta della
commissione esteri della Camera, mi trovai davanti tutti i segretari e i presidenti dei partiti,
di governo e d'opposizione: Berlinguer, Craxi, Zaccagnini, Rumor, Piccoli, De
Martino, Spinelli, Ugo La Malfa,
Pajetta, La Pira,
Malagodi, Tanassi, Giolitti, Colombo, Forlani, Aldo Moro...
Li scrutai da vicino, a uno ad uno. Osservai i
loro sguardi, i loro tic, i movimenti minimi del viso, delle mani. Volevo ca-pire
cosa si nascondesse dietro quei volti formali, impenetra-bili. Arroganza,
paura, inquietudine, solitudine?
Insomma, la prospettiva che si andava ad aprire
come e quanto influenzava i loro comportamenti, le loro stesse perso-nalità?
L'esame fu necessariamente sommario. A parte La Pira, che già poteva
considerarsi avviato verso la beatitudine celeste, mi colpirono soprattutto
Berlinguer e Moro per la loro espres-sione sofferta, quasi mesta. Era un po' il
loro carattere, ma - credo- vi influisse la consapevolezza del peso delle responsa-bilità che si erano assunti in quel
frangente.
In quel consesso di capi-partito e di corrente
vidi le stimmate di un potere fatto di voti e presidenze. Moro e Berlinguer,
invece, mi apparvero spogli di poteri siffatti e perciò leader autentici che
fondavano il loro carisma sulla forza delle idee e dell'etica.
Un solo esempio. Aldo Moro capeggiava una fra le
più piccole correnti democristiane, eppure era stato l'architetto delle grandi
svolte politiche della "balena bianca" e ora stava realizzando la sua
ultima, più impegnativa fatica per il completamento del disegno democratico
tracciato dalla Costituzione. Glielo hanno impedito ricorrendo alla strage, a
un delitto atroce.
Quella
mattina alla Camera
La notizia della strage e del sequestro giunse
veloce e terribile a Montecitorio di prima mattina.
Ricordo lo smarrimento di capi e gregari
democristiani, il nostro sgomento.
Nel "transatlantico" le urla di pochi
soverchiavano i silenzi atterriti di tanti.
Antonello Trombadori, deputato comunista ed ex
gappista romano, correva come un pazzo avanti e indietro gridando "al
muro, al muro". Perfino un uomo misurato come Ugo La Malfa giunse a invocare in
Aula la pena di morte.
Il giorno non fu scelto a caso: quel 16 marzo
1978 la Camera
era stata convocata per votare la fiducia al quarto governo Andreotti. Per la
prima volta, dopo trent'anni, il Pci entrava nella maggioranza anche se non
rappresentato nel governo. Un altro voto difficile per noi, ma necessario
per realizzare il secondo passaggio
dell'intesa strategica fra Moro e Berlinguer.
I nemici occulti di tale strategia decisero di
fermarla al secondo passaggio, giacché al terzo, che avrebbe visto i comunisti
al governo, sarebbe stato altamente rischioso.
Un disegno funesto, devastante, ideato da forze
potenti, tuttora ignote, ben più potenti delle Br che l'hanno eseguito. Almeno
così in molti leggemmo la vicenda sulla quale pesano ancora tante stranezze
operative e alcuni interrogativi riguardanti la sua gestione politica, per
altro molto riservata e accentrata.
Aldo Moro fu colpito perché unico leader in
grado di traghettare la Dc
verso questa svolta decisiva. Salvando
lui si sarebbe dovuto salvare anche il progetto politico di cui era
co-protagonista, ufficialmente condiviso da circa il 90% delle forze
parlamentari.
Perché,
dunque, non si tentarono tutte le possibili vie di sal-vezza? La cosiddetta
"fermezza", anche se invocata in buona fede, non era in fondo una
condanna a morte del sequestrato?
Interrogativi
angoscianti che in quei giorni convulsi non tro-varono risposte esaurienti.
Perciò, mi parve quantomeno illogico respingere
la "tratta-tiva" che avrebbe consentito, se non altro, di far
scoprire le carte dei sequestratori. Se fosse stato un bluff, come molti
temevano, le Br avrebbero confermato il diffuso sospetto di essere al servizio
di un disegno più grande di loro, mirato soltanto all'eliminazione fisica
dell'on. Aldo Moro.
Purtroppo, le cose andarono per un altro verso.
Moro sarà barbaramente assassinato. Il danno fu grande per la sua famiglia e
per la democrazia italiana che, d'allora, appare sempre più contratta, fiacca,
vacillante.
Concludo, con un passaggio illuminante,
pedagogico direi, contenuto nella lettera a Saviano, in cui Moro conferisce un senso altissimo al
sacrificio umano "mi pare che nella
vita per fare qualcosa di grande e di buono, e perciò di duraturo, occorra
saper pagare di persona, facendosi attori e veri partecipi poi del grande
dramma."
Parole dolenti nelle quali si possono
intravedere i segni premonitori del suo tragico destino.
( in
“Vuoto a perdere”, dicembre 2008)
* Questo
articolo non ha un legame diretto con le vicende mediorientali, tuttavia
potrebbe offrire uno spunto di rifles-sione sugli effetti tragici, umani e
politici, provocati in Italia dai terrorismi di ogni “colore”.
Capitolo
terzo
MEDIORIENTE: IL
CONFLITTO INFINITO
Yasser Arafat riceve Agostino Spataro,
Roma, Albergo Excelsior, 1998
PER UNA
VERA PACE IN MEDIO ORIENTE
Equivicinanza
o solidarismo a senso unico?
La politica del governo Berlusconi continua a
caratterizzarsi per il suo appiattimento acritico, talvolta perfino connivente,
rispetto alle scelte aggressive del governo di Sharon.
Un allineamento immotivato, forse poco convinto,
che stride con una lunga e condivisa tradizione di equidistanza attiva (o di
"equivicinanza" come dice D'Alema) della nostra politica
mediorientale.
Il governo italiano, infatti, è andato oltre ogni
pessimistica previsione, oltre le stesse posizioni e forse anche le richieste,
dell'amministrazione Bush da cui trae ispirazione: è l'unico al mondo ad avere
approvato la costruzione del muro israeliano della vergogna.
Un solidarismo sospetto, perché troppo politico
e a senso unico, esibito ogni qual volta ci sono da commemorare vittime israeliane
provocate dagli attentati dei gruppi terroristici palestinesi, mentre vengono
regolarmente ignorate quelle palestinesi provocate dalle indiscriminate e
sanguinose rappresaglie dell'esercito di occupazione israeliano.
Come se le vittime israeliane fossero "più
innocenti" che quelle palestinesi, per altro molto più numerose.
Un
mutamento dell'approccio negoziale
Inoltre,
tale inusitato appiattimento sta modificando, in nega-tivo, la percezione che
dell'Italia democratica e progressista si è avuta nel mondo arabo, sia sul
terreno politico e culturale sia su quello economico e commerciale.
Anche questi sono danni (e che danni!) che
lasciano il segno e che, prima o poi, bisognerà cominciare a conteggiare.
Perciò, D'Alema, oltre a fare chiarezza sulle responsabilità,
invoca un mutamento della prospettiva politica generale, di approccio e di
conduzione del negoziato, riaffermando e rilanciando valori e propositi della
sinistra democratica, largamente condivisi in Europa e nel mondo.
Un accordo di pace fra palestinesi e israeliani
per essere equo e duraturo dovrà fondarsi, in primo luogo, sul principio dei
"due popoli, due Stati", indipendenti e, possibilmente, fra loro
cooperanti. Poiché, non è scritto in nessun "libro" che arabi ed ebrei
debbano percepirsi come irriducibili nemici e farsi la guerra in eterno.
L'ideale sarebbe la convivenza in uno stesso
Stato, ma questa prospettiva, al momento irrealistica, è percepita come una
minaccia.
Addirittura, il premier palestinese Abu Ala l'ha
presentata (ieri, 8/1/04) come una opzione polemica, come una sorta di
ritorsione, in caso di fallimento della "road map".
Tutto ciò, a dispetto della millenaria
esperienza storica che ha visto i due popoli (entrambi biblicamente
"semiti") convivere in pace in Palestina e in varie parti del mondo
arabo-islamico.
Un breve inciso. Ancora nel 2004, siamo alle
prese col biblico Sem e i suoi pretesi discendenti (semiti) proposti come un
riferimento discriminante nella moderna politica internazionale.
E perché nessuno si ricorda di Cam, l'altro
figlio di Noè e capostipite degli africani? Forse, perché l'Africa non
interessa proprio a nessuno!
Anche questo è un problema notevole che crea
odio e alimenta fanatismi.
Se arabi e israeliani avessero lasciato la
religione fuori dalla politica forse la tragica vicenda mediorientale si
sarebbe risolta da un bel pezzo.
Noi,
uomini e donne, della sinistra...
Tuttavia, se proprio se si vuole insistere su
questo tasto, più che di "antisemitismo" bisognerebbe, parlare di
"antiebrai-smo", circoscrivendone la dimensione ai fenomeni
effettivi, provati, che bisogna combattere, senza generalizzazioni
controproducenti, con le leggi (che esistono) e soprattutto con un’azione di
corretta informazione e con l’impegno dei movi-menti culturali e umanitari.
L'antiebraismo, infatti, è un odioso sentimento
razzista, nato e sviluppatosi in Europa e in genere nell'Occidente cristiano,
che ha provocato le conseguenze gravissime e inaccettabili che sappiamo e che
la visita di Fini in Israele (in cerca di legittimità) non può far dimenticare.
Noi, uomini e donne della sinistra, non abbiamo
dimenticato l'immane tragedia della Shoa. Ancora oggi ci commoviamo quando
vediamo un documentario o un film sui campi di sterminio.
Spero che altri non dimentichino che, insieme ai
milioni di ebrei, la follia del nazismo e del fascismo deportò e trucidò
centinaia di migliaia di comunisti, socialisti, anarchici e di sinceri
democratici, di zingari, religiosi cristiani, di soldati antifascisti, ecc.
Un tremendo campionario di morte formulato,
scientemente, sulle base di deliranti motivazioni, non solo razziali, ma
politiche e culturali.
Massimo D'Alema giustamente rivendica alla
sinistra italiana "una tradizione di dialogo con Israele e le sue classi
dirigenti".
Aggiungo che noi, per tradizione e per
educazione, non abbiamo mai coltivato sentimenti di tipo razzista né contro gli
ebrei né contro altri popoli del mondo. Siamo per l'uguaglianza e per la
fratellanza fra tutti gli uomini e i popoli. Perciò non ci tange la "bolla
antisemita" che potrebbe
essere emanata da qualche fanatico o da qualche
fascistello convertito.
Siamo convinti che così parlando e scrivendo, e
talvolta ma-nifestando, difendiamo il vero diritto d'Israele alla sicurezza
nella pace.
Come fanno - esponendosi a gravi conseguenze - i
pacifisti e i soldati israeliani che, sempre più numerosi, si rifiutano di
massacrare la popolazione civile palestinese dei Territori occupati.
La
"road map" non fa un passo avanti
Purtroppo, la pace appare ancora lontana,
difficile da con-quistare mediante un negoziato paritario e internazionalmente
garantito. La "road map" non riesce a fare un passo avanti, anche
perché impantanata dentro un'ipotesi procedurale atipi-ca, non perfettamente
definita, che ognuna delle parti inter-preta secondo la propria convenienza
politica.
Addirittura, come accade nel Likud, secondo gli
interessi di corrente e gli equilibri interni del partito di Sharon, il quale
più si ostina nella sua politica avventuristica più disastri combina.
E in primo luogo, a danno dell'immagine dello
stato d'Israele e dell'avvenire del suo popolo.
I recenti sondaggi svolti in Europa e negli USA,
frettolosa-mente cestinati sulla base dell'abusata e generica formula
dell'antisemitismo, confermano l'esistenza di un crescente e diffuso sentimento
di disapprovazione e di forte e giustificata preoccupazione verso la politica
dei governanti
israeliani.
Se questo si pensa in Occidente, figurarsi in
Oriente!
Invece d'interrogarsi per capire il senso e la
natura di tale preoccupazione (se, per esempio, la causa non sia da indivi-duare
nell'attuale politica di Sharon), si pretende di zittire e di bollare chiunque,
profittando della contingenza, apparente-mente, favorevole.
Bando - dunque - ai sondaggi e guai a chi osa criticare
i governanti israeliani! Così facendo non si programma un futuro di pace e di
sicurezza, ma un nuovo disastro.
Liquidare come"antisemita" la
maggioranza degli europei e il 40% degli americani "rei" di pensare
che la principale minac-cia alla pace mondiale venga dall'attuale politica
israeliana, mi pare una colpevole e arrogante miopia.
Per il
bene d'Israele non serve il facile anatema dell'antisemitismo
Come può uno Stato, l'unico al mondo nato per
decisione dell'Onu e il primo al mondo che non rispetta le tante deliberazioni
dell'organismo che lo generato, che da oltre 50 anni si trova in guerra con i
popoli confinanti, che è circondato dall'ostilità del mondo islamico, liquidare
con
tanta superficialità un sentimento fortemente
maggioritario nell'opinione pubblica occidentale?
Una dirigenza responsabile dovrebbe, invece,
preoccuparsene e avviare una seria riflessione per cercare di capire se c'è
qualcosa che non funziona nell'ingranaggio della politica e, se del caso,
correggere quanto c'è da correggere. Finché c'è tempo.
Fare quadrato attorno all'attuale governo
israeliano, come sta avvenendo, è l'errore più grave che si possa compiere,
poiché s'identifica il destino d'Israele (che per fortuna non è un blocco
monolitico) con quello del governo oltranzista di Sharon.
Per il bene d'Israele, l'Italia, l'Europa, gli
stessi Stati Uniti non possono assecondare le politiche avventuriste di Sharon.
E' semplicemente umiliante per un Paese democratico e civile qual è l'Italia
che il suo governo avalli la costruzione del muro della vergogna e
dell'apartheid.
Anche contro l'accorato grido del Papa
("ponti e non muri") che per i ministri cattolici del governo
dovrebbe costituire un richiamo morale indefettibile.
Così come, per il bene del popolo martire di
Palestina, biso-gna ricordare alla dirigenza palestinese l'esigenza di una più
incisiva trasparenza amministrativa, di una maggiore coesi-one politica per una
lotta più decisa, senza giustificazionismi, contro il terrorismo, suicida e
non, dei gruppi più oltranzisti.
Per risparmiare vite innocenti e per non fornire
nuovi alibi all'azione dilatoria ed equivoca di Sharon che - come osserva
D'Alema - "mette nelle mani dell'ultimo gruppo terrorista la possibilità
della pace".
(in "Informazioni dal Mediterraneo"
gennaio 2004)
MORTO (UCCISO?) ARAFAT,
ARRIVERA’ LA VERA PACE?
Sarà pace
o una nuova “guerra dei cent’anni”?
Che cosa riserverà ai palestinesi il dopo-
Arafat?
Sorgerà, finalmente, uno Stato indipendente
palestinese?
E, soprattutto, si chiuderà l'annoso conflitto
arabo-israeliano?
Sono questi alcuni interrogativi che frullano
nella mente di ciascuno cui dovranno rispondere la politica e la diplomazia
internazionali e, in primo luogo, le leadership israeliana e palestinese.
In campo politico si registrano due fatti nuovi
che potrebbero avviare una dinamica inedita nelle relazioni
israelo-palestinesi: il varo del governo minoritario di "unità nazio-nale"
in Israele, voluto dal falco Sharon per attuare la deci-sione del ritiro
dell'esercito israeliano dalla striscia di Gaza e l'elezione a presidente
dell'Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen.
Un leader importante il quale, però, prima che
dagli attacchi degli estremisti palestinesi, deve difendersi dalle sperticate
lodi di Bush e dei governanti israeliani che rendono difficilissimo il percorso
per giungere ad un'ampia intesa unitaria con i gruppi di resistenza, necessaria
per tentare la ripresa del negoziato.
Segnali interessanti ma insufficienti per
sperare in un accordo imminente. Poiché si devono superare punti di contrasto
mol-to seri e, soprattutto, la reciproca sfiducia e gli odi accumula-tisi in
quasi 40 anni d' occupazione militare e di conseguente attività di resistenza,
anche di stampo terroristico.
Bisogna, infatti, rimuovere le cause profonde di
un conflitto atipico che non è la classica lotta di liberazione anticoloniale
(anche se c'è di mezzo un'occupazione militare), ma una guerra irriducibile fra
un popolo che si sente vittima di una grande ingiustizia (i palestinesi) e un altro
che pretende di essere risarcito a danno dei palestinesi per una tragedia (la Shoa) subita dagli ebrei in
Europa.
Un conflitto caricato di significati e valori
che, andando oltre l'oggetto specifico della contesa, ha acquisito risvolti a
carat-tere geo-economico e geo-strategico, i cui esiti potrebbero condizionare
il "nuovo equilibrio" che si vorrebbe creare (o imporre?) in un'area
vitale del mondo, baricentrica fra Europa, Mediterraneo e il Medio Oriente,
dove insistono le più grandi riserve mondiali d'idrocarburi.
Questi e altri interessi e ragioni spiegano la
lunga durata (il tempo di tre generazioni) del conflitto, malgrado l'enorme
sforzo negoziale profuso dagli organismi internazionale.
C'è chi parla di una nuova "guerra dei
cent'anni". Speriamo proprio di no, anche se non possiamo dimenticare che
sono già passati 57 anni. Inutilmente.
Visioni
arcaiche e moderni interessi strategici
In questa tragica esperienza c'è qualcosa che
non quadra. Si coglie l'impressione che alla base dello scontro vi siano
visioni arcaiche antagoniste che nulla hanno a che fare col moderno diritto
internazionale dei popoli e che per affermarsi si appellano - come nel caso
delle associazioni ebraiche ortodosse- alla politica del fatto compiuto e al
libro della Genesi.
Fino quando la politica non riuscirà a liberare
il campo di tali assurde pretese, sarà difficile conseguire la pace, poiché
dall'una e dall'altra parte non si cercherà l'accordo, ma l'annientamento del
nemico.
Volendo, c'è un dato politico importante da cui
partire: le decine di risoluzioni delle Nazioni Unite che impongono il ritiro
degli eserciti israeliani dai territori palestinesi occupati e il ritorno ai
confini ante 1967, il riconoscimento dello Stato d'Israele e la creazione dello
Stato palestinese indipendente e uno status speciale per Gerusalemme,
città-simbolo delle tre principali religioni monoteiste, garantito dalla
comunità internazionale.
Paradossalmente, Israele, unico Stato al mondo
creato da una decisione dell'Onu, è il primo Stato al mondo che non rispetta
quasi nessuna delle decisioni dell'organismo che lo ha generato.
Come se nulla fosse accaduto, in tutti questi
anni, i governan-ti israeliani, di varia estrazione politica, hanno proseguito
la politica di occupazione e di colonizzazione dei Territori e di sanguinosa
rappresaglia che ha distrutto interi villaggi, fatto stragi di donne, vecchi e
bambini e spinto molti giovani pale-stinesi nelle braccia di un terrorismo
"preventivo", sorto
principalmente per contestare il ruolo dirigente
dell'Olp e per ostacolare, con le autobombe e i kamikaze, il processo di
pace.
Terrorismo che va condannato senza mezzi termini
poiché, oltre a provocare stragi d'innocenti e a innescare l'odiosa
rappresaglia israeliana, non fa avanzare di un passo la giusta causa
palestinese.
Occupazione dei
Territori: promesse bibliche o vile profitto?
D'altra parte, c'è da notare che la mancata
nascita di uno Stato palestinese consente all'economia israeliana, largamente
finanziata da ingenti flussi di capitali e d'aiuti stranieri, di sfruttare
alcuni milioni di lavoratori palestinesi senza diritti di cittadinanza,
costituenti una massa enorme di forza-lavoro a bassissimo costo e, quindi, un
fattore decisivo della celebrata competitività israeliana.
Comodo, troppo comodo! Invece d'importare
manodopera clandestina dal Terzo mondo, come fa l'Europa che almeno deve
sobbarcarsi il “fastidio” di accoglierla e di stabilizzarla, il capitalismo
israeliano ha scoperto il suo "terzo mondo" a due passi di casa, nei
Territori occupati.
Milioni di operai e di braccianti palestinesi
che ogni mattina fanno ordinatamente la fila al cheik-point per andare a
lavo-rare in Israele e la sera rientrano nei loro fatiscenti campi
profughi.
Non è, dunque, solo una questione di sicurezza o
di promesse bibliche, ma un problema di vile profitto. Per fermare i più
riottosi, Sharon sta costruendo un lungo e mastodontico muro della vergogna
verso est, mentre a sud della striscia di Gaza, a Rafah, vorrebbe scavare una
gigantesca trincea (4,5 km
di lunghezza), profonda 10
metri e larga diverse decine di metri.
Certo che uno Stato che si circonda di muri e di
trincee non manifesta una grande propensione a convivere in pace con i vicini o
quantomeno resta prigioniero di una psicosi di massa fondata sulla
"paura" dell'annientamento. Tutto ciò dispiace poiché trasforma la
vita degli israeliani in uno strazio quotidiano.
Israele,
fra democrazia e integralismo
Israele è sicuramente uno dei pochi paesi
democratici e plu-ralisti del M.O. Tuttavia, vive queste e altre
contraddizioni, sovente non evidenziate da certi autori molto ligi al richiamo
dell'appartenenza e poco a quello di una corretta informazio-ne.
Pochi sanno, per esempio, che lo Stato
israeliano, a 57 anni dalla sua creazione, non ha una Costituzione, poiché
anche i partiti progressisti (come i laburisti) temono che potrebbe essere
varata una Carta di tipo confessionale. Quindi, meglio non averla che
ritrovarsi con un predominio codificato del diritto rabbinico.
Anche questo è un grande problema che bisognerà
affrontare in Israele dove stanno crescendo, anche sul piano elettorale, taluni
partiti "ortodossi", integralisti e fanatici e soprattutto
propugnatori della teoria del "grande Israele", ossia un
destabilizzante proposito che, oltre all'annessione dei territori palestinesi,
mira ad espandere lo stato ebraico dal Nilo al-l'Eufrate, secondo la
geo-politica del vecchio Testamento.
Questo spiega anche il fatto che diversi gruppi
israeliani e della diaspora, settori consistenti del Parlamento non desi-derano
un accordo equo con i palestinesi, fondato sul con-cetto "due popoli due
Stati".
Chi, come il primo ministro Rabin, ha tentato,
seriamente, la via della pace ha pagato con la vita la sua scelta coraggiosa,
per mano di un integralista ebraico. In qualsiasi altro paese, l'uccisione del
primo ministro avrebbe comportato un forte sommovimento politico e morale,
avrebbe determinato un'ec-cezionale azione investigativa per scoprire le
eventuali impli-cazioni e connivenze. Invece, nel democratico Israele il caso è
stato archiviato con la condanna del solitario assassino, reo confesso.
Palestinesi, ragioni e
contraddizioni di un popolo sotto occupazione
Nel campo politico arabo e palestinese, seppure
in un contesto contraddittorio, si è registrata una lenta evoluzione. Si è
passati dal totale rifiuto di riconoscere l'esistenza d'Israele, e quindi delle
stesse deliberazioni dell'Onu a riguardo, all'instaurazione di normali
relazioni diplomatiche fra diversi paesi arabi e lo Stato ebraico. Grazie alla
svolta è avvenuta ad Algeri, nel 1988, a conclusione del consiglio nazionale
dell'Olp che, mediante una modifica dello statuto, sancì il riconoscimento
delle risoluzioni dell'Onu relative alla nascita e alla sicurezza d'Israele,
entro i confini antecedenti al 1967.
Purtroppo, non tutti i governi, i partiti e i
movimenti arabi hanno maturato una scelta così netta, mentre nel variegato
fronte integralista islamico permane una forte avversione che continua a
minacciare "la distruzione d'Israele".
Tuttavia, nella gran parte dell'opinione
pubblica araba è cresciuta la predisposizione a vivere in pace con gli
israeliani.
Addirittura in una prospettiva condivisa di
rinascita economica e civile, purché cessi l'occupazione militare dei Territori
palestinesi e del Golan siriano (anche qui sono state impiantate colonie
ebraiche) e lo stato di sanguinosa tensione al confine con il Libano.
Nonostante tutto, la pace è possibile. Grazie
anche all'opera di Yasser Arafat, grande politico e grande patriota, che è
riuscito a dare una dignità di popolo ai palestinesi dei territori occupati e
della diaspora e gettato le basi per un accordo equo e duraturo.
A Gaza, a Ramallah, a Hebron si agitano le
bandiere della Palestina, ma non c'è ancora lo Stato indipendente. Questo è il
compito della seconda fase della lotta palestinese che comincia col dopo-
Arafat.
Spetta ai nuovi dirigenti, eletti
democraticamente, tentare di rilanciare il processo di pace, senza dimenticare
di costruire una solida democrazia attraverso la partecipazione e il pluralismo
politico, all'insegna dell'efficienza amministrativa e della trasparenza morale
che, purtroppo, ha difettato negli ultimi anni.
Un esempio operante che sia da riferimento anche
per gli altri Stati arabi che purtroppo sono molto lontani dalla frontiera
democratica.
A volte mi assale il sospetto che in M. O. si
sia consumata un'odiosa congiura a danno del popolo martire di Palestina. Come
se governanti israeliani e dittatori arabi si fossero ac-cordati sottobanco per
impedire la nascita di uno Stato pales-tinese laico e pluralista che, esaltando
l'intelligenza e l'intra-prendenza dei palestinesi, potrebbe entrare in
concorrenza con Israele e dall'altro lato costituire un esempio pericoloso per
le petromonarchie e per i tanti rais assolutisti del mondo arabo.
L'equidistanza
attiva dell’Italia e della U.E.
La comunità internazionale, in primo luogo la
defilata Unione Europea, ha il dovere di sostenere con fatti concreti lo sforzo
dei nuovi dirigenti palestinesi, per rafforzare la speranza di pace in una
tormentata regione contigua.
Si deve al popolo martire di Palestina che non
può sopportare oltre l'occupazione straniera e ai bambini palestinesi e
israeliani della terza generazione.
Affinché almeno loro possano crescere e vivere
in pace e nella prosperità, senza più guerre, terrorismi e fanatismi.
L'Europa non può lasciare mano libera agli Usa
in M.O. L'Italia di Berlusconi sta facendo di peggio appiattendosi sul-le
scelte di Bush e sostenendo in maniera acritica il governo Sharon.
Un allineamento immotivato che stride con la
"equidistanza attiva" della nostra tradizionale politica mediterranea
e mediorientale, che genera un solidarismo sospetto, univoco.
Un accordo di pace fra palestinesi e israeliani
per essere equo e duraturo dovrà fondarsi, in primo luogo, sul principio dei
"due popoli, due Stati". L'ideale sarebbe la convivenza in uno stesso
Stato, ma al momento questa prospettiva è irrealistica, quantunque per millenni
i due popoli, entrambi biblicamente "semiti", abbiano convissuto in
pace in Palestina e altrove.
La fallace
scorciatoia della bolla antisemita
Oggi, quando non si hanno argomenti per
confutare le critiche verso l'avventurismo dei governanti israeliani, si
ricorre alla facile e abusata accusa dell'antisemitismo, quasi sempre evocando
l'immane tragedia della Shoa.
Una fallace scorciatoia, fumo negli occhi per
coprire le frequentazioni di taluni
settori dell'ebraismo di partiti e movimenti eredi "pentiti" di chi
ha decretato le odiose leggi razziali del 1938 e deportato gli ebrei nei campi
di sterminio.
Come detto, il semitismo non è un attributo da
riferire esclusivamente agli ebrei, ma, secondo le diverse leggende scaturite
dal racconto biblico, semiti sono anche gli arabi e anche la fortezza di Sem si
troverebbe sul monte Nogum che domina la città di Sana'a, nello Yemen.
Ma questa è leggenda! La scienza moderna invece
ci dice che tutti i popoli che si affacciano sulle rive del Mediterraneo
(compresi gli ebrei) hanno comuni basi biologiche e culturali e un forte grado
d'affinità genetica. (in "Le risorse
umane del Mediterraneo", Ed. Il Mulino, 1990).
Perciò, è più corretto parlare di
"antiebraismo" ossia di un odioso sentimento razzista, nato e
sviluppatosi in Europa e in genere nell'Occidente cristiano.
Soprattutto, noi, uomini e donne della sinistra,
non abbiamo dimenticato l'immane tragedia della Shoa. C’è da sperare che altri,
specialmente la gran parte degli ebrei democratici, non dimentichino che,
insieme a milioni di loro correligionari, la follia del nazismo e del fascismo
deportò e trucidò centinaia di migliaia di comunisti, socialisti, anarchici e
di sinceri de-mocratici, di zingari, religiosi cristiani, di soldati
antifascisti, ecc.
Un tremendo campionario di morte formulato,
scientemente, sulle base di deliranti motivazioni, non solo razziali, ma poli-tiche
e culturali.
La sinistra, per tradizione e per educazione,
non ha mai col-tivato sentimenti di tipo razzista, né contro gli ebrei né
contro altri popoli del mondo.
Siamo convinti che così agendo difendiamo il
vero diritto d'Israele alla sicurezza nella pace, al pari di tanti sinceri paci-fisti
israeliani.
(in rivista "Il Grandevetro",
febbraio 2005)
ANDREOTTI
TERRORISTA?
Terrorismo
e resistenza
Ormai, la guerra e il terrorismo (conseguente o
precedente?) dominano la scena mediatica, sono entrati di prepotenza nelle
nostre case, condizionano pesantemente l'esercizio della de-mocrazia e le
libertà degli individui, influenzano le relazioni fra gli Stati e gli affari
delle grandi concentrazioni globaliz-zate che, a loro volta, orientano governi
e masse ingenti d'investimenti.
Poiché tutto si tiene nel nome della lotta al
terrorismo.
Che grandiosa invenzione quella del terrorismo
planetario, sempre incombente! Sicuramente, il suo inventore o fomen-tatore
passerà alla storia come un genio della strategia poli-tica al servizio della
finanza d'arrembaggio che sta destrut-turando il mondo a suo favore.
Inventato o foraggiato o scelto come metodo di
lotta politica, il terrorismo è una realtà drammatica con la quale bisogna fare
i conti, ogni giorno.
Perciò, bisogna condannare, certo, la guerra ma
alla stessa stregua il terrorismo di qualsiasi natura e colore, anche quando
agita le bandiere della lotta per l'indipendenza dei popoli.
La Resistenza deve ripudiare il
ricorso all'assassinio e alla strage per dimostrare la sua superiorità politica
ed etica rispetto all'oppressore che, addirittura, si dovrà incaricare di
redimere.
In ogni caso, deve marcare una netta distinzione
fra nemici armati e civili innocenti.
Questione delicata e complessa sulla quale è
intervenuto, recentemente, il senatore a vita Giulio Andreotti che, par-lando
davanti alla prestigiosa platea internazionale del World Political Forum
svoltosi a Torino, ha detto testualmente: "Se fossi nato in un campo
profughi del Libano, forse sarei diventato anch'io un terrorista".
(intervista a Renato Rizzo in "La Stampa" del 7/3/05)
Parole chiare che, a prima vista, potrebbero far
pensare a uno scatto d'ira, ad un'imprudenza che non si addicono al perso-naggio.
In realtà, si è trattato dell'esternazione, in
forma indiretta, di un diffuso sentimento di comprensione verso la giusta causa
dei palestinesi sotto occupazione israeliana e di quelli della diaspora dei
campi profughi ai quali si nega perfino la speranza del ritorno.
Parole pesanti che assumono un valore
emblematico quando a pronunciarle è un cattolico moderato che è stato sette
volte presidente del Consiglio e quasi sempre titolare di dicasteri - chiave.
Ci si aspettava una reazione furiosa da parte
della folta schiera di politici, analisti e opinionisti blasonati pronti ad
azzannare qualsiasi preda che va controcorrente.
Invece nulla. Stranamente, sono rimasti muti.
Forse hanno reputato il silenzio la "migliore risposta", secondo la
tecnica dello struzzo che, a volte, può rivelarsi più efficace di certi
cacofonici stridii.
La
confusione sul terrorismo
A dare un certo risalto alla notizia è stata la
"Stampa" che, però, ha teso a banalizzare la portata di quella
dichiarazione presentandola come una "provocazione", sia
nell'occhiello del citato articolo sia nella risposta di Marcello Sorgi a un
lettore.
Una provocazione, dunque?
Solitamente, si usa questo termine, magari con
intento bene-volo, per togliere dall'imbarazzo qualcuno che ha pronunciato una
battuta infelice o, furbescamente, per attenuare la gravità di una verità
scomoda che non si doveva profferire in pubblico.
In
entrambi i casi impropriamente, giacché, nella sua acce-zione lessicale, la
parola "provocazione" non contiene alcun significato attenuante.
Anzi. Secondo il Tommaseo, "la
pro-vocazione viene da uomo ad uomo, e con intenzione d'offen-dere, e trarre lo
sdegno altrui ad atti nemici...", anche per il Devoto- Oli è un "atto diretto a provocare una reazione
irritata o violenta"; diventa
circostanza attenuante soltanto nel caso di una reazione "in stato d'ira
determinato da un fatto ingiusto, cioè giuridicamente illecito, altrui".
Se la frase di Andreotti fosse stata una
provocazione sarebbe da considerare un atto davvero ostile, mentre a me è parsa
un invito che il senatore ha rivolto alla comunità internazionale, ed in primo
luogo al paese occupante, ad una seria riflessione sulle cause che inducono
migliaia di giovani palestinesi a militare nelle varie formazioni di
resistenza, che non possono essere definite indistintamente
"terroriste".
Terrorismo,
a chi giova ?
Tuttavia, credo che il migliore interprete di
Andreotti sia Andreotti medesimo. Perciò, lasciamo a lui il compito di chiarire
il pensiero, seguendo alcuni passaggi contenuti nella citata intervista alla
Stampa, nella quale:
a) opera una distinzione fra terroristi e
resistenti "in un paese dove si
lotta per ottenere l'indipendenza i detentori del potere chiamano in questo
modo (terroristi n.d.r.) i patrioti. Proprio come accadeva anche in Italia, del
resto, all'epoca della Resistenza".
Ai finti smemorati bisogna ricordare che i
partigiani italiani, che qualcuno vorrebbe equiparare moralmente ai collabora-zionisti
fascisti, erano bollati come "terroristi" da giustiziare senza pietà
e che in quell'eroico esercito di "terroristi" anti-fascisti
militavano operai, contadini, soldati e intellettuali. Insomma, il fior fiore
della nostra democrazia: dagli umili padri di famiglia ai padri fondatori della
Repubblica, fra i quali alcuni Presidenti come Sandro Pertini e l'attuale,
Carlo Azeglio Ciampi.
b) precisa che "non è vero che tutti i terroristi siano islamici così come non è vero
che tutti gli islamici siano terroristi. Anche se c'è gente che su questo equivoco
ha costruito la propria fortuna politica..."
Una verità ovvia che purtroppo ha bisogno di
essere riaffermata. Sarebbe interessante, a questo proposito, scavare in questa
confusione, artatamente creata, per scoprire quanti (e chi) ne hanno
approfittato per costruirsi fortune politiche e d'altra natura.
c) ribadisce il rifiuto dell'uso della forza
come inutile, poiché può "avere
successo, ma non riusciranno mai a costruire nul-la...E poi anche Adolf Hitler,
quando si decise di occupare la
Finlandia, si giustificò affermando che era lì esclusivamente
come protettore di quel popolo".
Da qui, semmai, si origina un interrogativo
tremendo: chi è il nuovo Hitler? Provate a darvi una risposta.
Quando
l'Italia aveva una politica estera
Insomma, un'intervista coraggiosa e sensata al
tempo stesso che offre spunto e materia per riflettere ed eventualmente
correggere posizioni in conflitto con i principi della legalità internazionale
sanciti dalla Carta dell'Onu e per richiamare governo e forze politiche a
riprendere il filo della nostra tradizionale politica estera di pace e di
cooperazione con i Paesi arabi e del Mediterraneo.
Perciò, bisognerebbe ringraziare il
"provocatore" Andreotti, per avere egli esternato, in un momento così
opaco, un sentimento ampiamente condiviso che, purtroppo, ad altri non è
consentito esplicitare pena la facile accusa di antisemitismo e/o di
sostenitore del terrorismo, ecc, ecc.
Un Andreotti ritrovato, dunque, che tanto
assomiglia allo sta-tista che, per un certo tempo, anch'io ho osservato "da vicino" (non conosciuto: chi può
dire di conoscere davvero l'on. Andreotti?), soprattutto durante la sua
presidenza della com-missione esteri della Camera dei deputati di cui ero
membro.
No, non credo che quelle parole gli siano
"scappate". Le avrà ben meditate e soppesate prima di pronunciarle,
com'è (o dovrebbe essere) nello stile di un uomo di stato.
D'altra parte, stiamo parlando di una
personalità politica poliedrica che, pur essendosi caratterizzata per un ruolo
politico talvolta controverso, ha dato un importante contri-buto
all'elaborazione e all'attuazione della politica estera italiana, in
particolare negli ultimi decenni del secolo trascorso.
Certo, egli dovette muoversi entro ambiti
geo-politici ristretti, così come imponeva la situazione internazionale
vigente, tuttavia quella era una politica estera.
Era la politica estera di un Paese democratico e
in crescita che, da membro attivo della Nato, riusciva a dialogare con l'Urss,
così come con israeliani e palestinesi e con tutti i Paesi arabi.
Tutto ciò fu reso possibile dal fatto che quella
politica traeva ispirazione, forza e autorevolezza dal larghissimo schiera-mento
politico e parlamentare che la sosteneva.
Non si trattò di un episodio di mera
trasversalità, ma dell'esito di una convergenza consapevole maturata in Parla-mento
che, scavalcando i confini fra maggioranza e mino-ranza, assicurò all'Italia
una fattiva presenza nello scenario mondiale.
Antisemitismo
e diritto di critica
Fino allora, l'Italia aveva avuto le "mani
legate" a causa della "guerra fredda" e del piatto allineamento
agli interessi Usa che non gli consentiva di svolgere un ruolo nemmeno davanti alla
porta di casa, ossia nel Mediterraneo e nel vicino Oriente.
E
fu, in particolare, su questo versante che fra maggioranza e opposizione di
sinistra si realizzò una sostanziale condordan-za che talvolta ci fece
dimenticare di essere all'opposizione su tutto il resto.
Una
condizione politica molto speciale che si avvertiva quan-do passavamo dal
microclima unitario dell'auletta della com-missione esteri (al quarto piano del
Palazzo di Montecitorio) all'Aula dell'assemblea dove si consumavano durissimi
scon-tri sulle politiche sociali portate avanti da vari governi: Cossiga,
Forlani, Spadolini, Fanfani.
Oggi, di fronte al dilettantismo subalterno del
governo di centro-destra, molti, in Italia e fuori, rimpiangono quella po-litica estera.
Almeno sotto questo profilo, va dato atto ad
Andreotti di avere operato, con spirito unitario e di pace, per sviluppare il
dialogo fra Stati e popoli e far regredire le minacce di guerra. Credo che a
questo spirito s'informi la "provocazione" di Torino.
A proposito della quale desidero fare un'ultima
notazione, sulla base della seguente domanda: cosa sarebbe successo se questa
frase l'avesse pronunciata un esponente dei movimenti pacifisti e/o di
sinistra?
Si sarebbero aperte le cateratte
dell'intolleranza per subissare il malcapitato con fiumi d'inchiostro acido,
condito con ipocrite professioni di fede filo-israeliana.
E chissà, se qualcuno non avrebbe proposto di
perseguirlo ai sensi della confusa legge sull'antiterrorismo. Non c'è da
scherzare. Purtroppo, in Italia si corrono questi pericoli.
A criticare, e ancor più a condannare, l'azione
del governo israeliano (oggi amico, ieri un po' meno) si rischia di subire
l'attacco concentrico, e dal sapore intimidatorio, da parte di un nugolo di
forze che non si sa bene quali valori abbiano in comune.
Andreotti, invece, l'ha fatto e n'è uscito
indenne. Buon per lui. Evidentemente, con lui, non attaccano le facili
etichette. In democrazia il diritto di critica deve poter essere esercitato da
tutti, liberamente e responsabilmente.
(in "Reporter Associati" 10
marzo 2005)
IL
MASSACRO ELETTORALE ISRAELIANO A GAZA
Sventurato quel popolo che si affida a leader così
cinici che, per vincere le elezioni,
gareggiano a chi si mostra più spietato nel massacrare il popolo limitrofo.
Ma ancor più sventurato, disgraziato direi, è
quel popolo che, per ironia della storia, si trova a vivere in contiguità del
pri-mo e quindi a subire un'oppressione pluridecennale, il con-centramento obbligato
nei nuovi lager della miseria e della disperazione (come sono Gaza e i tanti
campi profughi pales-tinesi) e, di tanto in tanto, le ire funeste di governanti
miopi che non riescono a vedere oltre la canna del fucile o, se si preferisce,
del mirino di un F16.
Avrete capito che stiamo parlando degli
israeliani e del popolo martire palestinese, ancora una volta vittima della
democrazia bellicista d'Israele e delle sue bombe criminali che mietono vittime
a centinaia fra la popolazione civile ossia bambini, madri e padri e vecchi.
Uomini e donne in carne ed ossa, come lo siamo
noi che assistiamo impotenti e sgomenti alla carneficina program-mata e
deliberata per esigenze di campagna elettorale.
Insomma, agli elettori israeliani non si
promettono solo stra-de, servizi, pensioni, nuovi ospedali, ma anche bombe, a
vo-lontà, contro i palestinesi.
Chi più ne sgancia più voti prenderà.
E' questa la vera, terribile novità dell'attuale
confronto elet-torale israeliano che si svolge fra un'accozzaglia di partiti
che tirano a destra: movimenti integralisti religiosi e formazioni nate dalle
ceneri del vecchio Likud.
La sinistra laburista, moderata e talvolta
equivoca, è stata scientemente atrofizzata, disarticolata, liquidata dai suoi
stes-si dirigenti che si sono lasciati fagocitare in cambio di qual-che
poltrona.
Chi oggi tira le fila, anzi le bombe, di questa
carneficina è un autorevole esponente laburista: il ministro della difesa Ehud
Barak.
Gaza
trasformata in “camera della morte”
La striscia di Gaza è un inferno, un lager per
oltre un milione di palestinesi chiuso da tutti i lati per meglio esercitare le
più brutali angherie, le persecuzioni e oggi questo ennesimo massacro.
E bravi, bravi davvero! Ci vuole un grande
coraggio a massa-crare, dal cielo, vecchi, donne e bambini, famiglie intere,
scuole, ospedali, case. Per capire la tragedia dei palestinesi e giudicare i
comportamenti degli attori in campo, credo che non servano tanti discorsi.
Basterebbe che ciascuno s' immaginasse nei panni
di un pale-stinese che, da 60 anni, vive esiliato nei campi profughi o nella
striscia di Gaza oggi trasformata in una sorta di "camera della morte".
Sì, come quella che, prima della
"mattanza", s'appronta nelle tonnare siciliane, dentro la quale
vengono spinti e ammassati i tonni e, dopo averla chiusa per bene, affinché
nessuno possa fuggire dalla "camera", comincia il massacro, la
mattanza per l’appunto.
Si possono avere tutte le ragioni di questo
mondo, ma quando una "democrazia" ricorre a tali metodi per attirare
il consenso degli elettori, evidentemente disponibili a concederlo, vuol dire
che c'è qualcosa di patologico che la consuma dall'inter-no e l'ha spinge sulla
via dell'avventura guerresca.
Si apre, cioè, una prospettiva grave,
inquietante, per Israele, per i popoli della regione ed in generale per
l'Europa che, seppur con qualche distinguo diplomatista, continua a sostenere
in modo unilaterale i governanti israeliani anche in questa sanguinosa
aggressione.
Il gioco è sempre lo stesso: mettere sullo
stesso piano le responsabilità di Hamas e quelle storiche, e ben più gravi, dei
governi israeliani, senza mai chiarire chi sono gli occupanti e chi gli
occupati, le enormi differenze tecnologiche e di difesa fra le parti in
conflitto.
Si evita di far la conta dei morti, dei feriti,
delle distruzioni giacché i totali sarebbero davvero imbarazzanti per Israele e
per i suoi sostenitori.
Quanto dovrà durare il
conflitto israelo - palestinese?
Certo, Hamas ha le sue responsabilità e nessuno
vuole smi-nuirle o dimenticarle. Tanto meno noi.
Tuttavia, bisognerebbe ricordare agli smemorati
che la nasci-ta di questa organizzazione islamista, oggi definita "terro-rista",
è stata favorita da settori dei governi e dei servizi israe-liani per usarla in
funzione anti-Arafat e poi magari liquidar-la, in un modo o nell'altro.
Un
giochetto rischioso, riuscito solo in parte. Arafat, alla fine, è stato messo
fuori gioco e così Israele si è scelto il "nemico" col quale
trattare.
Ma Hamas c'è ancora, anzi è divenuta padrona del
campo, confortata da un'ampia legittimità popolare ed elettorale.
Un po' quello che è successo fra gli Usa e Bin
Laden in Afghanistan. Perciò è da irresponsabili pensare di non coin-volgerla
nelle trattative riguardanti il futuro di una popola-zione che, piaccia o meno,
a maggioranza, si riconosce in Hamas.
Una posizione realistica, perfino ovvia, che
mira alla pace e non a mantenere aperto il conflitto in eterno. Perciò, fa
specie sentire qualche grillo parlante della maggioranza di centro-destra
accusare Massimo D'Alema, che ieri ha sostenuto tale posizione in Parlamento,
di flirtare con gli esponenti di Hamas. Al contrario, la posizione di D'Alema
costituisce, specie in questa fase opaca della vita politica italiana e di
smarrimento delle forze democratiche e di sinistra, un fatto importante ed
equilibrato di sintesi politica, in sintonia con il punto di vista prevalente
nell'opinione pubblica italiana e internazionale. E non perché si vuole
difendere Hamas, ma perché si desidera arrivare, finalmente, alla pace tra
israeliani e palestinesi!
Agli smemorati bisognerà sempre ricordare come
stanno le cose nei "Territori" che sono palestinesi e occupati non da
schiere di angeli giulivi calati dal cielo, ma da poderosi eserciti israeliani
che dal 1967 (da oltre 40 anni!) sono là a sfidare l'odio delle popolazioni
sottomesse e le numerose risoluzioni delle Nazioni Unite che ne chiedono lo sgombero.
Quando ancora potrà durare questo tira e molla?
Quali conseguenze ne potranno derivare per la stabilità della regione, del
Mediterraneo e della stessa Europa?
Oltre la tregua, una
pace equa, globale e duratura
Non basta la tregua, per quanto necessaria per
fermare il mas-sacro. La soluzione vera, ragionevole è la pace equa, globale e
duratura.
Per raggiungerla bisogna, però, parlar chiaro e
non fare sconti a nessuno.
In primo luogo, devono farlo i governanti
europei ed Usa i quali non possono continuare ad agire in modo unilaterale, in
contrasto perfino col punto di vista prevalente nelle rispettive opinioni
pubbliche le quali- è notorio- stanno dalla parte delle vittime palestinesi e
non dei loro aggressori.
E' questa la verità, anche statistica, ma non si
può dire perché si rischia d'incorrere nell'anatema dell'intolleranza, di
essere bollati come "antisemiti". Comodo, troppo comodo ricorrere a
questo epiteto per evitare di entrare nel merito.
Per quanto mi riguarda, preciso che tale
eventuale accusa non mi tange. La nostra esperienza politica e parlamentare, la
nostra cultura di sinistra, certamente superiore a ogni bassezza di tipo
razzista, sono lì a dimostrare esattamente il contrario. Quindi, per favore, si
lascino da parte gli anatemi e si vada al concreto.
( in “Mondoarabo” del 31/12/2008)
GERUSALEMME, LA SOLITUDINE
D’ ISRAELE
Quando il
figlio disattende le decisioni del padre.
Paradossalmente, Israele è il primo Stato al
mondo creato dalle Nazioni Unite ed è il primo nella graduatoria degli Stati
che più disattendono le decisioni dell’Onu ossia dell’organis-mo che l'ha
generato.
Non è superfluo ricordare che l’Onu, nonostante
l’indeboli-mento provocato dall’unilateralismo statunitense praticato da Reagan
a Bush, resta l’unica fonte, universalmente riconos-ciuta, della legalità
internazionale.
Qualsiasi governo è tenuto a osservare le sue
decisioni e raccomandazioni.
A
maggior ragione dovrebbe osservarle Israele, uno Stato che è figlio diretto di
una decisione dell’Onu.
Ma,
così non è stato e non è. Soprattutto nella gestione dei suoi difficili
rapporti con i popoli e gli Stati vicini (palesti-nesi, Siria, Libano,
Giordania).
Negli ultimi giorni, è riemersa, con forza e
preoccupazione, la questione degli insediamenti ebraici nella parte araba di
Gerusalemme.
Il problema cioè di vecchie e nuove colonie di
popolamento che violano lo status internazionale speciale di Gerusalemme, così
come configurato dall’assemblea generale dell’Onu nel quadro della risoluzione
n. 181 del 29/11/1947, anche a tutela del libero accesso ai “luoghi santi”
delle tre principali religioni monoteiste (ebraica, cristiana e mussulmana).
L’occupazione,
il torto più grande
Per altro, bisogna rilevare che all’epoca detta
risoluzione fu accettata dai rappresentanti israeliani e respinta da vari paesi
arabi.
Rifiuto politicamente inopportuno, forse
affrettato, tuttavia umanamente comprensibile giacché qualunque altro popolo
della Terra si sarebbe rifiutato di accettare di essere cacciato, senza colpa,
dalle sue terre e dalle sue case, dove aveva vissuto per secoli e millenni, per
far posto a un altro popolo sventurato e vittima non dei palestinesi, ma del
razzismo fascista e nazista.
Da allora a oggi, si sono avute tre guerre
disastrose, centinaia di migliaia di morti, ma nessun accordo definitivo di
coesistenza pacifica.
A 63 ani da quella storica decisione, le parti
si sono invertite. I palestinesi e gli arabi l’hanno accettata mentre i vari
governi israeliani, chi più chi meno, l’hanno violata a più riprese, con
l’obiettivo di modificare a loro favore il piano di ripartizione della
Palestina e della stessa città di Gerusalemme.
Con ciò non si vuol dire che i torti, gli errori
stiano tutti da una parte e le ragioni tutte dall’altra. Torti e ragioni si
riscon-trano in entrambe le parti, anche se non in egual misura.
Tuttavia, il torto dell’occupante è sempre più
grave e inaccet-tabile che quello commesso dall’occupato, sovente per dispe-razione.
L’occupazione
di un altro popolo è per se stessa un’ingiusti-zia insopportabile, per
chiunque.
Per capire meglio la tragedia dei palestinesi,
forse, bisogne-rebbe provare a mettersi nei panni di questo popolo prima
cacciato dalle sue terre e case, esiliato e ghettizzato in vari paesi del Medio
Oriente e poi occupato, diviso, discriminato, affamato e, di tanto in tanto,
massacrato da uno degli eserciti più potenti della terra. Credo che nessuno in
Occidente o altrove si sarebbe rassegnato a subire, per così lungo tempo, una
siffatta umiliazione.
Riesplode
la questione di Gerusalemme
Siamo di fronte una situazione pericolosamente
bloccata, sempre più gravida di tensioni che rischia di esplodere da un momento
all’altro. Giacché più la pace si allontana più la guerra si avvicina.
E così, fra le tante questioni irrisolte, è
ritornata, drammatica e urgente, quella di Gerusalemme, del presente e del
futuro di questa martoriata città che, dopo cinque mila anni di storia, fa
ancora parlare di se.
Città “santa”. culla delle tre principali
religioni monoteiste. Città dolente dove a brevi periodi di pace si sono
alternati lunghi periodi di tensioni e di conflitti così distruttivi e san-guinosi
da far dubitare, talvolta, della sua santità. Pur con tutto il rispetto dovuto
ai luoghi santi e agli autentici sentimenti religiosi.
Ma lasciamo la storia e andiamo alla vicenda
attuale di questa città di nuovo al centro di una dura polemica fra palestinesi
e israeliani per la decisione di quest’ultimi di autorizzare la costruzione di
una serie di nuove abitazioni nella zona est di pertinenza della popolazione
arabo-palestinese.
Non è questa la prima violazione della
partizione di Gerusa-lemme. Probabilmente, non sarà nemmeno l’ultima visto che
il ministro degli esteri israeliano, Lieberman, ha annunciato la costruzione di
altri 1600 appartamenti nei mesi a venire.
Com’è noto, il focoso ministro integralista con tale
annuncio ha inteso dare il “benvenuto” a Biden, vicepresidente Usa, nel giorno
in cui sbarcava in Israele per invitare alla prudenza i suoi dirigenti, a
modificare la pericolosa rotta intrapresa.
Netanyahu
è riuscito dove gli arabi non hanno potuto
Insomma, una sfida altezzosa anche nei confronti
del potente e fidato alleato di sempre.
E’ altrettanto noto che tale programma è stato
confermato e solennemente ribadito dal premier Netanyahu a Washington di fronte
al Congresso e ai principali esponenti dell’Ammini-strazione Usa, presidente
Obama compreso.
Questo viaggio resterà memorabile visto che
Netanyahu è riuscito dove mai gli arabi, anche i più moderati, avevano potuto:
raffreddare le relazioni politiche fra Usa e Israele e quindi accrescere il suo
isolamento internazionale.
Percezione più che evidente specie dopo
l’incontro col pre-sidente Obama cui, per la prima volta, non è seguito un
comunicato congiunto.
Del resto, meglio così. Altrimenti si sarebbero
dovute registrare, pubblicamente e per iscritto, le gelide distanze fra
amministrazione Usa e governanti israeliani a proposito degli annunciati nuovi
insediamenti ebraici a Gerusalemme est.
Se ci fate caso, mai un leader israeliano s’era
spinto a tanto. Strano! Poiché questa sfida azzardosa potrà determinare
l’isolamento pressoché totale d’Israele nel mondo e rischia d’indebolire il
sostegno degli Usa ossia dell’unica potenza sua alleata strategica.
L’auto-isolamento
e la sicurezza d’Israele
Un comportamento inaudito che fa sorgere più di
una per-plessità e qualche domanda.
Così procedendo la sicurezza d’Israele si
rafforza o s’inde-bolisce? Che ne sarà del processo di pace con i palestinesi?
E anche con la Siria,
con il Libano? Se dovesse saltare il “processo di pace” cosa potrà succedere in
Medio Oriente, nel Mediterraneo?
Senza dimenticare che resta aperta,
drammaticamente, l’intri-cata questione nucleare iraniana che i dirigenti
israeliani si riservano di risolvere unilateralmente, alla loro maniera.
Considerazioni e domande che evidenziano il
pericolo di un isolamento d’Israele, anzi di un auto-isolamento, indotto
dall’inedita arroganza del duo Lieberman-Netanyahu.
Insomma, il governo Netanyahu, così procedendo,
non credo che stia rendendo un buon servizio alla causa della pace in quella
tormentata regione e alla stessa sicurezza d’Israele.
All’interno della coalizione di destra sembra
essersi attivata una dinamica concorrenziale fra estremisti religiosi e estre-misti
politici a chi la spara più grossa, contro i palestinesi.
Insomma, una dinamica avventurista che, oltre a
violare pesantemente i diritti delle popolazioni dei territori occupati,
mortifica, vanifica gli sforzi anche di coloro che nel campo palestinese hanno
gestito, un po’ prosaicamente in verità, il dopo - Arafat.
Una pericolosa impasse che fa nascere altre
domande preoc-cupanti. Se Abu Mazen dovesse abbandonare o essere rimos-so chi
verrà al suo posto? I governanti israeliani potranno continuare a “scegliersi”
il nemico?
La “guerra
fredda” è finita e Israele è lontano dal l’area del Pacifico
Forse, i dirigenti israeliani confidano troppo
nella loro supe-riorità militare, convenzionale e nucleare, e poco o nulla
sulla soluzione politica e diplomatica.
Speriamo di no. Tuttavia, si deve sapere che
un’eventuale op-zione militarista innalzerebbe, e di molto, il livello del
rischio per la pace in M.O. e nel Mediterraneo.
Scelta miope, oltre che avventurosa, che non
tiene conto dei mutamenti intervenuti sul terreno degli assetti economici e
commerciali e degli equilibri geo-strategici mondiali.
I governanti israeliani, forse, dimenticano che
l’evoluzione del loro piccolo, bellicoso Stato è, in gran parte, frutto della
“guerra fredda” (Est-ovest) che è finita da un pezzo.
Lo spostamento del baricentro degli interessi
fondamentali del mondo verso l’area del Pacifico inevitabilmente farà perdere
valore al ruolo strategico sin qui giocato da Israele.
Anche all’interno dello scacchiere mediorientale
dove gli Usa conservano ottimi rapporti con le petro-monarchie del Golfo e,
avendo liquidato Saddam Hussein e il suo regime (per altro senza il concorso
d’Israele), hanno rimosso il principale ostacolo sulla via del pieno controllo
delle immense risorse d’idrocarburi irachene e dell’intera regione. Tranne
quelle dell’Iran. Ma questa è un’altra storia che interessa tantissimo la Cina.
Insomma, le carte e gli interessi si stanno
rimescolando. E Gerusalemme è lontana, molto lontana dall’oceano Pacifico ossia
dall’area dove si svolgeranno, nel bene e nel male, le nuove sfide destinate a
segnare il nuovo secolo.
La
popolazione di Gaza in semischiavitù
Per altro, c’è da notare che i governanti
israeliani non sono, certo, i campioni dei diritti umani e della legalità
interna-zionale. Quantomeno, non hanno tutte le carte in regola.
Giacché non si possono occupare militarmente,
per 43 anni, territori di altri popoli, ridurre in condizioni di semischiavitù
la popolazione palestinese di Gaza, massacrarla con operazio-ni sanguinose come
quella famigerata denominata “piombo fuso” che ha fatto strage di circa duemila
persone fra vecchi, donne e bambini.
Così come non si possono trattare con piglio
obiettivamente razzistico i popoli più deboli della regione (palestinesi, liba-nesi,
ecc).
Se ricordate, nel 2006, prima della brutale
operazione “piombo fuso” (severamente condannata dagli inviati del-l’Onu), il
governo israeliano aveva scatenato una terribile tempesta di fuoco su Beirut e
sul Libano meridionale per liberare due suoi soldati fatti prigionieri da
Hezbollah sull’incerta linea di confine israelo - libanese.
Una guerra-lampo (che non fece molto onore ai
suoi promotori nemmeno dal punto di vista militare) che per liberare due
soldati provocò enormi devastazioni e più di 1.300 vittime libanesi, in gran
parte civili.
Evidentemente, per i dirigenti israeliani la
libertà di due loro uomini vale più della vita di migliaia di altri uomini. Una
concezione che puzza d’intolleranza, di disprezzo per la vita degli altri.
Qualcosa che abbiamo già visto in altre parti del mondo e in altri tempi a
danno di altri popoli e degli stessi ebrei.
Berlusconi:
un’amicizia a corrente alternata
Il metodo terrorista islamista e di altra natura
e coloritura è da condannare e combattere senza riserve, in Israele e altrove.
Su questo non c’è dubbio. Il terrorismo comunque e da chiunque esercitato,
anche quello di Stato che massacra più gente innocente, va prevenuto e rimosso
dai nostri orizzonti. La politica non si può fare, davvero, con gli attentati e
le bombe dal cielo. La violenza ci ripugna, tuttavia se proprio a questa si
deve ricorrere allora che la guerra si faccia fra eserciti regolari e di
liberazione. Poiché nemmeno una grande causa come la libertà del popolo
autorizza il ricorso al metodo terrorista indiscriminato.
Anche se non tutto può essere ridotto a
“terrorismo”, ma va fatta una distinzione fra chi mette le bombe nei mercati o
sui bus e chi combatte con altre armi per liberare la propria terra occupata da
eserciti stranieri.
Comunque sia, c’è una grande sproporzione nelle
rappresa-glie israeliane. Tutti i numeri delle carneficine lo stanno a
dimostrare. Un’inquietante asimmetria che si spiega soltanto con una scarsa
considerazione del valore della vita delle sue vittime di turno: palestinesi,
libanesi, ecc.
Una linea di condotta disdicevole che è stata
ripetutamente condannata dalla comunità internazionale e perfino da ampi
settori della società israeliana i cui esponenti rischiano, ancora oggi, la
discriminazione e la galera per difendere i valori umani e di pace posti a base
della fondazione dello Stato d’Israele.
E’chiaro che, di questo passo, ci si aliena la
solidarietà internazionale. Al massimo si potrà ottenere qualche dichiarazione
di amicizia a corrente alternata, come quella che ha fatto, recentemente,
Berlusconi alla Knesset.
Purtroppo, e lo diciamo con tristezza, in questa
vicenda un prezzo lo sta pagando anche l’Italia in termini d’immagine e di
credibilità della sua politica estera che, fra baciamano (a Gheddafi) a Tripoli
e amicizie a corrente alternata fra Gerusalemme e Ramallah, sta compromettendo
la dignità di una tradizione in cambio di non si sa bene cosa.
Gerusalemme: la lunga
lista delle violazioni israeliane
Questi i fatti recenti che giornali e tv hanno
illustrato, anche se non si son presi la briga di spiegare perché si è giunti a un punto così critico.
Per giustificare le nuove colonie ebraiche nella
“città santa” Netanyahu ha detto in Usa, e continua a ripetere in patria, che “Gerusalemme non è una colonia, ma la capitale
d’Israele”.
Una bella frase a effetto che però sorvola
sull’iter doloroso, sanguinoso che ha segnato questa città negli ultimi decenni
e sulle numerose decisioni di condanna assunte dall’Onu, da altri organismi
intergovernativi, dallo stesso Vaticano.
Il discorso sarebbe troppo lungo, perciò ci
fermiamo. Del resto, chi desidera documentarsi sulla materia può consultare la
vasta documentazione prodotta dalle Nazioni Unite e da altri organismi
internazionali.
Per agevolarne l’approccio, segnaliamo, di seguito,
i passaggi più significativi di un documento elaborato e diffuso dall’Onu (“Le statut de Jérusalem”, New York, 1997) che ricostruisce
l’exursus storico e politico della questione di Gerusalemme.
Pag. 1: Un regime internazionale speciale per
Gerusalemme
“L’Onu,
che tende a dare una soluzione permanente al conflitto (arabo-israeliano
n.d.r.), adotta nel 1947 un piano di spartizione della Palestina che prevede la
divisione della Palestina in uno Stato arabo e uno Stato ebraico e la
costituzione della città di Gerusalemme in corpus separatum sotto regime
internazionale speciale, amministrata dal consiglio di tutela dell’Onu.”
Pag. 2: La comunità internazionale considera
nulla l’annessione della “Città santa”
“Dopo la
guerra del 1967, Israele s’impadronisce di Gerusalemme-est (settore arabo n.d.r.) e dei territori palestinesi e fa sparire la
linea di demarcazione fra i settori est e ovest…Israele che ha già annesso
Gerusalemme – est, proclama, nel 1980, “Gerusalemme intera e riunificata la
capitale d’Israele”…
“Tuttavia,
la pretesa israeliana su Gerusalemme non è riconosciuta dalla comunità
internazionale che condanna l’acquisizione dei territori mediante la guerra e
considera come nullo e non avvenuto ogni cambiamento sul terreno”.
Pag. 9: Gli arabi disposti ad
accettare il regime internazionale su Gerusalemme
“La
commissione di conciliazione (di cui alla risoluzione n. 194 adottata
dall’Assemblea generale dell’Onu l’11 dicembre 1948) fa sapere che le
delegazioni arabe erano, nell’insieme, pronte a accettare il principio di un
regime internazionale per la regione di Gerusalemme a condizione che l’Onu ne
garantisse la stabilità e la permanenza. Israele, dal suo lato, riconoscendo
che la Commissione
è legata alla risoluzione 914 dell’Assemblea generale, dichiara che non può
accettare senza riserve che i Luoghi santi siano posti sotto un regime
internazionale o sottomessi a un controllo internazionale.”
Pag. 11: Gerusalemme, corpus
separatum
“…l’Assemblea
generale (dell’Onu ndr) riafferma le disposizioni del piano di ripartizione
secondo il quale Gerusalemme sarà un corpus
separatum amministrato dalle Nazioni Unite, l’Assemblea invita il Consiglio
di tutela a concludere la messa a punto dello Statuto di Gerusalemme…e chiede
agli Stati interessati d’impegnarsi formalmente a conformarsi alle disposizioni
della risoluzione…(n. 333)”
Giordania e Israele contrari
all’internazionalizzazione di Gerusalemme
“Il
Consiglio di tutela adotta uno Statuto dettagliato per la città di Gerusalemme
nel gennaio 1950… Il consiglio fa sapere che la Giordania non è disposta
a discutere alcun progetto d’internazionalizzazione. Per parte sua, Israele si
oppone all’internazionalizzazione della regione, ma resta disposto a accettare
il principio di una responsabilità diretta dell’Onu sui Luoghi santi…”
“Israele
dichiara che lo Statuto non può essere applicato a causa della creazione dello
Stato d’Israele e del fatto che la parte occidentale di Gerusalemme fa parte
ormai del suo territorio..”
Pag. 12: Dayan, occupa
Gerusalemme
Il generale
Moshe Dayan, vincitore della guerra lampo detta dei “sei giorni” dichiara il 7
giugno 1967: “le forze armate israeliane hanno liberato Gerusalemme. Noi
abbiamo riunificato questa città divisa, capitale d’Israele. Siamo rivenuti
nella Città santa e non ce ne andremo più”
Pag. 13: le autorità d’occupazione sciolgono
il consiglio municipale di Gerusalemme est
“Secondo
un rapporto di M. Thalmann, (rappresentante personale del segretario
generale dell’Onu per Gerusalemme) il 29
giugno 1967 un ordine della difesa militare (israeliana ndr) ha sciolto il Consiglio municipale
composto di 12 membri che assicura la gestione di Gerusalemme - est sotto
l’amministrazione giordana…Il Consiglio municipale di Gerusalemme - ovest,
composto da 21 membri tutti israeliani, assorbe il vecchio consiglio, il
personale tecnico arabo del municipio di Gerusalemme- est viene incorporato nei
servizi corrispondenti della nuova amministrazione.”
Pag. 15: la Knesset proclama Gerusalemme
riunificata capitale d’Israele
“Il 29
luglio 1980, malgrado l’opposizione della comunità internazionale, la Knesset (parlamento
israeliano ndr) adotta la “Legge
fondamentale” su Gerusalemme che proclama Gerusalemme, intera e riunificata,
capitale d’Israele, sede della presidenza, della Knesset, del governo e della
Corte suprema.”
Pag. 20: nuove colonie ebraiche nelle terre
dei palestinesi
“Si
apprende che la gran parte dei beni palestinesi di Gerusalemme - est e dei
dintorni è stata sottratta dalle autorità israeliane (mediante espropri e
confische) in cinque tappe:
Gennaio
1968,
circa 400 ettari
nel quartiere Sheikh Jarrah dove vengono impiantate le prime colonie ebraiche
per un totale di 20.000 persone;
Agosto
1970,
circa 1.400 ettari
in favore delle colonie di Ramat, Talpiot-est, Gilo e Neve Ya’acov dove vivono
attualmente circa 101.000 ebrei;
Marzo 1980, circa 440 ettari destinati
all’impianto della colonia di Pisgat Ze’ev destinata ad accogliere 50.000
ebrei;
Aprile
1991,
circa 188 ettari
per la realizzazione della colonia di Har Homa per un totale di 9.000
appartamenti;
Aprile
1992,
circa 200 ettari
sono destinati alla creazione della nuova colonia di Ramat Shu’fat per un
totale di 2.100 nuovi appartamenti.
Pag. 27: il Consiglio di sicurezza dell’Onu
esige il ritiro d’Israele dai territori occupati
“Nella
famosa risoluzione n. 242 del 22 novembre 1967, il Consiglio di sicurezza
dell’Onu… sottolinea l’inammissibilità dell’acquisizione di territori mediante
la guerra e afferma che il rispetto dei principi della Carta delle Nazioni
Unite esige il ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati e il
rispetto della sovranità, dell’integrità e dell’indipendenza politica di ogni
Stato della regione.”
Pag. 28: Israele non applica la Convenzione di Ginevra
“Israele
non ha riconosciuto l’applicabilità della Convenzione di Ginevra ai territori
occupati dopo il 1967 col pretesto che non esiste alcuna sovranità legittima su
questi territori dopo la fine del mandato britannico…”
“Il Consiglio di
sicurezza nel 1979 ribadisce che la quarta Convenzione di Ginevra era
applicabile ai territori arabi occupati da Israele dopo il 1967, compresa
Gerusalemme..-La decisione presa da Israele nel 1980 di promulgare una legge
per l’annessione ufficiale di Gerusalemme est e che proclama la città unificata
come capitale d’Israele è stata fermamente respinta non solo dal Consiglio di
sicurezza e dall’Assemblea generale dell’Onu, ma anche da diverse
organizzazioni.
Pag. 30: l’Europa riconosce il diritto dei
palestinesi all’autodeterminazione
“I Paesi
europei hanno avanzato proposte che riconoscono il diritto
all’autodeterminazione del popolo palestinese; essi hanno sottolineato che non
accettano “alcuna iniziativa unilaterale che ha lo scopo di mutare lo statuto
di Gerusalemme” e che “ ogni accordo sullo statuto della città dovrà garantire
il diritto di libero accesso per tutti ai Luoghi santi”
(Dichiarazione di Venezia del 13 giugno 1980 dei
vertice dei Capi di stato e di governo della Cee)
Pag. 31: l’OLP, dichiara l’indipendenza della
Palestina e riconosce lo stato d’Israele
Nel 1988,
dopo la decisione della Giordania di rompere i suoi legami giuridici e
amministrativi con la
Cisgiordania, il Consiglio nazionale palestinese (Parlamento palestinese
in esilio) ha adottato la Dichiarazione
d’indipendenza e pubblicato un comunicato politico dove dichiara di accettare
la risoluzione n.181 dell’Assemblea generale dell’Onu
(sulla divisione del territorio ndr) e la
risoluzione n. 242 (del 1967) del Consiglio di sicurezza e proclama “la nascita
dello Stato di Palestina sulla terra palestinese, con capitale Gerusalemme”
Pag. 33: il consiglio di sicurezza chiede a
Israele di smantellare le colonie
“La
risoluzione n. 465 del 1 marzo 1980 contiene la dichiarazione più dura che il Consiglio
di sicurezza ha adottato sulla questione delle colonie di popolamento. In
questa dichiarazione, il Consiglio deplora vivamente il fatto che Israele ha
rigettato le sue risoluzioni precedenti e rifiutato di cooperare con la Commissione ( Onu)…
Il
Consiglio qualifica la politica e le pratiche volte a impiantare nuove colonie
di popolamento una “violazione flagrante” della quarta Convenzione di Ginevra e
dice che sono “un grave ostacolo” all’instaurazione della pace in Medio
Oriente; chiede al governo e al popolo israeliani di revocare le misure prese,
di smantellare le colonie esistenti e di cessare subito ogni attività di colonizzazione. Chiede anche a tutti
gli Stati di non fornire a Israele alcuna assistenza che sarà utilizzata
specificamente per le colonie di popolamento dei territori occupati”.
PS: le
vittime ci sono più care dei loro oppressori.
Ho scritto queste note né per la gloria né per
un padrone, ma solo per dovere civile e morale verso la tragedia umana e
politica del popolo palestinese.
L’articolo
è lungo, ma nessuno è obbligato a leggerlo e/o a pubblicarlo. D’altronde, io
non sono una grande firma, ma solo un osservatore solitario dei fatti del
mondo.
Dietro e davanti a me non c’è nessuno. Per
queste materie mi è negato l’accesso
alla “carta stampata”.
Perciò, per comunicare ho creato un giornalino
on line (www.infomedi.it) cui affido
queste note, sperando che arrivi-no da qualche parte.
Una piccola goccia d’acqua che batte sopra un
enorme blocco di granito. Anche se l’acqua possiede una misteriosa capacità di penetrazione
che, a lungo andare, riesce a perforare anche il granito.
D’altra parte, il web possiede, già oggi, grandi
potenzialità comunicative che sempre più si accresceranno e soprattutto
consente un privilegio che altri non hanno: interloquire con i giovani i quali,
alla fine, si desteranno dal torpore alienante del consumismo e chiederanno
conto e ragione di tutte le ingiustizie del mondo.
Perciò, per quanto difficile sia il tempo
presente, ognuno dovrebbe far sentire la propria voce. In ballo ci sono il
destino, il benessere di tanti popoli, il futuro della pace nel Mediterraneo e
nel mondo.
Parlare e agire, anche a costo di attirarci il
facile anatema dell’antisemitismo, come qualche volta (mi) è accaduto.
Sì, perché, da un certo tempo, in Italia e non
solo, è invalsa la cattiva abitudine di bollare come “antisemita” chiunque
dissenta e osi criticare certe scelte e condotte dei governanti israeliani.
Un’accusa ormai abusata, vagamente intimidatoria
e, per altro, imprecisa (secondo il racconto biblico, “semiti” dovreb-bero
essere anche gli arabi) che certo non aiuta la libera circolazione delle
opinioni.
In ogni caso, tale accusa non mi tange perciò la
respingo al mittente. Rivendico la mia, la nostra, libertà di pensiero e di
critica secondo i principi della Costituzione italiana e non secondo i canoni
di questa o quell’altra religione. La mia cultura e pratica di vita non sono
razziste, ma solidali con tutti gli uomini e le donne del pianeta.
Se in questa dolorosa vicenda spesso mi sono
spesso ritrovato dalla parte dei palestinesi e dei loro leader più prestigiosi
(fra i quali l’indimenticato Yasser Arafat) non è per contrarietà preconcetta
verso il popolo israeliano, ma per
solidarietà ver-so il popolo martire di Palestina ancora occupato, assediato
dagli eserciti israeliani.
Insomma,
le vittime ci sono più care dei loro oppressori. Capita. Come sempre mi è
capitato, e con grande commo-zione, di fronte alle immagini, anche
cinematografiche, della “shoah”, della terribile tragedia degli ebrei massacrati
dai nazisti e dai fascisti europei.
Personalmente,
mi commuovo per gli ebrei massacrati, ma anche per i palestinesi occupati e
spesso bombardati dagli israeliani.
Quelli che invocano “l’antisemitismo” non hanno
mai mos-trato pietà per le vittime palestinesi. Mai una parola di con-danna
contro i raid e di solidarietà con le centinaia e migliaia di donne, bambini,
vecchi palestinesi privati della loro terra e spesso anche della loro vita.
Qui sta la differenza!
E se tutto ciò non dovesse bastare, aggiungo che
sono orgoglioso di essere figlio di un operaio siciliano che fu ristretto nei
lager della Germania nazista per essersi rifiutato, dopo l’8 settembre 1943, di
combattere con gli eserciti nazi-fascisti.
E
per questo insignito (purtroppo alla memoria) della Medag-lia d’onore del
Presidente della Repubblica italiana.
(in “SudTerrae”
del 10/4/2010)
QUANDO GLI ISRAELIANI FECERO
SALTARE LA “NAVE DEL
RITORNO” DEI PALESTINESI
Scudi
umani per fermare la violenza israeliana
Credo che il tragico, inammissibile assalto di
questa notte, in acque internazionali, delle forze speciali israeliane contro
la nave della solidarietà che portava viveri e medicine alla po-polazione
assediata di Gaza, sia un altro punto all’attivo dell’attuale governo di Netanyahu
per giungere… al com-pleto isolamento d’Israele in M.O. e nel mondo.
Tuttavia, non è un commento che qui vorrei fare,
piuttosto ricordare una precedente, analoga iniziativa organizzata, ai primi di
febbraio del 1988, dall’Olp di Yasser Arafat e sostenuta da un vastissimo
schieramento internazionale di forze politiche, culturali, sindacali e
associazioni pacifiste: “la nave dei ritorno” dei palestinesi esiliati che
doveva partire dal Pireo con destinazione il porto israeliano di Haifa.
Per una serie di oscure e drammatiche
circostanze, quella nave, alla fine, non partì né dal Pireo né dal porto di
Limassol (Cipro) e così fu evitata una tragedia forse più grave di quella
attuale.
Ma andiamo con ordine, sulla base degli appunti
presi in quelle concitate giornate.
Ad Atene convenimmo circa 1500 persone, la gran
parte vec-chi rifugiati palestinesi e famiglie cacciati dalle loro case dopo la
prima guerra arabo-israeliana del 1948 e dispersi nei campi profughi di
Giordania, Siria, Libano ed Egitto.
Ad accompagnarli in questa pericolosa missione,
che il governo di Shamir considerava “una
compagnia di assassini” da bloccare con ogni mezzo, c’erano centinaia di
rappresen-tanti di partiti, sindacati, giornalisti, di associazioni umani-tarie
e pacifiste di molti paesi in gran parte europei e occi-dentali.
Sapevamo che, oltre alla solidarietà, la nostra
funzione su quella nave sarebbe stata anche quella di scudo umano per
scoraggiare la reazione violenta degli israeliani.
La delegazione italiana era composta: dal sottoscritto
(per il PCI), da Raniero La
Valle (per Sin. Indipendente), La Chiara (per PSI), Nordio
(Acli), Ferrucci (Ass. giuristi democratici).
C’erano anche diversi giornalisti fra i quali
ricordo: F. Isman, (Messaggero) L. Tersini (Tg3), I. Gagliano (Tg2), G. Beren-son
(Repubblica) e un giornalista dell’Ansa.
Con noi viaggiò anche mons. Hilarion Cappucci,
da lungo tempo esiliato a Roma per imposizione del governo d’Israele al
Vaticano, che- come altri profughi palestinesi- desiderava ritornare nella sua terra.
Ci era stato assicurato che la nave (noleggiata
dall’armatore Vassiliké) era pronta a salpare l’indomani (il 10 febbraio).
Giunti in hotel, non disfacemmo le valigie per tenerci pronti per l’imbarco.
Invece, nessuno ci convocò per la partenza. L’attesa cresceva e si propagava,
tramite i media, nell’opi-nione pubblica internazionale.
E la nave
partirà…
L’Olp si stava giocando una carta, certo,
rischiosa, ma che poteva avere un impatto favorevole davvero eclatante.
Nessuno, nel mondo, avrebbe potuto negare a questa gente il diritto al ritorno.
Tranne, gli israeliani che forse non volevano
cedere il copyright acquisito con la loro “nave del ritorno”.
Alla prima conferenza-stampa (affollatissima di
giornalisti e operatori tv), Bitar, rappresentante Olp ad Atene, si diffuse sul significato
dell’iniziativa, ma nulla disse sulla mancata partenza della nave. Intuimmo che
c’erano difficoltà.
Ma quali? Andammo alla ricerca d’informazioni,
di dettagli.
I capi palestinesi apparivano imbarazzati e
nervosi e soprat-tutto muti. Dopo alcuni giorni d’inutile attesa, riuscimmo a
capire qualcosa: le pressioni congiunte israeliane e Usa avevano fatto breccia
sul governo greco del socialista Papandreu (papà dell’attuale premier) per
bloccare l’inizia-tiva.
Con gli armatori gli israeliani furono chiari:
se avessero noleggiato la nave, rischiavano di vederla affondare.
Fra le delegazioni straniere si diffuse una
certa sfiducia. La pressione israeliana si fece sentire anche all’interno del
nostro hotel. Soprattutto, nei confronti dei giornalisti stranieri ai quali fu
imbucato, sotto la porta della camera, un ciclosti-lato anonimo fortemente
dissuasivo.
Le agenzie fecero sapere che i Lloyd di Londra
non intende-vano assicurare la nave eventualmente noleggiata.
Il pomeriggio del 13, lo sceicco Sayed,
presidente del Con-siglio nazionale dell’Olp, annunciò alle delegazioni e alla
stampa che “lunedì la nave partirà...da Cipro”.
La notizia fu accolta con un fragoroso applauso.
A me ven-nero alla mente le note della celebre canzone di Endrigo.
Una
telefonata nella notte a Giorgio Napolitano
I capi palestinesi altro non dissero “per evidenti motivi di sicurezza”.
Assicurarono che la nave sarebbe partita da Cipro e che avrebbe impiegato 4 - 5
giorni per la traversata. Insomma, la missione era salva.
Ricominciarono le discussioni sui rischi. Si
soppesarono attentamente le parole contenute nella dichiarazione della
“colomba” Peres, ministro degli esteri, il quale aveva avverti-to che la nave
del ritorno dei palestinesi era “un atto
di ostili-tà contro lo Stato d’Israele” ossia un atto di guerra che li
autorizzava a difendersi, attaccando l’imbarcazione.
Per il Primo ministro, il “falco” Shamir, la
nave non avrebbe avuto scampo, l’avrebbero affondata in mare aperto.
L’indomani (14/2), i dirigenti dell’Olp ci
informarono che a Larnaka era stata fatta saltare col plastico un’auto con
dentro cinque uomini dei servizi palestinesi di “Forza 17”.
Era il biglietto da visita degli israeliani.
Ci dissero che, nonostante tutto ciò, presto
saremmo partiti per Cipro a bordo di due aerei presi a nolo. Insomma, la
minaccia israeliana cominciava a prendere corpo, tragica-mente.
Sale la tensione anche nella delegazione
italiana che decide d’inviare, tramite il nostro ambasciatore ad Atene, Marco
Pisa, un telegramma al Presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio
Goria e al ministro degli esteri Andreotti per chiedere passi adeguati nei
confronti di Shultz, segretario di stato Usa, che l’indomani avrebbero
incontrato a Roma.
Nella notte, telefono a Giorgio Napolitano,
responsabile del settore esteri del Pci, per informarlo della situazione e chie-dere
consiglio. Si mostra preoccupato e vuol sapere delle presenze dei
rappresentanti d'altri partiti progressisti europei. Rispondo che non erano tante,
qualcuno era già rientrato.
Sul che fare non sa dirmi, avrebbe voluto
consultare altri dirigenti del partito.
Ci saremmo risentiti domani, ma- come vedremo -
non sarà più necessario poiché la situazione sarebbe precipitata da lì a poco.
L’indomani, infatti, intorno alle 11,00,
scendemmo con le valigie nella hall, pronti a partire, in aereo, alla volta di
Larnaka. Già un nutrito gruppo di rifugiati palestinesi ci aveva preceduto.
L’attesa si faceva snervante, i bus non
arrivavano. Tememmo nuovi rinvii. I dirigenti dell’Olp c’invitarono a
partecipare a un’improvvisata conferenza stampa.
Abu Sharif, il portavoce dell’Olp, annunciò che
la “nave del ritorno”, ancorata nel porto di Limassol, era stata fatta saltare
in aria dagli israeliani qualche ora prima.
La nave non era stata noleggiata, ma addirittura
acquistata dall’Olp con l’aiuto dei sauditi.
Fu a questo punto che ci convincemmo che la
missione era decorosamente fallita e decidemmo di prendere il primo aereo per
Roma.
(in
“Agoravox” 1/6/ 2010)
L’ITALIA RICONOSCA LO
STATO PALESTINESE
1.. Mentre ri-esplodono gli scandali delle
frequentazioni not-turne e diurne di Silvio Berlusconi, permettetemi di
ricordare che il suo governo si è assunto la grave responsabilità di vota-re
contro la richiesta, avanzata all’Onu da Abu Mazen, per il riconoscimento pieno
dello Stato del popolo martire di
Palestina entro i territori del 1967.
Chiariamo, per chi si attarda a capire, che tali
“territori” sono da intendere come palestinesi a tutti gli effetti anche in
base alla ripartizione decisa dall’Onu nel 1947 e confermati dalla risoluzione
n. 242/1967 del CdS che chiedeva l’immediato sgombero delle forze d’occupazione
israeliane.
Purtroppo, in Italia, questo grande problema
rischia di passa-re sotto silenzio, come tanti altri urgenti, sociali e
politici, affogati nella brodaglia dello scandalismo suscitato e alimen-tato
dai discutibili stili di vita del presidente del Consiglio.
Insomma, il “no” detto da Berlusconi ai
palestinesi credo sia molto più importante e grave di quello che egli avrebbe
rice-vuto da Emanuela Arcuri.
Perciò, parliamone e soprattutto agiscano i
responsabili politici e parlamentari per evitare questo nuovo errore che
sbilancia, pesantemente, la posizione dell’Italia a favore della parte
occupante.
Al ministro Frattini che considera un errore la
richiesta dei rappresentanti dell’Autorità nazionale palestinese del rico-noscimento
del loro Paese quale 194° membro della Nazioni Unite, bisogna dire che il “vero
errore” è quello commesso dal governo italiano che nega tale riconoscimento,
senza portare motivazioni convincenti.
Il governo, infatti, non può rifiutare, in nome
del popolo italiano, una richiesta legittima e dolorosamente motivata da 63
anni (sì, sessantatre anni, avete letto bene!) di spoliazioni di beni,
espulsioni, diaspore, massacri, occupazioni militari, distruzioni di
abitazioni, repressione, incarceramenti, sfrut-tamento della forza lavoro,
miseria, privazioni di ogni sorta e persino tentativi di distruzione della
identità culturale ed etnica.
2.. Esagerazioni? Faziosità? Per una verifica di
tali afferma-zioni, rimando agli scritti di diversi pacifisti israeliani che le
documentano.
Per tutti cito “Sacred Landscape” opera di Meron Benvenisti, esponente israeliano
della prima ora, a lungo amministratore di Gerusalemme, ampiamente richiamato
da Riccardo Cristi-ano nel suo “La speranza svanita” (Editori Riuniti,
2002).
In questo testo, scritto non da un arabo
facinoroso, fazioso, ma da uno “dei più grandi figli d’Israele”, troverete
quello che mai nessun giornalista e commentatore occidentale ha detto sui
metodi adottati dagli israeliani per cacciare dai loro villaggi, dalle loro
terre gli arabi palestinesi e privarli di ogni diritto.
Dopo è venuto il “terrorismo” palestinese, che
personalmente condanno, ossia la risposta disperata di alcuni gruppi al per-manere
dell’occupazione israeliana.
Per altro, non bisognerebbe dimenticare che in
Palestina il terrorismo l'hanno introdotto e, sanguinosamente sperimen-tato, le
bande armate di Begin (che diventerà primo ministro d’Israele) ai danni degli
arabi e delle forze di garanzia inglesi che esercitavano il mandato
internazionale.
3.. Ho accennato a questi gravissimi precedenti
solo per ricor-dare a certi “benpensanti”, che enfatizzano i “limiti” dell’Au-torità
palestinese, com'è nato e si è affermato
lo Stato d’Is-raele che, nel prosieguo,
ha realizzato anche tanti fatti posi-tivi;
quanto è stato lungo il “calvario” del popolo palestinese al quale, dopo
63 anni, non si può chiedere di aspettare anco-ra, magari altri 40, per vedere
riconosciuto il diritto ad avere uno Stato.
Tale, iniquo trattamento è stato applicato
soltanto ai danni dei palestinesi.
Mentre, cioè, l’intero terzo mondo si liberava
dal giogo coloniale, nascevano nuovi Stati (l’ultimo, il Sud Sudan, è nato un
mese fa) e confederazioni di stati, soltanto il popolo palestinese è rimasto
senza Stato. Perché? Che cosa ha fatto di male?
In realtà, i palestinesi il male lo hanno
subito, nell’indifferen-za generale del mondo; hanno perfino rischiato di
essere can-cellati dalla faccia della terra, di perdere la loro dignità di
popolo che solo grazie all’opera di Yasser Arafat e dell’Olp è stata
salvaguardata e rilanciata come una “questione” prima-ria della politica
internazionale.
Se tutto ciò è vero, ognuno si chiede: perché
questo popolo al quale è stata sottratta metà della sua terra sulla quale
viveva da millenni per insediarvi lo stato d’Israele, che da oltre 40 è sotto
occupazione militare israeliana, non debba avere il diritto a creare uno Stato
nei territori assegnati dall’Onu?
Domanda semplice e al contempo tremenda,
ineludibile, alla quale l’Italia, l’Europa e il mondo intero sono chiamati a
rispondere il 22 settembre a New York.
4..
Votare "no" vuol dire negare ai palestinesi, solo a loro nel mondo,
il sacrosanto diritto alla libertà e alla sovranità statua-le. Di fronte a
questo diritto, non reggono gli speciosi argomenti per aggirarlo e tanto meno
le minacce di taluni esponenti israeliani che dimenticano che Israele è uno
Stato creato dall’Onu per un risarcimento da altri dovuto, che ovviamente ha
diritto di esistere e di vivere in pace con i suoi vicini, ma non di occuparli.
Quanto
è difficile fare capire le ragioni dei deboli! Soprattutto, a certi esponenti
politici e analisti, che, spesso, sbagliano l’analisi come l’ultima sulla
“primavera araba” che per cacciare il tiranno ha aperto, magari senza volerlo,
la por-ta del dragone.
Forse, per capirle servirebbero più spirito di
comprensione e anche uno sforzo d’immaginazione: in questo caso, provando a
mettersi nei panni dei palestinesi.
Non può esserci confronto fra chi oggi è vittima
di un’occu-pazione e chi paventa di poterlo diventare domani.
Perciò, spiace che gli Stati Uniti di Obama,
invece di dare corso alle speranze che egli stesso aveva acceso anche riguardo
alla questione palestinese, continuano a minacciare incomprensibili veti.
L’Italia e l’Europa sono altra cosa; non possono
consentire il perdurare di questa grave ingiustizia. Il "no" risulterebbe
incomprensibile a tutti i Paesi della Lega araba.
E pregiudicherebbe le possibilità di una
ripresa, su basi di equità e di solidarietà (non con la petropolitica e con i
bombardamenti della Nato, per intenderci), delle relazioni euro arabe che
costituiscono il baricentro, il punto di snodo della prospettiva di pace e di
progresso nel Mediterraneo, nel Medio Oriente, in Africa e in Europa.
5.. Infine. Il voto contrario dell’Italia
andrebbe contro il sen-timento della maggioranza degli italiani che, da sempre,
hanno perorato i diritti d’Israele e quelli (purtroppo disattesi) del popolo
palestinese: due Stati per due popoli che potreb-bero convivere in pace e in
cooperazione.
Su questa scia è andata avanti, anche se
pavidamente, la politica estera del nostro Paese.
Oggi una piccola, ibrida minoranza di deputati
chiede al go-verno di votare "no", nel 1982 presentammo al governo
una richiesta unitaria, sottoscritta dalla stragrande maggioranza dei deputati (450, fra i quali i tre segretari di
Dc, Pci, Psi: Zaccagnini, Berlinguer e Craxi ossia i rappresentanti di circa il
90% dell’elettorato italiano), con la quale si chiedeva il riconoscimento dei
diritti nazionali del popolo palestinese.
La mozione fu approvata dalla Camera, ma il
governo, allora presieduto dal troppo filo atlantico Spadolini, non volle dare
seguito alla decisione parlamentare.
Non so se si possa fare un confronto fra la
maggioranza parlamentare di allora e la minoranza attuale.
So di sicuro che il no annunciato dal governo
Berlusconi è il vero errore che bisognerebbe evitare.
(in “Città
Futura” 16/9/2011)
Capitolo quarto
GUERRA
ALLA LIBIA
Al G8 de L’Aquila (2009), Gheddafi fra
gli “amici” che, mesi dopo, ne decreteranno la fine. (da Google)
SI PUO'
ANCORA TRATTARE COL REGIME LIBICO?
Un accordo
costoso e pasticciato fra Italia e Libia
L'accordo sottoscritto fra Berlusconi e Gheddafi
per il risarcimento dei gravissimi danni inflitti al popolo libico dal
colonialismo italiano (specie durante la spietata repressione d'epoca fascista)
più che consensi ha suscitato perplessità e strascichi polemici.
Soprattutto, a proposito dei suoi contenuti un po’
pasticciati e dei costi molto più elevati del previsto.
Tuttavia, il dato più grave, che nessuno ha
evidenziato, è che la Libia è nelle mani di una
leadership che si è autoaccusata degli attentati terroristici contro due aerei
civili, nei quali perirono diverse centinaia di persone innocenti.
Ma andiamo con ordine. Cominciamo dai cinque
miliardi di euro (in 20 anni) accordati alla Libia. Sono molti, sono pochi,
sono una cifra equa?
Di fronte alla gravità dell'eccidio, nessuna
somma può essere considerata risarcitoria, proporzionata. Nessun ragioniere al
mondo potrà mai quantificare il valore di una vita umana. Figurarsi l'entità
venale di un eccidio del quale poco si è parlato e scritto nel nostro Paese.
Fino al punto d'impedire, in tempi di Repubblica
antifascista, la circolazione nelle sale italiane del film libico "Il
leone del deserto" che tratta di alcuni episodi della resistenza libica,
con al centro l'eroica figura di Omar Muktar che Graziani fece impiccare alla
veneranda età di quasi 80 anni.
In questo caso stiamo parlando di un accordo
diplomatico fra Stati e non possiamo, certo, pretendere una contabilità al
centesimo. Sono le parti a stabilirne la congruità secondo logiche e criteri,
talvolta, inconfessabili e sempre secondo la "ragion di Stato" che è
ben altra cosa rispetto alla "ragion dei popoli". C'era chi dalla
firma di quest' accordo si attendeva l'immediato blocco delle partenze dalle
coste libiche dei barconi adibiti al vergognoso traffico di esseri umani.
Registriamo, al momento, che le carrette del mare continuano a partire dalla
Libia e ad arrivare, come il solito, a Lampe-dusa e in altre località costiere
siciliane e meridionali.
Si tratta di aspetti complessi di un rapporto
difficile, altalenante fra i due Paesi che si auspica siano chiariti ed
affrontati in sede di ratifica parlamentare.
Un lungo negoziato in
cui le parti hanno giocato al rinvio
Semmai vi sono altri problemi, prevalentemente
politici, che governo e partiti
dovrebbero chiarire.
A cominciare dal grave ritardo col quale si è
pervenuti all'accordo. Certo, vi sono state difficoltà negoziali, tuttavia la
storia di questa pluridecennale trattativa ci dice che d'ambo le parti si è
giocato al rinvio.
Anche perché il negoziato è stato usato in modo
improprio, come carta vincente in un gioco un po' cinico nel quale, per mezzo
secolo, si sono intrecciati i destini del regime libico con i più concreti
interessi italiani d'industrie di stato e di esportatori al seguito.
Il capitolo delle relazioni fra l'Italia e la Jamahjriya (Libia) del
colonnello Gheddafi, anche durante l'embargo, è in gran parte da scrivere.
Comunque siano andate le cose, un fatto è certo: la vituperata "prima Repubblica"
riuscì a maturare sulla questione libica, come in generale su quelle araba e
mediterranea, un orientamento ampiamente condiviso, ben oltre i confini delle
maggioranze parlamentari. La politica estera italiana aveva, almeno verso
questo scacchiere, un orientamento. Oggi, invece, appare disorientata,
tentennante e perciò si affida all'affarismo spicciolo e alle pacche sulle
spalle. Nel caso specifico della Libia, quella politica estera riuscì a
tutelare i legittimi interessi nazionali e a mantenere aperto un canale di
dialogo con un regime messo alla gogna.
Strano, però! Fino a quando Gheddafi si è
dichiarato estraneo alle pesanti accuse di terrorismo, fu mantenuto un
durissimo embargo contro la
Jamahjriya, quando (nel 2003) si è dichiarato colpevole
l'embargo è stato revocato. Come se la dichiarazione di colpevolezza fosse la
chiave per aprire le porte di un club esclusivo.
Viene da chiedersi: come mai ora che,
finalmente, si è trovato un terrorista reo confesso invece d'isolarlo si fa la
fila per incontrarlo, per contrattare affari miliardari?
La corsa per il
controllo delle riserve libiche d'idrocarburi
Una bizzarria etica e anche politica poiché
contrasta con l'im-perativo categorico della lotta al "terrorismo
internazionale" divenuta la bandiera dell'amministrazione Bush e di tanti
go-verni europei, fra cui il nostro.
E' chiaro che tale comportamento si spiega con
l'esigenza di assicurarsi i rifornimenti di petrolio e di gas e le lucrose
commesse generate dalla parte libica. Così com'è evidente il gioco delle grandi
potenze (dalla Russia agli Usa, dalla Francia all'Italia) per accaparrarsi
addirittura le enormi riserve libiche d'idrocarburi e la loro
commercializzazione.
Perciò la coerenza politica, l'etica vanno a
farsi benedire e tutti corrono alla fiera di Tripoli.
A queste priorità sono state piegate i ruoli dei
governi e della stessa diplomazia che, ormai, sembrano prendere ordini
direttamente dalle multinazionali e dai potentati finanziari.
Dentro questo scenario diventano possibili, e
accettabili, le più incredibili acrobazie.
L'ultima, la più clamorosa è la contraddizione -
prima rilevata- che non impedisce alla "comunità internazionale" di
aprire al regime del colonnello Gheddafi dopo che ha ammesso le sue terribili
responsabilità e risarcito le famiglie delle vittime.
Più che a una svolta politica siamo di fronte ad
un clamoroso controsenso, giacché l'ammissione della colpa non ne annulla la
gravità. Non siamo nel confessionale!
E' stata
detta tutta la verità?
Ma questa confessione ha ristabilito la verità?
Nessuno può dirlo. Per il momento, dobbiamo accontentarci di queste verità
contrattate, mercificate, monetizzate. Tanto a dollari.
Salvo che non venga pubblicamente esplicitato
ciò che si sussurra sottobanco o si lascia immaginare: ossia la voce che il
regime libico sia stato obbligato ad autoaccusarsi. Da chi? Per che cosa?
Anche questo è possibile. Perciò i dirigenti
libici hanno il dovere di parlare chiaro, d'informare l'opinione pubblica
internazionale e soprattutto coloro che, in buonafede e in assenza di prove
convincenti, hanno considerato ingiusto l'embargo, a suo tempo decretato,
contro il popolo libico.
Fra i tanti, modestamente anch'io che, come
membro delle commissioni Esteri e Difesa della Camera dei deputati, ho
lavorato, con colleghi di diverso orientamento politico, per mitigare gli
effetti di un embargo che pareva studiato più per colpire le buone relazioni
commerciali italo - libiche che il regime di Gheddafi.
Il chiarimento è necessario anche per evitare
che la nostra buonafede sia scambiata per qualcos'altro. Confesso che le
ammissioni di colpevolezza degli esponenti libici hanno suscitato in me
amarezza, delusione, oltre che la più decisa condanna. Mi sento ingannato!
Certo, il mio stato d'animo conta poco o nulla,
tuttavia un'ul-tima considerazione desidero farla.
Nella vita tutti possiamo sbagliare. Ma se noi,
ignari della verità, abbiamo sbagliato per eccesso di garantismo, i nuovi amici
del colonnello stanno sbagliando, consapevolmente, per eccesso di affarismo.
(in
“Aprileonline” del 15/9/2008)
PETROLIO E DITTATURE
Il potere petrolifero
soffoca la democrazia
Esiste una relazione di causa ed effetto fra
petrolio e dittatura?
Esiste, e da sempre, in tutti i Paesi grandi
esportatori d’idrocarburi. Ora, la crisi libica e più in generale le rivolte
arabe la stanno facendo emergere con maggiore nettezza. Come un problema
prioritario e urgente che richiede la necessità di una riflessione sulle
condizioni di vita, sui diritti umani e di libertà nei principali paesi
esportatori di petrolio.
Dall’esistenza di tale nefasta relazione
discendono altre domande inquietanti e ineludibili: perché fra petrolio e
democrazia c’è antitesi? in che misura il potere “petrolifero”, locale e
internazionale, condiziona l’economia, la politica, la finanza mondiali?
Da questi, e altri, interrogativi insoluti
derivano una sfilza di problemi pratici per la vita di centinaia di milioni di
uomini e donne che solo gli ipocriti e le penne servili fingono di non vedere.
Per “petrolio” s’intende, soprattutto, il potere
derivato dalla sua gestione politica e finanziaria, dalla ricerca (permessi)
all’estrazione, dall’esportazione ai consumi finali, dagli incassi locali alla
speculazione internazionale.
Una gestione quasi sempre dispotica, garantita
da regimi autoritari, assolutistici che fanno del petrolio la loro princi-pale
merce di scambio con l’Occidente (ora anche con la Cina e l’India) e della
rendita petrolifera la fonte di arric-chimenti scandalosi e di un potere
assoluto e arbitrario.
Per mantenere un simile “status quo” la
dittatura si rende necessaria, magari accompagnata da un paternalismo cor-ruttore
che elargisce prebende e tangenti tutt’intorno.
Come si può ben vedere nella sottostante tabella
(n.1), tali processi non riguardano solo la Libia, ma la gran parte dei Paesi esportatori,
arabi e no.
La
Libia
di Gheddafi fa parte dell’ingranaggio, ma non è sola in questo panorama
desolante composto di Paesi dove la democrazia, il pluralismo o non esistono o
sono solamente di facciata. Anche nell’Iraq del dopo- Saddam, grande espor-tatore
di petrolio e importatore di democrazia.
Tab.1
REGIMI POLITICI VIGENTI NEI
PRIMI 10 PAESI OPEC (2011)
ARABIA SAUDITA
|
Indipendente dal 1932- Monarchia assoluta della tribù dei
Saud. Non esistono la
Costituzione né un Parlamento eletto
|
IRAN
|
Dal 1979, Repubblica islamica (teocratica) di tendenza
sciita- Esiste il Parlamento. Le ultime elezioni politiche sono state
contestate per brogli
|
EMIRATI ARABI
UNITI
|
Federazione di 7 emirati. Nel 2009, il consiglio degli
emiri ha rieletto all’unanimità
presidente l’emiro Khalifa bin Zayid
|
NIGERIA
|
Ind. dal 1960- Repubblica pluriconfessionale. Nel 2007, il
partito del presidente ha ottenuto l’85% dei voti. Nelle province del nord
vige la legge islamica. Frequenti i massacri fra islamici e cristiani.
|
KUWAIT
|
Ind. dal 1961- Emirato da sempre governato dalla famiglia
Al- Sabah.
|
ANGOLA
|
Ind. dal 1975- Repubblica popolare- dal 1979, presidente
José Eduardo Dos Santos. Durissime guerre fra fazioni politiche e tribali.
|
ALGERIA
|
Ind. dal 1961- Repubblica popolare basata sul diritto
islamico e francese- dal 1999 è presidente Abdelaziz Bouteflika, esponente
del FLN.
|
LIBIA
|
Ind. dal 1951- fino al 1969 monarchia senussita- Dal 1969
Jamahiriya guidata dal colonnello Muammar Gheddafi.
|
VENEZUELA
|
Ind. dal 1811- Repubblica bolivariana- Presidente dal 1999
il colonnello Hugo Chavez.
|
IRAQ
|
Dal 1958 Repubblica. Nel 2003, occupazione militare
occidentale, guidata dagli USA, ancora presente a ranghi ridotti. Governo di
“unità nazionale” parziale (solo sciiti e kurdi)- Costituzione nel 2005,
Parlamento eletto nel 2010.
|
(fonte:
nostra ricostruzione su dati CIA- Central Intelligence Agency)
Quasi che fra petrolio e democrazia ci fosse uno
iato, un’incompatibilità, evidentemente procurata.
A parte la differenza di denominazione (petro-
monarchie e “repubbliche ereditarie”), questi Paesi si dividono fra quelli che
passivamente onorano i lauti patti, purché ci sia regolarità all’incasso, e
alcuni che di tanto in tanto fanno la voce grossa. A questi ultimi può
capitare, com’è capitato più volte nella storia del petrolio, di essere
risucchiati nel vortice del gioco fra le potenze, dei riequilibri del mercato e
pertanto di entrare nel tritacarne della destabilizzazione, della guerra. Gli
esempi non mancano: Iran (1952), Algeria, Iraq, e oggi, forse, la Libia; domani chissà se non
di nuovo l’Iran, fino al Venezuela.
Tab. 2 ENTRATE E RISERVE
PETROLIFERE PRIMI 10 PAESI OPEC ESPORTATORI (2010) (valori in US $)
Paese
|
Entrate Annue
(mld US $)
|
Entrate capita
(US $)
|
PIL capita (US $)
|
Riserve stimate
% Mondo
|
ARABIA Saudita
|
184
|
6.298
|
23.742
|
19,58
|
IRAN
|
64
|
959
|
11.024
|
11,10
|
EAU
|
61
|
12.191
|
36.973
|
7,25
|
NIGERIA
|
60
|
415
|
2.398
|
2,69
|
KUWAIT
|
52
|
18.795
|
38.293
|
8,71
|
ANGOLA
|
50
|
3.824
|
6.412
|
0,67
|
ALGERIA
|
50
|
1.449
|
7.103
|
0,90
|
IRAQ
|
43
|
1.305
|
n.d.
|
9,10
|
LIBIA
|
39
|
6.124
|
14.878
|
3,24
|
VENEZUELA
|
37
|
1.358
|
11.889 .
|
15,65
|
(Fonte:
nostra elaborazione su dati EIA, US Energy Information Administration)
Un più
equo rapporto con i Paesi petroliferi
In Occidente, in Italia, grande importatrice
d’idrocarburi, la percezione delle realtà di questi Paesi è duplice o meglio
inficiata da un senso d' ipocrita doppiezza.
Da un lato le opinioni pubbliche, molto
influenzate dai media, che s’indignano per gli aspetti immorali e dittatoriali
dei regimi e dall’altro lato la società politica e, soprattutto, quella degli
affari che vanno diritte al sodo pur di
garantirsi nuove forniture e quote di mercato sempre più appetibili.
Una doppia morale, dunque, un gioco di specchi
concavi e convessi che dilatano o rimpiccioliscono le responsabilità diverse,
ma in buona sostanza condivise. E’ inutile fingere! Tutti sappiamo che solo
grazie a questi contratti, sottoscritti fra grandi multinazionali e longevi
dittatori, possiamo assi-curarci enormi quantitativi di petrolio a copertura
del nostro crescente fabbisogno energetico.
Cinismo politico, corruzione, affarismo? Certo.
Tuttavia, le grandi multinazionali dell’energia ci ricordano che al “momento”
non esiste un’altra via praticabile per assicurarsi un approvvigionamento
sicuro, costante e a prezzi sostenibili.
In linea teorica, ci sarebbero altre vie per un
diverso rapporto di scambio con i paesi petroliferi, ma nessuno, fino ad oggi,
le ha voluto percorrere. Questo è il nodo stringente che sof-foca la democrazia
in tanti Paesi e che nessuno ha interesse di sciogliere. Almeno fino a quando
gli idrocarburi costitui-ranno la base principale della nostra produzione
energetica.
L’opinione pubblica fra
indignazione e rassegnazione
A parte gli annunci, poco si sta facendo per
ridurre la forte dipendenza dal petrolio. Sia sul versante del risparmio
energetico, sia su quello delle energie pulite e rinnovabili.
Insomma, vogliamo, come si suole dire, “la botte piena e la moglie ubriaca”
ossia il massimo possibile di benessere e, al contempo, il diritto d’indignarci
quando accade qualcosa “d’incivile” nei Paesi nostri fornitori. Pura ipocrisia!
Accecati dalla nostra spocchia euro centrista,
fingiamo di non vedere il nesso di causa ed effetto esistente fra petrolio e
dittature; il ruolo decisivo giocato da questi despoti, corrotti e sanguinari
quanto si vuole, che, però, continuano a soddisfare le nostre necessità.
Grazie a queste politiche, alle nostre
disattenzioni è cresciuto, a dismisura, un potere petro-finanziario che
condiziona le sorti politiche ed economiche del Pianeta. E guai a chi osi
disturbare il manovratore! Chi ci ha provato ci ha rimesso la carriera e
talvolta anche la vita.
Le vie del petrolio sono molto scivolose e
infide. Molti vi so-no caduti. Anche in Italia vi potrebbero essere state
vittime illustri: da Enrico Mattei, primo presidente dell’Eni, a Pier Paolo
Pasolini, autore di “Petrolio”, come
parrebbe dagli in-dizi acquisiti dalle nuove inchieste sulle loro morti
violente.
Qualità della vita: un
privilegio solo per i Paesi consumatori
Questo mio scritto non vuol essere un saggio
sistemico o un’analisi dotta dei fattori…Bla, bla, bla.
Questo compito lo lascio volentieri ai
competenti, agli studiosi ben retribuiti dai committenti e sempre ben ospitati
dalle più prestigiose testate giornalistiche e televisive.
A me interessa soltanto tentare un approccio del
problema-petrolio diverso rispetto ai modelli tradizionali, tentare un
ragionamento di tipo introspettivo che, forse, ciascuno dovrebbe fare prima
d’indignarsi per le nefandezze compiute da altri nei paesi dai quali provengono
le nostre importazioni d’idrocarburi.
Poiché, a ben pensarci, il problema nasce da
noi, dalle nostre esigenze, legittime ma esorbitanti.
Per rendersene conto non sono necessari studi
complessi: basterebbe rifletterci sopra, la mattina, davanti allo specchio.
Quanto energia consumiamo, sprechiamo. Tutto
deve essere elettrico: il rasoio, lo spazzolino, l’asciugacapelli, lo scalda-bagno,
la casa riscaldata o refrigerata secondo la stagione, una o più automobili in
garage, ecc.
La chiamano “qualità della vita”. In realtà, è
un privilegio riservato solo a una buona
parte delle società occidentali.
Paradossalmente, da tale privilegio restano
esclusi la gran parte degli abitanti dei Paesi nostri fornitori d’idrocarburi,
dove la qualità della vita è vicina allo zero. Come se un coltivatore d’agrumi
vietasse ai suoi figli di mangiare un’arancia del suo giardino perché la deve
vendere al mercante straniero. Incredibile, assurdo?
In realtà, così è fra le masse diseredate del
mondo arabo e africano. Così è stato anche in Italia, in Sicilia, non molto
tempo fa. Ricordo che, da bambino, un giorno, mi toccò ascoltare, fremente di
rabbia, il figlio del capo dell’ufficio postale tessere le lodi delle carni,
tenere e squisite, del nostro unico capretto, col quale giocavo spesso e
volentieri, che mio padre aveva venduto al signor direttore.
Si allarga
la forbice fra consumi e produzione
Nel 2009, le più grandi potenze economiche e
commerciali del Pianeta (Usa, UE, Cina, India, Brasile) hanno consumato 43,3
milioni di barili il giorno(mb/g) di petrolio contro una produzione propria
complessiva di 18,5 mb/g. Con un saldo negativo, fra produzioni e consumi, di
circa 25 milioni di b/g.
Tab. 3
PRINCIPALI PAESI PRODUTTORI E CONSUMATORI DI
PETROLIO (Anno 2009) (valori in milioni di b/a)
Produttori
|
M b/g
|
di cui export
|
Consumatori
|
M b/g
|
RUSSIA
|
10,1
|
5,4
|
USA
|
18,6
|
ARABIA Saudita
|
9,7
|
8,7
|
UE
|
13,6
|
USA
|
9,0
|
1,7
|
CINA
|
8,2
|
IRAN
|
4,1
|
2,4
|
GIAPPONE
|
4,3
|
CINA
|
3,9
|
0,3
|
INDIA
|
2,9
|
CANADA
|
3,2
|
n.d.
|
RUSSIA
|
2,7
|
MESSICO
|
3,0
|
1,2
|
BRASILE
|
2,4
|
EAU
|
2,7
|
2,7
|
ARABIA Saudita
|
2,4
|
BRASILE
|
2,5
|
n.d.
|
COREA Sud
|
2,1
|
KUWAIT
|
2,4
|
2,3
|
CANADA
|
2,1
|
VENEZUELA
|
2,4
|
2,1
|
||
IRAQ
ALGERIA
LIBIA
NIGERIA
|
2,3
2,1
1,7
2,1
|
1,9
1,8
1,5
n.d.
|
( Fonte: nostra elaborazione su dati Cia, US
Central Intelligency Agency)
Un mare di petrolio che deve, comunque, arrivare
nei nostri impianti, pena un’incontrollata impennata dei prezzi e il
rallentamento drastico dell’economia.
Senza questi volumi importati, infatti,
l’economia, la vita dei nostri Paesi si fermerebbero o, comunque, dovrebbero
subire una pesante caduta di ritmo e del livello della qualità di vita.
Figurarsi
se i nostri figli e nipoti accetterebbero una regres-sione così repentina che
ci riporterebbe ai tempi dell’econo-mia rurale primitiva: roba non di tremila
anni fa, ma realtà esistita, almeno dalle mie parti, fino agli anni ’50 del
secolo scorso.
Ogni tanto lo ricordo, ma quasi nessuno mi
crede. Ci riprovo. A quei tempi, nel mio paese, non avevamo il gas né altri
combustibili. Per accendere il lume si usava il “grassolio”, un sottoprodotto
del petrolio, o l’olio d’oliva.
Non avendo legna e tanto meno gas, per
alimentare il fuoco delle cucine si andava a cercare nei campi le “merdavuse” ossia
le feci essiccate di bovini e equini che erano dei combustibili preziosi, ad
elevato contenuto calorico.
La cerca non era free, ma si poteva fare solo previa autorizza-zione dei proprietari
terrieri. Sì, perché, allora, in Sicilia, i “terratenientes” esercitavano il
loro dominio anche sulla… merda
animale.
Cresce il
fabbisogno, calano le risorse proprie
Per la gran massa dei poveri, braccianti e
manovali, erano quelli tempi tristissimi.
La loro condizione è migliorata con l’arrivo
delle prime rimesse degli emigrati e degli idrocarburi, sotto forma di gas in
bombole e benzine.
Nonostante il grande balzo in avanti, il mio non
vuol essere un elogio del petrolio il cui uso eccessivo tanti guasti ha pro-vocato
all’equilibrio ambientale e alla salute umana, ma solo una constatazione
oggettiva della sua necessità, speriamo momentanea.
Comunque sia, il petrolio non è il combustibile
del futuro. Sia a causa dei suoi effetti devastanti sull’ecosistema (e sulla
democrazia) sia a causa del suo prevedibile esaurimento.
Le stime non concordano: vanno dal mezzo secolo
al secolo intero. Questo sembra essere il tempo concesso all’umanità per
affrancarsi da questa dipendenza.
Anche se le tragiche notizie delle esplosioni
della centrale nucleare che giungono dal Giappone devastato dal terribile sisma
ci dicono che non sarà agevole la fuoriuscita dagli idrocarburi. Vedremo.
Intanto un fatto è certo: per molti anni ancora, l’Occidente dovrà continuare a
barcamenarsi tra un fabbi-sogno crescente di petrolio e un calo progressivo
delle risorse proprie disponibili.
Tab. 4
RISERVE PETROLIFERE STIMATE PRINCIPALI
PAESI CONSUMATORI- (anno
2010) Quota % mondo
--------------------------------------------------------------------------
USA 1,58
CINA 1,19
BRASILE 0,94
INDIA 0,42
EU
0 0,42
TOTALE
4, 55
(fonte: EIA, US
Energy Information Administration)
Il ruolo
del petrolio libico
Nasce da qui la corsa verso i paesi detentori
delle riserve più rilevanti per accaparrarsi
permessi di ricerca, nuovi contratti pluri miliardari e stock importanti
di petrolio e di gas.
Basta scorrere la lista dei primi dieci Paesi
OPEC esportatori di petrolio (Tab. 2) per accorgersi dell’importanza
strategica, vitale direi, che le riserve (accertate e/o stimate) di questi
Paesi hanno per l’approvvigionamento futuro del mercato mondiale. Abbiamo già
notato che le cinque superpotenze commerciali accu-sano un deficit di 25
milioni di b/g.
E, fatto ancor più grave, anche per il futuro
(50-60 anni?) dipenderanno dalle riserve dei Paesi Opec giacché le proprie sono
irrisorie.
Insieme, Usa, Cina, Brasile, India e UE
dispongono del 4,55% delle riserve
mondiali di petrolio. Ossia un dato di poco maggiore delle riserve della sola
Libia (3,24%) e circa la metà di quelle che le stime attribuiscono al piccolo
emirato del Kuwait (8,71%).
Oltre ai grandi giacimenti di gas (e di acqua
sotterranea), da questi dati (di fonte USA) si evince l’importanza delle
produzioni e delle riserve libiche di petrolio, per altro di ottima qualità e
di più agevole trasporto.
Inoltre, come si può osservare nel grafico
sottostante, la Libia
è di gran lunga il primo Paese dell’Africa per riserve petroli-fere: ben 46
miliardi di barili contro i 4,4 dell’Egitto.
Questa enorme ricchezza strategica credo un po’
spieghi le ragioni delle tante lotte e intrighi per controllarla dall’esterno e
dall’interno: dal colpo di Stato di Gheddafi del 1969 all’at-tuale, improvvisa
insurrezione armata della Cirenaica.
Multinazionali: uno
strapotere fuori controllo
Il controllo del ciclo del petrolio è imperniato
su due poli molto autoritari: il potere locale e quello delle grandi multina-zionali
euroamericane, russe e cinesi.
Entrambi i soggetti sanno perfettamente che da
questa risorsa strategica, in esaurimento, dipendono le sorti dello sviluppo
del pianeta per almeno un altro mezzo secolo.
Sulla qualità di questo sviluppo ci sarebbe
molto da opinare. Ma non è questa la sede.
La faccenda, comunque, ci riguarda da vicino,
visto che l’Italia e in genere l’Occidente sono i consumatori finali della gran
parte degli idrocarburi esportati.
Per altro, l’Italia, a causa di una politica
estera economica a dir poco disinvolta, accusa oggi una dipendenza eccessiva
(46%) da regimi non certo campioni di democrazia come quelli della Russia di
Putin e della Libia di Gheddafi.
Tuttavia, a essere onesti, bisogna riconoscere
che il problema o la contraddizione non riguarda soltanto questi due Paesi ma-
ribadisco- tutti i principali esportatori d’idrocarburi.
E se, dunque, si volesse affrontarlo sul serio,
non con le guerre, ma con gli strumenti della politica e della diplomazia,
bisognerebbe ampliare lo spettro delle nostre ipocrite indignazioni all’intero
orizzonte delle petro- dittature.
Dittatori
scomodi e dittatori amici
Di converso, si richiede una verifica, una
ridefinizione anche giuridica del ruolo straripante, finanziario e politico,
delle multinazionali del petrolio, per ridurre o eliminare l’influenza
esercitata sulle forze politiche e sociali, sui media e perfino sui governi
degli Stati.
Per altro, c’è da rilevare come in questo mondo
anonimo, popolato di banche e società d’affari e di capitali, la regola è il
dirigismo.
Non esiste, infatti, alcuna forma di democrazia
partecipativa, a parte le assemblee dei soci che di solito ratificano, specie
in presenza di buoni dividendi.
Mai il capitalismo finanziario, sovente
parassitario, ha avuto tanto potere sul mondo!
La domanda che si pone è la seguente: possono
queste poten-ze continuare a decidere i destini dell’umanità?
Nelle loro mani è concentrato un potere enorme,
senza con-trollo democratico pubblico, spesso derivato da affari illeciti, e
gestito sulla base dell’intesa oligopolistica (il cartello) per meglio dominare
il mercato mondiale degli idrocarburi e con-dizionare i regimi dispotici e
corrotti che li producono.
Fino a quando in questo campo le cose resteranno
inalterate, sarà difficile sciogliere il grumo rappresentato dalla scanda-losa combine petrolio/dittatura.
Se proprio si vuol fare, la via non è quella
delle guerre pre-ventive, umanitarie o d’altro tipo, disastrose quanto incon-cludenti,
che si vorrebbero scatenare, o solo minacciare, contro i dittatori scomodi,
lasciando indisturbati i dittatori amici.
(in “Terranews”
21/3/2011)
LIBIA: ITALIA DE NUEVO EN GUERRA
La
desinformacion: un falso positivo
Bien,
también Italia entró en la guerra de Libia. Directamente. Sí, guerra. Leyeron bien. Otros
términos son solamente miserables eufemismos. Tiene
razón el eminente Cardenal de Milán, Dionigi Tettamanzi, en llamar la atención
de “aquellos que hacen la guerra y la
llaman con otro nombre” o que la quisieran edulcorar con
adjetivos enga-ñosos que son una ofensa al sentido común y a la realidad atroz
de las tantas guerras humanitarias dispersas por el mun-do (desde Somalía a
Afganistán).
Se
continúa jugando con el error de la desinformación, como están haciendo
nuestros gobernantes, periódicos y periodi-stas, aún los más notables, que
desde hace poco dejaron de usar el lenguaje de la verdad y de la denuncia de
los horrores y de la responsabilidad de los que hacen la guerra en todas partes
y de cualquier modo.
Se
trata del clásico “falso positivo”, o sea, de una manipu-lación de la verdad
con fines políticos que, por tal, está desti-nada a romperse en el impacto
contra la conciencia civil de la
Nación.
Una nueva guerra, a cien años exactos desde la ocupación
colonial de 1911 que llevó con los cañones, la “civilización” a los habitantes
de la “cuarta orilla”.
También
aquella debía ser un pic-nic y terminó durando más de veinte años.
La
terminó a comienzos de los años treinta el fascismo, a su modo, recurriendo a
asesinatos en masa, a bombardeos ani-quiladores aún con el uso de gases
letales, con la disemina-ción de minas en abundancia (todavía hoy en Libia se
puede saltar por los aires por causa de una vieja mina italiana), a las
deportaciones y a los ahorcamientos en público de patriotas y combatientes por
la libertad.
Como
aquella, verdaderamente indigna, de Omar Muktar, un jefe de tribu octogenario,
que el general Rodolfo Graziani quiso asesinar para hacer un trofeo de su sucia
guerra exterminadora.
Por
aquel entonces, la izquierda y las fuerzas progresistas pusieron obstáculos a
la guerra, en cambio hoy, no se ven banderas en los balcones, no se oye el
sonar de una tromba en el centroizquierda y la oposición (a la guerra) la está
haciendo el mejor aliado de Berlusconi: el partido de Bossi.
La guerra anunciada el 25 abril: dia simbolo de la paz
Una
página negra de Italia que lamentablemente no se hubiera querido leer jamás. Ni
aún durante los años dorados de nuestra República, democrática y anticolonial.
Se llegó al absurdo que estuvo prohibida, no obstante nuestros pedidos formales
en la sede parlamentaria, la circulación en Italia de un muy buen film que
evoca la trágica suerte de aquel viejo héroe de la libertad libia, y también de
la nuestra.
La
historia es larga y no podemos narrarla aquí por cuestiones de espacio. De
todas formas todos la pueden entender aún sin estudiarla en profundidad:
bastaría un esfuerzo de imaginación y ponerse en el lugar de las víctimas, de
quien la guerra de ocupación la sufrió y la continúa sufriendo.
Un
esfuerzo que en primer lugar deberían cumplir los gobernantes, los altos
dignatarios de esta guerra absurda, asimétrica, los soldados que deberán
hacerla, en el momento en el que descolgarán desde alturas seguras, los misiles
y las bombas asesinas sobre ciudades y pueblos habitados por gente simple que
está a punto de ver transformado su petróleo, de fuente de relativo bienestar,
en una maldición que los precipitó primero en una dictadura y hoy en una
guerra.
Burla
entre las burlas, el anuncio de la participación en la guerra Berlusconi lo
hizo en un día símbolo de la paz: la tarde del 25 de abril, una fecha memorable
para nuestra libertad y dignidad nacional. Una Fiesta para la paz recobrada y,
bien o mal, conservada hasta hoy, a la que sin embargo no participa el jefe de
gobierno. Según una inexplicable “tradición” que habla mucho sobre la cultura
de quien hoy comanda en Italia y también de quien debería controlarlo.
La guerra electoral de Sarkozy e premio Nobel de la paz
Y
también Italia que cuenta (en sentido aritmético, sólo sus buenos negocios)
saludó el anuncio del premier como “la desembocadura natural de una posición…”,
como “la salida del pantano”, la superación de una inercia injustificada
respecto a la audaz gesta de la “tríada gloriosa”.
O
sea Sarkozy, Cameron y Obama (premio Nobel de la paz) los que recurren a la
guerra para poner una hipoteca sobre el petróleo libio y también para esperar
salir de las ínfimas posiciones que les asignan las encuestas.
El
héroe de Arcore, en un principio, no quería hacerle la guerra a su amigo Kadafi
tal vez porque en las encuestas viaja más tranquilo que sus colegas francés y
norteamericano, y también porque una cuota importante de petróleo libio se la
había asegurado mediante los discutibles acuerdos bilaterales y los más densos
(programados hasta mitad de siglo) suscriptos por el ENI con la NOC.
Resistió
a las presiones provenientes de todas partes, aún de quienes no las debían
realizar. Al fin, debió ceder rompiendo su mayoría y arriesgándose a una crisis
para él fatal.
Uu
unanimismo provinciano
De verdad es curioso este unanimismo
provinciano. En Italia todos están divididos, sobretodo sobre las
cuestiones judiciales y/o de crónica rosa del premier; sólo las guerras, las
costosas misiones militares en el extranjero y los abultados presupuestos de
defensa llegan a unir a casi todos los partidos políticos (en este caso la Lega Nord e Italia dei
Valori no adhirieron), el gobierno y las más altas autoridades del Estado.
El
libreto se repite también en la cuestión libia. Sorprenden estas fuerzas de
oposición que, en lugar de llamar a una solución negociada del conflicto de
poder interno en Libia (porque de ello se trata), presionaron a Berlusconi para
hacerlo abandonar su inicial reticencia a alinear a Italia junto a los tres
países atacantes.
Aun
con los dientes apretados, debemos destacar la calculada prudencia de la Lega de Umberto Bossi que
también esta vez (después de los Balcanes) frenó los entusiasmos primarios,
distinguiéndose del unanimismo guerrero de la clase política italiana.
Como
sea, Berlusconi intervino en forma pesada con el juego comenzado, alineando a Italia
en una posición arriesgada, unilateral, que la pone fuera de los ambiguos
límites de la resolución de la
ONU.
¿Un nuovo Vietnam a dos pasos de Sicilia?
En
resumen, Italia se está metiendo en un serio problema que podría convertirse en
un largo y sangriento conflicto, a dos pasos de las costas sicilianas.
Hay
quien habla o amenaza un nuevo Vietnam. Difícil hacer previsiones. Aún recuerdo
que también en Vietnam la aventura de los Estados Unidos comenzó con bombardeos
de apoyo a las tropas del Sur y el envío de consejeros militares que luego
aumentaron a más de medio millón de soldados. Aquella guerra duró quince años y
la perdieron los Estados Unidos y sus aliados fantoches. Desde aquella
memorable derrota comienza el actual declinar de la potencia americana.
Vietnam
o no, un conflicto internacionalizado a aproxima-damente trescientas millas de
las costas sicilianas (a 200 de la isla de Lampedusa) no es, por cierto, para
Sicilia y para Italia una buena noticia.
Proveer
de armas a los rebeldes, enviar nuestros bombar-deros, significa apoyar a una
parte contra la otra en este conflicto fratricida para el control del poder
interno.
Todo
esto es inmoral además de contraproducente. Especialmente para Italia que,
verdaderamente, no puede volver a bombardear el suelo de una ex colonia que
todavía se lame las terribles heridas producidas por las fuerzas de ocupación
italianas.
La
buena noticia: en Addis Abeba conversaciones por la paz
Nadie,
ni el supremo Custodio de la
Constitución, se acordó del artículo 11 que con respecto al
tema es más que claro: “Italia repudia la
guerra como medio de resolución de controversias internacionales”
A
ninguno se le ocurrió proponer a Roma como sede de una tratativa entre las
partes en conflicto para llegar a un acuerdo de reconciliación nacional para
una transición democrática, sin Kadafi, pero también sin sus ex ultra fieles
ministros y jefes militares que se pusieron a la cabeza de los “rebeldes” (la
gran mayoría seguramente jóvenes de buena fe) después de haber servido por cuarenta
y dos años al dictador.
¿Pero
realmente Frattini y otras autoridades de mayor jerarquía creen que los
italianos se creen la historieta de la guerra necesaria para defender la
“virginidad democrática” de personas que por cuatro décadas estuvieron en lo
más alto del poder en Libia?
¡Otra
que guerra! Italia, también para rescatar su triste pasado colonial y a la luz
de los recientes acuerdos bilaterales, debía comprometerse a desarrollar un rol
pacificador, de conciliación, y sostener cada sincera intención hacia un cambio
democrático en Libia.
El
Parlamento, si quisiera, podría corregir la dirección de las cosas: proclamando
una moratoria de la intervención directa de Italia en el conflicto y proponer a
Italia como sede para tratativas de paz ente las partes, o por lo menos
sostener el tentativo de paz en curso en Addis Abeba, donde la Unión Africana
llegó a reunir en la misma mesa a los representantes del Consejo de los
insurgentes y del gobierno de Kadafi para poner en marcha conversaciones por la
reconciliación nacional.
Una
buena noticia, casi desconocida en
Italia, ya que no es del agrado del establishment que pretende la guerra y en
tal sentido, impartió órdenes precisas a los medios de comunicación de
referencia.
¿Los bombardeos protegen o danan los intereses italianos
?
Algunos,
para motivar su propio belicismo, sostienen que Italia debe bombardear para
después participar en el banquete de los dividendos de la guerra. Una lógica
sin pudor, inmoral, que sin embargo circula y genera adeptos. En realidad, en
la crisis libia, Italia pone en riesgo cuestiones económicas y comerciales. Hay
de hecho una importante consecuencia que podría resultar desfavorable.
Libia
constituye un aspecto muy especial para la economía italiana. Además de hacerse
cargo de los graves y discutibles problemas sobre la inmigración, nos provee
notables cantidades de hidrocarburos, capitales preciosos para nuestras
fábricas, bancos y un floreciente mercado para las empresas de servicios y
manufacturas.
Sólo
de petróleo (de óptima calidad y fácil transporte) Italia, a través del ENI,
importa alrededor del 23% (en valor) de su necesidad total y ocho mil millones
de metros cúbicos de gas anuales, a través del gasoducto submarino que
desemboca en Gela, Sicilia.
En
resumen, el ENI se está jugando parte de su futuro en esta guerra fratricida
fomentada por potencias que compiten con Italia en el campo energético.
Por
este motivo, además del miedo que genera la guerra, especialmente en los
territorios más próximos como Sicilia y las otras regiones meridionales, la
gente se hace preguntas que hasta ahora nadie respondió.
¿Qué
podría suceder en Italia y en Sicilia si estos contratos y suministros un día
se caen?
¿Con
la intervención militar directa el gobierno protege o daña los intereses
italianos?
Italia no podrà recuperar lo que està perdiendo en estas
horas
No
sabemos qué garantías (si las hay) la tríada ofreció a Berlusconi para
removerlo de su inicial inactividad e inducirlo a enviar los bombardeos en
Libia.
Una
duda que es válida, y existen aún más de una. Por eso además de denunciar los
aspectos políticos e (in)morales de la guerra, haría falta hacer un poco de
cuentas también del lado de la conveniencia “nacional”, visto que Italia es el
primer socio comercial de Libia.
Probablemente,
los estrategas italianos no habrán considerado la mutabilidad de los hombres y
de los intereses en juego, los probables resultados del conflicto y los
escenarios que se podrán determinar en Libia y en el tablero de ajedrez que es
el Mediterráneo.
En
particular, dos aparecen dignos de hacer referencia: una victoria de los
“rebeldes” de Cirenaica (que el ministro Frattini se apresuró en reconocer como
los únicos y legítimos representantes del pueblo libio) o un acuerdo unitario
nacional entre todas las partes en conflicto, a lo que como se dijo, se trabaja
en Addis Abeba.
Si
debieran vencer los “rebeldes”, difícilmente olvidarán los honores rendidos a
Kadafi y el ENI deberá ir a París o a Washington para rehacer los importantes
acuerdos suscriptos con la NOC
libia. Y pagar las tasas a los arrogantes carteles del petróleo.
Si,
en cambio, venciera Kadafi o se llegase a un acuerdo unitario nacional será
difícil hacer olvidar al Coronel y sus secuaces el cambio de posición de
Italia, para peor con la guerra ya comenzada.
En
resumen, en ambos casos Italia tendrá mucho que hacer para recuperar todo lo
que está perdiendo en estas horas.
(in “El Corresponsal”, Buenos Aires, maggio 2011)
SICILIA- LIBIA,
UN’ILLUSIONE MEDITERRANEA
Agostino Spataro e Oliviero Di Liberto alla
presidenza della Conferenza mediterranea, Tripoli 1982
I libici
in Sicilia
C’era un tempo, non molto remoto, nel quale
Sicilia e Libia si guardavano con grande simpatia reciproca.
L’Isola, la più grande del Mediterraneo,
definita da Occhetto “l’unico Stato arabo
che non aveva dichiarato guerra a
Israele”, ha sempre attratto i leader nordafricani e arabi in genere per il
suo splendido passato islamico e per il suo inquieto presente autonomistico.
Figurarsi Gheddafi che, avendocela di fronte,
desiderava estendere la sua rivoluzionaria influenza.
Dall’altro lato, la Sicilia, le sue
inconcludenti classi dirigenti che speravano di salvare l’Autonomia
capovolgendo le coordinate dello sviluppo: dal nord che aveva deluso al sud dei
paesi rivieraschi e soprattutto alla Libia ossia a quell’ex colonia italiana
che galleggia sopra un mare di gas e di petrolio.
Dalla Jamahirja si aspettavano capitali e
commesse miliar-darie e lavoro per gli operai e i tecnici isolani.
Da entrambi le parti c'era un certo fervore. I
libici aprirono a Palermo un consolato generale, un centro culturale e una casa
editrice.
Mentre i rappresentanti dei tre principali
partiti (Pci, Dc, Psi) fondammo la sezione regionale dell’Associazione di
amicizia e cooperazione italo - araba che promosse a Palermo alcune importanti
iniziative, fra cui la prima conferenza nazionale sull’immigrazione araba in
Sicilia e in Italia, patrocinata dal Ministero dell’interno.
A Palermo il primo
periodico bilingue arabo-italiano
Questo era il clima che caratterizzava i
rapporti siculo-libici negli anni ’70 e ’80.
Certo, alla luce dei massacri attuali perpetrati
dai pretoriani del colonnello Gheddafi, tutto questo può apparire incredi-bile.
Effettivamente, quello che oggi vediamo è il
volto peggiore di un regime morente. Ma non è stato sempre così.
Nel suo primo ventennio il regime non appariva
così corrotto, dispotico e familistico. La “rivoluzione” del 1969 (in realtà un
golpe militare) si presentava al mondo con un carattere popolare, anche se un
po’ confuso, e con un progetto di radi-cale cambiamento basato su una
distribuzione più equa della rendita petrolifera, oggi appannaggio di gruppi
ristretti tribali e familiari.
Insomma, grazie al petrolio (abbondante e di
ottima qualità) la Libia
presto divenne un enorme cantiere, un mercato inte-ressante per le nostre
manifatture, una grande opportunità di sviluppo anche per la Sicilia.
Imprese, lavoratori e tecnici siciliani furono
tra i primi a intuire quelle potenzialità e a tentare di cogliere le disponi-bilità
dichiarate dai dirigenti libici.
Tutti in Libia, dunque, e sempre accolti come
ospiti graditi, anche quando si trattava
d'improbabili esponenti dell’indi-pendentismo, soprattutto etneo, che si
nascondevano dietro una moschea finanziata dai libici.
Anche
la sinistra siciliana, nel suo naturale slancio terzo-mondista, si mostrò
parecchio interessata. “L’Ora” di
Vittorio Nisticò realizzò un inserto bilingue (arabo-italiano), il primo in
Italia e in Europa, curato dalla pasionaria
Cris Mancuso, che diede un grande impulso allo scambio delle
informazioni e alle iniziative economiche fra la Sicilia, la Libia e gli altri paesi
rivieraschi.
Un controverso
protocollo di cooperazione fra Sicilia e Jamahiyrja libica
Si creò un clima di speranzosa attesa, di
fervore costruttivo che indusse il presidente della Regione, on. Angelo Bon-figlio,
a intraprendere, nel novembre del 1977, una visita ufficiale a Tripoli nel
corso della quale fu sottoscritto un vero e proprio protocollo d’intesa e
costituita una commissione mista per dare corso a una serie d’ipotesi di cooperazione
in diversi settori economici e culturali.
Il viaggio provocò un certo clamore sulla stampa
e una repri-menda pubblica del governo di Roma che non riconosceva alla regione
la potestà di firmare un trattato con
uno Stato estero.
Le polemiche continuarono ed anche le visite di
delegazioni di autorità ed operatori economici.
Come sempre accade in questi frangenti, ci
furono alcuni che colsero l’occasione per realizzare affari privati senza
averne titoli o per dare sfogo in Libia a certe frustrazioni secessioni-ste in
Sicilia cadute in disuso.
Nell’apparato libico c’era, infatti, una
corrente che dava cor-da a tendenze del genere, inconsistenti quanto
imbarazzanti, che creavano equivoci e seri disagio sul piano politico.
Ricordo che nell’agosto del 1984, unitamente a
parlamentari di altri partiti e nazionalità, ci recammo a Tripoli per parteci-pare
(io come osservatore del Pci) ad una conferenza interna-zionale sul 15°
anniversario della “rivoluzione” libica.
Senza saperlo, mi ritrovai sullo stesso aereo e
nello stesso albergo con un avvocato catanese che in Libia passava per “autentico rappresentante dell’irredento
popolo siciliano”.
Lo squattrinato Billy
Carter nelle mani di due compari catanesi
Un personaggio piuttosto colorito che aveva
svolto un certo ruolo anche nella famosa vicenda del “Billygate” ossia del
fratello del presidente Usa, Jimmy Carter.
Com’è noto, lo squattrinato Billy fu adescato ad
Atlanta da tale Mario Leanza, immobiliarista d’origine catanese, il quale
intrigando con il compaesano avvocato lo condusse a Tripoli dove, in cambio di
un prestito, si abbandonò ad elogi sperti-cati del regime libico che suo
fratello presidente (in carica) aveva duramente condannato e messo all’indice.
Lo stravagante Billy ebbe in Libia il suo
momento d’oro: continuava a rilasciare interviste, a farsi fotografare anche in
occasioni solenni come quella della parata militare di Bengasi in cui lo vidi,
abbronzato e col suo vistoso cappello da cow-boy, sul palco d’onore, a fianco
di Gheddafi.
In Libia bisognava essere prudenti, stare
attenti ai passaggi politici e anche evitare d’inciampare in personaggi del
genere che affollavano il parterre della “rivoluzione”.
Con
Susanna Agnelli in visita al porto militare di Homs
Perciò, chiedemmo all’ambasciatore Shalgam (oggi
ministro degli esteri libico) di non includere l’ingombrante avvocato etneo
nella delegazione italiana, anche perché con noi c’erano l’ambasciatore Alessandro
Quaroni e l’on. Susanna Agnelli, sottosegre-tario agli esteri, con i quali
c’intrattenemmo in interessanti conversazioni politiche e anche per una
piacevole visita delle incantevoli rovine di Leptis Magna e… del cantiere
dell’Impregilo (partecipata del gruppo Fiat) che stava costruendo a Homs un
porto militare che ci parve troppo grande per le esigenze della marina libica.
Teatro romano di Leptis Magna, 1984, da
sin. on. S. Agnelli, amb. A. Quaroni e on. A. Spataro
Per
tutta risposta, l’avvocato approntò una delegazione che già in albergo si
qualificò di nazionalità “siciliana”; tuttavia questa volta mi parve più
dignitosa della precedente ch’era composta di svolazzanti donnine inneggianti
all’Isola irreden-ta, per la gioia di certi dirigenti dei comitati popolari
libici.
A parte questi episodi, le relazioni fra la Sicilia e la Libia proseguirono con altre
visite tra cui quella del presidente della regione Rino Nicolosi, rimasta
famosa più per il bacio di Gheddafi che per gli accordi sottoscritti.
Sì,
perché i rapporti fra Sicilia e Libia furono intensi ma poco proficui.
Nessun
progetto proposto dalla Sicilia sarà realizzato.
Ci fu un tentativo d’investire nel turismo a
Pantelleria, ma abortì sul nascere.
Le
compagnie libiche i grandi affari li hanno fatti fra Roma, Torino e Milano e,
ancora più lontano, fra Londra e la Sviz-zera.
In
Sicilia di libico ci sono solo enormi quantità di petrolio e di gas che
raffiniamo per mandare avanti l’economia delle re-gioni del nord. E un
consolato (a Palermo) di cui non si riesce ad afferrarne l’utilità.
( in “la Repubblica” del 25/2/2011)
L’ITALIA E
LA CRISI LIBICA
1.. Più i giorni passano più la storiella della
“guerra umanita-ria” contro il dittatore Gheddafi (fino a ieri amico e socio in
affari dei belligeranti) si scioglie come neve caduta sulle ari-de dune dei
deserti libici.
Le ultime notizie dicono che, a fronte di un
quadro politico e militare a dir poco incerto, crescono le titubanze, i
dissensi anche nell’opinione pubblica dei tre Paesi interventisti (Fran-cia,
USA, e GB), perfino nelle loro espressioni di vertice.
Un' importante conferma di tale disagio ci
sembra la decisio-ne assunta dall’amministrazione Usa di ritirare le
squadriglie aeree dalle operazioni in Libia.
A poche settimane dall’inizio dei bombardamenti
aerei, la situazione, dunque, sembra evolvere in una direzione esattamente
contraria a quella auspicata da Sarkozy e soci, ossia verso la ricerca di un
cambiamento politico in Libia, concertato fra le parti in conflitto e garantito
dalla comunità internazionale. Vedremo.
Peccato, però, che tale evoluzione non l’abbia
intuita, colta il governo italiano che, come il solito, sbaglia tempi e
proposte.
Nello stesso giorno in cui gli americani
decidevano il ritorno a casa, il ministro degli esteri Frattini si è
precipitato a riconoscere come “unico interlocutore legittimo” il comitato
degli insorti della Cirenaica al quale, invece di raccomandare uno sforzo di
pace e di concordia nazionale, ha promesso armi ed assistenza militare per dare
nuovo impulso alla carneficina.
Una mossa a dir poco avventata (o concordata con
gli Usa?), irresponsabile che brucia e annulla le pur minime cautele che il
governo aveva manifestato nel corso della crisi, soprattutto in risposta al
sospetto interventismo della Francia.
2.. In realtà, Berlusconi questa guerra contro
l’amico Gheddafi l’ha subita; non l’ha voluta anche perché sapeva perfettamente
che il cambio di regime a Tripoli avrebbe messo in discussione accordi
chiacchierati ma importanti per l’Italia e per alcuni gruppi in particolare.
A lui (ovvero all’Italia) la gloriosa Triade ha
lasciato la sola possibilità di accodarsi, di fornire assistenza militare e di
pagarne le conseguenze, come stiamo vedendo a Lampedusa.
Parliamoci chiaro: agli attori di questa nuova
tragedia non interessano i diritti umani, le condizioni politiche illiberali,
le sofferenze dei cittadini libici o di altri Paesi arabi in subbuglio.
Pura ipocrisia, propaganda per spiriti semplici!
Per risolvere la crisi libica (sostanzialmente
una spaccatura in seno al gruppo dominante autore del colpo di stato del 1969),
la comunità internazionale poteva, può ancora, tentare la via del cambiamento
politico nel rispetto dei principi democratici e della concordia nazionale
libica.
L’Italia, tutta l’Italia, di maggioranza e
d’opposizione, dove-va sostenere questo tentativo proposto non da Gheddafi ma
da Paesi importanti come i cinque astenuti (Germania, Bra-sile, Russia, India e
Cina), anche per meglio tutelare i suoi enormi, legittimi interessi minacciati
da certe mire (sostitu-tive) che si nascondono dietro l’intervento “umanitario”
del signor Sarkozy.
Forse, un bel dì si conosceranno i veri
interessi della triade interventista. Ma già all’inizio della rivolta in
Cirenaica (l’unica armata fra le tante scoppiate nei paesi arabi, particolare
che fa la differenza) non era
difficile intuirli specie da parte delle persone responsabili che hanno gli
strumenti e le informazioni per farlo.
3.. Perciò, meravigliano, non solo le
contraddizioni del governo Berlusconi, ma anche le posizioni di quanti, ai
vertici della politica e delle istituzioni repubblicane, non considerando
adeguatamente gli interressi primari della pace nel Mediterraneo e quelli
nazionali dell’Italia, hanno tifato
per l’intervento militare di Sarkozy e compagnia briscola.
Per altro, isolando e dileggiando la posizione
responsabile, sensata del governo tedesco della democristiana Angela Merkel che
ha rifiutato l’opzione militare e proposto la soluzione politica del conflitto
interno alla Libia.
Come, del resto, vuole il diritto internazionale
che, in caso di conflitto interno, non autorizza nessuno a intervenire militar-mente
dall’esterno, per altro a favore di una parte contro l’altra.
Per decenni sono stati i contingenti di “caschi
blu” sotto co-mando ONU a interporsi fra le parti in conflitto per rappacifi-carle
non per aizzarle.
Negli ultimi anni, alcuni Paesi, in primis gli
Usa, profittando della crisi (provocata) dell’Onu, hanno preso la brutta abitu-dine
d’intervenire in alcuni Paesi, soprattutto di tradizione islamica
(dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Somalia alla Libia), in contrasto col diritto
internazionale e con esiti davvero catastrofici. Compreso quello di far
crescere ed espandere il terrorismo, invece di ridurlo.
4.. Interventi siffatti sono un abuso evidente
che, se non sanzionato, rischia di creare precedenti pericolosi per tutti i
Paesi che hanno problemi di unità interna.
E la lista di questi Paesi è molto lunga. A
cominciare da alcuni europei quali: la Francia, la Gran Bretagna, la Spagna, la Polonia, l’Ungheria, la Serbia e gli altri Sati
balcanici, la Grecia,
la Macedonia
e anche l’Italia dove, ai vecchi separatismi “in sonno”, si è aggiunto quello
più inquietante del partito leghista al governo.
Così come molto lunga è lista dei Paesi dominati
da regimi dittatoriali, tirannici che, però, nessuno disturba.
Attenti, dunque, a non scherzare col fuoco,
poiché l’incendio potrebbe risultare incontrollabile.
Perciò, queste degnissime persone dovrebbero
chiarire al-l’opinione pubblica italiana le vere ragioni del loro tifo
pro-intervento militare che ancora chiare non sono.
Altrimenti, si accrediterà l’idea che tutto si
fa in funzione dell’antiberlusconismo che, per quanto giustificato, non può
giungere a motivare scelte così delicate di politica estera.
Specie quando in ballo ci sono- come nel caso
libico- gli equilibri di pace nel Mediterraneo e gli interessi fondamen-tali,
per certi aspetti vitali, dell’Italia.
Prima o poi, Berlusconi passerà. Come passeranno
i suoi avversari che oggi affollano, senza gran costrutto, la scena politica
italiana.
Resterà l’Italia con i suoi problemi e le sue
speranze, col suo patrimonio di relazioni politiche, economiche e culturali
internazionali costruito, con tutti paesi dell’area mediterra-nea, nel segno
della convivenza pacifica e della collabora-zione reciprocamente vantaggiosa.
5 .. Sappiamo che nel mondo l’Italia conta poco,
ancor meno oggi con l’attuale governo. Tuttavia, nel Mediterraneo un ruolo è
riuscita a svolgerlo, talvolta con esiti brillanti, anche col contributo
decisivo della sinistra italiana.
Guai a indebolirlo per ripicca contro questo o
quello o a gio-carselo per confermare o ricercare vecchie e nuove subalter-nità!
Il
rischio sarebbe un infiacchimento dell’autonomia nazionale e la
destabilizzazione del Mediterraneo e del Medio Oriente con conseguenze
incalcolabili.
Un saggio premonitore si può ricavare da questi
pochi giorni d’intervento “umanitario” che, oltre agli effetti micidiali sulle
popolazioni locali, sta provocando conseguenze insoppor-tabili per l’Italia:
dall’insicurezza dei rifornimenti energetici all’esodo migratorio che approda a
Lampedusa e si dirama nel resto del Paese. E siamo solo agli inizi!
In pratica, l’Italia da sola deve sobbarcarsi un’emergenza
colossale e drammatica (e relativa spesa) provocata e/o comunque accelerata dai
bombardamenti del signor Sarkozy, il quale, per tutta risposta, ha chiuso le
frontiere agli immi-grati che
sbarcano in Italia ma desiderano andare
in Francia. Alla faccia della
solidarietà umana, europea, atlantica e di altre solidali ipocrisie!
(in”Il
Dialogo”5/4/2011)
LIBIA: LA
NATO PUO’ VINCERE LA GUERRA, MA PERDERE IL DOPOGUERRA
Decennale 9/11: invece del processo si celebrerà una
vendetta di Stato
Gheddafi farà la stessa fine di Osama Bin Laden?
Probabilmente, sì. Alcuni lo auspicano, taluni lo minacciano, apertamente.
Se ciò dovesse accadere, non sarà
certo per “spirito di vendet-ta degli insorti”. Quali ragioni avrebbero di
vendicarsi quei suoi sodali che fino all’altro ieri, per 42 anni, hanno
coman-dato e condiviso col dittatore potere e ricchezza?
Sarebbe ucciso per tappargli la
bocca, per evitare che in un processo equo e pubblico potesse chiamare in
correità i suoi ex amici, libici e internazionali.
Del resto, la soluzione sarebbe
in linea con la sorprendente decisione assunta dalla presidenza Usa di far
assassinare
Osama Bin Laden, facendone
addirittura sparire il corpo.
Per tale decisione molti hanno
esultato. La gran parte dei cit-tadini Usa e del mondo intero, invece, hanno
visto in questo atto fin troppo sbrigativo la negazione di un loro diritto
fon-damentale: quello di poter processare un capo terrorista che- secondo la
versione ufficiale- è stato l’autore del più devas-tante attentato della storia
che ha provocato circa tremila vittime innocenti statunitensi. Insomma, il
diritto alla verità, alla giustizia vera, non sommaria.
Quale migliore celebrazione del
Decennale che quella di aprire il prossimo 11 Settembre, a New York, il processo a Osama Bin Laden per
l’accertamento pieno delle respon-sabilità e della verità?
Invece, sarà celebrata soltanto
un’oscura vendetta di Stato.
Con Gheddafi bisognava chiudere qualche
anno fa. Invece…
Con Gheddafi il copione potrebbe
ripetersi, per evitare che, parlando in un processo, possa creare molti
imbarazzi e bloccare fulminanti carriere politiche in Libia e all’estero.
Soprattutto, di tanti capi di
Stato occidentali i quali, nonos-tante il dittatore libico avesse ammesso la
tremenda respon-sabilità per i due attentati agli aerei civili nei quali
perirono circa 600 persone innocenti, lo hanno premiato accogliendolo nel club
esclusivo dei loro amici e protetti.
Con Gheddafi, bisognava chiudere
allora, isolandolo e invo-cando il principio di giustizia. Invece, non se ne
fece nulla. (1) Nemmeno al Tribunale dell’Aja hanno aperto un fascicolo di atti
relativi.
E’ bastato che il colonnello
pagasse un indennizzo alle famig-lie delle vittime, (una conferma agghiacciante
della sua responsabilità) per fare esattamente il contrario di quanto andava
fatto.
Si avviò, infatti, fra i capi di
Stato e di governo dell’Occi-dente una sorta di gara a chi per prima riusciva a
“sdoganare” un terrorista reo confesso, a riceverlo presso le più prestigiose
cancellerie. Tutti, non solo Berlusconi che è arrivato anche al baciamano.
Compresi, cioè, i signori
Sarkozy, Obama e i premier inglesi che, come “cadeau”, gli hanno consegnato libero l’unico im-putato libico
detenuto in Gran Bretagna per la strage di Looc-kerbie.
Il problema, dunque, che si pone
non è nominalistico, ma di coerenza politica e morale e di rispetto dei
principi della lega-lità internazionale e della nostra civiltà giuridica che
condan-nano le ingerenze esterne e la barbarie delle esecuzioni som-marie e i
processi-farsa. Oggi, in Libia si corre questo rischio. Il popolo libico,
nell’ambito della propria legislazione, ha il diritto di processare Gheddafi
per le colpe e i reati attribuiti-gli e anche quegli esponenti che hanno
cooperato col dittatore.
Un processo equo sarebbe una
vittoria della giustizia e una condizione basilare per avviare, con idee e
uomini veramente nuovi, una riforma in senso democratico dello Stato e dell’economia
libici.
Interventi “umanitari” più disastrosi delle malefatte
dei dittatori
Andiamo ora a questo ennesimo
intervento militare “uma-nitario” che in realtà si sta dimostrando essere una
guerra della Nato, con gli “insorti” al seguito, i quali, come ha detto
efficacemente Edward Luttwak, “sparano
per i cameraman delle televisioni”
E poi, conti alla mano, si è dimostrato
che questi interventi hanno provocato più morti e distruzioni di quelle
provocate dai carnefici che si vorrebbero bloccare e punire.
Basta guardare l’abisso in cui
sono stati trascinati la
Somalia, l’Afghanistan e ora la Libia.
Il caso dell’Iraq è davvero
emblematico: Saddam Hussein è stato impiccato perché accusato di avere ordinato
la strage di alcune migliaia di poveri sciiti, mentre la guerra di Bush junior,
fino ad oggi, ha provocato diverse centinaia di miglia-ia di innocenti vittime
irachene.
C’è chi parla di circa 600.000!
Anche la soppressione ingiusta di una sola persona dovrebbe
far inorridire la coscienza di ognuno di noi. Tuttavia, se i numeri e la vita
degli uomini hanno ancora un senso, tremila o cinquemila vittime di Saddam non
sono la stessa cosa delle trecento o cinquecentomila provocate dall’invasione
militare di Bush e della coalizione internazionale che- com’è provato- hanno
deliberatamente falsato le prove per invadere l’Iraq.
Se Saddam ha pagato i suoi crimini con l’impiccagione,
perché non devono pagare coloro che hanno provocato questo più grande
sterminio? Perché l’ineffabile tribunale dell’Aja non ha aperto un fascicolo,
un’inchiesta?
La guerra come sola risposta alla crisi
globale?
A queste e ad altre drammatiche
domande nessuno dei responsabili risponde.
Forse, i capi delle grandi
potenze occidentali pensano di cavarsela sempre a buon mercato, impunemente,
cospargendo l’umanità di vecchi e nuovi terrori, anche inesistenti, per meglio
imporre il loro dominio e militarizzare il sistema delle relazioni
internazionali.
Come se questo nostro Occidente,
in decadenza e in mano a poteri forti e invisibili, eletti solo dai consigli di
amminis-trazione di banche e società d’affari, non riuscisse più a elaborare
risposte a questa crisi globale, epocale, diverse dall' opzione militare. Siamo
all’ineluttabilità della guerra?
Speriamo, sinceramente, di
sbagliare l’analisi, ma in giro si avvertono strani sentori.
C’è una crisi anche del pensiero
politico occidentale? Sicuramente, pesano l’infiacchimento della democrazia rap-presentativa,
l’umiliazione della politica oramai asservita ai disegni della finanza e delle
consorterie economiche interna-zionali, il dilagare dei poteri criminali.
Sopra di tutto, pesa la crisi del
ruolo economico dell’Occi-dente che non riesce più a produrre la ricchezza
(tanta) che consuma, che importa e spreca risorse energetiche, inquinan-do il
Pianeta e devastandolo con guerre micidiali e infinite per procurarsele.
Come sta facendo in Libia, in
Iraq e altrove.
Sappiamo che le crisi ci sono
sempre state e, bene o male, sono state superate. Questa volta, però
all’orizzonte del nostro futuro prossimo non s’intravede una soluzione degna e
condivisa, a garanzia del benessere e della convivenza pacifi-ca mondiali. Qui
sta il punto di novità ineludibile: con la glo-balizzazione, l’Occidente non è
più il principale protagonista della storia.
Italia: finché c’è guerra (non) c’è
speranza
L’Italia, da almeno un ventennio,
sembra essersi avviata su questa china. Siamo un Paese bellissimo, ma pieno di
debiti e di storture che si da arie da grande potenza.
Partecipiamo a tutte le missioni
militari all’estero, a tutte le guerre in giro per il mondo, acquistiamo
sistemi d’arma costosissimi come se dovessimo entrare in guerra con la Cina o con gli Usa.
Insomma, una spesa militare
enorme (insopportabile per un paese come l’Italia che sta tagliando scuole,
ospedali e assis-tenza ai più deboli) per partecipare alla folle corsa al
riarmo ripresa su scala planetaria.
Un solo esempio: l’Italia ha
impegnato ben 15 miliardi di euro (mezza manovra di Tremonti) per l’acquisto di
un centi-naio di bombardieri F35.
Domanda: oggi che la crisi
incalza, perché non si annulla, non si rinvia o almeno non si sospende questa
colossale com-messa?
Insomma, finché c’è guerra c’è
speranza. Di questo passo, quante altre guerre ci vorranno? Oggi è il turno
della Libia. Ieri è stato quello della Costa d’Avorio. Domani, chissà, forse
quello del Venezuela, di Cuba, ecc.
L’Italia, per la sua tradizione,
per la sua Costituzione pacifis-ta e antifascista, per i suoi interessi
nazionali, non può acco-darsi supinamente all’interventismo altrui.
Ieri a quello disastroso di Bush,
oggi a quello avventuroso del
presidente francese che tanto preoccupa l’opinione pubblica mondiale ed europea
ed allarma molti governi legittimi, in Africa e in Medio Oriente, che lo
percepiscono come una seria minaccia d’ingerenza e d’instabilità
internazionale. Insomma, nessuno si sente più sicuro in casa propria!
La guerra a debito delle grandi potenze
Tutto ciò è inaccettabile,
immorale per una società libera e democratica. Si stanno devastando i bilanci
degli Stati, con-traendo debiti sopra debiti per finanziare guerre,
nient’affatto umanitarie.
Perché deve essere chiaro che
queste “grandi potenze” fanno le guerre a debito ossia con i soldi prestati
dalla Cina e dai piccoli risparmiatori locali.
Questa notazione vale in
particolare per gli Usa, meno per l’Italia il cui debito pubblico
(sproporzionato) è prevalen-temente finanziato dal risparmio interno ed
europeo.
Inoltre, ripeto che l’Italia,
partecipando alla guerra in Libia, ha solo da perdere sul piano dell’immagine
politica e su quel-lo delle sue relazioni economiche e commerciali. Per certi
aspetti, questa guerra è anche contro l’Italia.
Ovviamente, il nostro discorso è
prima tutto politico, umanitario; coerente con il pacifismo insito
nell’articolo 11 della nostra Costituzione che non può essere oscurato da quel
vergognoso codicillo introdotto per vanificarlo.
Oggi, anche i grandi giornali
italiani che hanno incitato alla guerra scrivono, allarmati, di come si potrà
spartire il “botti-no” ossia il tesoro del popolo libico: i grandi giacimenti
d’idrocarburi e- a quanto si dice- le cospicue riserve finanzia-rie, anche in
oro, e in titoli azionari, ecc.
Tutto sarà deciso a Parigi, su
iniziativa di Sarkozy, il principale promotore del progetto “insurrezionale”,
che vorrà fare la parte del leone, in accordo con gli altri due paesi della
triade bellicista (GB e USA).
Si può vincere la guerra, ma perdere il dopoguerra
Non sappiamo che cosa sia stato
promesso alle più alte Autorità italiane per indurle a far entrare il Paese in
questa avventura, mettendo a disposizione navi, aerei e diverse basi italiane.
A quanto si vede, gli “insorti”
preferiscono trattare con la triade e trascurano il governo italiano.
Se la tendenza fosse confermata, si aprirebbero scenari
molto problematici per l’Italia.
Il governo e il ceto politico italiano (di destra e di
centro-sinistra), stranamente unito in questa scelta improvvida, sape-vano a
quali conseguenze si andava incontro e avrebbero dovuto chiarirlo al Paese, al
Parlamento. Non è stato fatto. Perciò, crescono le inquietudini nell’opinione
pubblica.
E’ tempo che i nostri responsabili rispondano ai tanti
quesiti che la gente si pone e fra questi alcuni davvero pregnanti e
prioritari:
1) Quale sarà il futuro dei nostri rifornimenti
d’idrocarburi derivati dalla Libia (circa il 25% del fabbisogno totale
italiano)?
2) Quali squilibri si potranno determinare nella bilancia
commerciale italo-libica, unica in equilibrio con un paese petrolifero?
3) Che fine faranno gli ambiziosi programmi d’investimento
(in ricerca e produzione) di Eni e il ruolo stesso di questo colosso dell’energia
(al 70% privatizzato) che fa ombra a molti all’estero e purtroppo anche in
Italia?
4) Cosa ne sarà dell’accordo d'indennizzo e di cooperazione
firmato da Berlusconi e Gheddafi con un costo per l’Italia di cinque miliardi
di euro in 20 anni?
5) Come spiegano, infine, il rifiuto della Germania, paese
membro della Nato e locomotiva dell’Unione Europea, di partecipare
all’avventura libica. Insensibilità o preveggenza della signora Merkel?
Le risposte, probabilmente, non verranno poiché questi
signori si sentono invincibili con… i deboli. Attenzione, però, che si può
vincere la guerra, ma perdere il dopoguerra.
(in “Emigrazione
Notizie” 15/6/2011)
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