Agostino Spataro
MONICA
Storia di un’infanzia ritrovata
Il prof. Peter Sarkozy si felicita con Monica per la laurea
conseguita all’Università “La
Sapienza”, Roma 15 dicembre 2011
(foto Camillo Ambruoso)
A Monica, con tutto
l’amore di mamma e papà
In copertina: porcellana
di Szàsz Endre, collezione personale.
Avvertenza:
quando non diversamente indicato, le foto a corredo di questo volume sono da
attribuire all’autore e ai suoi familiari.
Introduzione
La nascita di Monica
Per l’anagrafe, Monica Nicoletta è nata nell’autunno del
1984.
In me, invece, è nata circa nove mesi prima ossia al tempo
in cui fu concepita. Esattamente, una mattina di gennaio dello stesso anno da
una visione che ebbi in una radura al centro del “bosco della Regina”, nella
reggia di Versailles, mentre osservavo un gruppetto di bambine bionde che si
rincorreva-no intorno a una fontana.
Nata per partenogenesi si potrebbe dire, da un sogno da tem-po
accarezzato che prese le sembianze di una dolcissima bambina.
Figlia mentale di una visione fugace che presto si trasformò
in una luce abbagliante, Monica è la protagonista di questa storia umanissima
che ha cambiato la nostra vita.
L’avrei capito qualche tempo dopo mettendo in relazione le
sensazioni ricevute in quella fredda mattina, le congiunzioni oniriche e le
date dei fatti realmente accaduti.
Ipotesi ardua da dimostrare poiché bisognerebbe entrare
nelle regioni e nei meccanismi più ignoti della psiche, dove nessu-no si è
avventurato con successo.
Proverò, pertanto, a darne una spiegazione partendo da un
brano autentico del mio diario relativo, appunto, a quel sog-giorno parigino
Versailles, un sole immenso mi accecò
Da anni, mi propongo di visitare il Palazzo reale di Ver-
sailles. Oggi è domenica,
ne approfitto per rimediare a code-sta lacuna.
Il complesso della reggia è di una magnificenza imponente,
spettacolare. Compro una guida e mi avvio per il percorso consigliato.
Come molti, sono attirato dalla galleria degli “specchi”.
Di fronte a una superficie di specchi riaffiorano i
fondamenti della nostra natura primitiva, naif.
Nello specchio si riflettono, s’intrecciano, i lati oscuri
delle nostre vanità e paure, i nostri desideri latenti d’intrigo, di complicità
e, soprattutto, d’immortalità.
Figurarsi quali effetti avranno prodotto questi specchi
sulle signore della nobiltà del tempo, su principi, duchi, dandy e ci-cisbei,
su schiere di adulatori e lacchè obbligati a vivere in quella corte dove il
primo loro dovere era quello di piacere a Luigi XIV.
D’altra parte, lo specchio era oltremodo necessario per
abbel-lirsi e mostrare i corpi incipriati
agli occhi di quel terribile e gaudente sovrano.
Insomma, scorrono i secoli ma davanti a uno specchio restia-
mo tutti figli di Narciso.
Mi colpisce quella curiosa iscrizione posta sopra un corni-
cione al centro della sala: “Le roy
govverna par lui meme”.
La frase, attribuita al re Sole, fu messa in bella vista nel
salo-ne principale delle adunanze per ricordare ai cortigiani che il potere era
suo e suo soltanto. Ossia che, morto Mazzarino, non intendeva più condividerlo
con altri.
Politicamente, il messaggio è chiarissimo, sul piano gramma-ticale
un po’ pasticciato con quel “govverna” scritto in italia-no e con
due “v”.
Errore del decoratore, omaggio al primo ministro italiano o
intento rafforzativo della volontà del sovrano?
Lascio il palazzo e m’incammino per il vasto parco. Imbocco
un percorso a caso. Osservo, ammirato, i labirinti di siepe, le fontane e i
laghetti creati ad arte per addolcire la prospettiva.
A me, che provengo da una zona semi-arida qual è la Sicilia, fa un certo
effetto vedere scorrere tutta questa acqua “inutilmente”.
Da un lato m’incanta e dall’altro lato m’indigna. Mi sembra
uno spreco, un insulto alla sete degli uomini e dei campi di mezzo pianeta.
Tuttavia, la visione è davvero gradevole, armoniosa.
M' inoltro nel bosco detto “della Regina”.
Gli alberi sono molto
alti e incolonnati secondo una simme-tria quasi perfetta. I rami sono spogli
del fogliame.
Ai bordi del viale, fusti segati alla radice ricordano che
in natura la morte è necessaria affinché continui la vita sulla Terra.
Mentre rimuginavo questi pensieri, mi ritrovai ai margini di
una radura, dove scorsi un circolo di bambine riunite a fare merenda attorno a
una fontana zampillante.
Ancora l’acqua. La visione dell’acqua a noi negata e qui ad-dolcita
da quelle bambine bionde, in divisa bianco celeste. Sono allegre ma non
chiassose. Non vidi una maestra in mez-zo a loro.
Mi fermai a una certa distanza per ammirarle con discrezione.
Ovviamente, non era la prima volta che incontravo comitive di bambini; mai, però, come in questa, avevano destato in
me tanta attrattiva.
L’ immagine di quelle bambine gioiose presto si trasformò in
visione.
Durò pochi attimi. Più fissavo la scena più vedevo sfumarne
i contorni, le sue figure inghiottite in un vortice di luce.
Tutto si vaporizzava, si trasformava in una nuvola d’oro.
In quella mattinata gelida e brumosa vidi una grande luce
che come un sole immenso mi accecò…
Capitolo Primo
Il primo incontro con Monica
Una visita
Una sera d’ottobre del 1984 vennero a trovarmi (a Joppo-lo),
la signora Elena D’Amico e il marito per chiedermi d’in-tercedere presso
l’Ambasciata rumena di Roma in favore del-la loro pratica di adozione di un
bambino di circa quattro anni.
Tutti i passaggi erano stati compiuti con successo, aspettava-no
soltanto la firma del decreto di adozione che, in Romania, è firmato
personalmente dal presidente della Repubblica, Nicolau Ceausescu, detto anche
il “conducator” del popolo rumeno.
La visita mi era stata preannunciata
da suo fratello Pippo,
avvocato e stimato
compagno di Agrigento.
Jolikè si trovava in Belgio da Klari e Lillo.
Mi parlarono del loro problema con angoscia e speranza.
Nella loro casa di Palermo tutto era pronto per accogliere il piccolo che
chiamavano “nostro figlio”.
Attendono, di mese in mese, la firma di questo benedetto
decreto che non arriva.
Soprattutto, la signora appare molto preoccupata per il suo bambino.
In lei si sommano il rammarico di non poterlo avere e la pena di saperlo in
quelle tristi condizioni di esistenza, anzi di sopravvivenza.
Tuttavia, si contiene nella descrizione; fa soltanto un
accenno ai disagi dei bambini orfani o abbandonati che affollano gli istituti
rumeni.
Forse, non desidera calcare la mano sulle responsabilità del
regime al potere al cospetto di un parlamentare del Pci, partito che mantiene
buoni rapporti con Ceausescu presidente della Repubblica e segretario generale
del partito comunista rumeno (Pcr).
Intuisco il suo disagio narrativo e la incoraggio ad aprirsi
con fiducia. Anzi, la ringrazio per avermi informato di un aspetto che non
avevo potuto cogliere visitando il paese.
Infatti, un po’ conoscevo la realtà drammatica della Romania
sia per esperienza diretta, acquisita durante alcuni viaggi, sia per le
informazioni fornitemi dal pittore rumeno Virgil Preda e da sua moglie Pannika
che vive a Budapest.
Una situazione allarmante, inimmaginabile in Occidente, che segnalai, mediante un dettagliato
rapporto, agli organi di dire-zione del Pci.
La signora, rasserenata, racconta altri episodi relativi
alla triste condizione dei bambini negli ospedali e negli istituti.
A un certo punto, estrae dalla borsa una foto e me la
mostra, dicendomi, a mo di didascalia:
“Vede questa bambina?
Si chiama Monica ed è nata mentre noi eravamo laggiù. L’ho vista portare dalla
sala parto al reparto maternità dell’ospedale. E’ bellissima, guardi. Noi non
possiamo adottarla perché mio marito ha superato il limite massimo dell’età
previsto dalla legge italiana. La porto sempre con me chissà dovessi incontrare
una coppia di amici che vorrebbero adottarla”
“Mi faccia vedere, per
favore”
Fisso quella bimba dalla carnagione bianca, tutta contenta
di venire al mondo e ne sono attratto.
Dico alla signora:“Ma
lo sa che noi non possiamo avere figli? Non abbiamo pensato all’adozione. Ora…
non so. Mia moglie si trova in Belgio. Appena torna gliene parlerò”.
Quella sera ci lasciammo così.
Tornato a Roma, mi recai all’ambasciata rumena per incon-trare
il dottor Monda, funzionario addetto alle relazioni col Parlamento (anzi con i
parlamentari), il quale mi promise il massimo impegno per “urgentare” la firma
del decreto in favore dei coniugi palermitani.
Ai primissimi di novembre, con Jolikè, nel frattempo tornata
dal Belgio, andammo a trovare la signora D’Amico per informarla dell’impegno
assunto dal dottor Monda in loro favore.
La loro casa è in un quartiere nuovo di Palermo, nei paraggi
della Fiera del Mediterraneo.
Chiedemmo di mostrarci la
foto di quella bambina. Anche Jolikè ne restò colpita, calamitata. A questo
punto, doman-dammo alla signora come e con chi, in Romania, potremo prendere i
necessari contatti per chiedere l’adozione.
La signora ci parla dell’avvocato Petrescu, tanto bravo ed ef-ficiente.
“Arriva dovunque-
dice- Apre tutte le porte tranne una:
quella dell’ufficio del Presidente. Lì non arriva. Perciò, non abbiamo avuto il
decreto di adozione”
Domandammo l’indirizzo,
il numero di telefono per contat-tarlo. Gentilmente, la signora propose di
chiamarlo subito per stabilire il contatto con noi.
Una mezzoretta, il tempo del collegamento internazionale, e
udiamo la voce dell’avvocato Petrescu contento di fare la nostra conoscenza e
di mettersi al nostro servizio per avviare la pratica di adozione di Monica.
Per lui è una nuova “pratica”. Per noi è un dono supremo che
già vedo scorrere nella mia mente in una veloce successione d’immagini: il suo
arrivo nella nostra casa, le cure per nutrirla, curarla, per vederla crescere,
correre per le vie del nostro villaggio: e poi la scuola, il lavoro, la
vita…Seguendo i nostri percorsi, per i
sentieri del mondo.
Un po’ questa è l’idea che ci facemmo di Monica dopo il primo
approccio con l’avvocato.
Per noi quella voce lontana, suadente e invisibile, aveva acceso
una luce, era come la chiave che riapriva la porta della speranza.
Fango, freddo e fame nel reame di Nicolau Ceausescu
Alla stazione “Keleti”
di Budapest fa un freddo cane.
Con Jolikè siamo in partenza per Bucarest per andare a cono-scere
Monica e prendere i necessari accordi con l’avvocato.
L’Orient – Express partirà alle 11,45: in 24 ore ci porterà
nella capitale del reame di sua maestà il compagno Nicolau Ceausescu.
Viaggiamo in una cabina
di vagone-letto a dir poco demodé. I vecchi velluti rossi, sgualciti in più
punti, brillano di una luce impropria, ambigua. Probabilmente, effetto del
riflesso ebur-neo degli unti attaccati alle pareti.
Insomma, nulla a che vedere col mitico, elegante treno des-critto
da Agata Christie.
Il nostro convoglio non trasporta ricconi, avventurieri,
spie, e dame stravaganti, ma solo un carico di umanità in pena che si può
consentire, con nove dollari e una sporta con birra e panini, il lusso di
viaggiare in wagon - lit.
Il confort difetta, in compenso il paesaggio è magnifico:
una infinita distesa di neve che si conforma all’orografia dei luoghi. La neve
e la luna accendono la gelida notte rumena.
In questi giorni, un’eccezionale ondata di gelo e di neve si
è abbattuta sull’intera Europa.
Per i metereologi è la più fredda del secolo.
In alcune regioni carpatiche, le temperature raggiungono
(anzi scendono) i – 20 gradi.
Al confine magiaro-rumeno il treno si ferma per una lunga
sosta. Attraversare questo varco è sempre più complicato a causa dei rapporti
molto tesi fra Ungheria e Romania ossia due paesi socialisti-fratelli che,
però, si guardano in cagnesco.
A farne le spese sono i viaggiatori, specie gli ungheresi in
entrata in Romania, costretti a subire controlli esasperanti, davvero
eccessivi.
Verso di loro, i rumeni si mostrano pignoli, perfino
insolenti. Non so se vi sia reciprocità di trattamento. In ogni caso, è un
comportamento davvero indecente, fra due
paesi socialisti.
Pannika ci ha raccontato che, nei giorni fra Natale e
Capodanno, a questo stesso varco i rumeni hanno bloccato e rinviato indietro
lei e un‘altra ventina di viaggiatori magiari.
Stava andando a Bucarest per festeggiare il capodanno col
marito, Virgil Preda famoso pittore e nostro amico.
Vere e proprie vessazioni mirate a scoraggiare le visite ai
magiari che vivono in Romania, soprattutto in Transilvania.
Vediamo qualcuno scendere dal treno e avviarsi per i marcia-piedi
con le valige in mano.
Sono arrivati a destinazione o sono stati rinviati al punto
di partenza?
Jolikè non ha problemi giacché viaggia con il passaporto ita-liano
e, come me, ha un visto di servizio rilasciato dall’am-basciata rumena in
Italia.
Nonostante l’intoppo alla frontiera, il treno arriva a
Bucarest in perfetto orario.
Nella mattinata abbiamo
attraversato i Carpazi, i loro stupen-di paesaggi imbiancati, i boschi di
conifere, i piccoli villaggi sommersi dalla neve dai quali emergevano tanti
comignoli fumanti e un campanile.
Neve, tanta neve, un deserto di neve e di ghiaccio e una
dis-tesa di pastrani e di colbacchi neri. Questa è la Romania che ci viene
incontro, che ci accoglie alla Gara du Nord della capitale.
In linea con le previsioni, a Bucarest il termometro segna
meno 20 gradi.
Troviamo ad attenderci Virgil sorridente e impettito, col
suo naso rosso mezzo congelato. Ci abbracciamo e con lui inizia la nostra
avventura a Bucarest.
Primo problema: trovare un taxi per raggiungere l’albergo
Minerva dove siamo prenotati. La stazione è affollatissima di gente in
movimento o in attesa.
Fuori, nel parcheggio dei taxi, non c’è una fila ordinata,
ma un assembramento caotico e nervoso.
Ogni tanto arriva un taxi, scassato e sporco di fango, e si
scatena la ressa per accaparrarselo.
Saremo una settantina di persone e ognuno ritiene di essere
il primo. Tutti primi, nemmeno un secondo, un terzo…
Ed essendo tutti primi, nessuno vuol cedere all’altro la
prio-rità. Si accendono discussioni, veri e propri alterchi conditi di
parolacce e spintoni.
La ressa rischia di degenerare in rissa.
Virgil è visibilmente imbarazzato, mortificato per quelle
scene. Egli è un uomo mite, ben educato e non prova nemmeno a mischiarsi in
quella ressa per un taxi.
Ci dice di attendere sotto la pensilina con i bagagli. Lui
sarebbe andato a cercare, fuori della stazione, un’auto privata.
Lo vediamo girare intorno piuttosto smarrito; dopo una
diecina di minuti tornare senza auto.
Gli propongo di prendere un filobus. Lui vorrebbe insistere
per il taxi ma, data la situazione, acconsente alla proposta.
Per raggiungere la piazzola del bus bisogna attraversare,
con le valigie in mano, una palude di fango e di neve.
Riusciamo a raggiungere un filobus sgangherato, sporco,
freddo e molto affollato. Facciamo tre o quattro fermate e scendiamo in piazza
Università dove Virgil ci assicura sareb-be stato più facile trovare un taxi.
Ma anche qui è difficile. Finalmente, riusciamo a prenderne
uno al volo e raggiungiamo l’albergo Minerva, vicino alla piazza della
Vittoria.
Nel centro, la toponomastica si fregia di nomi altisonanti
(Progresso, Rivoluzione, Vittoria, Arco di trionfo, eroi a bizzeffe, ecc) che si
contraddicono con la misera realtà “fattuale”, direbbe Sciascia.
Luci di nomi che illuminano i dissesti del regime e rendono
più indigesta questa dittatura personale contrabbandata per socialismo.
La razione mensile
Il povero Virgil è ancor più
triste perché non ha potuto festeggiare
il Capodanno con la sua cara moglie Pannika.
Il Capodanno è passato, ma lui desidera
festeggiarlo lo stesso, con noi. Perciò, ha insistito che andassimo nel suo
atelier dove ha preparato uno spuntino e una bottiglia di vino bianco.
Di fronte all’invito a pranzo di
un rumeno nasce nell’invi-tato un serio problema di coscienza.
In genere, l’abbiamo sempre
declinato per timore di sottrarre all’anfitrione (si fa per dire!) una parte
preziosa della propria razione alimentare.
Ne avemmo contezza due anni fa in Transilvania, dove con
Jolikè andammo a visitare la regione, in gran parte abitata dalla minoranza
magiara, e in particolare una cugina di sua madre, anch’essa originaria di
queste contrade.
Era una sera di agosto del 1983 quando giungemmo, in auto, a
Cluj, grande città capoluogo della regione, dove vive la zia Jolanda Nagy con
un figlio ingegnere. L’altro, sposato, lavora all’estero.
Cerchiamo un telefono per avvisarla del nostro arrivo e pren-dere
accordi per vederci l’indomani.
Le strade sono buie e deserte; solo al centro c’è po’ d’illumi-nazione.
Non si trova un telefono pubblico: per fare una telefonata urbana bisogna andare
in un albergo, dove tutto è sotto controllo.
La zia è tutta contenta nel saperci arrivati ma anche un po’
imbarazzata per non poterci ospitare per la notte; non può farlo poiché, non essendo noi parenti di primo
grado, la legge lo vieta tassativamente.
Cerchiamo una camera in alcuni alberghi del centro. Sono tutti
al completo. Troviamo posto in un camping fuori città.
Mangiare qualcosa manco a parlarne. Tutto chiuso. Pazienza,
salteremo la cena.
L’indomani mattina visitiamo alcuni quartieri della città
antica. Quasi tutte le persone che incontriamo parlano la lingua ungherese,
come dovunque in Transilvania dove il 90% della popolazione è di origine
magiara.
A seguito del passaggio della Transilvania alla Romania
avvenne nel 1919, in
attuazione del Trattato di pace di Trianon, moltissime famiglie furono divise,
smembrate, allontanate, distrutte.
Verso mezzogiorno arriviamo a casa della zia di Jolikè.
Incontro davvero emozionante fra le due donne che non si erano mai viste prima.
Come mia suocera (Ilona),
anche questa vecchia signora appartiene alla nobile famiglia dei Szekely di
Turba.
Szekely, dal latino
“siculis”, sono detti dai rumeni “siculi” per designare la loro appartenenza
all’antica tribù dei Siculi i cui attuali discendenti sono concentrati in
Transilvania e in Voivodina.
Le origini di questo popolo sono ancora incerte. Tuttavia,
non è da escludere che da esso derivi il ceppo presente nell’Italia
settentrionale, un gruppo dei quali discese verso il sud, giun-gendo in Sicilia
dove s’insediarono stabilmente, fino al punto di dare il loro nome all’Isola.
Se così fosse davvero,
sarebbe una sorprendente combinazio-ne per la nostra famiglia siculo- magiara!
Chiediamo a Jolanda notizie del figlio Gaby, l’ingegnere.
Ci dice che era uscito la mattina presto per andare a
ritirare la razione mensile di carne ossia un pollo e chilogrammo di maiale. Oggi è il loro turno.
Guai a saltarlo!
La signora è mortificata perché avrebbe voluto preparare per
noi un brodino di pollo, ma Gaby non si vedeva e senza il pollo non si poteva
fare il brodo di …pollo.
Si erano fatte le due del pomeriggio e ancora l’ingegnere non
era rientrato. La zia tirò fuori dal frigo tre peperoni ripieni di riso e tre
fettine di pane e li portò a tavola. Uno a testa.
Insistette perché accettassimo il suo pranzo. Verso le tre,
mentre stavamo alzandoci da tavola, arrivò, trafelato, Gaby con una borsa ben
stretta al fianco.
“E’ arrivata la carne.”-
sospirò la signora - “Stasera venite a
cena, preparerò un piatto tipico a base di carne e funghi…”
Rifiutammo seccamente l’invito, poiché non potevamo sot-trarre
a quella gentile vecchietta nemmeno un grammo della sua razione mensile.
Madre e figlio ci restarono un po’ male, ma non so fino a
che punto.
La miseria, a volte, può far diventare avari, inospitali.
Non era il caso loro. Tuttavia, la situazione mi ricordò la
nostra “scarsizza”, agli inizi degli anni ’50, quando la carne, di seconda o di
terza scelta, si poteva mangiare soltanto la domenica. Il prezioso fagottino lo
portava mio padre di ritor-no da una settimana di duro lavoro nelle vigne della
marina o nei cantieri stradali dell’interno.
Persino mangiare un uovo era un problema. In casa nostra
c’era un solo uovo per due bambini: io di circa tre anni e mia sorella Zina di
poco più di uno.
Zina era “spitittata” ossia non aveva appetito e rischiava
di ammalarsi gravemente. A quel tempo, la mortalità infantile mieteva vittime a
migliaia.
Mia madre, per assicurarle un minimo di proteine, destinò
quell’uovo a lei che, però, lo rifiutava.
Io, che non avevo problemi di appetito, fui “indirizzato”
ver-so il pane e la pasta. Dunque, per me niente uovo.
Una decisione per me incomprensibile tanto più che “quella”
non lo voleva mangiare, lo sputava addirittura.
E così, ogni mattina la solita scena: mia madre, disperata,
che invogliava, supplicava la figlia per farle inghiottire un cucchi-aino di
uovo “cirusu” (alla coque) ed io che mi aggiravo nei pressi con la malcelata
speranza che lo rifiutasse o ne man-giasse solo un po’ poiché il resto sarebbe
andato a me.
Zina lo sputava e mia madre quasi piangeva, mentre io,
intimamente, ne gioivo pensando a quel mezzo uovo che mi sarei beccato.
A quel tempo, in Sicilia non c’era il razionamento
alimentare, ma una povertà diffusa, implacabile, più odiosa dei decreti di
Ceausescu. La nostra miseria, infatti, non era frutto di un er-rore politico,
ma conseguenza di una feroce esclusione socia-le. E’ passato tanto tempo ma ne conservo,
vivissimo, il ricor-do.
Ma torniamo in via Doammei, a Bucarest, dove con Virgil
brindiamo all’Anno nuovo e alla salute sua, nostra, della bambina e di Pannika.
Il nostro amico inizia a parlarci della grave situazione
della Romania e delle nefandezze di Ceausescu e “della sua banda al potere”, così chiama i membri dell’ufficio
politico del partito.
L’incontro con Monica
Squilla il telefono. E’ l’avvocato Petrescu il quale mi dice che
dobbiamo recarci, con urgenza, all’ospedale per vedere la bambina.
Viene a prelevarci in taxi. Andiamo a scomodare, nel suo
ufficio, la signora direttrice, dr. Siminescu, la quale, nono-stante fosse di
riposo, gentilmente si presta ad accompagnarci al reparto maternità.
L’avvocato mi aveva preavvisato di portare qualche regalo
per la direttrice e per le assistenti.
Consegno alla dottoressa due borse di regali vari che lei
accetta con signorilità. Le nasconde sotto il tavolo e chiama un’assistente
alla quale ordina di portare la bambina.
Dentro un piccolo involucro di panni usurati c’è una
bimbetta molto bella che sembra in buona salute.
Restiamo colpiti da quella meraviglia di bambina con le
manine incrociate e gli occhi rivolti verso il cielo che non c’è.
Per prima cosa, Jolikè la cambia e le fa indossare il
vestitino, la cuffietta e le scarpine di lana. Poi la prende in braccio e me la
mostra.
E’ Monica, la piccola Monica che, con gli occhi, cerca la
madre e non la trova. O forse, oggi, l’ha trovata? Non si sa. Noi lo speriamo,
ardentemente.
Ci mostrano la cartella sanitaria. A parte i dati anagrafici
non ci si capisce nulla.
Anch’io la prendo in braccio perché desidero sentire il suo
odore di bambina, provare quella sensazione di paternità fino ad oggi negata.
Monica mi sorride. Per me il suo sorriso è più del decreto
di adozione. Ci siamo capiti. La do in braccio a Jolikè che si commuove
visibilmente.
Non possiamo stare a lungo, la bambina deve tornare in
reparto. Tentiamo di fare alcune foto, ma quel maledetto flash fa le bizze.
Alla fine qualcuna viene.
Il primo incontro con Monica
Lasciamo la stanza con un’ottima impressione della bam-bina.
E’ questo ciò che conta. Molto di più della piaggeria dell’avvocato.
A questo punto, è necessario dire due parole sull’avvocato
Petrescu.
Certo, egli offre la sua consulenza legale per mestiere, per
soldi, tuttavia mi pare di cogliere nel suo animo, anche quando si mostra un
po’ avido, un fondo di umanità a tutela di quei bambini abbandonati o orfani.
Se non capisco male, il suo programma è quello di tirare
fuori dagli istituti il maggior numero di bambini, per sottrarli ad una
condizione e a un futuro davvero drammatici e affidarli,
mediante l’adozione, a coppie, in genere benestanti, di
Paesi occidentali, prevalentemente italiane, francesi e tedesche.
Talvolta, si mostra esoso, petulante, ma forse così deve
essere per svolgere al meglio il suo lavoro in quelle circostanze.
Parla discretamente l’italiano e si dichiara appartenente
alla grande famiglia latina.
Per apparire più convincente, aggiunge di essere cattolico
praticante e cita spesso passi dei vangeli. Amen.
Col suo linguaggio ossequioso, levantino ci istruisce sui
vari passaggi che dovremo affrontare e sui relativi regali da con-segnare, a
ogni passaggio. Senza regali non si passa o si pas-serà molto lentamente.
E’ molto crudo e diretto in queste cose. Mi verrebbe voglia
di lasciar perdere e tornare a casa.
Ma, dopo aver visto quella bambina, non potrei più farlo.
Dobbiamo stare al gioco dell’avvocato e di altri che incon-treremo strada
facendo.
Sempre in taxi, ci riaccompagna all’hotel e ci da appunta-mento
per domattina alle otto per andare dal notaio.
La dittatura rumena: non è il nostro socialismo
Arriva Virgil per ricondurci nel suo atelier dove conti-nuare
il pranzo e la conversazione interrotti dalla telefonata dell’avvocato.
La sua è una narrazione interminabile di errori politici, di
abusi e malefatte compiuti dal regime. Davvero allucinante il suo racconto.
Forse esagera. Spero che esageri.
Altrimenti, si dovrebbe prendere atto che in Romania al pote-re
non c’è un partito comunista, ma una dinastia di satrapi che si sono
impadroniti del paese.
La situazione economica e finanziaria sono allo sfascio. Le
conseguenze, durissime, le paga il popolo in termini di ridu-zione di consumi e
di servizi. Tutto è razionato. Eccetto i fiori e i fagiolini in scatola
importati dalla Bulgaria. E anche i libri di Ceasusescu e di sua moglie Elena.
A Bucarest, solo queste merci si possono acquistare libera-mente e senza limiti.
Virgil ci presenta un quadro indicibile, segnato dalle
ristrettezze economiche, alimentari e dalla mancanza assoluta di libertà
politica e culturale, sotto un regime personalistico, poliziesco e liberticida.
Le cose che lui dice
confermano quanto avevamo visto e sen-tito nel corso del precedente viaggio in
Transilvania, fra quel-le montagne bellissime e cariche di storia, che in
Occidente conosciamo solo per sanguinarie gesta cinematografiche del principe Vlad
ossia Dracula.
Il recente congresso del PCR si è concluso con una parola
d’ordine militaresca, dettata da Ceausescu in persona:
“Ordine, disciplina,
lavoro e responsabilità fino al 2000”.
Dopo, per il paziente popolo rumeno si schiuderà un’epoca di
prosperità, di benessere generale e duraturo.
Da oggi al 2000 ci sono quindici lunghi anni di sofferenze.
Mi domando: in quali condizioni il popolo rumeno arriverà a
questo fatale appuntamento con la storia?
Appare evidente che la situazione sia alla deriva, in preda
della degenerazione di un tiranno.
La Romania
è un caso isolato o i virus dello strapotere, della povertà e dell'illibertà
sono penetrati in altri paesi sedicenti “socialisti”?
Per quanto si sa, quello rumeno è il caso estremo di una
cate-na unica e debole in più punti.
In ogni caso, non è questo il socialismo che noi abbiamo
immaginato, per il quale lottiamo!
Che cosa resterà dell’idea di socialismo quando i rumeni si
saranno liberati di questa tirannia?
Temo che persino la parola “socialismo” scomparirà dal loro
vocabolario.
Cerco di confortare Virgil con frasi di circostanza:“Bisogna sperare, prima o poi, finirà.” Che
altro avrei potuto dirgli?
Virgil Preda, Il
cavaliere e la notte, collezione personale
“Ma quando?”
replica lui che, nonostante tutto, si sente ancora comunista: “I compagni italiani devono conoscere le dimensioni della tragedia del
popolo e del partito rumeni”.
In hotel troviamo i coniugi Enza e Michele Errore di
Agrigento, venuti a Bucarest per conoscere Loredana, la loro bambina e per prendere
accordi con Petrescu.
Enza è figlia di Mariano Burgio, di famiglia joppolese impa-rentata
con la nostra.
Ci chiedono notizie dell’avvocato; vogliono sapere come
comportarsi con lui e con altri.
Anche se lo conosciamo da poche ore, li rassicuriamo: ne
abbiamo avuto una buona impressione.
Usciamo insieme alla ricerca di un ristorante per la cena.
Fuori, però, ci attendono fango e neve e freddo che, di notte, raggiunge
temperature polari.
Impossibile avanzare. Ci rifugiamo nel primo ristorante aperto
che incontriamo: il Lido.
E’ ben riscaldato, e già questo è un pregio raro. La cena è
allietata da una piccola, assordante orchestrina. Si mangia male, ma in
compenso la musica è gradevole.
Gli Errore ci mostrano la lista dei regali portati su consiglio dell’avvocato.
Notiamo che è più lunga e più ricca della nostra. Anche la
somma (in dollari) richiesta per l’onorario è più alta.
E’ il caso di concordare una linea comune di comportamento
per non farci spellare troppo dall’avvocato e dalla corte che gli gira intorno.
Insomma, occhi aperti, sapendo però che il gioco lo fa lui e
a questo gioco bisogna stare.
Ritorniamo in taxi in hotel. Il taxista al posto dei lei
(moneta rumena) ci chiede un pacchetto di sigarette americane.
Dollari e sigarette americane
Sveglia alle sette
e colazione in hotel. Chiedo del latte, ma il cameriere risponde che “per il
momento” non c’è latte. Il pane è duro e
friabile, forse è stato scongelato e ricongelato più di una volta.
Inutile lamentarsi. Non siamo a “Chez Maxim”, ma in un paese alle prese con una drammatica crisi
alimentare; di più non si può pretendere.
E’ giusto così, anche perché ci aiuta a capire il dramma del
popolo rumeno.
Prendiamo i documenti e la borsa con i regali e ci
prepariamo per recarci nell’ufficio del notaio.
Viene a prelevarci Petrescu con un taxi, anche stavolta guida-to
da una donna.
Sembra che al volante egli preferisca solo belle ragazze.
Ieri c’era Genoveffa, oggi Maria che, per altro, parla molto bene l’italiano.
L’avvocato ci mette fretta poiché il notaio ci sta aspettando
e dopo di noi dovrà accompagnare gli Errore all’ospedale, dove conosceranno
Loredana.
Nonostante la fretta, è sorridente e galante. Si scappella
più volte dinnanzi alla “signora”
(Jolikè) alla quale porta i saluti della sua consorte che- promette- ci farà conoscere.
Sul taxi gli consegno la borsa con i regali per lui e per la
sua gentile signora, per l’appunto. Insacca e mi ricorda il cadeau per il
notaio che si è mostrato tanto disponibile.
Gli mostro una bella penna stilografica, sperando che sia adeguata al rango e alla prestazione. Dice
che va bene. Se potessi aggiungere qualche pacchetto di sigarette ameri-cane
andrebbe meglio.
Purtroppo, con me non ho sigarette. Va bene lo stesso.
Entriamo in un palazzone che tanto somiglia a un tribunale.
E’ ben riscaldato e pieno di gente: impiegati, guardie, avven-tori e forse
anche tanta povera gente che -mi pare- finga di fare la fila solo per starsene
al calduccio.
In quella baraonda, l’avvocato si trova a suo agio, si muove
agile e sicuro come un pesce nell’acqua. Supera tutte le file (ce n’è una
dietro ogni porta), gli sbarramenti di uscieri in divisa postati agli angoli
dei lunghi corridoi, saluta tutti, sorride e passa avanti, entra dappertutto. E
noi che stentiamo a stragli dietro.
Finalmente si ferma dietro una porta con la scritta “Notar”.
Dentro quel palazzone cerco Kafka, ma non ne trovo traccia.
Non c’è quell’atmosfera inutilmente pignola creata dalla burocrazia del
castello, ma solo un turbinio burocratico, una confusione generale nella quale
ciascuno cerca di prendere qualcosa per se stesso.
Per noi tutto è facile, agevolato, “urgentato” come dice
l’avvocato. In Romania, è molto in voga il verbo “urgentare” (equivalente del
nostro “urgenzare”, caduto in disuso).
Più che un verbo è una parola magica, un chiave segreta che,
se ben oleata, apre le cento porte del potere della coriacea burocrazia rumena.
Infatti, nemmeno il tempo di accomodarci in anticamera, che
spunta l’avvocato, sempre ossequioso verso la signora, che ci introduce dal
notaio.
Ci accoglie un funzionario sui 45 anni, alto e gentile, dai
modi affettati, che ci fa firmare alcuni moduli già riempiti.
Nel salutarlo e ringraziarlo, gli porgo il piccolo involucro
con il cadeau, scusandomi di non avere potuto fare di più per via delle
limitazioni doganali.
Lui gira il pacchetto senza profferire parola (nemmeno
ringrazia), insacca e dice solo “bon ,
bon” .
Usciti dalla stanza del notaio, l’avvocato mi chiama da
parte e mi fa un discorsetto.
“Sa, io ho delle
spese. Chinnici l’avrà informato, vero?”
Metto la mano in tasca e gli porgo una busta con 500 dollari
Usa. Lui afferra, rapido, e precisa che è solo un acconto.
Mentre ci spostiamo in taxi verso l’ospedale, Petrescu cerca
di giustificare le esose richieste di denaro e di regali.
“Io devo essere molto generoso con tutti,
tutto il mondo aspetta da me qualcosa…senza regali questi documenti, queste
firme si fanno dopo settimane, dopo mesi. Invece, lei in un solo giorno fa
tutto”.
In effetti, così stanno le cose.
Jolikè chiede se in futuro si potrebbero avere noie,
pressioni da parte della ragazza madre della bambina che, a quanto lui dice,
conosce le nostre generalità e il nostro indirizzo.
L’avvocato ha come uno scatto d’ira: “Lei mi offende nella mia onorabilità, nella mia professionalità.
Questo è un problema mio. Lei non ha fiducia in me…”
La reazione mi sembra eccessiva, intervengo per placarlo,
per fargli superare l’impuntatura.
Dopo pochi minuti, tutto sembra essersi chiarito. Petrescu è
calmo, ma continua a ripetere: “Voi
dovete affidarvi a me che sono il vostro avvocato; la fiducia deve essere
totale, completa”.
E noi a rassicurarlo che
la nostra fiducia era piena, totale.
Chiediamo a Maria di
accompagnarci all’ospedale, a vedere
Monica. Durante il tragitto racconta episodi del suo viaggio in Italia e in
Sicilia e ci informa su taluni aspetti della realtà sociale del Paese. I
salari, gli stipendi mensili oscillano fra i 2.000 e i 2.500 lei, equivalenti a
circa 200 dollari.
La fame di dollari Usa e
di valuta straniera deriva dal fatto che sono necessari per viaggiare
all’estero e per comprare qualcosa di “sfizioso” negli shopping degli alberghi.
Anche Maria ha fame di dollari; ci propone un cambio a 25
lei per un dollaro ossia il doppio di quello ufficiale.
All’ospedale con il borsone
Giunti all’ospedale, la dottoressa Siminescu ci conduce nel
seminterrato per fortuna riscaldato dove, ai lati di un corrido-io buio, si
aprono tante piccole celle.
Ci prega di attendere in una di queste, stretta e quasi
priva di luce. Dopo qualche minuto, arriva un’infermiera con Monica.
Jolikè la prende in braccio e le dice qualcosa, le parla.
Sembra che la bambina avverta la sensazione di affetto tras-messale
con le parole, con il contatto fisico.
Risponde con un sorrisino alle nostre carezze.
L’infermiera rimane lì, in attesa. Sorride anche lei, pare
inte-nerita da quella scena che un po’ somiglia a quelle che si svolgono
durante i colloqui in carcere dove i parenti in visita possono scambiare saluti
e qualche effusione col detenuto en-tro un tempo stabilito e sotto osservazione
del custode peni-tenziario.
Anche per noi il tempo è scaduto. Arriva la direttrice alla
quale l’infermiera consegna i regali che le aveva dato Jolikè.
Lasciamo quella cella cupa. Altre infermiere si avvicinano e
ci fanno capire che desiderano un regalino anche loro.
Purtroppo, il borsone l’avevamo già svuotato.
Nei dintorni si aggira anche qualche puerpera che ci guarda
con occhi sbarrati e tristi. Non riesco a decifrare quello sguardo. Mi assale
un vago senso di colpa.
Ma la colpa di questo disastro è nostra o di chi lo ha provo-cato?
Noi, semmai, potremo alleviarne le conseguenze. Comunque, meglio lasciare quel
sotterraneo, quel luogo triste e tornare
in superficie, in albergo.
Ritroviamo gli Errore un po’ sconvolti per quanto avevano
visto all’ospedale. Sono contenti per Loredana, ma tutto il resto gli era parso
deprimente.
Facciamo una passeggiata verso il centro. Camminare è sempre
un’impresa ardua, difficoltosa per via delle pozzan-ghere. Tuttavia, fa meno
freddo. La temperatura è salita a – 4.
Lungo i boulevard osserviamo le vetrine, quasi vuote,
dei negozi: vi sono esposti pochi
prodotti di scarsa qualità e a prezzi troppo alti per i redditi locali.
Siamo alla ricerca di un ristorante per il pranzo. Entriamo
in uno che pare discreto, ma non è riscaldato.
Pensiamo di andarcene. Ma dove? Sembra che la terribile
austerità imposta da Ceausescu ai rumeni insegua anche noi, non risparmi
nemmeno i ristoranti in centro.
Nella grande sala ci sono pochi avventori; in un angolo un
gruppetto di camerieri infreddoliti e anche un po’ svogliati, i quali al nostro
arrivo, si muovono, premurosi e sorridenti, verso il nostro tavolo.
Non c’è menù. Il capo cameriere ci elenca due o tre piatti.
Prendere o lasciare! Prendiamo.
Una vera schifezza costata 590 lei. Un conto piratesco,
corrispondente a un quarto dello stipendio medio mensile di un lavoratore
rumeno.
A ben pensarci, noi eravamo i soli stranieri ossia una preda
molto ghiotta ed era naturale che ne approfittassero per garantirsi la paga
quotidiana.
Nel pomeriggio, torna Virgil per invitarci a prendere un
caffè nel suo atelier. In realtà, ha bisogno di parlare, di sfogarsi con
persone delle quali si fida.
Riprende la conversazione sulla situazione rumena. Aggiunge
nuovi elementi e altri incredibili episodi senza mai nominare Ceausescu che ora
chiama con uno pseudonimo spregiativo: Nerone.
In particolare, si accanisce contro Elena/Poppea ossia la moglie di “Nerone”.
Gli è particolarmente odiosa, poiché si è spinta a
teorizzare in pubblico la sostanziale inutilità degli artisti plastici rumeni,
cioè sua e dei suoi colleghi di via Doammei, che “non produ-cono ricchezza per la nazione e pertanto non meritano di
essere sovvenzionati dallo Stato”.
Ad eccezione dei servili autori delle grandi tele e busti
che immortalano la “divina coppia” presidenziale.
Per non morire di fame e di freddo, diversi artisti hanno
rinunciato allo loro libertà creativa per mettersi al servizio della regalità,
della gloria e della bellezza di Ceausescu e consorte.
Ovviamente, queste opere sono immediatamente comprate ed esposte nei migliori musei
rumeni.
La resistenza degli artisti plastici
In Romania non esiste un mercato delle opere d’arte. Compra
soltanto lo Stato. Le opere non gradite restano inven-dute e i loro autori
rischieranno la fame.
Taluni sono decisi a resistere, non vogliono cedere al
ricatto della banda al potere.
Virgil è uno di questi. Anche se la resistenza comincia a fiac-carlo.
Ogni tanto accusa improvvisi giri di testa e acuti crampi allo stomaco.
Sul futuro nutre qualche dubbio, spesso si chiede, mi chiede:
“Ma fino a quando potremo resistere?”
Domanda pertinente, ma nessuno può fare una previsione
attendibile.
In questi momenti, ricorda i giorni trascorsi a casa nostra,
a Joppolo, gli incontri, le visite, le belle mostre che gli abbiamo organizzato
in Sicilia (a Palermo, Agrigento, a Raffadali) che gli hanno procurato
notorietà e anche un po’ di soldi per viaggiare in Europa.
Che cosa è successo in Romania? Come mai il partito, il suo
gruppo dirigente sono così succubi dei capricci di Nerone?
Dodici anni fa, durante la nostra prima visita a Bucarest,
non c’era questo clima di terrore e di miseria.
Virgil dice che il mutamento è avvenuto con l’adozione degli
ultimi due piani quinquennali nei quali è stato sancito l’obiet-tivo della “grande Romania” ossia un incremento
demogra-fico da 22 a
32 milioni di abitanti e lo sforzo supremo collettivo per affrancare il Paese
dal debito con l’estero. Una vera follia, in controtendenza!
Ovvero l’esatto contrario di quanto fanno altri Stati i
quali aumentano il debito e cercano di ridurre, di contenere l’incre-mento
demografico.
Chi dissente da tali assurdi propositi viene prima
emarginato e poi sostituito con uomini fidati e talvolta persino eliminato
fisicamente, “con la cicuta”, dice
Virgil.
Cita il caso di un anziano fondatore del partito, membro del-l’ufficio
politico, arrestato in pieno congresso perché aveva osato criticare le scelte
di “Nerone”.
A 83 anni, quel compagno
fu ristretto in carcere dove morirà tre mesi dopo l’arresto.
Il vecchio gruppo dirigente del partito non è più al potere.
Al suo posto “Nerone” ha collocato la
sua banda familiare ossia circa un’ottantina di persone fidatissime che si sono
impos-sessate dei posti-chiave del partito e dello Stato e tengono un intero
Paese sotto il loro tallone.
Non hanno rispetto per nessuno. Due anni addietro, è stato
represso nel sangue uno sciopero di minatori ossia la cate-goria considerata la
punta di diamante della classe operaia rumena.
La gente ha paura di manifestare il dissenso. Preferisce
subire in silenzio.
Alberi nudi
Mentre così parlava, sopraggiunse Katy, una sua amica
pittrice, che fa parte della “congiura” degli artisti plastici.
La signora è impaziente di dire la sua. Ci racconta un epi-sodio,
da psicodramma, andato in onda la notte di Capodanno.
Come da tradizione, prima
del discorso televisivo di Ceause-scu, dovevano esibirsi alcuni tra i più
famosi cantanti rumeni.
Quest’anno, non ci sono state esibizioni individuali ma solo
un coro umiliante e un po’ pacchiano che ha suscitato sconcerto e disappunto
nei telespettatori.
Lei ha avuto modo di parlarne con il regista della trasmis-sione
il quale, mortificato, ha chiarito di non essere stato lui l’autore di quella
scelta infelice, ma di avere subito un ordine venuto dall’alto.
“Basta con il divismo,
si canta in coro” fu questo l’ordine.
Poiché, a “Nerone”
dava fastidio la popolarità di alcuni cantanti, perciò meglio annegare la loro
voce nel coro.
Quella notte soltanto lui, poteva permettersi un assolo in
televisione….
La pittrice ha portato un ottimo dolce di Natale fatto in
casa che assaggiamo con gusto.
Alle pareti dell’atelier vi sono alcune tele di Virgil
esposte in una recente mostra intitolata “Capricci
siciliani”.
I colori sono
interessanti, per me inediti. Dalle forme molto sfumate, ambrate, eleganti,
affiora una Sicilia da sogno che purtroppo non riscontriamo nella realtà.
Si sa che l’arte è
astrazione, in questo caso mi sembra una felice trasfigurazione!
Virgil è contento del nostro interesse e ci mostra i
bozzetti, gli schizzi presi durante il suo viaggio in Sicilia.
Per la via, compro un paio
di quotidiani per capire l’aria che tira. Semplicemente disgustosi. Sfogliarli
è davvero una sofferenza. In prima pagina, giganteggia una foto del “Conducator”
con lo scettro in mano, in terza un’altra sua foto con accanto quella brutta
cornacchia della moglie Elena.
“Madre della Romania e
dei romeni” scrivono i più rinomati poeti che ne magnificano le eccelse
virtù politiche e culturali.
Di spalla, nella prima di
“Scientia”, organo del PCR, c’è un
lungo saggio di Nicu Ceausescu il rampollo prediletto della coppia
presidenziale destinato a una fulminante carriera poli-tica, fino ai massimi
vertici del partito e dello Stato. Ovverosia alla successione dinastica.
Nell’ultimo congresso del
partito, l’erede designato è stato eletto membro supplente dell’Ufficio
politico pur conser-vando la carica di segretario della gioventù comunista.
Basta scorrere questi quattro fogli per rendersi conto del
livello di degenerazione in cui è giunto il potere in questo Paese.
Eppure in Italia, in Occidente, Ceausescu è considerato un ”liberal”,
un interlocutore privilegiato di tanti esponenti politici e capi di Stato.
Passiamo la serata in albergo a parlare e a giocare a carte
con gli Errore.
Solo Alessandro Natta la può aiutare…
Mi alzo presto. Alle otto comincerò il giro degli alberghi
alla ricerca di una fotocopiatrice per fare una copia dei visti apposti sui
nostri passaporti.
Li ha richiesti l’avvocato a corredo della pratica.
Mi dicono che una macchina del genere si può trovare solo
all’Intercontinental o all’Atheneum ossia i due migliori alberghi di Bucarest.
All’Intercontinetal le possono fare, ma devo pagare la
presta-zione in dollari. Una copia un dollaro, questa è la tariffa. In Romania,
tutti sono assetati di dollari.
Tutto si fa in cambio di dollari o, in subordine, di altra
valuta occidentale. E’ una pratica ossessiva che certo infastidisce, ma fa
anche riflettere. Se la gente preferisce la moneta stra-niera a quella
nazionale, vuol dire che in quel paese c’è un problema grande quanto il mare.
Le copie escono un po’ sbiadite ma leggibili. Con Petrescu
corriamo all’ospedale per vedere un’altra volta la bambina.
Si ripete la scena del giorno precedente: ci conducono nella
cella e ci consentono di stare solo pochi minuti con Monica.
Abbiamo portato i regali residui e li offriamo
all’infermiera che accudisce Monica pregandola di trattare con attenzione la
bambina.
L’avvocato mi comunica che a fine gennaio sarà trasferita
dall’ospedale all’istituto vero e proprio.
Non devo preoccuparmi- assicura- poiché ha già parlato con
la direttrice, che è una professoressa universitaria in gamba e disponibile, la
quale tratterà la bambina con un occhio di riguardo. Però, questo riguardo mi
costa 200 dollari, subito.
Consiglia anche di inviare alcune medicine (vitamine,
calcio), inesistenti in Romania, per somministrarle alla bambina.
Notiamo che Monica non indossa nessuna delle tre tutine che
le aveva portato Jolikè durante la nostra prima visita. Addosso ne ha una
vecchia e bucata che non è sua. O forse è la sua, quella d’ordinanza?
Temiamo che le infermiere, la stessa direttrice se le siano
già rubate e vendute.
E’ come se avessimo raccomandato la pecora al lupo.
La stessa fine potrebbero fare le medicine e tutto il resto
che manderemo per la bambina.
E’ uno schifo, ma non possiamo farci nulla. Dobbiamo stare
al gioco, sperando che finisca al più presto.
A marzo, secondo la
previsione di Petrescu, la pratica potreb-be andare al Consiglio di Stato che è
presieduto da Ceausescu in persona. Soltanto “Lui” può firmare questi decreti.
Purtroppo, lui, l’avvocato, non può arrivare così in alto.
In questo gioco di “lui”,
maiuscoli e minuscoli, si rivelano le distanze e le miserie che caratterizzano
il regime.
Per ottenere la firma è
necessario un intervento davvero auto-revole da parte di una personalità alla
quale Lui non può rifiutare la cortesia.
Gli accennai ai contatti avuti con l’ambasciata di Roma.
“Lasci perdere
l’ambasciata di Roma. L’ambasciatore è un piccolo impiegato che non potrà mai
arrivare a Ceausescu. Ci vuole ben altro! Nel suo caso, solo un intervento di
Ales-sandro Natta, il vostro segretario generale, può sbloccare la situazione”,
sostiene Petrescu.
Di ritorno verso l’albergo, il taxi si blocca dietro una fila
lunga di tram fermi sui binari, in mezzo a quel mare di fan-ghiglia gelata.
Domando la causa e la taxista (ancora un’altra donna al vo-lante!)
risponde che c’è stato un blak out,
evento piuttosto frequente a Bucarest.
I viaggiatori, intabarrati dentro pesanti cappotti e
colbacchi di lana o di pelle arricciata, sono scesi dai tram carichi di borse,
valige e quant’altro e si avventurano, a piedi, in quella melma di neve e di fango.
Il freddo, la fanghiglia, le valige di cartone, i pacchi
sopra le spalle, gli occhi sgranati, le barbe incolte, i colbacchi neri…
Una scena davvero penosa, caotica che ricorda le grandi
evacuazione che si vedono in certi film di guerra.
Vagano incerti come anime in pena, dando vita a tanti
piccoli esodi senza una meta.
Bucarest è crollata, non ha retto di fronte a questa
eccezionale ondata di freddo polare.
Con Jolikè andiamo a mangiare qualcosa in un self-service lì
vicino. Si paga poco, ma il cibo è immangiabile. Difatti, non mangiamo quasi
nulla. Prendiamo solo il dessert.
Eppure, noto che in quel lurido posto la gente mangia di tutto
e con appetito. Evidentemente, non si possono consentire il lusso di saltare un
pasto.
Austerità ferroviaria
Alle 14 rivediamo Virgil che ci accompagna a visitare
il museo della città di Bucarest e quello della Repubblica rumena.
Vi sono esposte interessanti collezioni che vanno dal neoliti-co
al medio evo. Soprattutto, colpisce la ricchezza e lo sfar-zo del tesoro,
custodito nel museo della Repubblica,
dove sono state allestite mostre speciali in onore di Ceausescu.
Chiediamo di poterle visitarle, ma ci dicono che sono mo-mentaneamente
chiuse al pubblico perché in fase di rialles-timento per inserire alcuni nuovi
trofei ricevuti dal “condu-cator”.
Torniamo in albergo per prepararci alla partenza per Buda-pest.
Il treno partirà alle 18,30.
Siamo riusciti a trovare una cabina letto a ventitré
dollari. Un prezzo più che doppio rispetto ai nove che abbiamo pagato, a Budapest,
per l’andata.
Dalla piazzola antistante all’ingresso dell’albergo tento di
prendere un taxi al volo. Non ne passa uno. Saliamo su un filobus.
Attraversiamo strade e viali semibui e fangosi.
Anche il servizio di nettezza urbana è andato in tilt. Come
il filobus sul quale viaggiamo che, a circa un chilometro dalla stazione, si
ferma a causa del solito blak out.
Aspettiamo che riparta, ma non succede nulla. Rischiamo di
perdere il treno. Decidiamo di proseguire a piedi, come altri, con valigie e
borsoni.
Meno male che le nostre
due valigie sono vuote e infilate una nell’altra. Il contenuto lo abbiamo
distribuito durante gli incontri. Dentro c’era di tutto: dall’abbigliamento per
la bam-bina ai saponi, agli shampoo, ai collant, alle sigarette, al caffè, ad
alimenti in scatola, ecc. Insomma, una lunga lista di regali che abbiamo
distribuito con l’ occhiuta assistenza
dell’avvocato.
Questo ci consente di muoverci più agevolmente nel fango.
Viaggiamo leggeri e contenti di avere conosciuto Monichetta, la più bella
bambina del mondo.
La sera è gelida, procediamo a fatica nella fanghiglia. Il
treno non è al binario numero cinque come indicato nel tabellone.
Dov’è il nostro treno?
Cominciamo a cercarlo, facendoci lar-go fra una gran ressa di persone in
attesa o in movimento per gli ampi
spiazzali della Gara du Nord.
Molti si agitano incalzati più dal freddo che dagli orari.
Solo pochi riescono a muoversi in mezzo a quella massa di pastra-ni e di
colbacchi neri.
E’ la
Romania di Ceausescu che arriva e che parte. Per dove?
Torniamo al binario cinque. Il treno non c’è e la
piattaforma è ancora al buio. La quattro e la sei, invece, sono fiocamente il-luminate.
Presumo a causa di un guasto elettrico.
Un passeggero mi spiega, come la cosa più banale del mon-do,
che il cinque non è stato illuminato a causa del program-ma di austerità
ferroviaria che prevede l’illuminazione dei binari a giorni alterni, secondo
il numero: un giorno quelli pari, un
altro quelli dispari.
Oggi, la luce spetta ai pari, ai dispari toccherà domani. Evidentemente,
non l’avevo capito e lui me lo spiega:
“Lei mi ha chiesto per
il cinque …il cinque è dispari.”
Il treno arriva con un po’ di ritardo. Fatichiamo a trovare
la nostra carrozza. Finalmente, partiamo alla volta di Budapest, verso l’abbondanza
alimentare.
Pensiamo alla bambina che abbiamo lasciato. Sono deciso a
fare di tutto per toglierla di lì, al più presto.
Il convoglio avanza, spedito, in un mare di bianco imma-colato.
Fuori, la luna illumina il paesaggio alpino, gli abeti stracarichi di neve, i
campanili.
Per fortuna, la luna, a parte qualche eclissi, non subisce i
blackout! Al calduccio, dentro una cabina di wagon-lit, è davvero suggestiva,
spettacolare questa gelida notte rumena.
Ma, qui, i sogni non durano a lungo, anche sull’Orient
–Express, come pomposamente si chiama il nostro treno.
Infatti, dopo qualche centinaio di chilometri, un freddo
traditore s’insinua lentamente nello scompartimento.
Ci copriamo con tutti gli indumenti e le coperte disponibili.
Non si capisce bene da dove entra il malanno, ma lo sentiamo arrivare, lo
palpiamo con mano e… la gran parte del viaggio resta da fare.
Ispeziono la cabina e
scopro che, in alcuni punti, la guarni-zione del finestrino è usurata e lascia
entrare addirittura la neve. Intorno si è formata una striscia di gelo che
chiude malamente le fessure. Mi affaccio nel corridoio per capire meglio. La
gente è fuori degli scompartimenti, alla ricerca di un perché. Si balla dal
freddo.
Finalmente, sopraggiunge trafelato, e forse anche un po’ su-dato
(nonostante i 20 gradi sottozero), l’addetto al vagone e ci informa che il gelo
ha provocato il congelamento dei tubi del-l’acqua e di alimentazione
dell’impianto di riscaldamento.
E’ dispiaciuto, ma col treno in corsa non si può fare nulla
per eliminare il disagio. Prevede che faremo il resto del viaggio senza acqua e
senza “chauffage”.
Capitolo Secondo
Monica a casa
Monica e Loredana, un destino parallelo
30/5/85. Partiamo, con Joliké, da Fiumicino per Vienna, dove ci
imbarcheremo su un aereo dell' Austrian Airlines per Bucarest.
Atterriamo all’aeroporto “Baneasa” alle 14 e 30, in perfetto orario.
Purtroppo, si perde un po’ di tempo nell’espletamento delle formalità per via
del visto di servizio sui nostri passa-porti.
Invece che agevolare, questo tipo di visto crea quasi sempre
problemi negli aeroporti, specie dei Paesi dell’Est europeo.
Ad attenderci c’è una ragazza dell’organizzazione turistica
e un’auto con autista che ci conducono
all’Hotel Modern (Boulevard de la
Republici), vicino all’Intercontinental.
Saliamo alla camera n. 305 che troviamo invasa da un odore asfissiante
di vernice fresca.
Lasciamo le valigie e partiamo alla volta dell’ufficio dello
stato civile, dove ci attende Marta per avviare la pratica.
Attraversiamo una città nuova, luminosa, pulita; una sorta
di Bucarest ritrovata, bella e alberata, come quella vista tanti anni prima.
Marta ci viene incontro con un largo sorriso. E’ una
donna alta, biondiccia, sui trentacinque
anni, indossa una gonna piuttosto corta con un ampio spacco.
Dopo rapide presentazioni, c’introduce in un ufficio, dove
comincia a parlare con l’impiegato. Non comprendiamo quel che si dicono. Ma non
è necessario.
Sappiamo che in questi incontri la nostra presenza è solo
“decorativa”, per mostrare, fisicamente, ai preposti della bu-rocrazia
l’urgenza del problema.
Guardo quell’impiegato
con le pezze al gomito e vedo un prototipo di burocrazia universale, con la sua
mentalità oscillante fra pignoleria e corruzione.
Anche se- è bene precisare- non tutti i burocrati oscillano
fra questi due estremi.
Il problema si avverte di più nei regimi illiberali o troppo
rilassati dove il burocrate sa che più si mostra severo custode della norma più
aumenta il prezzo della sua eventuale corru-zione.
A gesti, l’impiegato ci fa capire di tornare domani per
ritirare il certificato di nascita della bambina.
Insomma, non è andata poi tanto male.
E la ragione è chiara: noi siamo degli utenti speciali,
molto speciali.
Infatti, il nostro arrivo a Bucarest è stato preceduto da
una lettera di Gian Carlo Pajetta al “Conducator” in persona.
Alla Direzione del partito mi hanno assicurato che la
lettera era arrivata a destinazione e che Ceausescu ne ha tenuto conto.
In questo periodo, i rapporti fra Pci e Pc rumeno sono buoni
per via della comune contrarietà all’installazione dei missili nucleari
intermedi all’Est come all’Ovest.
Giancarlo Pajetta
con Nicolau Ceausescu (foto da Google)
Il presidente rumeno è l’unico leader del Patto di Varsavia
che dissente dalla decisione di Mosca. Per questo è divenuto il beniamino dei
pacifisti e dei governi occidentali.
Tutti corrono a Bucarest a rendere omaggio al coraggioso
presidente che ha osato sfidare la volontà di riarmo di Mosca e la subalterna
platea dei leader degli altri Paesi socialisti.
Il suo è un pacifismo autentico o è un modo furbesco per non
far parlare della terribile situazione in cui versa il popolo rumeno?
Personalmente, propendo per la seconda opzione. In questo
senso, due anni addietro, inviai alla segreteria nazionale del Pci un rapporto
di fuoco contro il regime di Ceausescu, sulla base di quanto avevo visto e
sentito durante un viaggio in Romania.
Tuttavia, ho deciso di non farmi prendere dagli scrupoli,
per altro ininfluenti, e di usare tutte le mie conoscenze politiche pur di
togliere Monica da quell’inferno e portarla a casa.
Lasciamo quell’ufficio e corriamo (in taxi) a vedere la
bambina che si trova alla “Cresc” (Istituto di puericultura), nei pressi
dell’Arco di Trionfo.
Jolikè ha portato vestitini e giocattoli. Io, per
l’occasione, ho comprato una Rolley automatica per farle le foto.
Il giardino della Cresc è
rigoglioso, ben tenuto. Preceduti da Marta, ci immettiamo dentro un vecchio
edificio d’epoca, im-merso negli alberi.
Attraversiamo una serie di corridoi-verande e finalmente
giungiamo al padiglione in cui si trova la bambina. Nella sala vi sono due
infermiere. Monica è nel primo lettino entrando a destra. Sembra riconoscerci,
agita le manine e sorride dolce-mente. E’ avvolta in pezze di tela ruvida e
sgualcita. L’ambiente sembra salubre, ma odora di stantìo. Perfino i camici
delle infermiere sono sgualciti, corrosi dall’uso.
Fa una certa impressione vedere questa bambina bellissima,
gracile e bianca come la cera, avvolta dentro quegli stracci, sorridere e
tendere le piccole braccia verso di noi.
Immortalo la scena tenerissima con qualche foto. Scatto alcu-ne
foto anche a Loredana (Errore) che è nella culla accanto a Monica e a Sorin il
bambino assegnato alla nipote di Michele. Prendo in braccio le due bambine, che
sembrano accomunate da una sorta di destino parallelo, e me le stringo al
petto.
In fondo, Monica è mia figlia e Loredana mia parente.
Loredana Errore e Monica alla Cresc di Bucarest
Vestiamo Monica con la tutina che abbiamo portato e an-diamo
nel parco a farle prendere aria.
Stiamo più di un’ora ad ammirare quanto è bella Monica.
Bella e fragile e senza colore in viso.
La bambina mostra di gradire le nostre carezze e ricambia
con una certa affettuosità.
Siamo davvero felici di rivederla e questa volta per
portarcela con noi a Joppolo Giancaxio dove anche lei fisserà le radici. Quando
la pianta è piccola, il trapianto riesce quasi sempre.
La
Bucarest ritrovata
Telefono a Virgil Preda. Mi assicura che verrà a trovarci in
hotel per la cena.
Nell’attesa, facciamo quattro passi nei paraggi. La città ha
un aspetto gradevole; non è più quell’immensa fangaia che ave-vamo trovato lo
scorso gennaio.
Rivediamo la città conosciuta nel 1973, durante la nostra
pri-ma visita, le sue architetture eleganti, i palazzi in stile vaga-mente
rinascimentale, la città-giardino con tanti parchi, laghetti e fontane e tanto
verde per le vie.
E’ davvero piacevole camminare fra queste antiche dimore e
ville immerse nel verde. Anche il clima si dimostra amico, ospitale,
soprattutto la sera tira un’aria fresca che giunge dal Mar Nero.
Purtroppo, il delirio di grandeur di Ceausescu ha inflitto
una grave ferita al centro storico, dove sono stati cancellati interi quartieri
per far posto alla sua mastodontica e costosissima reggia.
Pranziamo in hotel con Virgil. Ci comunica che è in partenza
per Budapest a trovare Pannika ammalata.
D’altro non vuole parlare perché teme che sotto il tavolo,
nei lampadari o in qualche altro posto ci siano microfoni-spia.
Propongo di andare fuori a passeggiare e a parlare. Virgil
mi fa notare che il boulevard de la Repubblici, come l’intera città di Bucarest, sono
al buio a causa delle severe misure di auste-rità varate da “Lui” ossia da
Ceausescu che, per prudenza, il nostro amico un pittore, d’ora in avanti non
nominerà, nem-meno col precedente appellativo di Nerone.
Sappiamo che “Lui” è lui cioè il “conducator”. E tanto basta
per capirci.
D’altra parte, la stanchezza si fa sentire e preferiamo
andare a letto.
Regali coi fiocchi
31 maggio 1985.
Sveglia alle sette e di corsa alla Cresc dove ci attende la signora direttrice
che aveva espresso, a Marta, il desiderio di “conoscerci”.
Sapevamo di questo suo “desiderio” e avevamo preparato il
borsone con i regali e la busta con i dollari.
Qui non si fidano tanto della lira.
Marta mi aveva istruito, secondo le usanze: in tale ufficio
las-ciare questo o quell’altro regalino.
Il valore lo stabiliva lei in base all’importanza del
servizio e del ruolo del funzionario.
La direttrice si diffonde sulla magnanimità dello Stato nel
prendersi cura di questa massa di bambini abbandonati o orfani. Grazie alle
premure della coppia presidenziale sono stati strappati a morte sicura migliaia
di bambini.
Omette di dire che, per favorire l’incremento demografico,
in Romania è severamente vietato
l’aborto.
La sua Cresc è un istituto all’avanguardia. Passando a Moni-ca,
ci assicura che sta bene in salute, anche perché è stata trattata con tutti i
riguardi possibili.
Ci sarebbe molto da dire, ma lascio correre.
Siamo qui per portarci la bambina a casa; recriminare non
serve. Perciò, ringrazio e metto la busta sopra il tavolo.
La signora direttrice un po’ arrossisce, è sicuramente imba-razzata
o finge. Per toglierla dall’imbarazzo le propongo che ci saremmo rivisti
l’indomani.
Ci fanno vedere Monica per pochi minuti. Andiamo di fretta.
E’ Marta a sollecitare perché dobbiamo fare il giro dei vari
uffici per acquisire i documenti necessari all’espatrio.
Prendiamo un taxi per l’intera mattinata e così comincia la
corsa contro il tempo: dovevamo superare almeno quindici passaggi burocratici
entro le ore 14,00. L’indomani è sabato e gli uffici sarebbero stati chiusi.
Bisognava rinviare a lunedì, e avremo perso l’aereo prenotato per la domenica.
Marta dà le necessarie indicazioni all’autista e a me che
porto il borsone. Qui diamo questo pacco col fiocco giallo, oppure quest'altro
col fiocco rosso.
A ognuno, secondo il colore del fiocco.
Faceva tutto lei, brava e preziosa questa donna. La nostra
presenza serviva soltanto per “urgentare” la concessione del documento.
Con i rumeni tutto
funziona a meraviglia; in poche ore riu-sciamo a superare ostacoli burocratici
anche difficili. Restavano da fare ancora due, tre cose.
Giunti davanti al
cancello del consolato italiano, Marta mi dice di lasciare sul taxi la borsa
(con i regali) “con gli italiani non ce
ne bisogno”.
Mi rallegro di questa dichiarazione spontanea.
Anch’io ne sono convinto, anzi mi aspetto un’accoglienza di
riguardo poiché dal ministero degli Esteri, la segreteria di Andreotti, mi
aveva assicurato che avrebbero informato l’am-basciata della mia venuta a
Bucarest.
Volevamo avvertire il funzionario di preparare le carte
poiché saremmo ripassati, dopo aver ritirato il passaporto della bam-bina al
distretto di polizia, per chiedere il visto d’entrata in Italia.
Da dietro l’inferriata, un signore ci risponde, dispiaciuto,
di non potere fare nulla perché gli uffici del consolato sono in restauro. A
Marta che insiste, replica infastidito e con toni perfino insolenti.
A questo punto, cosa che non faccio quasi mai, gli sbatto in
faccia il mio passaporto blu di Stato e aggiungo che stasera ne avrei parlato
con l’ambasciatore Santarelli che ci aveva gentilmente invitato.
Pur di portarci a casa Monica ero deciso a usare ogni possi-bilità
derivante dal mio status.
Intanto, corriamo all’ufficio traduzioni del ministero di
Gra-zia e Giustizia per la vidimazione dei documenti.
Entro le 14,00 riusciamo
a completare il giro.
Restano da fare solo due cose: il ritiro del passaporto di
Mo-nica e il visto del consolato italiano. Ci è stato promesso che domani
mattina, anche se di sabato gli uffici sono chiusi, ce li avrebbero consegnati
entrambi.
Pago il taxi con una somma molto superiore alla richiesta.
Il ragazzo si è comportato bene. Invito Marta a pranzo con noi. Siamo stanchi,
stressati, ma soddisfatti, abbiamo fatto quasi tutto.
In tempi di razionamento alimentare, per un rumeno essere
invitato a pranzo al ristorante è un raro privilegio.
Può, infatti, consumare un pasto intero e soprattutto
mangiare una bistecca senza aspettare di ritirare la razione mensile con la
tessera.
Una condizione vergognosa, umiliante per un paese sociali-sta,
per altro con una buona agricoltura, che, invece di dar da mangiare al popolo,
esporta all’estero quasi l’intera produ-zione agricola e zootecnica per pagare
il debito e i lussi del clan al potere.
Fuori dell’hotel c’è un caldo opprimente. Mi assale uno dei
miei tremendi mal di testa. Vado a riposare mezz’ora. Alle 16,30 dobbiamo
ritornare alla Cresc a vedere la bambina.
La lettera di Pajetta ha funzionato
1/6/85. Questa di oggi dovrebbe essere una giornata me-morabile,
conclusiva: avremo Monica, per sempre con noi.
Durante la notte mi ero
svegliato più volte con un terribile mal di testa che nemmeno le mie miracolose
“optalidon” rius-civano a placare. Alle 9, 30 arriva Marta che, ormai, conside-riamo
una nostra sorella e quindi zia di Monica.
Siamo un po’ tutti più rilassati. Anche se intimamente avver-to
la preoccupazione di un imprevisto, di un intoppo che potrebbe impedirci di
concludere l’iter burocratico.
Iter vuol dire cammino, ma in questo caso è una corsa ad
ostacoli. Un solo intoppo e avremmo dovuto rinviare il tutto a lunedì, saltando
la partenza con il volo di domani.
Per prima cosa ci rechiamo al distretto di polizia dove, in
via eccezionale, ci avrebbero consegnato il passaporto di Monica.
Il distretto è allocato in una villa ombrosa nel cuore di
Bucarest, a due passi dall’ambasciata italiana. I poliziotti sono gentili: dopo
pochi minuti ci danno il passaporto. Anche questo importante passaggio
l’abbiamo superato.
Tutto è facile, veloce, per noi. Anche nelle ore di chiusura
degli uffici.
La lettera di Giancarlo
Pajetta al “conducator” ha funzionato.
Sembra incredibile, c’è
persino la foto della bambina. Esultiamo di gioia. Anche Marta è visibilmente
felice, soddi-
sfatta del suo lavoro.
Cerco di contenere l’esultanza di Jolikè, siamo pur sempre dentro un distretto
della polizia rumena.
Ci avviamo, a piedi e col passaporto ben custodito, verso
l’ambasciata. Siamo in anticipo di quaranta minuti. Per disposizione
dell’ambasciatore, gli uffici apriranno alle 11,30 solo per noi, per
rilasciarci il visto d’entrata in Italia per Monica. Nell’attesa, facciamo due
passi nei dintorni.
La vecchia Bucarest è davvero bella. Le architetture sono
lievi, eleganti. Le abitazioni sono ville antiche, contornate di eleganti
giardini, probabilmente appartenute alla ricca bor-ghesia o all’aristocrazia
dell’ancien regime.
Incontriamo un’altra Cresc. Marta ci invita a entrare. Oggi
le porte sono aperte per la festa internazionale del bambino.
Il mio pensiero corre a
Monica che si trova in quell’altra. Temo
un inghippo, un contrattempo. Sarebbe da irresponsa-bili perdere l’appuntamento
con l’impiegato dell’ambasciata.
Diamo un'occhiata alla festa già in pieno svolgimento.
Sul palco un attore-pagliaccio canta canzoncine e racconta
indovinelli a una platea di bimbi e di genitori. Oggi, la Cresc è aperta a tutti, anche
ai bambini non abbandonati e alle loro famiglie.
Nugoli di marmocchi in
maschera si accalcano verso il palcoscenico dove, nel frattempo, sono arrivati
i regali. Un’atmosfera felice come meriterebbero tutti i bambini rume-ni e del
mondo.
Non riesco a staccare il pensiero da Monica.
Dico a Marta che è ora di avviarci verso l’ambasciata.
Qui troviamo l’im-piegato del consolato che avevamo conos-ciuto
ieri. E’ seduto dietro una scrivania con la sua cassetta dei timbri.
Ancora il timbro! In questo viaggio credo d’aver capito il
valore capitale del timbro. Senza timbro non si va da nessuna parte. E noi
dovevamo andare a Joppolo Giancaxio.
Tutto si svolge in un’atmosfera irreale, in un silenzio per
tutti imbarazzante rotto dal nostro e dal suo “buongiorno”.
Gli porgo il passaporto e lui appone il timbro. “Buum” un colpo secco che rintrona nella
sala disadorna al piano terra.
Preso il visto, saliamo dal dott. La Piana che gentilmente si è
offerto di visionare la documentazione che dovremo esibire in uscita dalla
Romania e in entrata in Italia.
Nel frattempo, il signor ambasciatore m’invita nel suo
ufficio per un caffè. Parliamo della situazione interna della Romania sia
politica, ma soprattutto sociale.
L’ambasciatore, seppur con gli accorgimenti tipici del lin-guaggio
diplomatico, conferma che la situazione sociale è drammatica, al limite del
collasso.
L’inverno è stato molto duro per i rumeni. Anche per loro in
ambasciata dove si è lavorato con addosso il cappotto, perché i riscaldamenti hanno funzionato per poche ore
al giorno a causa del razionamento del carburante.
Mi dispiace per i funzionari italiani, ma a sentire questa
des-crizione il mio pensiero corre all’inverno di Monica e di altre migliaia di
bambini rinchiusi nei brefotrofi.
Come avranno fatto, poveretti, a sopravvivere in condizioni
così dure, estreme?
Monica sotto un cielo di fiori e di foglie
Finalmente, tutti i
documenti sono pronti e visionati. Possiamo partire tranquilli. Ringraziamo e
salutiamo per la gentile disponibilità. Saluto tutti, compreso quell’impiegato
del consolato che ieri ci ha un po’ maltrattati e corriamo a prendere Monica.
D’ora in avanti sarà sempre con noi.
Compro due mazzi di rose
uno per la direttrice e un altro per “zia” Marta. La signora direttrice era
visibilmente contenta nel rivederci per le rose ma soprattutto per la busta che
le ho passato con i fiori.
Un po’ di dollari che qui hanno un certo valore.
Prendiamo un caffè con le infermiere del padiglione.
Tutto di fretta, perché
volevamo prendere Monica e scappare. Trangugio quell’orribile brodaglia e
andiamo alla culletta, imbracciamo Monica e via in taxi all’albergo.
Non pareva vero.
Finalmente, la bambina era con noi, fuori di quella triste istituzione; poteva
viaggiare con noi in Italia, in Sicilia, a Joppolo Giancaxio, nel mondo.
La sistemiamo nel letto grande della camera, la facciamo
mangiare e quindi dormire. La nostra felicità è indescrivibile. Siamo
emozionati, nervosi, impappinati di trovarci in quel-l’albergo, soli, con la
bambina.
Verso le ore 18,00 si sveglia. E’ come un raggio di sole che
illumina quell' anonima camera d’albergo al sesto piano.
Jolikè le fa il bagnetto e la veste con un abitino
bellissimo, un cappellino in testa e usciamo per fare una passeggiata intorno
all’albergo, per le antiche vie di Bucarest.
Monica sta bene e sorride. E’ molto affettuosa, contenta e
curiosa. Per lei è cominciata la scoperta del mondo, di quella porzione di mondo
che le appartiene.
Sembra incantata dagli alberi, dalle loro cime frementi che
ombreggiano il viale. Per lei tutto è nuovo, anche quel cielo di fiori e di
foglie.
La serata è fresca, piacevole. Più tardi arriva Virgil che
vede per la prima volta la bambina. E’ molto contento. Ci traduce la cartella
medica che porteremo ai medici in Italia.
Faccio due passi con Virgil. Parliamo della situazione del
Partito in Romania e anche delle sue vicissitudini personali. Ci salutiamo con
un forte abbraccio. Un vero amico, un gran-de artista. Lo invito a venirci a
trovare in Sicilia. Lo vedo allontanarsi in direzione di via Doammei, verso la
sua cella nella Casa degli artistici plastici.
Noi andiamo a letto, l’indomani mattina dovremo prendere
l’aereo per Roma.
Sistemiamo Monica sopra una specie di divano adattato a
lettino, ma non riesce a prendere sonno.
Anche per lei, nell’aria c’è qualcosa di nuovo, di strano,
di bello che la rende inquieta, insonne.
Solo verso l’una di notte si addormenta. Buonanotte Mokina.
Lo zingaro grassone
2/6/85. Alle 7,30
siamo nella hall dell’albergo con la bambina. I turisti, il personale
dell’hotel la guardano ammi-rati. Ci spostiamo nella sala del ristorante per la
colazione. Alle 8,30 verrà il taxi per portarci in aeroporto. Alle 10,00
decollerà l’aereo per Roma.
In questo frangente, accade un fatto gravissimo che
rischiava di mandare a monte la partenza. Jolikè ha dimenticato sulla poltrona
della hall la sua borsa, con dentro soldi e passaporto.
All’uscita del ristorante si accorge della mancanza della
borsa. Cadiamo nella più totale disperazione.
Dopo tutte quelle corse per ottenere i documenti, a poche
ore dalla partenza, non potevamo più partire perché Jolikè non aveva più il
passaporto.
Cerchiamo la borsa, domandiamo, imploriamo il personale
dell’albergo di aiutarci. Non potevano fare nulla, la borsa era stata rubata.
Il mio pensiero corre all’ambasciata italiana. Ma alle otto
di domenica, a due ore dalla partenza del volo, nemmeno l’am-basciatore avrebbe
potuto fare il miracolo.
Sono molto arrabbiato con Jolikè che sbotta a piangere con
la bambina in grembo. Evidentemente, l’euforia, la felicità di avere in braccio
Monica le avevano fatto trascurare tutto il resto. Compresa la borsa.
La dimenticanza era
comprensibile, però ci complicava male-dettamente le cose.
Dentro la hall e fuori,
tutti ci osservano, vedono la nostra disperazione. Nel frattempo, arriva il
taxi per andare all’aeroporto. Prego il taxista di aspettare perché abbiamo il
problema del passaporto. Chiedo, di nuovo, a tutti quelli che ci stanno intorno
se avessero visto il ladro o se avessero almeno qualche sospetto. Nessuno
risponde alla mia richiesta d’aiuto. Nessuno ha visto il ladro. Dall’albergo
hanno chia-mato la polizia
Sono veramente desolato, avvilito. Mi sento impotente.
Avevo smosso le montagne per avere Monica al più presto e
ora non riesco a recuperare un passaporto. Non so che fare.
A un tratto, ricordai che, mentre eravamo seduti al
ristorante, era venuto a salutarci lo zingaro grassone del cambio nero.
Solitamente, stava nei paraggi dell’hotel per fare cambio e altre operazioni di
contrabbando. Era sempre là, fra i piedi. Ora invece non si vedeva. Lo
sospettai del furto.
Mi rivolsi ad un uomo piuttosto giovane, alto e robusto, che
si atteggiava a capo dell’organizzazione dei cambisti e gli dissi: “Trovami il passaporto di mia moglie e potrai
tenerti la borsa con il denaro dentro.
In più, se me lo porti subito, aggiungerò altri 50 dollari…”
Gli riferii dei movimenti sospetti dello zingaro grassone.
L’uomo, che pareva molto sveglio, annuì con la testa. Anche secondo lui poteva
essere stato lo zingaro l’autore del furto.
Mi rispose :“ Tu
aspettare qui, un momento”
Si consultò con due amici
e partirono per diverse direzioni.
Lo vidi scomparire dietro un cantone di strada e con lui un
po’ scomparve la nostra speranza di recuperare il passaporto. Quelli erano
amici, compari di borseggio, di cambi a nero. Magari si sarebbero messi
d’accordo su come dividersi il de-naro contenuto nella borsa o per ricattarmi e
tenermi sulle spine per l’intera giornata.
Tuttavia, rimasi in nervosa attesa, scrutando in tutte le
dire-zioni.
Non passarono nemmeno tre minuti quando spuntò da una stradina
e con la borsa di Jolikè in mano uno dei due ragazzi con i quali il capo si era
consultato. Gli corsi incontro, lo abbracciai, lo baciai e gli diedi cinquanta
dollari.
Aprii la borsa e vidi che non mancava nulla. C’erano il
passaporto, varie cianfrusaglie e le banconote in lire e perfino il cappellino
di Monica, quello con la fragolina rossa.
Jolikè piangeva, non voleva credere ai suoi occhi quando le
mostrai la borsa con dentro il passaporto. Era stato lo zingaro a rubarla. Ma
non c’era tempo per recriminare; bisognava correre all’aeroporto sperando di
poterci imbarcare sul volo per Roma.
L’incubo era finito. Eravamo dentro il taxi che correva
verso l’aeroporto dove giungemmo in orario. Passiamo i controlli senza
difficoltà e ci imbarchiamo su un aereo della “Tarom” diretto a Roma.
Monicuccia sta bene, ride. Ride spesso la bambina.
Mostra un po’ di paura quando l’aereo rulla prima del
decollo. Si aggrappa al petto di Jolikè con le sue manine bianche. Quel rumore
assordante, sicuramente a lei strano, la spaventa.
Quando giungiamo in quota, si rilassa. L’aereo fila
tranquillo nel cielo azzurro sopra i Balcani.
Per rasserenarla ancor di più, la prendo in braccio e la
faccio camminare nel corridoio dell’aereo.
La bimba ha un po’ di sciolta e mi caca addosso.
La stendiamo sul sedile per pulirla e cambiarla.
C’è un po’ di puzza e in noi tanto imbarazzo.
“Grazia di Dio”
avrebbe detto mia zia Francesca che, non potendo avere avuto figli, chissà
quanto desiderava una cacatina del genere. Immortalo la scena con una foto.
Dietro di noi, sono seduti due signori anziani, uno sicuramen-te
settantenne con l’accento tedesco, che non sembrano per nulla interessati al
nostro problema.
Parlano in italiano e si raccontano avventure amorose in
Romania e in altre parti del mondo.
Mi giro e guardo meglio in faccia il vecchio e mi fa schifo
moralmente e fisicamente. Il suo racconto mi pare la solita, misera vanteria di
chi, avendo quattro soldi, si reca nei paesi poveri per fare turismo sessuale,
senza mai considerare il dramma delle sue vittime, la scia di dolore che si
lascia dietro.
Finalmente a casa
Giunti a Roma - Fiumicino, troviamo il compagno Monda, il
funzionario dell’ambasciata rumena adoperatosi per inol-trare la lettera di Pajetta a Ceausescu,
in attesa di qualcuno imbarcato sul nostro stesso volo.
Lo saluto calorosamente e lo ringrazio per l’aiuto prestato.
Vuol vedere la bambina e si mostra contento per come siano andate le cose. Un
tempo record: in soli sei mesi eravamo riusciti a portare Monica a casa.
Il controllo alla nostra frontiera non guarda nemmeno i
passa-porti della bambina e di Jolikè. Il finanziere apre il mio e ci fa
passare con un saluto militare.
Penso alle difficoltà incontrate e superate per avere il
passa-porto e il visto di Monica, all’incubo del furto di stamattina. In
pratica, non sono serviti per entrare in Italia, grazie al mio passaporto di
servizio che qui ha sempre funzionato benissi-mo.
Meglio così. Ci trasferiamo allo scalo nazionale, dove alle
ore 13,40 dovremo prendere il volo per Catania.
Ci rifugiamo nella sala Vip, dove si poteva trovare
assistenza per la bambina. Infatti, le ragazze sono ben liete di aiutarci.
Alcuni “vip” guardano la scena con la coda dell’occhio.
Chi se ne frega. Noi badiamo alla bambina che sembra leg-germente
inquieta.
La prendo in braccio per portarla fuori fra la folla dei
passeg-geri. Ricevo una seconda scarica di diarrea, evidentemente ancora in
corso.
Scappo alla toilette per tentare di far sparire il danno, ma
restano tracce evidenti sulla mia giacca.
Una scarica simile se la prenderà, qualche tempo dopo, anche
Cicciò Fucà, al bar dei Templi, ad Agrigento.
Finalmente, decolliamo per Catania, verso la Sicilia, verso la casa di
Monica. Fino ad oggi, la bambina non ha avuto una casa sua. Forse, era stata
portata dalla sala- parto al reparto e quindi all’istituto. Così mi era parso
di capire parlando con l’infermiera dall’aspetto burbero che l’accudiva.
Anche Monica ha il suo biglietto aereo. Per lei abbiamo
pagato il 10%.
A Catania ci accoglie un caldo torrido. Partiamo subito, in
auto, verso Joppolo, dove ci aspettano mia madre, contenta e ansiosa, e
l’intera famiglia.
A causa dell’afa, l’attraversamento della piana di Catania è
molto faticoso per la bambina. Non c’è un filo d’aria. Al motel sotto Enna ci
fermiamo per farla mangiare e pulirla.
Verso le 18,00 arriviamo a casa.
L’arrivo di Monica era molto atteso a Joppolo. Per il
paesino era una sorta di avvenimento.
Da ore, mia madre, mio padre, mia zia Francesca, i sacri
vecchi della famiglia, sono davanti alla porta in attesa. Alla vista
dell’automobile si precipitano per abbracciare Monica. Ce la tolgono
praticamente dalle mani..
Sono sbalorditi per quella bambina così bella e dal tratto
gentile. Monica è stanca, accaldata, confusa, ma riesce lo stesso a sorridere.
Insomma, un impatto davvero emozionante con la sua famiglia. Una gioia
fortissima per tutti noi.
L’arrivo alla casa-madre, a Joppolo Giancaxio
Il primo visitatore “esterno” è Stefano di Tresa il quale
corre in piazza a informare il paese:
“Arrivà, arrivà, a
figlia dell’onorevole. Che beddra!”.
Nel giro di pochi minuti, infatti, salgono (per venire da
noi bisogna fare la Salita Panzera)
tutti i compagni che erano in piazza e alcuni del parentado.
Per la casa, intorno alla bambina si crea una confusione
gioiosa. Monica è un po’ spaventata: non ha mai visto tutte quelle persone,
contente e sorridenti, intorno a lei.
La gioia dei compagni
Ognuno vuole vederla, toccarla, baciarla, prenderla in
braccio. A loro rischio e pericolo poiché la sciolta non si è completamente
fermata. Monicuccia è confusa e agita la ma-nina come in segno di saluto.
“Talè, saluta. Nni
saluta!” .
E’ veramente tardi. Andiamo a letto anche noi.
Che lunga e felice giornata abbiamo vissuto!
Oggi, l’Italia ha festeggiato la ricorrenza della nascita
della Repubblica. Noi abbiamo fatto una festa doppia: per la Repubblica e,
soprattutto, per la seconda nascita di Monica.
Capitolo terzo
Primi passi da sola
Monica saluta come una candidata a sindaco
Monica fiorisce ogni giorno che passa. In poco più di un mese
è cresciuta un chilo e mezzo. Tutta salute, naturalmente. Altro che la “cresc”
di Bucarest!
Ha una splendida cera: è più rotondetta, ha preso colore in
viso, le gambette si sono rafforzate.
Aiutata da noi, inizia a muovere i primi passi. Ha così scoperto l’utilità degli arti inferiori e il
principio del moto pedestre. Fin quando è rimasta alla Cresc ha usato
soltanto le mani con le quali giocava,
comunicava, salutava, spesso le incrociava per divertimento o per scaldarsi.
Si mostra affabile con tutti. Anche se sembra avere deter-minato
in se stessa una sorta di graduatoria degli affetti: prima Jolikè, secondo io,
poi mia madre, mio padre e dopo ancora il resto della famiglia e degli amici.
E’ un piacere vederla. Un sorriso e un saluto con la manina non li nega a
nessuno. Saluta come una candidata a sindaco. Avrà capito che il sorriso e il
saluto possono aprire anche le porte del paradiso. Con mia madre “discute” di
più (a modo suo, ovvi-amente), scherza facendo le imitazioni dei soggetti
proposti dalla “nonna”: il coniglietto, l’ uccellino, la farfallina, ecc.
Gradisce molto anche le canzoncine antiche siciliane che le
cantano mia madre e mia zia Francesca. Ammetto che, a risentirle dopo tanto
tempo, piacciono anche a me.
Il sorriso, il saluto, i primi passi, il cibo, l’affetto, le
carezze, le canzoncine…il dolce progresso della sua vita corre veloce.
Monica ha tanta voglia di vivere, come se volesse dimenti-care
quegli otto mesi passati in quella gabbietta.
Sì, perché il suo lettino alla Cresc era simile e poco più
grande di una cassetta di pomodori. In parte, credo, li abbia recuperati. Dorme
bene, due , tre volte al giorno. La notte riposa tranquilla dalle 22,00 circa
fino alle 8,30/ le 9,00 del mattino. Quanto è dolce il risveglio di Monica! Per
lei e per noi che l’aspettiamo più del sorgere del sole
.
Il dolce risveglio
Si desta, infatti, con un sorrisino dolcissimo che sprizza
benessere, gioia di vivere. La sua felicità è per noi la più alta ricompensa. Monica
sembra entusiasta della vita.
In questi momenti, penso sempre ai tanti bambini rimasti
negli istituti di Bucarest e di altre parti del mondo.
Non riesco a dimenticarli perché non voglio dimenticare
questo dramma universale che non risparmia nemmeno le cosiddette “società
opulente”.
Anzi, proprio queste sono
le più colpevoli poiché le inchioda la loro opulenza, per l’appunto, che non
consente loro di ap-pellarsi all’alibi della povertà sul quale si fonda la
giustifica-zione dei governi dei Paesi in via di sviluppo.
Jolikè mi spinge ad “aiutare” tutte le coppie che si
rivolgono a noi per avere informazioni, aiuto per adottare un bambino rumeno.
Ogni adozione è la salvezza di un piccolo essere.
Specie dopo l’arrivo (così rapido) di Monica, sono molte le
coppie senza figli che ci vengono a trovare per sollecitare una pratica di
adozione in corso e/o per sapere come inoltrare le domande in Italia e in Romania.
Desiderano essere aiutate a contattare l’avvocato Petrescu o
per avere una segnalazione di Giancarlo Pajetta a Ceausescu.
La segretaria di Pajetta mi ha fatto capire che non si può
insistere troppo con i rumeni.
Giancarlo è in imbarazzo,
vorrebbe aiutare tutti, ma teme che le sue preoccupazioni umanitarie siano
scambiate per qualco-sa d’altro.
Sono perplesso sul da farsi. Joliké insiste e alla fine mi
con-vince d’inviare a Pajetta un altro elenco con tutte le richieste di
adozione segnalatemi. Non dovrà mancare per una mia let-tera. Sarà lui a
decidere che cosa fare.
Monica, intanto, continua a familiarizzare anche con gente
esterna alla nostra famiglia. Questo paesino, solitamente pig-ro nelle
emozioni, ha manifestato una simpatia corale verso la bambina.
Intorno a lei si è creato un clima di diffusa, affettuosa
solida-rietà, come se fosse stata adottata dall’intero paese.
Ogni mattina si svolge il rito della passeggiata in
carrozzella spinta da Jolikè. La gente, soprattutto le donne e i bambini,
conoscono questa abitudine, persino l’orario del suo passag-gio, ed accorrono
per vederla, per salutarla.
La bambina si mostra disponibile, affettuosa con tutti.
Questo suo carattere affabile fa aumentare la simpatia, la solidarietà della
gente nei suoi confronti.
Uno dei commenti più ricorrenti delle persone è il seguente “Che fortuna che hai avuto, figlia mia!”
In realtà, più fortunati ci sentiamo noi.
Da quando è arrivata la bambina, abbiamo ricevuto tantissime
visite a casa, come si fa in occasione di un lieto evento, di una nascita. Sono
venute anche persone solitamente a noi non molto vicine. Tutte hanno portato un
regalino, un pensierino.
Un’affluenza, una partecipazione davvero corale per un paese
dove, a parte i funerali, le solidarietà non sono così vaste e sentite.
Sì, perché, qui, se qualcuno muore, tutto il paese
partecipa al suo funerale. Dietro il feretro
si forma un corteo più lungo “di quello
che andava a occupare le terre del duca Colonna di Cesarò”, disse una volta
u zi Cola Leto.
Se invece nasce o si sposa, eventi sempre più rari, interven-gono
solo i parenti e gli amici più intimi.
Molti rilevano la
somiglianza di Monica con Jolikè. Qualcuno, forse, avrà anche sospettato,
maliziosamente, che Jolikè abbia avuto una relazione extra-coniugale con chissà
chi.
Alla festa de l’Unità
21 luglio 1985.
Nella piazza grande del paese la festa è in pieno svolgimento.
Per Monica è questa la sua prima festa de l’Unità e anche il
suo primo impatto con la gente, una sorta di battesimo della folla. In piazza
c’è tutto il paese. Ci sono anche tantissimi emigrati e le loro famiglie che
ogni estate ritornano per le vacanze.
A luglio, la popolazione di questo paesino quasi raddoppia:
da millecinquecento a duemilacinquecento abitanti.
Una rinascita effimera, illusoria che dura poco più di un me-se.
A metà agosto svanisce: chi ritorna ai luoghi di emigrazi-one e chi alla grama quotidianità
paesana. La piazza si svuo-ta, in attesa del prossimo luglio, quando il ciclo
rico-mincerà.
D’estate, Joppolo è uno dei luoghi più internazionalizzati
della Sicilia. Come se ci trovassimo in un centro turistico alla moda. In realtà, non ci sono lussi, solo modeste
vacanze familiari, secondo la tradizione: la mattina al mare a “Lido azzurro”,
il pomeriggio una partita a tre sette o a briscola, la sera la “mangiata”
classica (spaghetti col sugo di pomodoro fresco e carne grigliata).
Dopo cena, tutti in piazza: al bar o a passeggiare, avanti e
indietro, a levigare gli ottanta metri di basolato che separa la chiesa dal
cinema del signor Gianni, quasi a voler cancellare le orme di un triste
passato. O a rivangarle?
In genere, i giovani di seconda e di terza generazione,
parlano la lingua acquisita all’estero. E così, la piazza diventa una babele di
lingue: francese, tedesco e lo spagnolo del Vene-zuela.
Sopra tutte prevale lo “sbergitano” ossia il francese della
Val-lonie (Belgio) imbottito di termini siciliani antichi (da noi or-mai in
disuso) che la lontananza non è riuscita a corrompere, a far dimenticare.
Gli "americani" ossia gli emigrati nell'America
"bona" (Usa e Canada in unico blocco) parlano una lingua molto
vicina all’inglese. L’altra America,
quella del sud, viene scomposta in tante
Americhe quanti sono gli Stati che la compongono:
America-Argentina, America-Paraguay, America-Venezuela, America- Brasile, ecc.
Comunque sia, questa moltiplicazione è preferibile all’innatu-rale
amalgama che identifica gli Usa con “l’America” tout court.
Com’è noto, la storia e la geografia insegnano che le Ameri-che
sono almeno tre, ciascuna con le proprie storie, tradizio-ni, caratteristiche e
dignità nazionali.
Ma torniamo a Joppolo, alle sue case, alle sue vie e piazze a
luglio piene.
A vedere tutta quella gente non c’è che rallegrarsi.
Talvolta anche interrogarsi: che cosa potrebbe accadere se gli emigrati
decidessero di restare in paese per sempre?
Un’eventualità remota, praticamente impossibile, che se si
dovesse verificare potrebbe trasformare il paese in campo di battaglia, dove ci
massacreremmo l’un l’altro per accaparrar-ci le poche risorse e strutture, oppure
lo potrebbe far rinascere grazie all’afflusso di tante professionalità, competenze
ed an-che d’investimenti. Ma forse sto sognando.
Conviene tornare a Monica, alla festa che tanto somiglia a
una sagra religiosa.
Tutte le feste si somigliano perché sono figlie della stessa
cultura. Oltre ai simboli, la differenza sostanziale fra la festa politica e
quella religiosa sta nel fatto che noi, dopo il corteo, facciamo il comizio dal
palco davanti alla chiesa, mentre il prete, dopo la processione, fa la sua
predica all’interno della chiesa.
All’angolo, sul marciapiede, c’è lo stand gastronomico, dove
le compagne propongono panini con salsiccia arrostita.
Sul lato opposto, il circolo dei pensionati è
affollatissimo: i soci e le loro famiglie hanno diritto a una sedia proprio
sotto il palco ossia in prima fila per assistere allo spettacolo di canzoni e
al grande ballo popolare.
Verso le 22,00, arriva Jolikè con la carrozzina gialla di
Monica. Si fa largo fra due ali di gente ammirata, curiosa di vedere la
bambina.
Monica è bella, straordinariamente bella e contenta. Indossa
un abitino di tela bianca, finemente ricamato.
La usciamo dall’abitacolo e fa segno di volersi avvicinare
alle coppie che stanno ballando.
Per precauzione, ci teniamo a una certa distanza. Le danze
sono davvero scatenate.
Molti la scorgono e si avvicinano per salutarla. Per primi
arri-vano i giovani compagni e le compagne. Vengono anche al-cuni anziani e altre persone che desiderano
vederla da vicino.
Si forma come una coda per vedere Monica. Non sto esage-rando.
A uno ad uno, si avvicinano, fanno una carezzina, un saluto. Qualcuno le bacia
la manina. Secondo una sana tradizione contadina, a un bambino è preferibile
baciare la mano anziché il visino. E’ più sobrio e igienico.
La gente del paese ama Monica; intorno a lei c’è una grande solidarietà
umana, davvero commovente.
La bambina è fra le mie braccia e si lascia baciare, anzi
porge lei stessa la manina.
La scena un po’ mi ricorda quella della notte di Natale
quando, in chiesa, “si vasa u piduzzu a u
Bammineddru”.
Monica appare felice per l’accoglienza. Ora, però, non riesce
a distogliere gli occhi e le orecchie dal palco, dove si sta esibendo un
complesso musicale. E’ attratta dalla musica.
La tengo in braccio e sento che si dondola come se stesse ballando. In effetti, balla. La gente lo scopre
e si avvicina per vederla ballare.
Con i suoi occhietti vivaci, la bambina si guarda intorno.
Scopre la festa, la folla, la musica, il ballo e il semenzaio (zio Luigi di
Carlo) che prepara coppi di “nuciddri” e “simenta” e vende giocattoli e
palloncini colorati.
Monica scopre il mare e vi si tuffa…
28 luglio 1985. In questi giorni, Monica è stata un po’ disturbata per
via dei dentini che le stanno spuntando.
Nonostante ciò, non ha perduto la buona cera acquisita in
questi due mesi. La sua pelle chiara ora è rosea, leggermente abbronzata. C’è
un’armonia perfetta fra il biondo dei suoi capelli (che cominciano ad
ondularsi) e il roseo del suo corpi-cino oramai sodo, vigoroso.
Riesce ad alzarsi dentro il box, tende ad acquistare
l’equili-brio. Di questo passo, è prevedibile che, fra qualche settima-na,
potrà reggersi da sola, anche fuori del box.
Mia madre continua ad ammaestrare Monica per farle svilup-pare
le sue capacità imitative.
Sa fare quasi tutto quello che la nonna le insegna: batte le
manine, balla, scherza, apre la porta, il rubinetto dell’acqua, fa le capriole
sul letto, ecc.
A modo suo, parla con i giocattoli, soprattutto con le pupe
e gli animaletti, e talvolta si arrabbia con loro e un po’ li mal-tratta.
Invano ho cercato di capire la causa di questi suoi ac-canimenti.
Evidentemente, non saranno accondiscendenti ai suoi voleri.
Nel sonno è un po’ irrequieta. Spesso si gira su se stessa,
muove gli arti in modo quasi liberatorio.
Solitamente, preferisce dormire in una posizione scomposta.
Almeno in ciò mi assomiglia.
In queste notti calde e
afose, giustamente rifiuta le coperte, anche il lenzuolino di tela che Jolikè
vuole imporle a tutti i costi, contro le zanzare.
Per il mare va pazza. Più
che la vastità dell’acqua, credo l’at-
tiri la libertà
d’immergervisi e di guazzarvi dentro.
L’altro giorno, l’abbiamo
portata alla spiaggia di Giallonardo dove, tutta nuda, si è messa a guazzare in
quelle acque tiepide e pulite.
Nella sua breve vita, è la prima volta che la bambina vede
il mare e vi s’immerge.
Per lei è stata come un’esplosione di gioia, di benessere.
Monica si è divertita tanto con le sue ochette gialle.
Si è poi cimentata in un gioco impossibile: quello di
afferrare le onde.
Appariva spazientita, un
po’ anche contratta, poiché non rius-civa ad afferrare nemmeno uno di questi
diavoletti spumeg-gianti che correvano sopra il mare e presto svanivano.
Muoveva le gambette come le rane in acqua. Da quei movimenti
ho preconizzato per lei un futuro stile di nuoto.
Insomma, la bambina era felice di giocare in quella stermi-nata
bagnarola.
Molto più grande di quella in plastica nella quale, ogni
sera, fa il bagnetto in pubblico, davanti casa.
Ogni tanto, verifico l’andamento della sua graduatoria degli
affetti. Non ci sono variazioni di rilievo: al primo posto c’è Jolikè, al
secondo io, al terzo mia madre, al quarto mio padre e poi tutti gli altri.
E’ sempre molto cordiale con la gente. Le piacciono tanto i
gattini randagi che girano intorno alla casa, i muli e il cavallo di zio
Giovanni e Oscar, il cane dei Fucà.
Il battesimo nella chiesa fra i templi
15 agosto 1985. Pur
non essendo credenti, decidemmo subito di battezzare la bambina.
Con l’approvazione generale dei nostri compagni e amici e
con la grande felicità di mia madre e degli altri familiari che temevano lo
scandalo di lasciarla senza battesimo, in preda al peccato originale.
Ma quale peccato poteva aver commesso una bambina che già
aveva subito eventi così traumatici?
Tuttavia, secondo la dottrina religiosa e il senso comune
che ne è derivato, un bambino non battezzato e come una bestioli-na senza i
sacramenti. Nella società diventerà un paria, un diverso.
Specie crescendo in un paese un po’ bigotto, Monica rischia-va
di subire, anche pesantemente, le conseguenze di tale “diversità” che sarebbe
andata ad aggiungersi a quella relati-va allo status anagrafico.
Talvolta, l’anomalia di tipo
religioso marchia gli individui in maniera indelebile.
Il battesimo era, dunque, necessario per evitare l’emargina-zione
e farla accettare, a pieno titolo, dalla comunità e, in primo luogo, dai
coetanei che avrebbe frequentato.
Come padrini scegliemmo mio fratello Lillo e sua moglie
Klari.
Jolikè propose di battezzarla nella chiesa di Joppolo con
tanto di corteo al seguito; a una festa in grande, tipo matrimonio per
intenderci. L’idea non dispiacque neanche a me.
Tuttavia, tememmo che il parroco locale, tale don Verde, es-sendo
un vetero anticomunista, e per giunta stolido, potesse guastare la festa con un
clamoroso rifiuto o con una predica al vetriolo. Ne sarebbe capace.
Per altro, in fatto di battesimo, per la chiesa io ho un
prece-dente da scontare.
Successe una ventina d’anni fa, dopo il rifiuto
dell’arciprete Alfonso Conti, di consentirmi di battezzare una bimba (Rita
Russo) perché ero comunista e pluri scomunicato da lui medesimo.
In effetti, nemmeno lontanamente pensavo di dover fare da
padrino in un battesimo o in una cresima.
Avevo acconsentito alla richiesta del signor Luigi Russo che
era davvero “augurioso” di avermi per “compare e San Giu-vanni” (ossia compare
di battesimo) e mia sorella Zina per comare.
Per non deluderlo cercai la via per aggirare l’ostacolo.
Andai da padre Parisi, parroco della chiesa di San Vito ad
Agrigento e mio ex insegnante di religione al Magistrale, al quale chiesi di
potere fare il battesimo, senza però informarlo del rifiuto dell’arciprete
Conti.
Il buon prete, pur conoscendomi fin dagli anni della scuola
come dirigente provinciale della Fgci, che non è l’acronimo della Federazione
gioco calcio, ma quello della Federazione giovanile comunista italiana, non
pose alcun problema. Anzi accettò di
buon grado di officiare il battesimo, per la prossi-ma domenica.
Organizzammo le cose in un clima di semiclandestinità. Mio
compare Luigi era intenzionato a infliggere una lezione al Conti per quella
negativa fatta anche a lui.
La domenica pomeriggio, con un ristretto gruppo di parenti e
senza farlo sapere in giro, partimmo per Agrigento e battez-zammo la bambina
nella chiesa di san Vito.
Solo a cose fatte, al ritorno, in casa di mio compare ci fu
festa grande. Musica a tutto volume, dolci e rosolio a volontà. Alla faccia
dell’arciprete!
Così il paese seppe dell’avvenuto battesimo di Rita e tanti
vennero a congratularsi per la risposta data all’arciprete, accettando
volentieri un tarallo e un bicchierino di rosolio.
Il Conti, furente per lo smacco subito, si rivolse al vescovo
per chiedergli di sanzionare il comportamento dell’ignaro padre Parisi.
Il vecchio prete, rancoroso e prepotente com’era, ne fece
una questione di principio. Pretese dal prelato perfino l’annul-lamento
dell’atto di battesimo e una presa di posizione pubblica di condanna.
Il vescovo, non so quanto di buon grado, diramò ai parroci
della diocesi una lunga circolare con la quale disapprovava (ma non annullava) quel battesimo avente per
padrino un noto comunista scomunicato e ingiunse ai parroci di essere più
vigilanti in futuro.
Si ricordava che erano ancora in vigore le norme della
scomunica dei comunisti, emanate nel 1948 dal papa Pio XII, secondo le quali a
tali soggetti non si dovevano amministrare i sacramenti, nessun sacramento.
Pertanto, per i comunisti dichiarati niente battesimi, cresime, matrimoni e
funerali in chiesa. E- restava sottinteso- nemmeno una “buona parola” per
ottenere il visto per l’espatrio, soprattutto negli Usa.
Con tali precedenti e direttive, c’era il rischio che il
padre Verde rifiutasse il battesimo di Monica.
Tuttavia, mandammo mia madre a sondarne gli umori.
Stranamente, si dichiarò disponibile a officiare il
battesimo.
Tutto bene, dunque? Quando mai!
L’indomani il parroco incontrò Jolikè in piazza e le fece
uno strano discorso.
Pur sapendo benissimo che
non siamo religiosi (io sono un deputato nazionale del Pci), cominciò a
chiederle se credes-simo in Dio, nei sacramenti e le ricordò che per fare il
battesimo era necessaria la frequenza dei genitori agli esercizi preparatori.
Jolikè, seccata, gli rispose che non era il caso né il luogo
di parlare di queste cose.
Viste le intenzioni del parroco, era preferibile non
battezzare la bambina in paese.
Ci rivolgemmo a don Pino Argento, un giovane prete di
Joppolo, operante nella vicina Raffadali, per domandargli se poteva officiare
il battesimo.
Pino si dichiarò ben felice (ed era sincero) di battezzare
la bambina, ma temeva le ire di don Verde per cui consigliò di battezzarla in
una chiesa di Agrigento.
Fra i tanti preti che conoscevo nel capoluogo, don Biagio
Alessi mi parve il più aperto per capire una situazione simile.
Egli, per altro, era parroco della bellissima chiesa di san
Nicola, nella Valle dei Templi, un luogo magnifico per battezzare la bambina.
Come previsto, si dichiarò disponibile e diede disposizioni
al sagrestano per le ore 18,00 del quindici agosto.
La giornata prescelta, domenica di metà agosto, non era
molto indicata per un battesimo. La gente pensava al mare, alla campagna, alle
grigliate in famiglia, ai falò.
Jolikè voleva la “grande festa”. Io ero perplesso, anche per
via dei costi che potevano risultare troppo elevati.
Si decise per una festa tradizionale, senza grandi pretese.
Stilammo la lista di tutto l’occorrente per un menù decente
e abbondante: venticinque teglie di pizza che zi Turiddru Curiale ci preparò il
pomeriggio del 15 agosto, sacrificando il suo meritato riposo; diverse
guantiere di tortine con salame e maionese; alcune cassette di pere, pesche e
meloni gialli; tre-dici chilogrammi di dolci vari preparati da Mommino Vizzì
della pasticceria “Le Cuspidi” di Raffadali, vino, spumante, birra e bibite a
volontà; tre tipi di confezione di confetti.
Il prete officia, Monica balla
Alle ore 18,00, siamo a san Nicola con un nutrito seguito di
parenti, amici e compagni. La piccola chiesa si riempie.
Vi sono pure alcuni turisti curiosi di assistere a una
cerimonia tipica e soprattutto incantati dalla bellezza dei luoghi e
dell’antico tempio cristiano sorto a pochi metri dall’oratorio detto di
Falaride, il truce tiranno di Akragas rimasto famoso per il suo “toro” dentro
il quale arrostiva i suoi nemici.
Crudeltà o follia? Forse, una miscela di entrambe. In ogni
caso, un’esecrabile, rara forma di dissolutezza che colpì la sensibilità di
Erasmo da Rotterdam il quale la usò come incipit del suo “Elogio della follia”.
Durante la cerimonia, Monica si è comportata benissimo, pareva
ammaestrata.
Indossava un abitino bianco, lungo e ricamato, confezionato
da Klari, scarpette anch’esse bianche e una cuffia che, in verità, mal
sopportava. Davvero splendida! La bambina
sorrideva, compiaciuta, forse, capiva che la festa era per lei.
Il battesimo
Mentre don Pino officiava, parlando al microfono, Monica iniziò
a ballare (a suo modo ovviamente), forse pensando che il prete stesse cantando
una canzoncina.
La bambina ballava,
mentre noi, genitori e padrini, in piedi al primo banco, eravamo imbarazzati e
muti di fronte alle domande che l’officiante ci poneva, secondo la liturgia.
Mia madre intuì il disagio e, come se volesse rimediare al
nostro mutismo, si spostò dal suo banco al nostro e cominciò a rispondere ad
alta voce. In pratica, rispondeva per noi.
Il sagrestano guardava
allibito, scandalizzato. Non capiva cosa stesse accadendo. Forse, era la prima
volta che serviva un battesimo così stravagante nel quale genitori e padrini
non rispondevano cristiana-mente alle domande dell’officiante.
Era, a dir poco, perplesso ma muto, anche perché l’avevo già
gratificato con una banconota da 50.000 lire.
Don Pino preferiva guardare in alto, la volta lignea della
chiesa, per alleviare il nostro, e il suo, disagio.
Per Monica tutto bene. Pianse solo quando il prete asperse
la testolina con l’acqua benedetta.
Dopo la cerimonia, saluti, ringraziamenti e foto sul sagrato
della chiesa e via verso Joppolo, per la festa.
Monica con la famiglia, all’uscita della chiesa di San
Nicola
I tavoli e le sedie erano stati predisposti davanti casa
nostra, di quella semidiroccata di zi Turiddru Infantino e perfino nel cortile
di Stefano di Tresa.
Erano presenti oltre cento persone, fra le quali alcune che
non erano state invitate. Alcuni non trovarono posto a sedere.
Il servizio ha funzionato a dovere, anche grazie alla
collabo-razione di alcuni compagni fra cui i fratelli Lillo e Ciccio Fucà,
Stefano e Totò Portella e tanti altri.
Vi erano cibo e beveraggio per tutti. Molta roba resterà sui
tavoli, inutilizzata.
Verso le ore 22,00, Stefano, il nostro vicino, accese il man-giadischi
e diede inizio alle danze. Soprattutto, ballabili e tarantelle siciliane.
Qualche coppia profittò dell’occasione per fare quattro salti.
Stefano era scatenato, cantava e ballava senza mai
stancarsi.
Mpari Ntò (Greco) ci deliziò con alcune canzoni dell’epoca d’oro
di Adriano Celentano.
La musica era necessaria per mettere allegria, altrimenti
non poteva considerarsi una vera festa.
Restammo a scherzare e a ballare fino alle due di notte.
Durante la serata, ci fu anche un recital di poesie
dialettali. Il primo a esibirsi fu mio zio Angelo Cultrera, seguito da mia
cugina Maria Sacco, venuta dal Belgio.
Intorno ai due poeti si formarono gruppi d’invitati che, per
quella sera, chiesero soltanto poesie ironiche e strambotti.
31/8/85. Monica
continua a crescere bene. Aumenta di peso e in vigore fisico. E’ sempre più
bella e accattivante. Le sono spuntati altri quattro dentini superiori. Ora ne
ha sei in totale. Continua a essere disturbata nella bocca, forse ne stanno
spuntando altri.
Monica con le nonne Giovanna e Ilona e zia Ciccia
Comincia a muoversi più agevolmente, ad alzarsi da terra,
anche da sola. Cammina eretta anche se ancora sorretta da noi.
Il suo repertorio imitativo si arricchisce con nuovi
soggetti. Va matta per i cani, i gatti e i muli.
Recentemente, ha scoperto le galline di zia Luigia di Scia-verio.
È molto impressionata dal canto del gallo.
Mia madre le ha insegnato a imitare il verso del gallo
(chicchirichì) e Monica lo ripete con un impegno davvero ammirevole e con esiti
a dir poco sorprendenti.
In famiglia siamo tutti in attesa che pronunci le parole
fatidiche “mamma” e “papà”.
A furia di richiederglielo, la bambina avrà interiorizzato le
due parole magiche e credo le pronunci, a modo suo, senza darle voce.
Continua la dieta del dottore, ma notiamo che preferisce la
pasta col sugo di pomodoro fresco e altre pietanze prelibate della cucina
siciliana.
Siamo tutti “ta-tà”
In questo mese e mezzo, a parte il dolce rigoglio di Moni-ca,
non ci sono stati fatti degni di nota. Ho trascurato tutto, un po’ anche il mio
lavoro parlamentare, per dedicarmi preva-lentemente alla bambina.
Mai avrei pensato che la sua presenza potesse sconvolgermi
la vita. Sto in casa cercando di leggere o di scrivere qualcosa, ma non appena
Monica si sveglia corro da lei a giocare.
Alla bambina piace giocare nel lettone. E a noi pure. Giochiamo bene insieme. Ci divertiamo a
rincorrerci, a coprirci di baci.
Mia madre continua a esercitarla, a incitarla a dire “pa,
pà”, “ma, mma”. Forse, ritiene che pronunciando le fatidiche paroline la
bambina entri in piena sintonia con la famiglia.
Monica riesce a dire “Ta- tà”. Meglio di niente! Quando ne
ha voglia, lo ripete, applicandolo alle persone e anche alle cose a lei
piacevoli. Insomma, siamo tutti “ta - tà”.
In questi giorni ha piovuto e la temperatura si è abbassata.
Monica ha risentito del cambiamento: accusa una debole tosse che ha messo in
allarme l’intera famiglia e il vicinato.
Per non prendere freddo, le hanno fatto indossare la tutina
rossa da ginnastica. E’ un amore con quella tutina. Oggi ha scoperto nella
stalla di zio Giovanni di Filippa Porta, di fronte casa nostra, un cavallo dal
manto bianco, punteggiato di nero. Un cavallo a pois. Sembra impazzita.
Gesticola perché vuole essere condotta nella stalla a vedere il cavallo. La
accontento.
Siamo accolti da uno sciame di mosche sataniche (dette
“cavalline”) e da un odore acre di piscio stagionato che certo non sono di buon
auspicio per proseguire la visita al povero animale là dentro legato.
Grosso modo, fra me e Jolikè c’è una sostanziale, tacita divi-sione
dei compiti: io, quando posso, bado all’intrattenimento, allo svago della
bambina, lei a tutto il resto che
riguarda l’assistenza, la cura della persona. Talvolta, è stanca ma felice di
potersi dedicare a Monica.
Il primo compleanno di Monica
Festeggiamo il primo compleanno di Monica insieme con quello
di mia madre che, ieri, ha compiuto sessantaquattro primavere. Klari ha
preparato una bella torta di mele. Una piccola festa in famiglia, davvero
speciale.
Primo compleanno di Monica
Negli ultimi giorni, Monica ha compiuto sensibili pro-gressi
nei movimenti.
L’altro, memorabile e attesissimo progresso è stato quello
di essere riuscita, finalmente, a trasformare quel dolce “ta-tà” in “pa-pà”.
Jolikè è felice di tali progressi, ma forse si aspettava che prima di “papà”
chiamasse “mamma”. In fondo, sarebbe stato più giusto.
§ Siamo ad Agrigento al festival de l’Unità. Avremmo vo-luto
portare anche Monica, ma all’ultimo momento abbiamo rinunciato poiché deve
cenare alle 20 e andare a letto.
Dati i nostri impegni politici e operativi al festival
(Jolikè era addetta allo stand dell’Arci) non potevamo accudirla.
Vengono a parlarmi i coniugi Civiltà. Il marito (taxista
agri-gentino) era di ritorno da Bucarest, dove aveva avviato la pratica di
adozione di una bambina di cinque anni. Chiedono aiuto per sollecitare la firma
del decreto per portare a casa la “loro”
bella bambina.
Il signor Civiltà racconta che era molto affezionata a lui,
gli si attaccava al collo e lo chiamava: “ta-tà”.
Mi sovvengono il “ta-tà” di Monica e un piccolo dubbio. Gli
domando il significato di questa dolce parolina.
Se la sua bambina, a cinque anni, ancora la usa, potrebbe
avere il medesimo significato del “ta-tà” di Monica.
Lui sostiene che in rumeno “ta-tà” vuol dire “papà”.
Restai colpito dalla notizia. Poiché, vorrebbe dire che il
“ta-tà” di Monica non è un’imperfezione vocale, ma il corrispon-dente rumeno di
“papà”.
La bambina mi chiama nella sua lingua nativa e, per accon-tentarci,
ha tradotto il suo “ta-tà” nell’italiano “papà” .
A questo punto, gli chiedo come si dice “mamma “ in rumeno. “Mamica”,
assicura il signor Civiltà.
Vedremo se Monica chiamerà Jolikè “mamica” o “mamma“.
Primi passi da sola. Dove andrà?
Questa sera (11/10), Monica ha mosso i primi passi, da sola.
Mostra ancora qualche incertezza, un po’ di paura, ma credo che oramai si sia
lanciata nella sua avventura per la casa, per il mondo. Prima di avviarsi,
chiede che qualcuno le stia accanto ma senza toccarla. Più che assistenza chiede
conforto.
La facciamo esercitare nella stanza da letto sopra la morbida moquette. La osservo mentre muove i
suoi primi, incerti passi. Avanza come un robot: prima un piede, poi l’altro.
Vuole essere sicura che il primo sia ben piantato sul pavimento e solo dopo
muove il secondo.
Nel pomeriggio, l’abbiamo portata in campagna, sulle colline
sabbiose di Sarrovi. La bambina sta bene all’aria aperta. Sembra gustare,
inghiottire l’aria buona delle nostre colline.
Tenendola per mano abbiamo camminato sopra la terra morbida,
spugnosa.
Joliké voleva afferrarla per l’altra mano, ma Monica ha
rifiu-tato l’aiuto, forse desiderava mostrarci che ormai sa cammi-nare… da
sola.
§ E’ notte. Scendo dal mio studio per osservare, nella penombra
della camera da letto, Monica nel suo lettino. La bambina dorme rannicchiata in
posa fetale, come se stesse ancora nel grembo materno.
Anche Jolikè dorme profondamente per riprendersi della
stanchezza di una giornata dietro Monica che ha tante esigenze. Le donne
dormano ed io come un sonnambulo mi aggiro per la casa.
Monica ascolta la ninna-nanna
Stasera ha detto “mamma”
Questa sera (25/11, alle ore 22,00), si è verificato l’evento
tanto atteso: Monica ha finalmente pronunciato l’attesissima parola “ma-
mma”.
Le sillabe non sono scandite secondo i dettami grammaticali,
ma quella parolina magica ha sbloccato una situazione angos-ciante che si
trascina da tempo.
Jolikè è incredula e continua a parlare con Peppe Costanza.
La interrompo: “Ma non
hai sentito che cosa ha detto la bambina?”.
Mi giro verso Monica, che ho in braccio, e le ordino:
“Monica, chiama la
mamma!”
La bambina non si fa pregare: “Ma…mma”.
Jolikè resta come scioccata. Io insisto con Monica che rispon-de
a comando: “Ma…mma”, “Ma…mma”.
Il significato è chiaro, perfetto, commovente. A questo
punto, Jolikè corre ad abbracciarla, a baciarla mentre Monica conti-nua a
chiamarla.
E’ una scena davvero toccante per entrambe: per Jolikè che
finalmente è chiamata come merita e per Monica che, quasi per recuperare il
ritardo, continua a chiamare “ma..mma”.
Sembrano essersi ritrovate dopo una lunga assenza.
La rivoluzione degli affetti
Ho trascorso gli ultimi due giorni interamente con Monica. Dopo
dieci giorni di assenza, ne sentivo tanto il bisogno. Sono stato in Marocco. Le
avevo telefonato più volte da Ra-bat e da Roma, ma la bambina al telefono si
sentiva gabbata.
Quando sono rientrato a casa, Jolikè mi ha detto che Monica
aveva avvertito, forse anche riconosciuto, il rumore dell’auto in arrivo e
insieme erano corse al balcone per verificare.
In effetti, ero io che arrivavo da Roma, accompagnato da
Lillo Graci. Appena mi scorse, Monica non stava più nella pelle, era felice di
rivedermi.
Forse, dopo tanto tempo, non ci sperava più.
Corsi per la scala ad abbracciarla. Mi saltò addosso e mi si
strinse forte al collo.
Notai che era più leggera (di peso) di quando l’ho lasciata
e che in viso era piuttosto smunta.
Jolikè, per telefono, mi aveva detto che la bambina era
stata male, aveva avuto tosse e un po’ di febbre.
Ci tenemmo stretti. Provai sensazioni bellissime. Quelle sue
manine strette al mio collo, quella boccuccia (già piena di denti) che mi baciava
in viso. Sensazioni mai provate prima.
La misi in piedi per vedere quanto era cresciuta durante la
mia assenza.
E’ un po’ smunta, ma un tantino più sfilata e sempre “più
bellissima” la nostra, cara Monica.
Le mostrai il pacchetto col regalo e le dissi di aprirlo. Tentò
più volte, ma invano. E così le diedi un aiutino.
Spuntò un televisore di plastica, azionato da una manopola, sul
cui monitor scorre l’immagine di due bimbi che rincorro-no una palla. Il tutto
con un contorno di uccellini,
farfalline, tartarughe, gatti, ecc.
Il suono dolcissimo di un carillon accompagna lo svolgi-mento
della scena. Monica ne restò ammirata e cominciò ad azionare la manopola.
Giocammo con il “televisore” fino a mezzanotte. Poi, sul letto, a fare le
capriole.
Ero stanco, dormii profondamente quella notte. La mattina fui
svegliato dalla dolce vocina di Monica.
Da dentro il suo lettino ci vedeva dormire, forse anche ci sentiva
russare, e rideva, rideva.
La presi in braccio e la portai nel lettone, a giocare.
Sarei dovuto andare in Federazione, ma decisi di restare con
lei. Da quando c’è Monica, vivo momenti prima sconosciuti. E’ sorprendente come
questa bambina sia riuscita a passare in cima ai miei pensieri, ponendosi
perfino al di sopra del Parti-to che per me è stato tutto: la famiglia, la speranza, la vita.
La rivoluzione degli affetti sta soppiantando quella proletaria
o, forse, è vero che “L’addrivari (allevare)
fa l’amuri”?
In realtà, l’adozione può
produrre un’affettività così intensa,
una solidarietà umana, talvolta, superiore a quella fondata sui legami
di sangue. A ben pensarci, stiamo costruendo una fa-miglia internazionale, al
di fuori di ogni canone clanico, pri-mitivo di consanguineità.
Questa, sì, che sarebbe
una rivoluzione!
Ora la tosse è scomparsa. La bambina si sta riprendendo.
Mangia molto e ha sempre voglia di giocare. Ogni tanto mi fa “Vuum, vuum”.
Capisco che vuol fare un giretto in auto. Le piace stare in macchina. Quando
posso, la accontento.
Pomeriggio siamo stati al campo sportivo a giocare a palla.
Era uno spettacolo vederla rincorrere la sfera e calciarla, an-che se in modo
goffo. Ci siamo divertiti tantissimo. Improvvisamente, arrivò la pioggia e ci
rifugiammo nell’auto ad ammirarla.
Forse, questa era la prima volta che Monica vedeva la
pioggia da vicino. Era molto incuriosita del fenomeno, di tutte quelle gocce
che tamburellavano sui vetri e poi correvano verso il basso.
Fuori c’erano tre caprette inzuppate (che la bambina chiama
“mè, mè”) che volevano andarsi a riparare sotto un secolare carrubo, la grande casa vegetale per uomini e
bestie.
Purtroppo, erano legate al suolo con una corda corta e non
riuscivano a raggiungerlo. Con questa immagine si chiuse la nostra gita al
campo.
Fra me e Monica è scoppiato l’idillio
20 dicembre 1985.
Arrivo a casa a tarda sera, proveniente da Pantelleria dove ero stato con la
delegazione della com-missione Difesa della Camera per una visita agli impianti
mi-litari.
Corro ad abbracciare
Monica e Jolikè. Non appena la bambi-na mi vede spuntare in casa, smette di
mangiare e mi si attac-ca al collo, mi guarda in viso e sorride.
E’ visibilmente felice di rivedermi, mi chiama “papà”. Poi,
di nuovo, mi carezza le guance con le sue manine e stringe il suo visino contro
il mio. Ci abbracciamo teneramente, ripetu-tamente. Fra me e Monica è scoppiato
l’idillio.
Mi stacco un attimo dall’affettuosa stretta perché desidero
scoprire quali progressi ha fatto nei giorni della mia assenza.
In genere, quando arrivo mi appare più pienotta, più
pesante. Anche il suo faccino è più rotondo e roseo.
Giù nella strada, aspetta l’autista militare che da Palermo
mi ha portato a Joppolo. Devo scendere per salutarlo e ringra-ziarlo, ma Monica
non lo consente.
Forse, teme che riparta e mi si riattacca al collo con tutta
la forza che possiede.
Fuori c’è freddo, ma sono costretto a portarla con me (dopo
averla ben coperta con un plaid) a salutare il militare.
Il ragazzo la saluta e lei risponde chiamandolo “Totò”.
Per lei tutti gli uomini con i baffi o con la barba si
chiamano “Totò”, come Totò Portella, nostro amico e compagno.
Aiutato da mia madre, porto in casa i bagagli e i pacchi con
i regali per Monica.
Ci sediamo sotto il bellissimo albero di Natale,
scoppiettante di luci e carico di caramelle al miele.
Ci voleva Monica perché si preparasse l’albero; è la prima
volta in casa nostra. La bambina comincia a spacchettare.
Per primo viene fuori un cagnolino che gira su se stesso
(favoloso!), poi un tipo che suona il tamburo. Seguono una serie di ninnoli per
addobbare l’albero.
Monica è tutta infervorata. Alla fine sceglie il cagnolino.
Le piace di più e lo chiama “bau- bau”.
Mi allontano un attimo per andare al bagno a lavarmi le
mani. Dietro di me la bambina, col suo cagnolino, corre a strappare la carta
igienica e me la porge, senza che, per altro, ce ne fosse bisogno.
E’ un modo per rendersi utile agli altri. Tale gesto l’avrà
visto fare tante volte a suo favore e ora lo ripete a mio vantaggio. Associa la
carta igienica all’uso del gabinetto.
Siamo pur sempre nella fase imitativa.
La cosa succede anche quando mi sto vestendo in camera da
letto. La bambina mi porta le scarpe, i calzini. Si rende utile, quasi volesse
ricambiare i servizi che noi le rendiamo per vestirla, nutrirla.
Passiamo le ore a giocare intorno all’albero di Natale. Fino
alle 22 e 30 quando l’orologio ungherese segna, implacabile, l’ora di andare a
nanna.
Noto che il suo piccolo, delizioso vocabolario si è
arricchito di qualche parola. Ora chiama “nonno”,
“nonna” e “sci, sci” mia zia Francesca alias zia “Cì”.
Dice anche qualche parolina in ungherese per la gioia di
Jolikè che si è messa in testa d’insegnarle a parlare la sua lingua.
La bambina accusa ancora qualche disturbo per via dei denti
che continuano a spuntarle, ma sopporta dignitosamente. Nei giorni scorsi, ho
finito l’ultima stesura del mio libro “Oltre
il Canale- Ipotesi di cooperazione siculo-araba” che ho deciso di dedicare
alle mie donne ossia a Monica e a Jolikè. Se lo meritano.
Capitolo quarto
A Lido Azzurro, Porto Empedocle
Il secondo Capodanno di Monica
1/1/86. Ieri notte,
a Monica è stato consentito di attendere con noi l’arrivo dell’Anno nuovo.
Il suo secondo capodanno. Il primo l' ha trascorso nei
locali della Cresc. Sola e abbandonata, in condizioni davvero terri-bili. Spero
solo che quella notte la bambina abbia dormito.
Perciò abbiamo voluto che restasse sveglia per festeggiare
con noi, in famiglia.
La festa è di tutti, ma tutti ci eravamo riuniti per
festeggiare la bellissima Monica Nicoletta Spataro in questo secondo capodanno
della sua vita.
Nel pomeriggio aveva dormito per quasi cinque ore, pertanto
reggeva bene l’attesa della mezzanotte. Gli altri, i miei fami-liari e qualche
amico, giocavano a tombola, io ho trascorso la serata a giocare con Monica. Ci
siamo divertiti un sacco.
Giunta l’ora, stappammo le bottiglie e brindammo alla salute
di Monica.
Per farla partecipare al brindisi, demmo alla bambina un bicchiere
d’acqua. Non volle bere. Giustamente! Cercò, con insistenza, il nostro
bicchiere. Evidentemente sentiva l’odore dello spumante.
E così, io, Jolikè e Monica bevemmo spumante dagli stessi
bicchieri. Una sorta di rito primitivo, quasi a voler sancire un legame
indissolubile.
La bambina sembrò gradire la nuova bevanda, si leccò le
labbra e dopo qualche minuto rallegrò la tavola con un paio di ruttini.
Verso l'una andò a dormire e io feci un salto in casa di com-pagni,
dove era stato organizzato una specie di veglione.
Oggi, starò con Monica, per l’intera giornata.
Per altro, fuori piove e non si può uscire. Restiamo in casa
e dalla finestra ammiriamo la pioggia che batte, fitta e inces-sante, sul tetto
di “canala” (tegole di terracotta).
La bambina è molto attratta da quel tintinnio soave che
tanto somiglia a una musichetta.
Le gocce s’infrangono sul vetro, si frantumano e si perdono,
veloci, verso il basso. Lei le segue con lo sguardo, gesticola come se volesse
afferrarle per la coda.
Ormai, Monica sa fare molte cose: sale e scende i gradini,
strimpella al piano-forte, gioca con la palla, balla e tante altre cose belle.
E’ sempre molto affettuosa. Ogni tanto mi si stringe al
collo e questo, per me, è regalo più bello.
Nel pomeriggio, ascoltiamo un po’ di musica di Strauss e di
Rossini. La prendo in braccio e iniziano le danze, con lei che volteggia con la
testolina.
Il nuovo gioco le piace, ascolta la musica e ride divertita.
Ogni tanto mi fermo per riposare, ma lei desidera
continuare. Le chiedo: “arre?” (di nuovo?)
“Scì” risponde, con un sorrisetto complice nel quale si
sciog-lie la sua vocina.
E così riprende il vorticoso ballo, con Monica in braccio
che si sta sganasciando dalle risate.
Sono stanco e mi gira la testa, ma sono felice di ballare
con questa “dama di gran classe”.
Il gioco dura a lungo. A
ogni pausa, lei sussurra quel dolce “scì”, con la esse biascicata.
Il valzer riprende, mentre fuori continua a piovere.
Nardu, quando la libertà somiglia alla follia
6/1/86. Alle ore
13,30 portiamo Monica in piazza per farla assistere alla “pastorale”, una
manifestazione etno-religiosa della nostra tradizione popolare ispirata alla
“Natività”.
Dopo anni di sospensione, è stata riproposta (dal vivo)
grazie all’impegno di un gruppo di
giovani del luogo.
I personaggi sono tanti e interpretano una serie di scene
agro-pastorali. Ci sono i tre Magi che, essendo re, devono essere belli, alti e
impettiti sui loro cavalli regalmente bardati; la santa coppia (S. Giuseppe e la Madonna) molto più
dimessa, povera, generalmente impersonata da un uomo anziano con la barba
posticcia (mio zio Salvatore Cultrera) e da una bella giovinetta; seguono i
cacciatori armati di fucili a guardia di un gregge di pecore vere. Esigenze del
copione o un modo per scoraggiare
l’abigeato?
Il personaggio principale è il “Nardu” ossia un pastore ubri-aco
il quale, invece di badare alle pecore, si diverte a moles-tare, a insolentire
la gente assiepata sui marciapiedi.
Grazie al vino, in questo
giorno, al Nardu è consentita una libertà insperata, disinibita, senza freni.
Domani ricomincerà la sua vita di schiavo. Soltanto in
questo giorno può fare tutto quello che gli aggrada. Anche sfidare il campiere
armato di “scopetta”, sputare in faccia a gente “im-portante” boccate di ricotta. Nessuno si deve offendere e tan-to
meno replicare. Al malcapitato non resta che ridere, mostrare di gradire il
divertimento.
In fondo, il Nardu recita una parodia della triste
condizione dei siciliani i quali solo nella pazzia, e per qualche ora, pos-sono
sentirsi veramente liberi.
Qui, infatti, la libertà è follia, non pratica di vita
civile!
Monica, che a quell’ora fa il riposino, è un po’
intorpidita. La vista di quelle scene la incuriosisce, l’attira.
Quella massa di persone, soprattutto giovani, che ondeggia
da un lato all’altro della piazza, che corre di qua e di là per
scansare i lanci del Nardu, è per lei uno spettacolo
inedito, esilarante.
Le indico i cavalli che lei chiama “Clò, clò”, poi le pecore
“me, me, meh” oppure “me mmè”.
Accanto passa un asino giulivo e lei fa “stò, stò”.
Con tali monosillabi (ripetuti) lei indica gli esemplari più
comuni che popolano il piccolo zoo del villaggio.
Ci stacchiamo dalla folla
assiepata intorno alla “mannira” e ci dirigiamo verso i re Magi appollaiati, all’angolo della Chie-sa, pronti
a entrare in scena.
Monica alla Pastorale
Monica mi fa segno di volere toccare, carezzare il “clò,
clò”. La accontento con vero piacere, mentre Jolikè prende una foto.
Tira un vento gelido di tramontana. E’ meglio rientrare a
casa. Monica deve riposare anche perché più tardi andremo ad Agrigento a vedere
Loredana, la bambina degli Errore, arrivata ieri sera da Bucarest.
Monica e Loredana si
riabbracciano, ad Agrigento
Come già annotato, Monica e Loredana erano ricoverate nello
stesso padiglione della Cresc, anzi nella stessa stanza. Povere bimbette,
entrambe bionde e malnutrite.
Ora, anche Loredana è a casa, bianca e allegra, coi suoi
occhi colore del cielo.
Ho come un moto istintivo, le prendo entrambe in braccio e
me le stringo al cuore.
Finalmente, si sono ritrovate, ad Agrigento. Che la fortuna
le assista nella vita.
Monica soffre il mal d’auto e dopo pochi chilometri vomita.
Per prevenire tale disagio, Joliké (che n’ è la principale vittima) non la fece
mangiare e così arrivammo indenni a casa di Michele Errore.
Intorno a Loredana c’è tanta amorevole confusione.
Con zio Mariano Burgio, il suo nuovo nonno, si commenta
l’avvenimento:“Augustì, vi hanno dato
scheletri e voi li dovete fare cristiani”.
Avvicinammo Monica a Loredana e le dissi di farle una ca-rezzina.
Monica allungò la manina. Le due creaturine, figlie dello stesso dramma, si
abbracciarono, si baciarono nella commozione generale.
L’abbraccio tra Monica e Loredana Errore
In quel momento gioioso, il mio pensiero andò ai bambini
rimasti negli istituti; ai tanti che ancora non sono stati tratti dai guai
della loro misera vita. Non riesco a dimenticarli!
Monica balla al mercatino
13/1/86. Siamo in
piazza, al mercatino del lunedì. La giornata è fredda ma mitigata da un sole
bello e gagliardo.
Monica è superprotetta: indossa un berrettino giallo di lana
e un lungo giubbotto imbottito di piume d’oca che le cade un po’ largo. Sembra
un pesce-palla colorato.
La bambina, oramai, conosce la piazza e i luoghi adiacenti e
le persone che più incontriamo o frequentiamo.
E’ amica anche di “Oscar”, il pastore tedesco dei Fucà, che
si diverte a carezzarlo, a chiamarlo
“bau, bau”. Talvolta, il cane le risponde
scuotendo la testa e agitando la coda.
All’ufficio postale Monica ormai è di casa. S’infila nella
porticina che immette sul bancone di servizio al pubblico e va a salutare gli
impiegati e il direttore, il signor Fucà.
Mi afferra la mano e mi
tira verso la bancarella di un ragazzo
del Senegal che vende chincaglieria per la gioia dei poveri.
E’ alto, asciutto come una canna e sfoggia una pelle
levigata e lucida come una cote di granito sotto l’acqua cristallina di un
ruscello; indossa una tunica blu lunga fino ai piedi e sor-ride a tutti come se
fosse l’uomo più felice della terra.
Monica è attratta da quell’uomo blu, unico fra la massa che
affolla il mercato, e soprattutto dalla merce che propone.
Improvvisamente, dal banco accanto, quello del “catanese”
venditore di musica, si libera una vivace tarantella siciliana.
Una “ballabile” come qui si dice, per distinguerla da altri
pez-zi esotici, sconosciuti e pertanto “non ballabili”.
E, difatti, Monica si mette a ballare, ancheggiando e
battendo le manine.
Ogni tanto, alza anche la
gambetta come avrà visto fare alle ballerine in televisione. Uno spettacolo
inatteso per la gente intorno. Il giovane senegalese sorride, ancor più di
prima.
La bambina, per nulla inibita, continua a ballare in mezzo
alla gente riunita in circolo.
Ogni volta che ode una musica, sembra scattare in lei come
un meccanismo istintivo, il demone della danza.
A quindici mesi, si regge a malapena in piedi, ma quando c’è
musica balla.
Per il resto, c’è da
annotare che ama mangiare spesso e con appetito, come se volesse riempire un
grande vuoto. Digerisce bene e va di
corpo 4-5 volte il giorno.
Cerchiamo di contenere il suo appetito. Perciò, quando ha
fame e nessuno si preoccupa di sfamarla, lei trascina il suo seggiolone in
cucina e, orgogliosa della riuscita impresa,
fa segno di volerci entrare per iniziare a mangiare. Qualcosa la ottiene
sempre.
Come detto, la bambina continua a imitare i gesti di animali
e persone, soprattutto i nostri.
Imita e ironizza; scherza molto anche con se stessa.
Talvolta, finge di piangere e subito dopo scoppia a ridere,
divertita.
Ormai riesce, a modo suo, a chiamare per nome tutti i mem-bri
della famiglia e anche qualche nostro amico.
Non sa pronunciare correttamente soltanto il nome di
Lucre-zia che chiama con una stranissima espressione vocale:
“A-li-li-là”.
Alla Sagra del mandorlo in fiore
2/2/86. Da qualche
tempo non scrivo di Monica. La legge finanziaria mi ha trattenuto a Roma per
alcune setti-mane. Ho parlato con lei ogni giorno, per telefono.
Ogni volta che squilla il telefono, la bambina corre
gridando “papà” e comincia a raccontarmi le sue avventure.
Le sue espressioni non sono sempre comprensibili, ma in esse
si coglie un afflato, una sorta di ansia di comunicazione.
La bambina vorrebbe dirmi qualcosa ma non riesce a farlo,
chiaramente. L’altro giorno, tutta agitata, mi ha ripetuto “me, me” che nel suo gergo significa pecora, pecorella.
Non capii cosa volesse significare. Jolikè mi chiarì che la
bambina mi aveva informato di un avvenimento eccezionale cui aveva assistito la
mattina quando una pecora di zio Giovanni si era introdotta nel cortile di casa
nostra.
A volte, mi dice anche “dri,
dri, vuum, vuum” che tradotto significa: andiamo a spasso in automobile.
Finalmente, ieri sera,
sono rientrato a casa. Vista la lunga as-senza, confesso che ero un po’
preoccupato se Monica mi avrebbe riconosciuto o confuso con mio fratello Lillo
(che vi-ve in Belgio e mi somiglia tanto) in questo periodo in vacan-za a
Joppolo.
Preoccupazione superflua: appena mi vide corse ad abbrac-ciarmi
forte, chiamandomi “papà”.
Per me, quest' abbraccio fu la più bella ricompensa per
quelle dure giornate trascorse alla Camera.
A Roma ho fatto sviluppare le foto di Monica. La più espres-siva
l’ho fatta incorniciare e l’ho affissa alla parete. Durante la notte mi capita
di guardarla e baciarla.
In questi momenti, penso al dramma degli affetti che
colpisce le famiglie degli emigrati sparsi per il mondo.
Come fanno, e cosa sentono, questi uomini che per anni non
vedono i loro figli? Sarà un dolore straziante, inconsolabile!
Ho portato a Monica un giocattolo sovietico col quale si è
messa a giocare, tutta contenta.
E’ rimasta con noi sul lettone fino a mezzanotte a
scherzare, a fare le capriole.
Si divertiva, ma con un occhio spiava le mie mosse. Forse,
temeva che ripartissi. Per sentirsi tranquilla ha preteso che le stessi seduto
accanto, fianco a fianco.
Stamattina, abbiamo fatto “vuum, vuum” ossia, in auto, siamo andati a “dri dri” al campo sportivo a giocare con la palla.
La sera siamo stati a casa dagli Errore a visitare Loredana.
Jolikè prende in braccio Loredana e comincia a giocare con lei. Monica sbotta a
piangere, disperata. E’ gelosa o teme di perdere la sua mamma?
Nei bambini queste forme di gelosia, di egoismo solitamente derivano
dall’insicurezza, dal bisogno, dalle paure di perdere qualcuno o qualcosa cui
tengono.
Poi, ci trasferimmo al viale della Vittoria ad assistere
agli spettacoli folcloristici del Mandorlo in fiore.
Il lungo viale, ritenuto uno dei più belli d’Europa, è
strapieno di gente, soprattutto famiglie con al seguito bambini masche-rati di
carnevale che agitano per l’aria palloncini colorati.
Monica guarda, ma non chiede nulla. Le compro un pallon-cino
rosso, a forma di cuore.
Ora desidera andare a
piedi per far volare il palloncino come gli altri bambini. E’ bellissima e
felice.
Anche questa volta è arrivata ad Agrigento senza vomitare il
cibo ingerito.
In elicottero per abbracciare Monica
27/3/86. Monica
cresce splendidamente. Ormai, capisce quasi tutto. Il suo vocabolario si
arricchisce. Dice molte cose con parole quasi comprensibili.
Le piace ascoltare le favolette. Talvolta, per accontentarla
invento qualche storiella di animali a lei familiari.
In particolare, desidera che le racconti favolette su Cesar,
il cagnolino, che ama tanto. Talvolta, la sentiamo chiamare, anche nel sonno, “co, co, bau, bau”.
La bambina mantiene il suo carattere scherzoso: si diverte a
fare i dispetti e poi ride, ride, ride.
Si mostra un po’ infastidita per le troppe effusioni (baci e
abbracci) che riceve durante le passeggiate in strada.
La gente le vuol davvero bene. Il suo rapporto affettivo sta
diventando selettivo. In testa alla sua graduatoria ci siamo, sempre, io e
Jolikè, ex equo.
Da noi desidera essere abbracciata, tenuta stretta.
Le piace assai uscire da casa, scoprire il mondo, il nostro
piccolo mondo contadino. Nonostante soffra ancora il mal d’auto, desidera
sempre fare un giretto. L’accontento con piacere anche per aiutarla a farle
superare il mal d’auto.
L’altro giorno, sono arrivato a Joppolo in elicottero. Un
vero avvenimento per il paese dove mai era atterrato un velivolo.
La faccenda è andata così.
Per l’intera giornata ero stato a Pantelleria in visita agli
im-pianti e ai mezzi militari colà allocati.
In serata, rientrammo a Palermo, ma non potevo raggiungere
Joppolo in auto poiché le strade d’accesso erano bloccate dagli “abusivi” che
protestavano contro il governo che mi-nacciava di abbattere le loro case
costruite senza regolare concessione edilizia.
Il generale Cacciola, comandante della regione militare sici-liana,
dispose il mio accompagnamento con un elicottero dei carabinieri.
Telefonai a Jolikè per dirle che in venti minuti sarei
arrivato a Joppolo in…elicottero, pregandola di farmi trovare un’auto al campo
sportivo dove sarei atterrato.
E così lei, Monica e tante altre persone si precipitarono
allo stadio. Il velivolo tagliò dritto sulla linea dei monti sicani e in venti
minuti fu sopra la Rocca
del Duca, sul campo di sabbia arenaria.
Alcuni, vedendo volteggiare sul paese un elicottero dei cara-binieri,
forse pensarono che stesse cercando o che avessero catturato gli autori di un
abigeato che era stato consumato la notte precedente nelle campagne di
Montefamoso.
Perciò si accrebbe la curiosità e molti accorsero per vedere
planare l’elicottero che- come detto- era la prima volta che atterrava a Joppolo.
Monica si spaventò nel vedere quel “grande uccello” così
rumoroso che trasportava papà e che minacciava di cadere sopra le loro teste.
Quando mi vide scendere e correre verso di lei sorrise e mi
tese le braccine.
Confesso che avevo accettato l’offerta del generale Cacciola
soprattutto perché desideravo rientrare presto a casa, per stare con Monica.
In questi giorni, è uscito il mio libro“Oltre il Canale” che ho dedicato
a “Monica e a Joliké”.
In quarta di copertina c’è una mia foto. La bambina la
guarda e dice “papà” e ogni tanto le da un bacino.
Purtroppo, in questo periodo è infastidita per via di altri
den-tini che stanno spuntando.
“La bocca si sta
vestendo”, dice mia madre. Che bella espressione! Altrimenti, senza i
denti, la bocca è nuda. Jolikè mi racconta che quando esce per le strade con
Monica elegantemente vestita la gente si avvicina a salutare, ammirata della
sua bellezza e cordialità.
In effetti, è in forma. Ha raggiunto un certo livello di
benessere fisico. Ora, il suo corpicino è ben proporzionato, non presenta più
il pancino rigonfio, i lineamenti del viso appaiono rasserenati. C’è armonia
fra il suo sorriso e il suo visino di madreperla, incorniciato dentro una
cascatella di riccioli biondi.
Come detto, mostra una straordinaria sensibilità per la
musica e per il ballo. Ogni occasione è buona per mettersi a ballare, dando
spettacolo davanti a tutti. Non ha inibizioni.
Monica al pianoforte
Ha paura soltanto del buio e del vento. Per altro, intorno
alla nostra casa, situata nella parte più elevata del paese, il vento tira
spesso e con un certo impeto.
Fischia e urla emettendo sibili davvero inquietanti. In
certe notti ventose, abbastanza frequenti in questo periodo, la bambina si
sveglia di soprassalto e ci vuole al suo capezzale.
Per rasserenarla e farla dormire, e anche un po’
riscaldarla, cerchiamo di portarla nel lettone, ma lei vuol restare nel suo
lettino.
Nel lettone viene con piacere solo per giocare, per fare le
capriole. Per dormire, preferisce accucciarsi nella sua culla.
Simpatiche anche le sue “litigate” (finte) con zia Francesca
che, talvolta, la richiama con tono deciso, autoritario, persino urlando. Monica replica alzando anche lei la
voce, gridando cose incomprensibili.
Lei sa che è un gioco, uno scherzo, tuttavia reagisce alla
vio-lenza delle parole, senza lasciarsi intimidire.
Una manifestazione di carattere che da queste parti è sempre
d’apprezzare.
Bau bau si è addormentato…
9/4/86. Stamattina,
dopo un’atroce agonia, è morto Cesar, il nostro cagnolino. Soprattutto, il bau
bau a cui Monica era tanto affezionata. Giocava con lui, lo coccolava come se
fos-se un bambino.
Aveva tre mesi appena. Era venuto su bene. Gli avevamo
costruito anche la cuccia giù in cortile. Insomma, aveva tutto il necessario
per la vita di un cane: casa, famiglia e tanto cibo. Nonostante ciò, è morto, improvvisamente.
Non riusciamo a capirne la causa. Sarà stata qualche
malattia (tipo vermi o altro) oppure sarà stato avvelenato?
Ieri sera, perdeva sangue dall’ano, ma non emetteva un guai-to,
un lamento. Tutti dissero che era finito, che gli restavano poche ore di vita.
Lo abbiamo accucciato sopra un letto di paglia per farlo morire più comodo,
tranquillo.
Ricordo i suoi occhi languidi, la sua rassegnazione alla morte.
Jolikè ha pianto a dirotto.
Ora c’è il problema di comunicare a Monica la ferale
notizia.
La bambina ne avrebbe sofferto tantissimo. Il cagnolino era
uno dei suoi pochi affetti che la morte le strappava, crudel-mente.
Le diciamo che “Bau,
bau si è addormentato in un lungo sonno dal quale non si sveglierà più e mentre
dorme non bisogna disturbarlo”.
Ogni tanto, Monica ci avverte:“Bau, bau, do, do, ssst, ssst…”
Si porta il ditino al naso per raccomandarci di fare
silenzio e non disturbare Cesar dormiente.
La solidarietà del paese
2/5/86. Che
vergogna! Da più di un mese non scrivo di Monica. Eppure ci sarebbero state
tante cose da annotare. Ormai è “grande”. Ho cominciato a chiamarla “la
ragazza”. Il suo vocabolario continua ad arricchirsi di nuove parole. Ora tende
a comporre le frasi. Saltando i verbi, però.
“Papà passi” che vorrebbe dire “papà
facciamo due passi”. Oppure “papà pau
punf”ossia “papà giochiamo con la
palla”.
Soprattutto, quando è al
telefono si scatena. Parla senza fer-marsi, fa lunghi discorsi che francamente
non capisco. Bellissimo questo dialogo fra chi non sa parlare e chi non sa
capire!
La bambina ha acquisito l’importanza del linguaggio come
principale mezzo di comunicazione, ma non possiede gli stru-menti idonei (le
parole) per comunicare correttamente.
Tuttavia, noi tutti continuiamo a parlarle normalmente.
Quasi a volerla “riempire” di parole e di frasi che andranno
ad ampliare il suo vocabolario.
Non sono parole inutili. Prima o poi, si sbloccherà e le
userà.
“Stu problema è comu u
mustu cu lu vinu”- dice mio padre- Se
nella botte ci metti il mosto avrai il vino. E così sono l’addrevi, i carusi…Si
c’insigni qualcosa poi te la rende-ranno…”
L’insistenza, quasi nervosa, della bambina a voler parlare,
il suo ciarlare, lascia ben sperare. Fra non molto potrebbe sbloccarsi ed
esprimersi in una lingua più vicina agli umani.
Aspetto, con ansia, questo momento per fare con lei lunghe
chiacchierate.
Jolikè continua a parlarle anche in ungherese. Noto che la
bambina comincia a capire, e a ripetere, qualcosa di quella lingua astrale che…
evoca gli afflati delle sterminate praterie intorno ai monti Altai.
Purtroppo, in questo periodo, non ho molto tempo da dedi-carle.
Ogni volta che torno a casa è una gioia immensa per me e per la bambina.
Se qualcuno, per strada, le chiede “Monica, dov’è papà”, lei risponde “vuum, vuum” (facendo segno
d’imbracciare il vo-lante) e poi aggiunge “dra
dra”. Traduzione: papà ha preso
l’auto e se ne andato là, lontano.
Probabilmente, la bambina di me si sarà fatta l’idea di uno
che arriva e riparte continuamente e sempre in auto.
§ Nel paese tutti le vogliono bene, credo sinceramente. Dalle
espressioni degli anziani e anche dei più giovani si coglie un senso di vera
solidarietà, di gioia per una bambina sottratta a un triste destino. Un
sentimento raro di letizia, di umanità e di solidarietà. Come se fosse la
figlia di tutti. Speriamo che tutto ciò duri nel tempo.
Di notte, continua a dormire disordinatamente. Mostra una
certa intolleranza verso le coperte. Si scopre spesso e Jolikè è costretta ad
alzarsi per coprirla. Si rifiuta di dormire con noi nel lettone. Forse, non ha
tutti i torti.
Quando dorme, è un amore. Talvolta, mi fermo ad ammirarla.
Dorme con grazia nella penombra dell’abatjour; il suo visino splende di una
luce morbida e intensa, come in una tela di pittori fiamminghi.
Nella culla
Si agita soltanto quando ode il vento ululare come una belva
ferita.
Quando arriva il vento, lei corre ad aggrapparsi alle nostre
gambe, gridando, terrorizzata, “uhh, uhh,
uhh” come volesse imitare il misterioso sibilo.
La turba anche il continuo latrare notturno del cane di zia
Filomena, nostra vicina di casa.
L’altra notte si svegliò spaventata e chiamò aiuto: “papà”,
“mamma”. Si attaccò al petto e ripeteva “bau, bau”.
Per farla riaddormentare le ho tenuto la manina e le ho rac-contato
una favoletta improvvisata e a lieto fine. Soprattutto in questi frangenti, desidera
sentirsi protetta.
Monica gioca col “fango elementare”
15 maggio 1986. Dopo
dieci giorni, sono rientrato a Roma da un giro elettorale in Svizzera e in
Belgio. Monica ha molto avvertito la mia assenza, questa volta più prolungata
del solito.
Jolikè mi ha detto che la bambina ha preso una mia
fotografia e si è messa a parlare con “papà”, a raccontare le sue piccole
avventure della giornata, le cose e la gente che aveva visto.
Dall’aeroporto di Fiumicino, telefonai a Jolikè per dirle
che avrei preso il volo per Palermo per rientrare in nottata.
Monica, che era nei paraggi, tirò la gonna alla mamma per
farsi passare il magico apparecchio e parlare con papà. Jolikè non glielo passò
subito come richiesto e Monica scoppiò in un pianto disperato che non riuscii a
placare nemmeno dopo trentacinque scatti in interurbana.
Un pianto straziante, intercalato da parole incomprensibili,
da cui riuscii a cogliere la parola “papà”.
All’aeroporto di Punta Raisi trovai la sorpresa di una panna
all’auto. Pensai di dormire a Palermo e l’indomani far ripa-rare il guasto e
quindi partire per casa.
Il pianto di Monica mi fece accantonare il problema del-l’auto.
Presi il treno e arrivai intra (a
casa) dopo mezzanotte.
La bambina dormiva placidamente nella culla. Non volli
svegliarla. La mattina dopo, alle 7, 30
come il solito, Monica si destò e scoprì ch’ero nel lettone a dormire.
Prese a chiamarmi finché non mi svegliai. Un po’ stonato, mi
alzai e corsi a prenderla dal suo lettino e ci abbracciammo.
Sarà ché mi vede poco o perché con me è sempre divertimento,
fatto sta che la bambina è molto attaccata a me; la qualcosa mi procura un
piacere immenso.
Decido di passare con lei l’intera giornata. Verso le 10,
uscia-mo a fare “due passi” per le strade.
Monica indossa i pantaloncini rossi che le ho comprato
l’altro giorno a Basilea.
E’ molto contenta e li mostra a tutti, dicendo “papà”ossia
me li ha portati papà. Il nostro viaggio (“dri
dri”) prosegue lentamente per le strette vie del paese, per la piazza
grande.
Nei giorni scorsi, ha avuto gli “orecchioni”, ma ormai è
quasi del tutto guarita. Ha solo la gota sinistra un po’ rigonfia. Le domando
dove ha la “bubù” (la malattia) e m'
indica col ditino sotto l’orecchio.
Tornati a casa, Monica mi fa “papà pa…” ossia chiede di
giocare con la palla. La porto nella piazzetta davanti casa e giochiamo con la
palla colorata.
L’acchiappa farfalle
Là vicino c’è la fontanella e Monica mi dice “papà bua” (ossia voglio bere). Prendo un
bicchiere di plastica e le mostro come riempirlo.
L’intento è di farle acquisire una certa capacità di auto
approvvigionamento.
Infatti, apprende subito la tecnica, vuol tenere in mano il
bicchiere sotto il filo liquido e si fa una gran bevuta d’acqua fresca che
viene dalla sorgente del Voltano, dalle placide montagne della Quisquina.
Beve più volte non perché abbia sete, ma per il gusto di
riempire il bicchiere. Il gioco le è piaciuto, perciò a fatica riesco a strapparla
dalla fontanella.
Alla bambina piace
giocare con lo “sterro” (polveri e terra) che abbonda sulla piazzola antistante
il “recipiente”, l’edifi-cio destinato a
riserva idrica del paese.
La lascio giocare liberamente, anche a rischio di sporcarsi
il vestitino nuovo.
Affonda le manine nella polvere e ne lancia un pugno per
aria creando una nuvoletta biancastra. Poi mi fa segno di volere toccare il
filo d’acqua e il fango sottostante.
Mi tira verso la poltiglia come se subisse il richiamo degli
elementi primordiali che qui ancora persistono nella loro integrità chimica.
In realtà, è attratta dalle anatre di zia Pippina “surda”che
guazzano nei pressi della fontana.
Le vuole toccare, prendere. Il gioco è creativo, ma il panta-loncino
da rosso è diventato a strisce rossonere.
Niente ci fa: sono i colori del Milan, la mia squadra
preferita. Una mutazione cromatica che Jolikè sicuramente bollerà con una
solenne ramanzina.
Monica è contenta, vorrebbe continuare a invischiarsi nel
fango, a inseguire le anatre ancheggianti.
Osservo la scena e penso a quanto ci sarebbe da imparare da
questo quadretto un po’ naif che rispecchia la natura, la bene-fica realtà del
Pianeta.
Monica ha scoperto lo “sterro”, è attratta da questo impasto
primordiale che J. L. Borges chiama “fango
elementare”, che qui, dove non è arrivato l’asfalto annientatore, ancora
abbon-da.
L’acqua, la terra, il fango, le anatre, le capre, gli asini,
le vacche e gli uccelli, gli uomini, le donne, i bambini sono tutti riuniti in
questo borgo, come nell’arca della salvezza, in attesa del diluvio.
E la sera lo spettacolo degli uccelli che, a migliaia, rientrano a dormire sugli alberi,
sui fianchi della grande madre roccia che da millenni da ricetto a uomini e
bestie, a fiori ormai rarissimi, sopravvissuti ai veleni della chimica fine.
Qui, ancora vediamo gli uccelli, viviamo con loro in simbio-si.
Li osserviamo volare e cantare in libertà, amoreggiare, an-dare e venire dal
nido, cibare i loro piccoli, emigrare e ritor-nare da continenti lontani.
Con Monica non ci perdiamo il canto melodioso, struggente
della cinciallegra (“pispisinu”) quando, raramente, ci viene a trovare.
L’uccello (“anceddru”, in siciliano) è ancora sinonimo di
libertà, di spensieratezza. Da anceddru deriva “anciddriari” un verbo fascinoso
che solo pochi eletti possono declinare.
Non vuol dire, infatti, uccellare ossia dare la caccia agli
uc-celli, ma vivere liberi come gli uccelli, spaziare, spensierati, nelle
praterie del piacere fisico e mentale.
E noi che qui di libertà ne abbiamo solo lo stretto
necessario, a volte, osservando gli uccelli, ci vien voglia di prenderli a
modello. Ma, non abbiamo le ali per volare.
Insomma, gli uccelli vivono con noi, sono a portata di mano.
Perché tenerli in gabbia?
In questa specie di colonia avicola, c’è un “carcarazzu”
(gazza) col quale sono entrato in confidenza.
Volteggia sempre nei paraggi, fra la casa e la roccia.
Mi sta simpatico e, senza saperne il sesso, gli ho imposto
il nome di “Vicenzu”.
Basta mostrargli una briciola di pane o qualche seme di gira-sole
per vederlo calare in picchiata a beccare, anche dalle mani.
Con Vicenzu siamo amici, anche se il suo istinto è sempre un
po’ ladronesco come tutti quelli della sua razza. L’altro gior-no si è beccato
un orecchino. Chissà dove l’avrà portato?
Siamo a maggio, il mese mariano.
Oltre la villetta del Voltano, si ode il coro delle pie
donne che cantano le laudi alla Madonna intorno ad un altare montato davanti la
casa di Gertrude.
Le voci non sono più fresche e intonate, ma il canto ci
giunge sempre gradevole.
Sopra la testa di Monica vola un gruppo di farfalle
divertite. La bambina non se ne accorge perché è tutta presa a giocare con lo
sterro.
Gliele faccio notare e lei ne resta ammirata. Forse, è la
prima volta che vede le farfalle volare in gruppo, così belle, così variopinte,
così gaie.
Abbandona lo sterro e si alza per prenderle. Invano.
Acchiappare le farfalle: sarà questo uno dei suoi nuovi
giochi preferiti.
Le svelo il nome di queste giulive visitatrici che, per lei,
scandisco: far- fal - le, far – fal – li - ne.
Lei comincia a chiamarle “fa, fa”, ma quelle vanno per la
loro strada, alla ricerca dei fiori più belli.
Si posano sui gerani rossi e viola che scendono, a cascata,
dalla parete del nostro giardino, intrecciandosi con le “pale” spinose dei
vecchi fichidindia.
Sopra i gerani, il nespolo, alto e solenne come una
ballerina di flamenco, stracarico di grappoli dorati.
Un piccolo mondo di delizie, un incanto di cose semplici che
non si possono acquisire col denaro ma solo col buon gusto.
Intanto, Monica ha smesso d’inseguire le farfalle ed è
intenta a imbucare pietruzze fra le sbarre della caditoia per ascoltarne il
tintinnio metallico.
Ormai è ora di tornare a casa dove ci attende Jolikè con la
cena e con una ramanzina.
Ad Hanna Gheddafi morta sotto una bomba Usa
17/5/86. Monica è
in fermento per la passeggiata serotina. Mi tira fuori dalla porta, ma dobbiamo
aspettare Jolikè che non è pronta.
L’aspettiamo affacciati all’inferriata che da sulla piazza
del Calvario. La serata è chiara e tiepida, il cielo pieno di stelle.
Monica guarda in alto e col ditino m’indica “nu, nu”.
Alzo gli occhi e scopro, sopra di noi, una fetta di luna
bianca.
Capisco cosa volesse dirmi col suo “nu, nu”: la luna.
“Sì, questa è la
nostra luna, la più bella al mondo.”- feci io, come per premiare il suo
spirito indagatore.
La luna a “Milione”
Effettivamente, quando sono in viaggio, guardo sempre la
luna degli altri e la confronto con la nostra di Joppolo, della Sicilia.
Sarà un' illusione ottica o un eccesso di patriottismo, ma a
me la luna siciliana, specie quando è piena, appare la più grande, la più
chiara, la più sorridente.
Luna beata, lontana dal nostro mondo, caotico e ingiusto, an-che
se ad esso incatenata.
Col tempo, ho imparato ad amare, a riverire la luna. M’incan-ta
e mi spaventa, al tempo stesso.
Certe notti, quando la
vedo spuntare, immensa, da dietro la montagna di Comitini, mi fermo a osservarla
salire, fino a quando non raggiunge il centro del “cratere” ossia la corona di
colline che cinge il paese.
Un po’ adoro la luna, come
i sudditi di Bilqis, la leggendaria regina di Saba.
Nel pantheon astrale
degli antichi sabei la luna, Illumquh, era
il dio principale e lo sposo del (la) sole, sua consorte.
Un rovesciamento di ruoli celesti che evoca lo Yemen favo-loso,
mitico che, talvolta, ritrovo nel sogno, nella notte malin-conica di questa
nostra Isola inquieta che sempre risente della sua fatale arabità.
Una notte, scendendo da Caltabellotta verso Agrigento,
all’al-tezza del castello Diana di Ribera, mi apparve una luna im-mensa,
placida e ridente, che illuminava i sottostanti giardini di fragole e d’aranci.
Un inebriante profumo di zagara saliva dalla valle del Ver-dura,
verso la luna. Era passata mezzanotte, fermai
l’auto e mi sedetti per terra, in adorazione.
Mentre fantasticavo su queste cose, Monica sorrideva e conti-nuava
a ripetere: “papà, nu, nu”
Raccontai a Jolikè della scoperta di Monica. In realtà, la
sco-perta era avvenuta la sera prima. La bambina ne rimase colpi-ta. Per tutta
la serata cercò la luna che nel frattempo si era dileguata.
Andammo a passeggio per le vie fino alla piazza “picciola”
nel quartiere storico. Monica è uno splendore di bellezza.
Mentre scrivo quest' appunto penso al dolore di Muammar Gheddafi
che, l’altro giorno, ha perduto la figlia di 18 mesi sotto i bombardamenti Usa di Tripoli. Si chiamava
Hanna e aveva la stessa età di Monica e come Monica era figlia adottiva.
Povera, piccola Hanna! Una vita innocente spezzata sul
nascere da una volontà criminale che pretende di agire in nome della civiltà.
Forse, scriverò a Gheddafi una lettera di condoglianze, di solidarietà e gli
allegherò una foto di Monica.
26/5/86. Oggi ho
comprato un’auto nuova di zecca: una Lancia prisma 1.500. Per inaugurarla (qui
si dice“sbagnarla”) chiamai Monica a madrina.
Facciamo un giretto per il paese e nelle strade intorno,
verso la campagna di Montefamoso.
La bambina sembra elettrizzata, saluta tutti quelli che
incontra per la via, anche i tacchini di zia Rosa alla Fonta-nazza, imita la
mia guida muovendo le manine come se stesse impugnando uno sterzo.
Questa volta, vuole sedersi davanti e indossare la cintura
di sicurezza. A mia madre che sta per salire fa segno di acco-modarsi sul
sedile posteriore.
Monica è molto attaccata a me. Quando, per strada, incontria-mo
qualcuno, lei fa “papà cà” (per dire
papà è qua con me). Jolikè sostiene che la stia viziando. Sarà vero, ma non
riesco a dirle di no. Monica, per me, è quasi tutto. Prevedo che, fra non
molto, potrebbe divenire “il tutto”.
Capitolo quinto
Budapest, al caffè New York
La notte dei segni
8 giugno 1986.
Questo pomeriggio mi sono svegliato in sogno. Un sogno tenerissimo e crudele.
Era notte fonda e nella strada illuminata vedo salire una giovane donna trafe-lata
con un bimbo in braccio.
Di primo acchito, mi parve una zingara come tante che
girovagano nei nostri paesi e città. Anche se mi parve strano a quell’ora della
notte.
Sbarrai la porta d’ingresso innescando l’intera serratura e
mi ritirai nelle stanze interne, sperando che la donna passasse oltre. Quando… udii
uno, due, tre colpi alla porta.
Restai atterrito, pur confidando nella resistenza della
serra-tura antiscasso di recente applicata.
La porta, invece, si aprì lentamente e senza alcuna
forzatura.
Imprecai contro il falegname che aveva garantito il massimo
di sicurezza. Decisi, comunque, di affrontare la situazione. Strappai dalla
parete il bastone polacco, comprato a Zako-pane, e andai verso il soggiorno,
all’incontro della misteriosa visitante.
Con somma meraviglia, vidi in piedi una creatura dal profilo
nordico, dentro una tunica azzurra lunga fino ai piedi.
In un braccio teneva un borsone, nell’altro un bambino.
Gettai il bastone e la invitai ad accomodarsi in poltrona.
Osservai attentamente la donna e il bambino.
Provai vergogna per il cattivo pensiero. Le domandai chi
fosse, ma lei non rispose. Fece una smorfia, un po’ seccata, e mi allungò un
album da disegno.
Nel primo foglio c’era disegnato il suo volto bello e lentig-ginoso,
colori intensi e linee marcate, un sorriso triste appena accennato. Confrontai
i suoi due volti e notai che c’era una corrispondenza quasi perfetta.
Mi fece cenno di sfogliare ancora. Apparve il visino di un
bimbetto un po’ emaciato e, di lato, ancora lei col suo sorriso amaro.
Continuai a parlarle, a domandarle e lei a non rispondere.
Chi erano? Da dove venivano? Perché quella visita inattesa?
Perché da me e a quell’ora?
La donna mi porse un “notes”. Lo aprii. Ogni foglio era
diviso da una linea mediana verticale.
Era quella la notte dei segni.
A sinistra un testo in inglese, a destra la traduzione in
ita-liano.
Lessi e appresi che quella ragazza era muta e disperata. Non
era sordomuta, ma solo muta. Girava il mondo portandosi dietro il suo bambino
che non riusciva più a sfamare. Domandava aiuto. Alla fine del foglio c’era, in
stampatello, la preghiera di prendersi il bambino, per salvarlo.
Monica e Jolikè dormivano nella stanza da letto e non si
erano accorte della visita.
Restai perplesso davanti alla ragazza che con gli occhi m’im-plorava.
Quando lei tirò fuori dal borsone una collana d’am-bra nera e mi fece cenno di
accettarla. Credo per invogliarmi a prendere il bambino. Rifiutai con dolcezza
la collana.
Lei ne restò delusa. Ero confuso, incerto, desideravo
aiutare quella donna e il suo bambino.
A questo punto del sogno, decisi di svegliare Jolikè per
valu-tare insieme la situazione...
In realtà, mi svegliai dal sonno e il sogno svanì.
A-li-li-là
18 giugno 1986. Il
lessico di Monica è in costante progresso. La bambina parla fluidamente, molti
termini sono comprensibili.
All’inizio la mamma era “ta, ta” poi “ma, mma”, la luna era
“nu, nu” , Lucrezia era “a-lì- lì- là”
ora la chiama “ lù, lù”.
Il grillo lo chiama “lillo”.
La cosa non sarà gradita a mio fratello Lillo che non ci tiene a essere, in
qualche modo, assi-milato a un grillo.
Alcune parole comincia a pronunciarle nelle due, delle tre,
lingue di casa: italiano e ungherese. Per esempio: no e nem.
Per controbilanciare l’iniziativa del fronte magiaro, mia
madre e mia zia Francesca continuano a insegnarle parole e motti in siciliano
(la terza lingua), soprattutto alcune tratte dal frasario religioso:“Dè, dè” (dio), “bammineddru Gesù”, ecc.
In famiglia c’è come una sana competizione per inculcare
alla bambina parole e gesti della vita quotidiana, appartenenti a culture così
diverse e lontane, con le quali dovrà convivere.
Tutto ciò mi sembra giusto e lascio fare.
Jolikè si è spinta anche nel campo della politica. Le ha
inse-gnato a dire “Natta” (Alessandro).
In fondo, Natta è facile a dirsi. Qualche problema, forse,
l’avrebbe avuto se avesse dovuto pronunciare il nome di “Berlinguer”, il nostro
caro compagno Enrico, precocemente scomparso.
Se domandi a Monica: “Come si chiama il segretario del Partito?” lei risponde, agitando il
pugno chiuso, con la sua vocina scherzosa “Na…tta,
Na…ttaa”.
La bambina continua a fare ottime imitazioni. Riesce a
cogliere gli aspetti più caricaturali di taluni personaggi visti in
televisione.
L’altra sera, restò colpita dal curioso gesticolare dell’on.
Totò Sciangula a Teleacras.
Parlava a gesti, puntava il dito contro nessuno, beveva di
continuo. Accalorato o aveva mangiato salato?
Basta chiedere a Monica: “Come fa Sciangula?”
Lei agita il ditino e dice “bua, bua” (ossia beve).
Un’altra parola che mi piace sentirle pronunciare è
“babuluci”, cioè
babbaluci (siciliano) ovverosia lumaca.
Invece di bimbo dice “mimmo”.
L’altro giorno ero a telefono con Mimmo Barrile della segreteria della
Federazione Pci e lo salutai “ciao Mimmo”.
Monica, che era nei pressi, si convinse che stessi parlando
con qualche bambino, mi tirò la giacca e mi fece segno di volere parlare anche
lei con “mimmo”, “papà.. mimmo”.
Capii, ma non potevo passarle l’apparecchio. Sbottò in un
pianto nervoso, convinta che non la volessi fare parlare con il bimbo.
L’altra sera la portammo in pizzeria, alle “Dune” di San
Leone. Gli odori che il forno sprigionava l’avranno inebriata, tanto da
spazientirsi per l’attesa.
Ogni tanto, ricordava al cameriere “zio, zio pizza, ccà”.
Ne assaggiò un pezzetto e le piacque assai.
Ieri pomeriggio siamo andati in campagna a raccogliere le
fave secche per l’inverno. Monica era tutta infervorata e desiderava
partecipare al lavoro insieme a mia madre, mio padre e a Jolikè.
Monica nella
campagna dei nonni a Montefamoso
In realtà, creava soltanto un po’ di confusione, a mio padre
non molto gradita, il quale, da vecchio contadino, voleva fini-re il lavoro
senza impicci.
Tuttavia, non osando arrabbiarsi con la bambina e con Jolikè
che la incoraggiava a raccogliere fave, se la prese con mia madre che- a suo
dire- non faceva nulla per tenere Monica lontana dal “lavoro”.
28 luglio 1986. In questi quaranta giorni, non ho preso ap-punti poiché
mi sono imposto un periodo di fermo biologico mentale.
Sono stato molto teso a causa dell’andamento degli eventi
politici. In questi casi, non potendo reagire (per carità di par-tito)
preferisco autocensurarmi, staccare la spina, fare soltan-to le cose
essenziali.
Tornando a Monica, rilevo un dato importante della sua evo-luzione
espressiva.
La bambina sembra essersi sbloccata e comincia a parlare in
modo sciolto, chiaro.
Ormai compone le frasi, ancora senza verbi, ma con sostanti-vi,
aggettivi e qualche avverbio più o meno appropriati, intel-ligibili.
Esempio: “foco mani
mai”, traduzione:“mai toccare il
fuoco con le mani”.
Oppure: “Moka uva
ccà”: traduzione“Monica uva in bocca”.
Nel riferirsi a se stessa, la bambina usa la terza persona.
Una prerogativa concessa solo agli infanti e ai grandi della storia.
Mentre scrivo, salgono dalla strada voci esagitate. E’ zia
Lilla Batariana che sta imprecando contro la vicina che avrebbe voluto aprire
un balcone sulla parete di sua pertinenza.
La qualcosa non è consentita dalla legge e difatti è stata
impedita. Solo che la vicina, per dispetto, ha ordinato ai muratori di lasciare
sporgenti i ferri ormai superflui.
Da qui il sospetto che accende il conflitto che sfocerà in
una classica “vaniddrata” condita di minacce e gastime (male-dizioni) fra le
due donne: una barricata in casa e l’altra che impreca nella via.
Sento intervenire Rosalia, un’altra vicina, per placare gli
animi, ma inconsapevolmente li aizza:
”Zia Lì lasci perdiri.
Queste cose di masculi sunnu. Stasira ca veni so maritu si l’arraggiuna cu so
maritu”.
La vecchia replica ancora più inviperita:“ Me maritu! Chid-dru babbu (babbeo) è. No, nun mi nni vaju si prima nun taglia
li ferri.”
La tensione sale. Arrivano i carabinieri, ma nemmeno loro
riescono a sedare la controversia.
Zia Lilla, prima di ritirarsi sotto braccio a un appuntato,
lancia un’ultima gastima: “Si nun ci po’
la leggi, u Signuri ci havi a pensari”
Episodi minimi ma frequenti che riporto come elementi del
contesto nel quale Monica dovrà crescere e vivere.
Monica al luna park
2 agosto 1986. Siamo
a San Leone, al piccolo luna park.
Monica va pazza per la “giotra” (giostra), ma quando vide
correre le macchinine elettriche, guidate da bambini, senza esitare optò per
queste.
Mi tirò più volte la camicia, indicandomi quelle diavolerie.
Alla sua età non era possibile montarvi da sola. Così fui
costretto a salirci anch’io. La tenevo in
braccio e schiacciavo lentamente l’acceleratore, mentre lei guidava
ossia mano-vrava, a vanvera, il volante.
Qualcuno che mi aveva riconosciuto se la rideva di sottecchi:
non capita tutti giorni vedere un onorevole
alla guida di una macchinetta per bambini.
Francamente, non mi curai dei sorrisini ironici e continuai
a girare con Monica felice di guidare la sua prima automobile.
La bambina era come gasata: gridava, sprizzava gioia da
tutti i pori, non riusciva a star ferma, sterzava a destra e a manca.
Il problema sorse alla fine del terzo gettone: non voleva
staccarsi dal volante.
Per farla scendere, Jolikè le promise che saremmo andati a
vedere le barche sul mare.
Monica era contenta, felicissima per quell' avventura. In
fondo, anch’io mi ero divertito tanto.
A trentotto anni suonati, era questa la prima volta che
andavo sulle macchinine. Ai tempi nostri non c’erano e quando arri-varono ero
fuori tempo massimo per salirvi.
Nella darsena sono ancorate una fila di barche colorate che ondeggiano lievemente sulle placide acque del
porticciolo.
Un pescatore, da poco rientrato, armeggia per sistemare gli
attrezzi e le cassette di pescato.
Monica, forse pensando che anche la barca facesse parte del
luna-park e che quell’uomo stesse giocando, mi fece segno di volervi salire.
Impossibile, per svariate ragioni.
La dirottai verso il carrettino del venditore di noccioline.
Jolikè gliene comprò un sacchetto.
Ne mangiò alcune e poi prese a distribuirle in parti uguali:
una a papà, una alla mamma, una a Monica. Poi daccapo, invertendo l’ordine di
distribuzione.
A termine dell’effervescente serata è un po’ stanca e si
addormentò subito. Ormai, sull’auto non ha più problemi.
Giufà nel castello incantato
13 agosto 1986.
Monica progredisce a vista d’occhio, in tutti i sensi. E’ sempre più bella,
dolce e un po’ paffutella.
Sorride a tutti e scherza. E’ una giocherellona. Fraseggia
con una certa logica. Se non intendiamo o fraintendiamo qualche parola la
ripete, scandendola lentamente.
La sera quando va a letto mi chiede di raccontarle una
favoletta per addormentarsi.
Per non spaventarla, evito quella di “Cappuccetto rosso”.
Mi sono sempre chiesto: che razza di sogni può fare una
bambina dopo essersi sorbito un “horror” tanto truce quanto assurdo?
In genere, per Monica invento storielle semplici di animali a
lei familiari. E, quasi, sempre a lieto fine. Cerco di coinvol-gerla il più
possibile nel racconto utilizzando figure e luoghi a lei noti. Talvolta, accostando,
come nel caso che segue, a una regina svedese personaggi della favolistica
araba.
Lei è tutta orecchie. Fino a quando il sonno non la vince e
si addormenta, talvolta, prima di finire la storiella. Meglio così, perché non
sempre mi è facile trovare un finale convincente.
Una favoletta improvvisata, a sfondo morale:
“Giufà nel castello
incantato”
“Una mattina, Giufà e
suo cugino Alì Babà giunsero a scuola in ritardo e trovarono il portone chiuso.
Nessuno venne ad
aprire e così restarono fuori.
Tutto, per colpa di Giufà che si era alzato tardi.
Alì Babà, che era un
bravo bambino, scoppiò a piangere: ”Ora, la mia mamma si arrabbierà e mi
punirà”
Giufà, che era un
bambino monello, invece rideva e lo incoraggiò: ”Non ti preoccupare,
inventeremo una bella scusa e la tua mamma non ti punirà”
Alì Babà, però,
continuava a piangere. A questo punto a Giufà venne un’idea.
“Senti che facciamo!
Invece di tornare a casa, ce ne andremo nel bosco a giocare e torneremo a casa
per il pranzo. Come sempre… Le nostre mamme non si accorgeranno di nulla…”
“No, io ho paura. E
poi cosa diremo domani alla maestra?”- rispose, singhiozzando, Alì Babà.
“Ma non ti
preoccupare. Inventeremo una scusa anche per lei… diremo che siamo rimasti a
casa per il raffreddore”
Alì Babà era indeciso:
a casa non voleva tornare perché temeva l’ira della madre e nel bosco non
voleva andare per paura dei serpenti e del lupo cattivo.
“Non avere paura, nel
bosco non c’è nessun pericolo. Io ci sono stato tante volte! Su andiamo…”,
l’esortò Giufà.
Giufà era un bugiardo,
perché non era mai stato, da solo, nel
bosco.
Per questo il naso gli
si allungò come quello di Pinocchio.
Cammina, cammina e
finalmente giunsero ai piedi di una montagna alberata.
“Ecco il bosco- disse
Giufà- entriamo”
Il bosco era grande e
fitto, il sole entrava a malapena, la luce era debole, tremula.
Salirono fin sulla
cima della montagna e videro, in un' ampia radura, un castello cintato di mura
e di torri, con al centro una grande cupola d’oro, come quella della moschea di
Al-Quds.
Un castello più grande
di quello di Joppolo – aggiunsi, per dare a Monica l’idea di un castello.
Di fronte a quella visione
i due cugini si bloccarono.
Alì Babà non volle
fare un passo avanti: “No, non vengo. Ho paura dei fantasmi che abitano nei
castelli.”
”Va bene. Aspettami
qui. Il tempo che io entri, veda e torni.” gli disse Giufà mentre varcava la
soglia del portone spa-lancato. Nella gran corte vide tante cose bellissime: fiori
multicolori sui quali si posavano le api in cerca di miele, farfalline e
uccelli di ogni specie.
Al centro, un giardino
rigoglioso pieno d’alberi esotici, pro-venienti da ogni parte del mondo,
carichi di frutti succulenti: arance, mandarini, mele, pere, melograni, papaya,
cedri del Libano, e poi ananas, fichidindia nataline, zorbe, uva e tante, tante
fragoline rosse.
Insomma, descrissi una sorta di giardino delle delizie con i
frutti che più piacevano alla bambina.
In questo paradiso
terrestre non c’erano quattro stagioni, ma una sola eterna primavera che creava
una sorta di micro-clima, unico al mondo.
Giufà vi si addentrò
e, con grande meraviglia, scoprì una fontana zampillante di miele purissimo,
prodotto da milioni di api che corrono di fiore in fiore per alimentare la fontana, annoverata fra le sette meraviglie del mondo.
Tornò indietro a chiamare il cugino :“Alì, Alì, vieni qua, cor-ri. Non
ci sono fantasmi, ma solo tante cose bellissime.
E’ come il Paradiso. Su, vieni…”
Monica col pulcino
Si presero per mano e
iniziarono l’esplorazione.
All’improvviso, dalla
torre apparve una donna alta e bellissima, dentro una tunica gialla.
Uno splendore
abbagliante che brillava come oro puro.
Per primo la vide Alì:
“Guarda lassù, sembra la
Madonna!”
“Aspetta che
domandiamo”- fece Giufà, anch’egli impres-sionato dall’apparizione.
“Ah, Ah! Non fatemi ridere. No, non sono la Madonna, ma Cristina di Svezia, regina di questa montagna. Vi piace il mio castello?”
“Certo, non abbiamo
mai visto tanta magnificenza, tanta abbondanza e varietà di frutti e,
soprattutto, mai conosciuto una signora tutta d’oro”- rispose l’intraprendente
Giufà.
“Non sono d’oro, ma di
carne e di ossa come voi. Purtroppo, sono obbligata a vivere qui da sola. Questo
è il mio regno e anche la mia prigione; da qui non posso uscire, fino allo fine
dei giorni”
“Vorresti dire che non
puoi andare in città?” domandò Alì.
“Non posso fare un passo fuori del bosco.
Resterei pietrificata, diventerei una statua…In un attimo, perderei tutto:
ricchezza, potenza, bellezza, giovinezza e la stessa vita.
Sono vittima di un
incantesimo fattomi dalla mia matrigna per impedirmi di vivere con mio padre
nella sua nuova reggia in Danimarca. Sono ricca e potente, ma sola.
Prigioniera.”
“Maestà, possiamo
visitare il vostro giardino e anche il castello?” chiesero timidamente i due
cugini.
“Certo che potete. Se
lo desiderate, potete anche mangiare tutta la frutta che volete…”
Senza farselo dire due
volte, i due cuginetti si riempirono le pance di fragole, di arance e di altre
delizie che pendevano dai rami.
“Ora vi mostrerò l’interno
del castello, i saloni e tutte le magnificenze contenute. E, se vi comporterete
bene, ci sarà per voi una sorpresa finale che vi farà ricchi…”
Così parlò la regina
mentre varcava la soglia del salone degli arazzi.
Alì Babà e Giufà la
seguirono, impazienti di scoprire la sorpresa finale.
Nelle stanze c’erano
le più grandi meraviglie dell’arte d’Oriente e d’Occidente che i due cugini
guardavano a bocca aperta e con occhi sbarrati.
Cristina, sfavillante
di bellezza, disse: “Ora vi mostrerò la camera del tesoro dove troverete la più
grande sorpresa.
Per entrarvi è necessario pronunciare due volte la parola
magica che solo io conosco. Vi troverete in un grande salone pieno d’oggetti
d’oro, d’argento, d’avorio, di perle e di gioielli raffinati, di diamanti, di
rubini, di monete d’oro coniate nei più grandi reami. Però, ricordate: potrete
prendere solo il necessario per aiutare le vostre famiglie a vivere bene. Non
di più! Avrete un minuto di tempo, sessanta secondi, per entrare, prendere e
uscire. Un secondo dopo la porta si chiuderà e resterete imprigionati dentro e presto sarete trasformati in statue d’oro e andrete ad
accrescere il mio tesoro... Perciò, ricordatevi, 60 secondi, non uno di più!”
I due si guardarono
felici e sgomenti e le chiesero di aprire la porta. La regina pronunciò la
parola magica.
“Abrahacalamiram, Abrahacalamiram”
Si udì un cigolio
sinistro, la pesante porta si aprì liberando un soffio di vento gelido li investì.
L’oro e l’argento
illuminavano a giorno la camera, altri-menti buia. I due esitarono,Cristina li
invogliò a entrare.
Una volta dentro, i
due cugini ebbero l’imbarazzo della scelta. Arraffarono a destra e a manca. Chi
un calice d’oro massiccio, chi una maschera d’oro e una collana di finissime
perle d’Arabia, una spada tempestata di diamanti.
Con quello che avevano
già preso, potevano campare ricchi e felici. Giufà però, non contento, si
diresse verso i sacchi contenenti le monete d’oro.
“No, lascia stare.
Abbiamo preso già abbastanza e il tempo stringe. Usciamo…”, disse Alì al
cugino.
“Abbiamo altri 4
secondi: ne prendo due pugni e andiamo via. Saremo ricchissimi…”
Non ebbe il tempo di
affondare le mani nel sacco che il portone si richiuse, con loro dentro, per sempre.
Bussarono alla porta,
gridarono disperati. Implorarono la pietà della regina, ma quella rispose con
una risata sadica, con una voce cavernosa,:”Ah, Ah, Ah! Anche voi siete cascati
nel mio tranello. Io non sono la regina di Svezia, ma la terribile maga
Stoppina che promette ricchezza e invece da morte. Siete stati ingordi, avete
voluto prendere oltre il necessario. Non
io, ma la vostra cupidigia vi ha puniti.
Ora sarete trasformati in statue d’oro e andrete ad accrescere il mio
tesoro…Ah, ah, ah.”
§ In questi giorni, siamo andati al mare sulle belle spiagge
del Lido Azzurro a Porto Empedocle e di “Giallonardo” a Siculiana.
Lei ha portato le sue ochette gialle per farle guazzare in
quelle acque tiepide e cristalline.
Il vento non ha un letto per dormire
18/8. Oggi è domenica. Ci
svegliamo con calma. Dopo la colazione, Monica mi chiede di andare a “dri dri”, ossia a spasso fuori.
Jolikè la veste con una camicia a quadri e una gonna jeans,
le calze rosse e le scarpette nere e il cappellino di paglia, ele-gantissimo,
che le avevo comprato lo scorso anno in quel negozietto per bambini in fondo a
via della Vite, a Roma.
Fino ad oggi, non aveva potuto indossarlo poiché era troppo
ampio per la sua testolina. Ora, le cade bene.
Monica e la zucca gigante
Così addobbata, Monica è
un incanto di bambina. In fami-glia siamo felici e orgogliosi di lei.
Camminando per le strade, le persone si fermano ad am-mirarla.
Parlano fra loro a bassa voce; sicuramente per commentare i progressi compiuti
in così poco tempo.
In fondo, occuparsi di Monica è anche un loro diritto,
poiché è un po’ anche figlia di questa comunità che l’ha accolta a braccia
aperte.
Nel pomeriggio è voluta salire in terrazza a fare il
“baglietto” (bagnetto) nella piscina di gomma.
C’era un gran caldo e l’acqua era tiepida e invitante.
Stranamente, però, non volle restare immersa a lungo. Dopo pochi minuti, mi
disse: papà do, do, là.
Capii che desiderava spostarsi nell’altra terrazza, quella
più fresca che guarda a tramontana, per andare a giocare con i cuscini di piuma.
Qui c’era un’ombra fresca, ricreante che invitava alla
medita-zione o a farsi una bella dormita.
Dissi a Monica: “A do,
do”. Lei eseguì l’ordine, si stese sopra i cuscini e fece per dormire.
Anch’io chiusi gli occhi.
Improvvisamente, mi si aggrappò forte, impaurita.
Le chiesi il motivo di tanta paura.
“Papà, fuu, fuuu!”
rispose. Di nuovo la paura del vento. Cercai di calmarla “Non avere paura, non c’è vento! Dov’è il vento?”
In effetti, tirava una leggera brezza di maestrale per altro
gra-devole, salutare.
Monica col ditino m’indicò, come prova, la ghirlanda di
fiori del cappero che dolcemente frusciavano sulla parete della roccia.
Una carezza, un alito di vento che s’insinuava in quella cas-cata
di fiori candidi e brillanti.
Ad agosto, sulla roccia non fiorisce nulla. Solo l’iris
selvatico e il cappero che danno i fiori più belli e delicati.
“Là, là, fuu, fuuu,
vento” tradusse per farmi capire e si strinse ancora più forte.
Fiore di cappero con ape
Cercai di spiegarle che non c’era d’aver paura di questo
vento. Anzi, che era un refrigerio sentirlo arrivare.
Le dissi anche di parlare col vento per placarlo. In ogni
caso, c’ero io a proteggerla.
La bambina prese a parlare col vento: “Vento do, do”
Il vento persisteva e lei passò dall’invito alla minaccia: “Ven-tu papà ammazza, oh!”; oppure “Moka non c’è, ammuccia papà”; “Ventu
babbu”.
Il vento non rispondeva agli insulti della bambina, anzi
inten-sificò il soffio e scosse le grandi foglie del nespolo, accuccia-to giù
in cortile.
“Vento, do, do, casa tua!
Papà dov’è la casa del vento?”
Avrei voluto rispondere nelle isole Lipari alla corte di
Eolo o nella Sardegna di “Canne al vento “ di Grazia Deledda, ma
non mi parve il caso.
Le spiegai che il vento non ha casa, non ha un letto per dor-mire.
E’ come un cavallo pazzo, condannato a vagare in eterno nel
cielo e per mare e per terra. Il vento non si ferma mai, si sposta in
continuazione. Fischia per avvisare del suo arrivo. Il vento è buono, è un
amico che ci porta le belle e le brutte notizie…da Paesi lontani.
Dopo cena, sedemmo Monica sul vasino, a forma di tartaru-ga,
per fare la cacchina.
Attese un po’, si sforzò anche, ma senza esito. Si alzò e
venne a trovarci in cucina: “Papà pipì
no, cacca no”.
Probabilmente, non aveva stimoli. Ma quella era l’ora:
e doveva provvedere. L’ordine di Jolikè
non ammetteva dero-ghe. Per invogliarla, trovai un diversivo.
Le diedi in mano un bambolotto di pezza e le dissi: “Fai la cacca insieme al pupo”.
Monica si ri-sedette. Dopo qualche minuto chiamò:
“Papà veni”
“Hai fatto la cacca?”
“Sci” (si) rispose.
“Brava Monica”
“Pupo cacca no” fece
lei un po’ delusa.
Il pupo aveva disobbedito. Scoppiai in una grande risata e
con questa sì chiuse la nostra bella giornata.
Il secondo compleanno di Monica
Questa sera grande riunione di famiglia per festeggiare il
secondo compleanno di Monica.
Sono venuti anche Enza e Michele Errore, con Loredana e
Massimo, e Totò Portella.
Sui tavoli pizze, dolci di mandorla preparati da Klari e da
mia suocera, Ilona Szekely, spumante e una gran torta confezio-nata dal bar
Costa con la scritta in cioccolato: “Buon
com-pleanno Monica”.
Sopra brillavano due candeline dall’incerta fiamma.
Da una settimana, stiamo preparando la bambina a spegnere le
candeline. Ora è arrivato il momento fatidico e deve spe-gnerle contornata da una
ressa di parenti e di amici.
Monica le spense con un lungo soffio. Un po’ aiutata da
Loredana e Massimo.
Seguirono applausi, baci e foto a volontà. Una festa semplice
e bella, fatta in casa come tutte le cose buone della vita.
Compleanno di Monica
Monica si è divertita tanto assieme a Loredana e a Massi-mo:
hanno ballato, cantato e tanto cicalato.
La bambina è divenuta una gran chiacchierona. Sembra avere
scoperto il dono della parola. Ormai, si può dire che sa espri-mersi piuttosto
bene o quasi.
E’ sempre molto affettuosa con noi e non desidera che sia
turbata la pace familiare. Se capita qualche diverbio coniuga-le, lei implora:“Papà, la mamma no” o, viceversa, “Mamma, papà no”.
Spesso, il suo affetto si manifesta sotto forma di ansia pos-sessiva.
Mamma e papà, tutti i parenti sono suoi, nel senso notarile del termine.
Se qualcuno, per scherzo, minaccia di prendersi papà o la
mamma o anche la nonna, Lucrezia o zia Klari o altre persone della famiglia a
lei care, sbotta a piangere e corre a stringersi al petto della persona
minacciata di “rapimento”.
Gioca spesso con Carmelino, il figlio di Masi di Carminu di
Giuannina di Masi, che sa ricambiare l’amicizia.
Monica non appena scorge “Canellino” esprime una gioia
davvero incontenibile.
Monica, Carmelino e Nagymamà
Un altro passatempo sono
gli animali che vede intorno alla casa. L’ultimo che ha scoperto è la rana che
lei chiama in due modi: “beka” in
ungherese e qualche volta “giurana”
in sici-liano.
Così, la furbetta, accontenta entrambi.
Da noi, le rane escono la sera: camminano, saltellano, si
bagnano, amoreggiano, e gracidano per l’intera notte.
Sovente le bestioline sono le vittime prelibate di
giovinastri che si divertono a farle soffrire, anche a ucciderle.
Per risparmiarle da questa violenza gratuita, si ricorda ai
male intenzionati che le “ giurane
portano l’ogliu o Signuri” e,
dunque, chi le uccide commette un’imperdonabile empietà.
In casi estremi, si ricorre alla minaccia più grave,
diretta:
“Se ammazzi sta giurana, ci siccanu li minni a
to mà.”
(Se uccidi questa rana, seccheranno le mammelle a tua madre)
Una minaccia apocalittica che penderà sulla discendenza, sui
figli neonati e su quelli che verranno.
Un castigo terribile
poiché col seno secco una madre non potrà allattare, svezzare la prole.
Nonostante ciò, le povere
rane soccombono lo stesso.
Monica sta seguendo una rana saltellante intorno alla fonta-nella.
Vedendo avvicinare la bambina, la rana preferisce allontanarsi di gran lena.
La bambina la insegue e la chiama: “beka, beka, ccà…”
“Oibò! Con chi ce l’ha
questa bimbetta?”, avrà pensato la
rana che prima d’ora nessuno aveva chiamato “beka”.
Non conoscendo l’ungherese, la bestiolina temette che la
stesse minacciando e scomparve in una buca.
Il gioco è bello, ma si sono fatte le undici di sera.
E’ ora di andare a letto. La notte è tiepida, invitante; lei
vorrebbe continuare a rincorrere la rana spaventata o, forse, anch’essa
divertita.
L’afferro e me la carico in groppa e la trasporto a casa.
Vorrebbe stare sveglia e giocare nel letto con noi. Cerco di convincerla che è
veramente tardi e deve andare a do, do.
Per tutta risposta, lei ci abbraccia e sorride felice.
Forse, è un tentativo di corruzione per ottenere una deroga sull’orario.
Taglio corto, le dico “Ora
dormi. Papà deve andare lassù, nella stanzetta, a lavorare” Monica conosce
la stanzetta e sa che ci vado a scrivere, con la penna.
Questa volta si arrabbia: “Papà, penna no”, “Penna basta!”
E’ una dolce protesta per chiedere di restare con lei a
giocare nel lettone. Le spiego che devo lavorare nella stanzetta per fare
mangiare lei e la famiglia. Forse qualcosa capisce, poi-ché diventa tutta
riflessiva e mi autorizza “papà
lavoiare”.
Per addormentarsi, vuole che Jolikè le canti la solita
canzon-cina ungherese “Este”.
§. Ormai, in casa nostra ogni occasione è
buona per far festa. Questa sera abbiamo brindato alla “nascita” ufficiale di
Monica Nicoletta Spataro.
Non si tratta della sua terza nascita, ma del decreto di ado-zione
definitiva della bambina, notificatoci ieri dal Tribunale dei minorenni di
Palermo.
Domani lo porterò
all’ufficio anagrafe del Comune dove sarà registrata con questo nome.
Si tratta di un altro passaggio burocratico, di un nuovo
bollo, che conferma, in via definitiva, che Monica è nostra figlia, a tutti gli
effetti di legge. E guai a chi ce la tocca!
Monica con Lillo e Klari
La bambina è contenta della festa; ogni tanto batte le manine
e grida “bavi, bavi”, “aguri”.
Noto che Monica usa prevalentemente il siciliano, anzi la
parlata agrigentina. A seguire vengono l’italiano e il magiaro.
La graduatoria non è casuale, ma risponde a una certa idea
che abbiamo noi dell’integrazione culturale.
Quasi a volerle tracciare un percorso di vita: Sicilia,
Italia, Ungheria, Mondo. Buona fortuna!
Per altro, quando si esprime in siciliano, è davvero dolcis-sima.
Ogni tanto dice tutta contenta:“Papà Moka
sapi ungheresi”. Lo fa anche per accontentare Joliké.
Sono le ore ventidue. Monica ha già fatto il bagnetto serale
e viene a giocare con me sul lettone.
Mi esibisco in varie pantomime e lei ride a crepapelle.
Verso le ventitré, accenno di volere uscire in piazza a trovare gli amici per
farmi una partita a bigliardino.
Monica protesta: “Papà
fogliati (spogliati) e fai do, do!”
Deliziosa e inviperita nel suo accappatoio giallo.
Mi accorgo che mi riesce difficile staccarmi da lei.
A casa non riesco più a concentrarmi, a lavorare con l’inten-sità
solita, come sarebbe necessario.
Ora capisco perché il Vaticano non intende abrogare
l’obbli-go del celibato per i sacerdoti!
Anche quando sono nel mio studio, non appena sento la vocina
di Monica, non resisto alla tentazione di scendere a giocare con lei.
Sono cosciente di trascurare un po’ ìl mio lavoro politico e
parlamentare. Tuttavia, sento che se dovessi perdere questi momenti dolcissimi
non li potrei più recuperare.
Perciò, me li godo.
Per altro, mi accorgo che gli ideali per i quali abbiamo
lottato (la rivoluzione, il socialismo,) si allontanano sempre di più dalla
nostra prospettiva.
Vincenzo Terrana o dell’umanità del Partito
Fin dal suo arrivo, la salute di Monica è stata seguita dal
dottor Vincenzo Terrana, primario pediatra dell’ospedale di Agrigento e
nobilissimo compagno originario di Grotte.
Uomo generoso e sapiente, grande medico, con una espe-rienza
vasta e un’umanità infinita.
Per altro, la sua generosità ci crea un qualche imbarazzo,
giacché continua a non volere pagato il meritato onorario.
Più che per me- dice - lo fa per la bambina. Credo sia
sincero.
Soprattutto nella prima fase, ci è stato di grande aiuto per
curare le conseguenze evidenti della malnutrizione e gli scompensi psicologici
e affettivi della bambina.
Ora che l’ha portata nella “norma”, continua a seguirla
perché desidera che diventi una “bella
signorina”.
Quando si dice un “compagno”! Ogni volta che pronunciamo
questa parola bisognerebbe soppesarla e
non attribuirla gra-tuitamente a chicchessia, giacché con essa evochiamo un vin-colo
ideale, universale più forte dell’amicizia, della stessa parentela.
Compagno è anche il suggello, la sintesi più alta dell’umanità
del partito.
E’ qualcosa di più della
“fraternité” coniata durante la rivolu-zione
francese, la madre delle Rivoluzioni moderne.
Il Pci è grande e potente
perché è stato ben guidato da perso-nalità
del calibro di Gramsci, Togliatti e Berlinguer, ma soprattutto perché ha avuto,
ha, nelle sue file milioni di lavo-ratori, di intellettuali, di compagne e compagni fedeli e generosi come Terrana.
Senza di loro cosa saremmo noi, tutti noi, che sembriamo
predestinati al comando?
L’umanità del partito,
l’umanità tout court!
Valori che altri ci invidiano. Qualcuno si potrà
meravigliare, ma per questa umanità abbiamo sognato e lottato, anche nei
momenti di maggiore asprezza. Sul nostro cammino avremo compiuto errori, forse
ci saremo un po’ illusi, ma questa uma-nità è stata sempre il fine ultimo della
nostra meta.
Alcuni, magari, avranno deviato per la facile via
“dell’anti-utopia” o del “realismo opportunista”, ma questa è devianza, per
l’appunto, è l’eccezione non la regola.
Torniamo a Monica che è il soggetto e, al contempo, l’ogget-to
di questo strampalato diario.
Il suo linguaggio è in continua evoluzione; si arricchisce
di nuovi termini ed espressioni.
In pratica, riesce a chiamare, più o meno correttamente, tutto
ciò che le appartiene o di cui ha bisogno. A cominciare dal suo nome: non più
“Moka”, ma “Monica”.
Confesso che sono rimasto affezionato al primo.
Per essere sicura di non sbagliare, lo pronuncia bello tondo
e scandito: “Mo- ni- ca”.
Anche in ciò vedo uno sforzo per affermare la sua personali-tà.
Vuole essere Monica, com' è giusto che sia.
Maria Giovanna non è più “Ja, ja”, ma Mahia Giovanna.
Continua a dire “Lucezia”, ma credo ancora per poco.
Quando vede passare zio Peppi Cacciatore, il fontaniere, lo
saluta con un “buongiorno zi Pè”,
come salutiamo noi.
Sono contento che apprenda il siciliano. Tuttavia, deve impa-rare
bene anche l’italiano per evitare difficoltà in futuro, a scuola e nella vita.
Ancora per la mia generazione, la prima lingua è stata il
sici-liano. Per imparare l’italiano (non sempre bene) abbiamo faticato
tantissimo. In ogni caso, psicologicamente, l’italiano resta pur sempre la
seconda lingua.
C’è, infatti, come un meccanismo mentale ineliminabile che
scatta ogni qual volta conversiamo in lingua. Ogni parola, prima di
pronunciarla o di recepirla, necessita di una tradu-zione simultanea dal
siciliano all’italiano e viceversa.
Inoltre, bisogna stare attenti ad alcuni termini “impropri” acquisiti
dalla parlata locale corrente.
Un esempio. Stasera Monica mi ha detto:“questa cosa m’im-parà Lucezia”.
Voleva dire: “ me l’ha insegnata Lucrezia”.
Nella parlata locale il verbo “insegnare” è usato raramente.
Come se il popolo dovesse solo imparare (dagli altri) e mai
potere insegnare qualcosa a qualcuno.
Nella lingua siciliana parlata vi sono anche queste perfide
sottigliezze. La più clamorosa è l’assenza di futuro, del tempo futuro. Non
insegnare, non sperare, non progettare…. Che cosa resta? Obbedire, subire,
pagare, servire, non vedere, non udire, non parlare, ecc.
Il pappagallo di Nzuli
Questa mattina Jolikè e Klari sono andate al mercato e hanno
comprato un paio di abitini e maglioncini invernali per Monica la quale li ha
voluti provare subito, davanti allo spec-chio.
Da perfetta vanitosa qual è, a ogni capo indossato ha preteso
i complimenti e l’applauso.
Desidero precisare che si tratta di roba “non firmata”.
Jolikè, generalmente, compra al mercato poiché rifuggiamo dal vezzo, costoso e
provinciale, della firma a tutti i costi.
Verso le 21,00, usciamo a passeggiare per il paese. La
serata è fresca e le strade sono quasi deserte.
Monica vuole bussare alla porta di una stalla dove abitano i
“chicchirichì”. Le spiego che, a quell’ora, le galline dormono e non si possono
disturbare nel sonno, altrimenti impazzisco-no e si mangeranno l’ovetto destinato
ai bambini.
La bambina ha memorizzato i vari luoghi di residenza degli
animali suoi conoscenti: qui ci abita “chicchirichì”,
là “bee, bee”, lì “clò, clò” il
cavallo, “bau, bau”, miau miau”.
Gli uccelli (“ciu ciu”)
stanno in cielo, fanno compagnia a Ge-sù, come le ha insegnato mia madre.
Ma per Monica l’attrazione fatale, il vero fenomeno è l’uc-cello
parlante ossia il pappagallo di Nzuli, il pittore.
E’ un esemplare coloratissimo, originario della foresta amaz-zonica,
che parla e canta di continuo, chiuso in gabbia come un re mapuche in cattività.
Ha imparato tre o quattro parole e le ripete come un bimbo
piccolo, con la sua voce contratta, gutturale.
Spesso chiama per nome i suoi padroni. Ogni tanto dice una
parola strana, incomprensibile.
Che cosa vorrà dire? Nemmeno Nzuli lo sa.
Forse, come il pappagallo di Humboldt, (citato da Charles
Darwin) è “l’unico che sa dire una parola
nella lingua di una tribù estinta”.
Scendiamo lentamente verso il castello dei duchi Colonna di
Cesarò. In realtà, è un palazzo signorile, una residenza estiva appoggiata a
un’enorme roccia calcarea e circondato da un parco, un tempo florido e ricco di
piante rare, esotiche.
Da qui, saliamo per la via Pastori, il primo nucleo abitato sorto
intorno al castello nel 1696, anno della fondazione, del paese che allora contava
87 “fuochi” ossia famiglie.
Oggi, questa strada è dedicata a “Jonson” ossia a uno dei
presidenti Usa più odiati, in patria e nel mondo, a causa dei terribili
bombardamenti in Vietnam e dei sospetti che su di lui si appuntano per l’
assassinio del presidente John Kenne-dy, di cui era vicepresidente.
Eppure, quest’uomo è riuscito, da vivo e senza saperlo, ad
avere dedicata una via in uno sperduto borgo siciliano, anche
se gli hanno storpiato il nome. Manca, infatti, la acca.
Forse, essendo una consonante muta, fu ritenuta superflua dal ragioniere Barresi che ebbe la brillante idea della intito-lazione col solo
fine di ottenere il visto per emigrare in
Usa.
Ricorse, infatti, a tale, furbesco espediente per
ingraziarsi i funzionari del consolato di Palermo, i quale poterono comu-nicare
a Washington che a Joppolo Giancaxio, unico caso al mondo, era stata dedicata
al presidente in carica la principale via del centro-storico. Nientedimeno!
E così Jonhson ottenne la sua via e il furbetto il visto
conso-lare. Demeriti e bisogni, un binomio insolito, che quando s’incontrano
producono bassezze di questo tipo.
A parte ciò, è rasserenante passeggiare per queste vie con
Monica sempre più curiosa.
“Papà cosa è esto?
Papà chi c’è qua, lì?”
Per lei la vita è una continua scoperta. Nei giorni scorsi,
il suo interesse si è applicato ai colori. E’ molto attratta dai nos-tri colori
solari, splendidi. Alcuni già li distingue e li chiama per nome: blu, janco
(bianco), jallo, rosso. Quando ne scopre uno nuovo, vuol saperne il nome.
Siamo alla vigilia della festa dei morti. Sissignori. La
festa dei morti!
Non si tratta di un
rituale macabro, ma di una festa, per l’ap-punto, nella quale si presentano ai
bambini i familiari defunti come portatori di gioia e di delizie, per
rinsaldare il legame fra i vivi e i morti.
In fondo, è anche un modo di presentare la morte per quello
che è: un evento naturale, per altro ineluttabile.
E, visto che non si può evitare, meglio trattarla bene.
Succede. Anche con altri
“mali”che ineluttabili non sono!
Abbiamo detto a Monica di lasciare le scarpine sul davanzale
della finestra, perché stanotte verranno i morti e vi metteran-no i regalini.
La bambina ha un’idea ancora molto confusa della morte, dei
morti. L’unica morte alla quale ha assistito è stata quella di una lucertola
massacrata da alcuni ragazzini.
Per lei la differenza fra la vita e la morte è legata al
concetto di mobilità: da viva la lucertola correva, da morta non più, rimase
immobile sull’acciottolato. Da questa esperienza ha tratto un teorema: tutto
quello che si muove è vivo, quello che non si muove è morto.
Desiderosa dei nuovi regali promessi, la bambina, prima di
andare a letto, volle lasciare le scarpine fuori della finestra. Più volte mi
disse: “Papà metto sciappe fora, Monica
cò cò”.
Le prometto che domani, dopo l’apertura dei regali, l’avrei portata al cimitero a visitare i nostri morti che
le porteranno altri regali.
§. Stare con
Monica, ormai, è per me l’unico piacere. Perciò, mi organizzo il lavoro in modo
da restare il più possibile con lei. Solo in questi momenti ritrovo il senso
della vita, mi scarico del peso delle angosce, dei contrasti politici interni
al partito.
Quando sto con lei, dimentico ogni altra cosa e sono felice.
Quasi percepisse il mio stato d’animo, la bambina s'ingegna
per farmi stare allegro. Giochiamo insieme per la casa, sul letto e per strada.
Dovunque, e senza ritegno.
In genere, usciamo noi due da soli. I luoghi sono quasi
sempre gli stessi: la campagna di Montefamoso e il campo sportivo dove la
bambina può sbizzarrirsi a correre, a giocare e a… cadere.
Ho notato che in alcune espressioni comincia ad abbandonare
la terza persona e a parlare in prima. Come se cominciasse a prendere
coscienza, a impossessarsi del suo nome, a identi-ficare Monica con se stessa.
Esempio: prima diceva “Monica
voli esto” ora “io voli esto”. Mi
pare un passaggio importante di appropriazione dell’io. Chissà cosa sta frullando
nella sua testolina bionda?
§. Lascio Monica a
letto col raffreddore: ha perso un po’ di smalto, ma nulla di grave.
Mi reco al municipio per la registrazione all’anagrafe della
bambina. C’è qualche difficoltà che parrebbe superabile.
Ieri, Jolikè e Klari hanno addobbato il pino che abbiamo nel
giardino per il Natale. Col buio, è davvero molto suggestivo vedere
quell’albero (vivo) carico di addobbi e luminarie colo-rate.
Monica vuole essere rialzata
per vederlo anche lei dalla finestra. Ma non è finita qui. C’è un altro
alberello, un abete spiantato, che metteremo, addobbato, nella stanza da
pranzo, dove Monica potrà ammirarlo, in attesa di aprire i regalini che
sicuramente le porterà…Babbo Natale.
Chissà perché ai bambini i regali non li debbano portare i
genitori, i nonni, gli uomini e le donne in carne e ossa che li amano, ma
queste estranee entità funambolesche!
In questo clima festoso, decidiamo d’informare Monica che
presto potrebbe arrivare un fratellino nicu
nicu (piccolino) come lo desidera lei, da tempo. Tutte le sue amichette
hanno un fratellino o una sorellina. Solo lei à figlia unica.
Ora ne parla come se il fratellino fosse in viaggio verso
Joppolo: “Appena viene gli do il mio
lettino per farlo dor-mire, l’aiuto a mangiare col cucchiaio, lo faccio giocare
con i miei giocattoli.”
Quando telefono mi ricorda sempre di “portare il fratellino”, caramelle, cioccolati e giocattoli.
Insomma, anche il “fratellino” fa parte della lista
aggiornata dei regali. Oggi, abbiamo deciso d’inoltrare la domanda.
Arrivano due Babbi Natale
Questo è il secondo Natale di Monica: il primo l’ha pas-sato
laggiù, il secondo con noi. La bambina è un po’ frastor-nata per la festa, per
i tanti regali ricevuti. Bacia tutti per ringraziare.
Anche per mio fratello Lillo è festa grande: dopo 25 anni,
festeggia il Natale in casa sua a Joppolo, con la sua famiglia. Per un quarto
di secolo, ha lavorato in Belgio, emigrato, co-me tantissimi joppolesi.
Fuori c’è freddo intenso, quasi nevica. Sarebbe bello un
Natale con la neve, in Sicilia!
Ovviamente, Monica è il centro di attrazione della festa.
E’ un piacere vederla “scodinzolare” fra i piedi col suo
sorri-so dolcissimo e farfugliare parole e frasi in siciliano.
Ripete in continuazione che vuole andare a “sciola (scuola) come Lucezia”.
L’altro giorno, Jolikè l’ha portata veramente a scuola e
l’ha fatta sedere sul banco accanto a Lucrezia fra libri, quaderni, penne.
Hanno anche cantato in coro una “canzoncina”.
La bambina, entusiasta, racconta a tutti l’esperienza
vissuta come il massimo di ciò che si può sperare dalla vita.
Ieri pomeriggio, la grande sorpresa: due Babbi Natale sono
venuti a casa nostra, a bordo di un calesse tirato da un cavallo vero. A Monica
hanno portato un pacco di caramelle e un panettone.
Monica tra due Babbi Natale
Per lei si è avverato il sogno che in questi giorni le
abbiamo raccontato.
Dunque, Babbo Natale esiste davvero, in carne e ossa, con la
barba bianca e lunga. Addirittura, sono venuti in due a por-tarle i doni e a baciarla
con le loro barbe morbide e intrise di molliche di panettone.
A Monica piace anche “scivere” ovverosia disegnare. Traccia
piuttosto bene il cerchio che, chissà perché, chiama “papà”, mentre la mamma è il
coniglietto, e lei il gattino.
La raffigurazione mi lusinga: il cerchio è la perfezione… Scherzo,
ovviamente. Per altro, credo che la bambina muova da un punto di vista a noi
ignoto.
Bisognerebbe osservare meglio, analizzare questi segni
e forme per capirne il significato.
Anche a Monica piace
tanto scherzare, ironizzare.
Ogni qual volta incontra Giovanni Vecchio, alias
“straviatu”, che sfottiamo perché non si decide a prendere moglie, lei lo
invita sorridente:“maitati” (maritati!).
Ormai, in paese tutti sanno di questo infantile sfottò e le
chiedono: “Monica cosa dici a Giovanni
Vecchio?”
Lei, sorniona, risponde a tono: “Maitati!”.
§. Questa notte
(28/12), Monica ha dormito, per la prima volta, senza pannolino e non si è
bagnata.
Jolikè considera questo fatto davvero straordinario e de-gno
di nota, poiché segna il superamento di un serio disagio per la bambina e per
noi costretti a portare in casa pacchi di pannolini.
Capitolo sesto
Joppolo la casa-madre: la scala
La famiglia cresce, la casa si allarga
Stamattina (6/1/87), Monica è andata con Klari, Lillo e mia
madre ad assistere alla “pastorale” che, per antica tradi-zione, si svolge
nella piazzetta detta “ncapu i morti”.
Un tempo, prima della costruzione del cimitero (1882), in
questa piazzetta erano sepolti i defunti, così alla rinfusa: un fosso e un po’
di terra addosso per riparo.
La giornata è fredda e ventosa. Temiamo per la sua salute,
anche perché in questi giorni ha avuto un po’ di raffreddore.
Dopo circa un’ora, scendo in piazza per riportarla a casa,
al calduccio.
Monica non ne vuole sentire di rientrare perché - mi dice- desidera
vedere “cosa fa Narduzzu”.
Dopo un po’, Lillo la riportò a casa, con una scusa e cosi
lei ci raccontò tutto, per filo e per segno: il cavallino con i bam-bini sopra,
Narduzzu “monello”che sputava la ricotta, le pe-corelle, la “cosaaa”, la Madonnina, Gesù
piccolino che pian-geva.
Noto che Monica ricorre a questo termine generico “la cosa”,
quando ha difficoltà a specificare l’oggetto della sua osser-vazione; lo usa per
proseguire il discorso senza bloccarsi. Un espediente che le potrà tornare utile agli esami di stato.
A pranzo è svogliata, non mostra interesse per il cibo.
Eppur si deve! Per invogliarla le abbiamo promesso che dopo l’avrem-mo portata
a ri-vedere Narduzzu.
Solo a questa condizione prese il brodino di carne.
§. Questa sera
siamo stati con Jolikè dal notaio per l’ac-quisto della vecchia casa di mio zio
Carmelo Sacco, attacca-ta alla nostra. E’ tempo di ampliare la casa, la
famiglia sta crescendo.
Vorremmo demolirla e costruire una stanza da letto per noi e
sopra due stanzette: una per Monica e l’altra per il fratellino che
dovrebbe arrivare.
Abbiamo spiegato a Monica il progetto, la quale ha com-mentato:
“Fratellino dorme qua”- indicò la sua
culla- e Monica dorme nel letto nuovo”.
“Che cosa farai al
fratellino?”.
“Monica porta al
fratellino in cucina per fare mangiare latte”
“E poi?”
“Poi, Monica mette
fratellino nella carrozzella e Monica spinge…”
“E poi?”
“Poi Monica canta
“Este” e fratellino dorme, qua”
Come in tutte le piccole donne, anche in lei c’è verso il
fra-tellino uno slancio materno più che fraterno.
Ormai, la bambina l’aspetta con impazienza. Se non dovesse
arrivare, sarebbe un vero guaio, una forte delusione.
Giù da mia madre abbiamo brindato al nuovo acquisto. Monica
era effervescente come le bollicine dello spumante. Col suo bicchierino in mano
ripeteva “Aguri, aguri” facendo cin
cin con tutti.
Si scolò avidamente le poche gocce di spumante concesse per
poi passare ai nostri fondi dei bicchieri.
Nonostante il suo carattere allegro, scherzoso, talvolta mani-festa,
anche nei nostri confronti, una certa volontà di contra-sto, risponde di no ai
nostri inviti.
Di fronte a tale “insorgenza oppositiva”, ci siamo
precipitati a consultare il prontuario del famoso pediatra Benjamin Spook il
quale assicura che un tale comportamento è normale nei bambini che hanno
superato i due anni di vita.
Pertanto, bisogna evitare ogni accanimento correttivo, preve-nendo
l’insorgere del contrasto mediante la spiegazione razionale e attendere,
fiduciosi, il superamento di questa fase.
Speriamo che così sia. Per altro, non si tratta di manifestazio-ni
gravi.
Da profano, mi sembra,
piuttosto, una forma d’irrobustimento del carattere, della sua personalità.
§. Questa sera
(18/1) è accaduto un fatto inusuale: per la prima volta ho rifilato un buffetto
a Monica. Per giunta, come dopo mi accorsi, senza essercene ragione.
La piccola, dolcissima Monica punita ingiustamente. Questo
pensiero continua a tormentarmi.
Non vedo l’ora che si svegli per abbracciarla e fare “pace, paciuzza” col ditino.
Tutto è successo a causa di un equivoco, quando la vidi
armeggiare con un bastone fra un groviglio di fili elettrici, posto dietro il
frigorifero di mia madre.
Temetti che potesse provocare un contatto. Perciò, la
sgridai dicendole di non toccare mai i fili. Lei insistette e io le mollai uno
schiaffetto per farla desistere.
In realtà, voleva prendere la scopa per “pulire la casa della nonna”, come
mi disse piangendo.
Più per il dolore, piangeva per il torto ingiustamente
subito.
La presi in braccio e mi accorsi della scopa. Tentai di
conso-larla, le chiesi scusa. Lei continuò a piangere e corse da Klari e con
lei salì dalla mamma.
Restai molto dispiaciuto dell’equivoco che spero di poter chiarire
domattina.
Il bambino invisibile
Sono tornato da Roma nella tarda serata (23/1). Monica già
dormiva. Sono rimasto un po’ deluso poiché speravo di trovarla sveglia per
abbracciarla e giocare un pochino.
Jolikè, che ha intuito il
mio desiderio, va al capezzale della bambina sussurrandole all’orecchio: Mo, Mo, è venuto pa-pà”.
Lei si destò come un
fiore che si schiude al primo raggio di sole del mattino. Si stropicciò gli
occhi e mi guardò smarrita. Poi, aprì le braccia con un dolcissimo sorriso.
Ci abbracciammo a lungo. Nel frattempo, Jolikè era andata a
prendere un sacchetto e lo agitò sopra la culla.
Monica ricordò ciò che doveva fare, lo afferrò e me lo
porse: “Aguri, aguri papà”.
“Che cos’è?” feci
io.
“Questo te l' ha
comprato Monica”, rispose, porgendomi una busta con dentro una bellissima
cravatta.
Era il regalo per il mio 39° compleanno caduto ieri.
Poi volle venire a giocare con me a fare “bau, bau”.
Si tratta di un giochino nel quale ci divertiamo a rincorrerci
nella stanza imitando il cane.
Ero stanco e dissi di volere andare a letto. Monica si prenotò
per trasferirsi nel lettone.
Prese una busta e mi disse: ”guarda papà, qua dentro c’è il bimbo”.
Guardai, ma non vidi nulla.
“Papà affetta (aspetta) che porto bimbo a letto”
Con le manine prese a mimare una scena materna: lo prese in
braccio e lo depose nel letto poi mi avvertì “papà stai atten-to, non fare bu bù al bimbo perché piange”.
Paradossale! Non sapevo cosa pensare. Domandai spiega-zioni
a Jolikè.
Mi rispose che, da qualche giorno, la bambina gioca con
questo bambino invisibile e si comporta come se fosse reale .
L’idea le è venuta dopo aver visto il pancione di Enza, la
mo-glie di Totò Camilleri (Borsellino), ch’ era stata a casa nostra.
Incuriosita da quella pancia enorme, prominente, Monica le
domandò: “Che c’è qua dentro?”
Enza le spiegò che c’era un bimbo piccolo, piccolo.
Monica, non vedendolo, avrà pensato che era un bambino
invisibile. Come la signora, anche lei poteva avere un bimbo invisibile col
quale giocare.
Enza lo teneva nascosto nella pancia, lei in quella busta.
Semplicemente, fantastico!
§. Siamo in
Federazione (6/2), al ricevimento in onore dei gruppi folkloristici della
Jugoslavia e dell’Ungheria che partecipano alla Sagra internazionale del
folklore.
Invitare alcuni gruppi provenienti dai Paesi socialisti è
dive-nuta una piacevole tradizione per i compagni agrigentini.
L’abbiamo introdotta agli inizi degli anni ’70, da
quando disponiamo di una sede adeguata, acquistata
con una sottos-crizione popolare e con un mutuo.
Monica è arrivata un tantino frastornata a causa degli
effetti della supposta assunta contro il mal d’auto.
Tuttavia, quando vide tutti quei ragazzi, allegri e coloratis-simi,
danzare e cantare si destò dal torpore e prese a ballare anche lei. In braccio
a me.
Jolikè salutò gli ungheresi e si mise a conversare con loro.
Monica voleva conoscerli tutti. Era strano vedere tanti ragaz-zi e ragazze che
parlavano come la mamma e zia Klari.
L’altra sera, sul tardi,
Monica si fece male con qualcosa. Pianse tanto in braccio a Jolikè che non
riusciva a placarla. Dal mio studio udii i lamenti, ma pensai non fosse il caso
di sospendere la lettura delle carte.
La bambina continuava a lamentarsi: “Ahi, papà”.
Quell’invocazione fu per me un’emozione intensissima, anche
perché solitamente tutti invochiamo la mamma per lenire il dolore. Lasciai
carte, cartelle e quant’altro e scesi di corsa ad abbracciare Monica e non la
lasciai fino a quando il dolore non se ne fu andato.
Un vestitino burlesco
E’ arrivato (27/2) il Carnevale. Anche Monica ha un vestitino
burlesco che, ieri, ha indossato per girare il paese con Lucrezia e con Maria Luisa vestite da arabe.
Maria Luisa, Monica e Lucrezia
La bambina si sente grande e desidera partecipare ai gio-chi
dei bambini più cresciuti.
Questa mattina ero ancora a letto, mentre la vedevo prepa-rarsi
per andare all’asilo dove erano in corso i preparativi per il Carnevale dei
bambini.
Nella stanza c’era anche Lucrezia che, per scherzo, cominciò
a darmi manate sui piedi.
Monica protestò vibratamente contro Lucrezia e insorse a mia
difesa: “A papà no botte”
Poiché continuava a picchiarmi, la sgridò con un tono secco,
ultimativo: ”Lucezia, a papà no botte, ti
ho detto”
Lucrezia per indispettirla disse “Papà è mio”
“No, è mio”
replicò Monica.
Lucrezia con più forza “No,
papà è mio”.
A questo punto, Monica con fare persuasivo, quasi imploran-te,
e la vocina quasi rotta, si rivolse alla cugina:
”Lucezia, papà è mio,
poi io non ho più papà”.
A sentire queste parole, davvero commoventi, mi alzai dal
letto e intimai a Lucrezia di smetterla; lo scherzo si era fatto pesante e
poteva danneggiare la bambina.
Al che, Lucrezia per tranquillizzarla, le disse sorridente: “Papà è tuo. Io ho il mio papà che si chiama
Franco”.
Monica si rasserenò e mi saltò addosso, stringendosi al
collo forte, forte.
In serata, vennero a casa nostra un gruppo di ragazzini
orren-damente mascherati capeggiati da Lucrezia travestita da sceicco.
Alla vista di quei diavoletti scatenati, taluni con maschere
davvero mostruose, la bambina restò come interdetta dalla paura.
Li scrutò a uno a uno, forse sperando di riconoscerne qual-cuno
e così assicurarsi che era soltanto uno scherzo carnas-cialesco.
Quelli, di rimando, volevano prenderla in braccio,
carezzarla, ma lei, spaventata, ancor più si stringeva al mio collo.
Finalmente, Lucrezia la chiamò per nome. Monica riconobbe la
voce della cugina e prese coraggio, sorrise e si mischiò nel mucchio di quei bambini
chiassosi e un po’… mostruosi.
Congedati i “mascherati”, siamo andati a cercare “Cibesi” il
cane di Lillo che quel giorno non si era fatto vedere.
Monica e Jolikè temevano che se ne fosse andato via per
sempre o che qualcuno l’avesse rinchiuso per poi portarselo in campagna.
Succede quando un cane è ben cresciuto e soprattutto è “guardiano”.
Lo cercammo per le strade, fin laggiù al castello. Monica lo
chiamò a voce alta “Cibesi, Cibesi”.
E il cane, che forse vagabondava nel sentiero detto “sutta u
granatu”, avrà udito il richiamo e corse
all’incontro.
§. Ieri (11/3),
Monica ha fatto più volte la pipì addosso. Davvero un fatto strano, forse causato
dal freddo intenso di questi giorni. Però, lei, oramai, si sa autoregolare.
Negli ultimi mesi, soltanto una o due volte era successo.
Valutiamo se non sia il caso di farla vedere dal medico.
Prima, però, la mettiamo sotto osservazione, per capire
meglio.
Solitamente, la bambina quando avverte lo stimolo ci chiama
per essere aiutata. Invece, ieri non ha chiesto aiuto. E neanche oggi. La cosa
un poco mi preoccupa e la seguo nel bagno.
La vedo, in piedi, davanti al water muovere il bacino in avanti,
senza abbassare gli indumenti, come fanno pipì i maschietti.
Ovviamente, se la fa addosso. Ed ecco scoperto l’arcano che
ci stava facendo correre da uno specialista urologo.
Probabilmente, la bambina, avendo visto, magari da dietro, i
compagnetti al bagno avrà pensato che anche lei potesse fare la pipì in piedi.
Nell’orto del nonno, a Montefamoso
Nel pomeriggio (24/3), con Monica siamo andati ad
accompagnare mio padre nella sua campagna di Monte-famoso. A 75 anni suonati,
zio Pitrinu ancora coltiva il suo pezzo di terra (meno di un ettaro) acquistato
con i tanti sacri-fici dell’emigrazione in Belgio e in Germania.
L’ironia della storia ha voluto che comprasse questa quota a
poche spanne da quella che gli era stata assegnata (gratuitamente) dalla legge
di riforma agraria nel 1947.
In quegli anni, la legge Gullo (ministro comunista dell’agri-coltura)
provocò nel sud una sorta di rivoluzione agraria.
Anche a Joppolo, poverissimo borgo alle spalle di Agrigento,
i braccianti senza terra occuparono i due feudi appartenenti alla famiglia del
Duca di Cesarò e ne ottennero l'esproprio.
Un ettaro a capofamiglia. A mio padre toccò nella collina di
Montefamoso o Fanusu.
La gioia per quella “conquista” fu davvero grande. Tutti
corsero a seminare il lotto per ricavarne la “mancia” per l’inverno ossia la
quantità necessaria di grano e di legumi per sfamare la famiglia.
Oltre al frumento, in magazzino non dovevano mancare le fave
per l’alimentazione umana e per quella degli animali domestici: l’asino, la
capra, il maiale, le galline, ecc.
Oggi, le fave hanno perduto un po’ valore, ma da millenni
costituiscono l’anello principale della catena alimentare mediterranea.
Nell’antichità, dovevano essere un alimento davvero impor-tante
visto che se ne occuparono i più grandi filosofi: da Pita-gora a Empedocle.
Nel suo “Poema fisico
e lustrale”, il filosofo akragantino lan-cia un monito severo e minaccioso,
contro qualcuno (chi?): “Miseri,
miserrimi, tenete via le mani dalle fave!”
Per i senza terra, nostri contemporanei, avere o non avere
la “mancia” era il vero dilemma.
Senza la “mancia”, la famiglia rischiava le malattie, cadeva
nella disperazione, nell’umiliazione, vittima dei soprusi, delle ruberie
dei commercianti e degli strozzini che
ingrassavano sulle miserie dei “jurnatara”.
Inaspettatamente, a Palermo, in quella lasciva capitale
degli intrighi e degli inganni, le carte s’imbrogliarono e il decreto di
assegnazione fu revocato. Con la terra, i braccianti asseg-natari persero le
fatiche e le sementi. Il raccolto lo fecero i nuovi padroni, i prepotenti,
un’accozzaglia di mafiosi e lec-capiedi.
Delle quote di Montefamoso, tutte “affaccio suli”, se ne
acca-parrò, a un prezzo vile, un mafioso di Aragona che, insieme ai suoi
compari, aveva intrigato, minacciato per far revocare il decreto.
Mio padre, come altre centinaia di assegnatari, ritornò un
jurnataru “senza terra” e, da li a poco, sarà costretto a emi-grare.
Fu questo il benvenuto della patria, ora antifascista, ai
tanti reduci di una guerra infame alla quale mio padre diede sette anni della
sua vita, fra servizio di leva e richiamo alle armi.
Di cui due di durissima prigionia in Germania a lavorare
come “schiavo di Hitler”, com’erano chiamati
i soldati non fascisti internati nei lager nazisti che, dopo l’8 settembre 1943, si rifiutarono di combattere negli esercizi
nazifascisti.
E per non tornare ad essere schiavo in patria, preferì
emigra-re, ritornare nell’odiata Germania.
Dopo il raggiro venne la beffa: con quei quattro soldi guada-gnati
all’estero, comprò da quel mafioso la quota che la legge gli aveva assegnato
gratuitamente.
Terra sudata e amata, dunque, che egli non abbandona nean-che
per un giorno.
In questo periodo, si preparano le buche per la semina del
pomodoro. Fra qualche giorno, sarà la volta dei meloni gialli.
In estate, su queste aride colline d’argilla si rinnoverà il
miracolo dell’orto dei meloni. A Joppolo, ogni contadino coltiva il suo orto.
Meloni, pomodori, zucchine, verdure, bellissimi girasoli,
ecc, per il consumo familiare e anche per venderne nei paesi vicini, dove i
contadini l’orto non lo sanno coltivare.
Solitamente, mio padre fa a piedi i tre chilometri di
sentiero. E’ stato sempre un camminatore formidabile.
Questa volta, ha accettato di essere accompagnato in auto-mobile
perché c’erano da trasportare gli attrezzi di lavoro (verrina, zappa e piccone)
e i bidoni con l’acqua per inu-midire le buche prima di calarvi i semi.
La giornata è bella, ma tira vento. Consigliai a Monica di
starsene in casa per timore che il vento la potesse spaventare.
Lei, però, rifiutò con decisione. Scoppiò a piangere. Il
pianto, in questi casi, è la forma di ricatto infantile più efficace. Voleva
venire in campagna per “vedere come
lavora il nonno”.
Piccola, deliziosa creatura, dopo quelle parole, mi fu impos-sibile
lasciarla a casa.
In campagna il vento divenne più furioso e irregolare.
Mio padre non perse tempo e si mise a lavoro. Mi disse solo
che “non desiderava mpidugliapedi”
(ostacoli) sul terreno.
Gli ostacoli, evidentemente, eravamo noi che restammo in auto,
a guardare.
Il vento proveniva da ovest, dalle montagne spoglie di “Lupo
Nero” e del “Cattà”, dalle lontane solitudini che evocano i trascorsi arabi
della vicina Raffadali (Rahal di Alì).
Il vento portava l’odore del timo e il canto allegro di un
contadino le cui parole, a tratti, percepivo nitidamente.
Ero un canto d’amore e di sdegno, di quelli dedicati alla
bella amata che fa rodere il fegato prima di accordare la promessa di
matrimonio.
Provai una bellissima sensazione. Dissi a Monica “ascolta la canzoncina che porta il vento”.
Anche per farle capire che il vento porta anche il canto, le
canzoni, i profumi di fiori lontani.
La bambina, s’incuriosì e mi domandò: ”Papà chi canta?”
Cercai di scoprirlo, ma non scorsi nessuno nei paraggi.
Eppure, la voce non era lontana.
Sembrava provenire da dietro la verde immensità dei campi di
grano, ondeggianti e tinteggiati di ciuffi di fiori gialli e di papaveri rossi.
Nel cielo, a volteggiare, le rondini, arrivate da chissà
dove. Colori e odori della primavera siciliana che, quest’anno, è esplosa
all’improvviso.
Laggiù, nascosta, si ode ancora quella voce, quel canto.
Monica vuol sapere perché il nonno lavora in campagna.
“Per seminare i
pomodori per il sugo che a te tanto piace sulla pasta”.
Visto l’interesse, le spiego anche l’utilità delle altre
colture. Quel mare verde ondeggiante sono le piantine di frumento col quale
facciamo il pane, la pizza e “Monica fa
gnam gnam”.
Mai sentito tanto “freddo”
in un ufficio dello Stato
(7/4) In questi
giorni, alla gioia che Monica ci infonde si alterna l’avvilimento per alcuni
problemi burocratici insorti a proposito della sua registrazione all’anagrafe
del comune di Joppolo Giancaxio.
La situazione è divenuta davvero avvilente a causa di un contrasto interpretativo insorto fra i diversi
uffici interessati: Municipio e Procura della Repubblica.
Tutti i decreti sono in regola, ma i capi di questi istituti
non sono d’accordo su come registrare un certificato, rilasciato dall’autorità
rumena e tradotto e vidimato da quella consolare italiana, nel quale sta
scritto che la bambina si chiama Moni-ca Nicoletta Spataro ed è nata a Joppolo
Giancaxio, in Italia.
In effetti, Monica è nata a Bucarest, ma la legge rumena dis-pone
che l’adottando, oltre al cognome, acquisisca come luogo di nascita la città di
residenza del genitore adottivo.
Una norma di una sensibilità straordinaria, a tutela dei
minori ai quali, specie nei primi anni della loro vita, potrà essere evitata la
pena di dover giustificare la diversità dei loro natali.
Il problema esiste specie a contatto di coetanei
cattivelli, tal-volta perfino spietati,
che usano l’aggettivo “adottato” come un insulto, come una clava per colpire,
emarginare, isolare il bambino. Sarà colpa loro o della maleducazione ricevuta,
ma fanno tanto male a chi subisce questo trattamento stupido e violento.
Purtroppo, la controversia rischiava di vanificare lo
spirito benefico della legge e, soprattutto, di bloccare la procedura. Si
giunse al punto che il dottor Rosario Livatino, sostituto procuratore di
Agrigento, diffidò formalmente il sindaco dal registrare il certificato rumeno,
poiché poteva incorrere in una sventola di reati fra i quali: omissioni in atti
d’ufficio e falso in atto pubblico.
Ormai, sono sei mesi che vado dietro questo problema.
L'intento è quello di ottenere, come previsto dalla legge ru-mena e senza
forzare quella italiana, solo una migliore tutela anagrafica per Monica e anche
per le decine, centinaia di altri bambini che dalla Romania verranno in
provincia di Agri-gento e in Italia.
Perciò andai a parlare col giudice Livatino per chiarire il
mio punto di vista. Ma questi non volle sentire ragioni. Mi rispose con una freddezza burocratica che non
ammetteva repliche: la legge rumena è in contrasto con quella italiana, applicarla
costituisce un reato. Punto.
Ricordo che mi salutò a malapena, senza nemmeno togliersi il
guanto di lana.
Confesso che quel comportamento un po’ mi turbò.
Ne accennai al procuratore capo, dottor Serafino Tumminello il quale chiamò il suo sostituto non per
fargli cambiare pare-re, ma solo per dirgli, bonariamente: “ma lo sai che mi hai spaventato l’onorevole
Spataro?”.
Prima d’ora, nei miei rapporti con un magistrato, non avevo
mai provato sensazioni di apprensione e d’impotenza.
Ed ero un deputato nazionale in carica. Figurarsi cosa
poteva capitare a un poveraccio!
Mai avevo sentito tanto “freddo” in un ufficio dello Stato!
Nemmeno, ai tempi del
glorioso ’68, quando fui più volte convocato in questura o in tribunale per
rispondere a diverse denunce per occupazione del liceo classico di Agrigento e,
nella veste di corrispondente de l’Unità, per diffamazione a mezzo stampa (fra
le quali una, molto pesante, dell’on. Giu-seppe La Loggia, potente ex presidente
della regione) dalle quali fui prosciolto in istruttoria.
O quando, una sera, a seguito di uno scontro, anche fisico,
coi fascisti in via Atenea, fummo fermati dalla polizia e condotti in questura.
Ricordo che ci volle “ricevere” nel suo ufficio il questore in persona. Mi pare
si chiamasse Ugo Macera, un poliziotto dai modi spicci e dotato di uno spiccato
fiuto inda-gatore, il quale ci (in) trattenne per rifilarci una paternale
oscillante fra il senso del dovere e i piaceri dell’alcova. Ai quali lui non
rinunciava: “nemmeno in questa piccola, bigotta città… dove io scopo
e voi, invece di studiare, divertirvi, vi azzuffate per niente”. Ci rilasciò, senza farci identificare, verso le due
notte. Ci parve che il signor questore soffrisse d’insonnia.
A parte ciò, stasera è arrivata una buona notizia. Jolikè ha
telefonato all’avvocato Olaru, il nostro nuovo procuratore a Bucarest, il quale
le ha comunicato di avere individuato un bambino, Claudio, di oltre un anno
d’età, per il quale c’è la disponibilità all’adozione.
Finalmente, il fratellino che Monica attende ha cominciato
il suo viaggio verso Joppolo, verso casa.
A Pasqua andremo a Bucarest per conoscerlo e avviare le
pratiche di rito.
§. Siamo a Ecser (12/4) in visita ai parenti e anche per andare a Bucarest a vedere Claudio.
Monica con le
cuginette Viky e Marci, a Ecser, Ungheria
Piove, piove, piove. Sempre piove in questo periodo, per
giornate intere.
Non c’è confronto con i
nostri acquazzoni violenti ma rapidi. In Sicilia, dove ancora il sole comanda,
le nuvole si fermano solo il tempo necessario per scaricare e poi spariscono.
Dopo la pioggia benefica, si sprigionano gli odori e gli
umori della terra; l’aria, lavata da ogni impurità, diffonde profumi di creta e di paglia, la vita
riprende nella via.
Qui non è così. Dalla terra putrida di pioggia salgono vermi
mollicci, informi, senza testa né coda. Alcuni senza occhi.
Si muovono, attorcigliati, smarriti e lenti come pachidermi.
Con Monica, un po’ triste perché non può uscire da casa,
osserviamo lo spettacolo deprimente della pioggia e di questi mostriciattoli
che sono risaliti sulla terra, ma non sanno che fare.
Si legge che è in atto una mutazione genetica di talune fami-glie
d’invertebrati. Resistono alla chimica, anzi si sono assuefatti ad essa e la
usano per accelerare la loro mutazione.
Taluni potrebbero assumere forme gigantesche, mostruose e
soppiantare l’uomo nel suo ruolo guida sul pianeta.
Che orrore: il mondo dominato dai vermi giganti!
Ci costringerebbero a lavorare per loro, a coccolarli, servirli, leccarli e, quando si
stancherebbero, ci stritolerebbero fra le loro spire viscide e mollicce.
Per vendetta della specie o per diletto. Esattamente, come
facciamo noi con loro, calpestandoli.
Per fortuna, Monica non sembra turbata da queste visioni.
Ieri sera, è andata a letto tutta speranzosa.
“Papà vado a dormire
così domani mattina ci sarà la bella giornata e andiamo allo zoo.”
Stamattina, appena sveglia, è andata a sbirciare dal foro
della finestra. Vide un po’ di luce e mi chiese “Papà, c’è la bella giornata?”
Mi affaccio e vedo un
cielo plumbeo, fitto di nuvole che con-tinuano a scaricare una pioggia sottile
ma insistente come le gocce della tortura cinese.
Chissà quale delusione proverà la dolcissima Monica con le
sue treccine già incrociate per uscire?
L’altra notte ha parlato nel sogno. Diceva “Andiamo a casa, a casa”. Credo avesse
nostalgia di Joppolo, del suo piccolo mondo di giochi e di colori, del nostro
sole che non delude mai i bambini.
Lei pensa a Joppolo. Io
penso ai detenuti che passano in prigione anni della loro vita, privati della
libertà di uscire a farsi una passeggiata ai templi o a San Leone.
Non c’è nulla da fare. Questi comunisti siamo davvero incor-reggibili:
dovunque andiamo ci portiamo addosso tutti i pro-blemi del mondo.
Dov’è il fratellino?
La mattina di Pasqua
(25/4) siamo tornati da Bucarest, do-ve abbiamo conosciuto Claudio e avviato le
pratiche per l’adozione. A Ecser troviamo Monica ad attenderci nel giar-dino, raggiante di gioia e impaziente di
conoscere il fratellino..
Monica a Ecser
Purtroppo, Claudio non è con noi e non poteva esserci. La
bambina un poco si guasta in viso e ci spara un paio di domande a raffica: “Dov’è il fratellino? Perché non l’avete
portato?”
Interrogativi diretti, imbarazzanti ai quali bisognava
rispon-dere in modo convincente per non urtare la sua sensibilità.
Ricorsi a una pietosa bugia. Le dissi che “il fratellino ha la bubù e non può viaggiare. Arriverà in estate, a
casa nostra a Joppolo”.
Monica mostrò di capire e informò i parenti “il fratellino ha la bubù, verrà a Joppolo, poi…”
In salotto comincia l’interrogatorio vero e proprio. La bam-bina
vuol sapere tutto di Claudio.
“Com’è? Piccolo,
piccolo, vero? Cosa fa: gioca, piange? Mangia il latte?"Quando viene a
Joppolo, io al fratellino do tanti bacetti, do il latte, lo faccio camminare,
giocare con i miei giocattoli, poi lo porto all’asilo per giocare con gli altri
bambini”
Con poche parole espresse un vasto programma di assistenza.
L’indomani portai Monica al luna park di Budapest.
Indossava una gonna a quadri grandi, tipo scozzese, con un
fermaglio laterale che la chiude, una camicetta celeste, scarpette rosse
laccate. Era bella ed elegante, come il solito.
E’ vero: l’affetto fa stravedere. Tuttavia, così io la vidi
e così la descrivo.
§. Monica e Jolikè
sono tornate dall’Ungheria(18/5). Le avevo precedute di qualche giorno per
impegni inderogabili in Parlamento.
La bambina desidera vedere dove lavora papà. Vengono a
trovarmi nel mio ufficio alla Camera dei Deputati.
Nel mio ufficio alla Camera dei Deputati
Il commesso che le ha accompagnate si è voluto compli-mentare
con me: “Onorè, questa bambina è bella
come una dea”.
Io mi schernii del complimento, ma in realtà lo condividevo
appieno.
Quando in un piccolo essere si ritrovano, armonizzate, bel-lezza,
intelligenza e affettuosità credo si possa dire che ha raggiunto il massimo cui
un genitore possa aspirare.
Sono trascorsi pochi giorni, ma ho tanto avvertito la man-canza
della bambina.
Ora siamo all’aeroporto di Fiumicino in partenza per Paler-mo,
verso casa.
Nella sala Vip, le solite scene di ammirazione per Monica.
Ha i capelli tirati e annodati in una civettuola codina di cavallo che mette
fuori il suo visino bellissimo e sereno.
Io non mi sento vip; sono sempre l’umilissimo compagno
Spataro, che mai ha dimenticato le sue origini povere e contadine.
Frequento questa “sala” per usufruire di certi vantaggi pro-cedurali
che, per chi viaggia spesso, aiutano a risolvere tanti problemi pratici.
In ogni caso, desidero precisare che accanto a Monica mi
sento più importante di un Vip ossia l’uomo più fortunato della Terra.
Alcuni guardano la bambina con la coda dell’occhio, non si
capisce se per discrezione o per invidia.
Poco importa. Per me è solo gioia. La gioia per questa pater-nità
acquisita per decreto, ma vissuta con la passione di un amore paterno
sconfinato.
Durante il volo la bambina non ha sofferto; così in automo-bile
per arrivare a Joppolo.
Ha dormito fra le braccia di Jolikè per l’intero viaggio.
All’arrivo, a casa, appare un poco frastornata. Non si rende
conto di come, in così breve tempo, abbia potuto superare distanze così grandi,
cambiato mondi: Ecser, Budapest, Ro-ma, Palermo, Joppolo.
A Monica sembra che nulla è cambiato, che i luoghi e le
persone a lei cari si trovano tutti nelle vicinanze; più tardi Marzi, nagymamà
sarebbero venute da Ecser a trovarla nella sua stanzetta, a Joppolo.
In Ungheria, la bambina è rimasta un mese intero e ha
appreso tante parole della lingua magiara e può insegnarle anche a me che non riesco a introiettarle.
La promenade
In paese tutti hanno saputo del ritorno di Monica e alcuni
sono venuti a salutarla.
La bambina appare più cresciutella. Durante la lunga vacanza
ha preso un chilo e mezzo, il visino è più rotondetto.
L’ho portata in piazza a passeggiare avanti e indietro com’è
nella nostra usanza. Per mostrarla al pubblico. Poiché una lunga assenza dalla
piazza autorizza ogni congettura. Non era il caso di Monica, ma non si sa mai.
La piazza, l’antica agorà dei greci, è ancora il luogo
privile-giato dell’incontro, dello scambio e anche della legittimazio-ne delle
relazioni interpersonali.
Gli occhi dei compaesani sono giudici severi e le lingue
forbici affilatissime che tagliano anche l’acciaio temperato.
A una certa età, si viene in piazza anche per confermare la
propria esistenza in vita.
E’ questo il caso del professor Lacagnina che ama vivere
rintanato nella sua casa con giardino, fra i suoi libri e con una coppia di sontuosi
pavoni.
E’ un misantropo che rifugge da ogni contatto superfluo con
il “consorzio umano”.
Dicono che la sua misantropia sia una malattia grave. In
realtà, egli se la gode, stuzzicando la fantasia malata di amici e compaesani
che pensano tutto il male possibile, per lui.
Per esorcizzarlo, il vecchio professore si presenta in
piazza, in media ogni due settimane, per mostrarsi, vivo, agli amici che
allungano il collo da dietro le tende antimosche dei vari circoli di compagnia.
Una passeggiata soltanto, avanti e indietro, e torna a rintanar-si
in casa.
Una sera, incontrandolo, gli chiesi la ragione di questa sua
bizzarra abitudine. Mi guardò dal basso verso l’alto, non per modestia ma
perché era basso di statura, e così mi rispose:
“E che faccio, mi
vengo a rinchiudere in questi circoli di vecchi catarrosi e oziosi, divorati
dal vizio e da sciami di mosche assatanate?
No, amico mio.
Preferisco starmene in casa, solo, coi miei i libri e i miei due pavoni che
quando fanno la ruota mi sento trasportare nel“Genuard”, nell’aulico paradiso
degli antichi persiani, dove, un giorno,
il più lontano possibile, mi piacerebbe andare a riposare.
Se faccio questa
“promenade” non è per diletto, ma per met-tere firma di presenza. Sì, firma di
presenza! Perché devi sapere che se passano quindici giorni senza che mi faccia
vedere tutte le malelingue del paese, in primis quei galantuo-mini che ci
stanno osservando con la lente d’ingrandimento, ci mettono poco a darmi per
morto insepolto ossia cadavere puzzolente che nessuno raccoglie”.
Il professore consiglia vivamente la promenade anche a tutte quelle coppie di cui si sospetta qualche
frizione o addirittura una relazione adulterina.
Senza volerlo, si andò a finire a parlare di corna, di un
argomento scabroso, pruri-ginoso che, come quello dei pupi, sempre ritorna a tormentare
questo nostro mondo sospeso fra il facile sospetto e l’intima compiacenza.
Per bandire ogni diceria, non c’è miglior rimedio che una
passeggiata in piazza, sottobraccio al marito sorridente. Meglio se di
domenica, all’uscita della terza messa di mezzo-giorno o la sera al passeggio
popolare. Anche se ci sarà sem-pre qualcuno che commenterà, impietoso: “Guardate quello, cornuto e contento!”
Un cerbero dantesco al pozzo Serrovi
E’ una tiepida mattinata primaverile (14/5), con Monica ci
sediamo al bar nuovo di “Bianchino” e prendiamo un gelato.
Nel pomeriggio, facciamo una bella corsa in auto verso “Ma-nica
Lunga” per farle prendere un po’ d’aria pura di campa-gna. Tutto procede a
meraviglia.
Camminiamo lungo il sentiero che conduce al pozzo di Serrovi,
alla ricerca di farfalle e di margherite da portare alla mamma.
Improvvisamente, compare un gregge di pecore belanti, fret-tolose
come un fiume in piena. Restiamo bloccati nel mezzo. Conviene aspettare, fermi,
in attesa che passi la piena.
Come recita il famoso detto siciliano:“Calati juncu ca passa la china”. Le pecore vanno a valanga,
sospinte dai cani.
Monica, inconsapevole del pericolo, vuole toccarne qualcuna:
“ papà faccio una carezzina a mè, mè”.
In questo frangente, si avvicina, un grosso cane bianco, rin-ghioso
come il Cerbero dantesco, che ci mostra una dentatura compatta, vagamente
vampiresca.
Il cagnaccio si fermò a pochi metri da me che stringevo la
bambina. Provai una paura intensa, drammatica, soprattutto temetti per Monica.
Di fronte a un cane non si scappa mai- consigliano i
nostri contadini- se mostri d’aver paura
quello s’incoraggia e ti as-sale. Poiché la tua paura fa il suo coraggio.
Succede anche con gli uomini.
Bisogna, fermarsi e cercare di reagire, magari fingendo di
tirargli contro qualcosa.
Il cane, per quanto inferocito, sa che l’uomo è la bestia
più feroce vivente sulla Terra, perciò lo teme. Speriamo.
Intanto, la bestiaccia,
ferma e risoluta, continua digrignare i denti. Forse, vuole solo difendere il
“suo”gregge da questi intrusi piazzatisi lungo il suo cammino.
Seguono attimi
drammatici.
Io e il cane ci guardammo
negli occhi, entrambi decisi a difendere il bene che ci era stato affidato: a
me la bambina e a lui il gregge.
Finalmente, sopraggiunse,
trafelato, zi Giovanni di Filippa, il pastore, che dalla testa del gregge aveva
assistito alla scena. Col suo grosso bastone colpì il cane sulle spalle e lo sgridò
per farlo allontanare.
In quei terribili momenti, Monica rimase muta, contratta nel
fisico e sgomenta. Terrorizzata e silenziosa.
Non appena il cane si fu allontanato
scoppiò a piangere “questo cane cattivo
mi ha fatto paura”, “Papà andiamo a casa”, “qua non ci veniamo più”.
Cercai di rasserenarla,
ma continuava a piangere.
Confesso di aver provato una grande paura. Se quel cane ci
avesse aggrediti sarebbero potute derivarne gravi conseguen-ze per la bambina.
Durante il viaggio di ritorno, Monica, con la vocina rotta
dall’emozione, ripeteva “Mi ha fatto
spaventare quel cane cattivo, cattivo…”
P.S.
Dimenticavo di annotare una cosa importante. Ho fatto
sviluppare le foto di Claudio prese a Bucarest.
Finalmente, Monica ha “visto” il fratellino. In alcune è in
lacrime per via del dolore all’orecchio che lo tormentava not-te e giorno.
Si è mostrata tutta intenerita per il fratellino sofferente,
annunciando un programma speciale di divertimenti, per farlo diventare
“contento” quando arriverà a casa.
Una riunione di sole donne
6/6/87. Monica è
diventata una piccola, assennata ciarla-tana. Le capita ancora d’inciampare in
qualche parola, ma non si blocca. Ripete quella parola fino a quando non la
pronuncia correttamente oppure la sostituisce con una gene-rica “cosa” e passa
avanti.
E’ sempre divertente sentirla parlare. Qualche esempio.
Invece di “ho messo” dice “ho mettito”, di “ho raccolto “ “ho raccoglito”.
Monica col girasole, con Jolikè, Nagymamà e zia Ciccia
Ieri sera, è andata con Jolikè al municipio, alla riunione
delle donne.
Una riunione di sole donne, al municipio! Potrebbe essere
l’inizio di una rivoluzione culturale in questo paesino che nemmeno le carte
geografiche si son prese la briga di regis-trare.
Al ritorno le ho chiesto dov’era stata.
Lei, prontamente, ha risposto “alla iunonione delle donne”.
Poi mi domanda, bruciapelo: “Papà, hai lavato i piatti?”
Una domanda leggermente perfida scaturita dal clima “ever-sivo”
di quella riunione.
Le spiegai che, generalmente, i piatti li lavano le donne
della casa e non i papà.
Candidamente, la bambina replicò: “Perché?”
Confesso che mi trovai in grande imbarazzo. Non seppi
risponderle e rinviai il discorso a dopo, all’indomani mattina. Sperando che la
notte ne cancelli il ricordo.
A Ifchia
Siamo a Ischia (28/6) per una breve vacanza. Nell’isola non
vi sono tanti svaghi, ma l’atmosfera è molto riposante.
Abbiamo viaggiato in vagone-letto fino a Napoli e da lì in
aliscafo fino all’isoletta.
Il mare era un po’ mosso e Monica ne ha sofferto. Ha vomi-tato
un paio di volte. Eravamo preparati alla “rimessione” e l’abbiamo fronteggiato
con perizia.
Sbarcati, commentò:
“La nave è cattiva perché ha fatto soffrire Monica”.
Ritorna la terza persona, come se non fosse stata lei la
vittima di quel disagio.
Soffrì anche a bordo dello stravagante mini-taxi ossia una
coloratissima moto ape a tre ruote che volle prendessimo per andare all’Hotel
Regina Palace.
Non ci fu verso di farle cambiare idea.
Scendemmo subito in spiaggia, dove si divertì tanto a
giocare con la sabbia . Ogni tanto, domandava:“Papà quando viene il fratellino lo porti qui, a Ifchia?”
I nostri pochi giorni di vacanza trascorsero fra mare e belle
passeggiate nei magnifici parchi dell’isola.
Monica a Ischia
La bambina era contenta per quella gita. Scopriva luoghi
nuovi, gente nuova. Soprattutto bambini sulla spiaggia.
La sera si andava a passeggiare nel corso principale (via
Roma) dove si concentrava la gran massa di turisti.
C’era chi ammirava le vetrine dei negozi aperti fino a
notte, chi cenava nei ristoranti sulla strada e chi, seduto sulla terrazza di
un bar, si godeva la passeggiata degli altri.
Insomma, le tipiche abitudini di una cittadina turistica
piut-tosto rinomata.
Monica divenne una gioiosa conoscenza specie per alcuni
turisti tedeschi che abitavano nel nostro albergo.
Una bella vacanza, rasserenante, nel corso della quale visi-tammo,
in autobus, le principali località dell’isola: Lacco Ameno, Maranti, Forio,
Casamicciola, Barano, ecc.
Tutto bene, anche ogni tanto la prendeva la nostalgia di
casa. Anche a Ischia!
“Papà mi porti a
Joppolo” oppure “Papà quando andiamo
nella nostra casa a Joppolo?”.
Il richiamo nostalgico mi parve un sintomo evidente del suo
attaccamento al paese, dove evidentemente aveva già piantato le sue teneri
radici.
Canta Monica
Questa sera (12/7), in piazza si svolge il “1° Festival canoro
dei bambini joppolesi”, dai sei ai dodici anni.
Monica sapeva dell’evento perché gliene aveva parlato più
volte Lucrezia e da giorni ripete che vuole cantare alla festa.
Anche se non sa una canzoncina per intero. Canta volentieri
qualche brano di “Este” (sera), in
ungherese. Per il resto canticchia strane canzoni che inventa lei stessa.
Si potrebbe definire un’autrice molto precoce.
Da quel che intuisco, mi sembrano traduzioni, da lei arran-giate,
di favolette ascoltate da me o da mia madre.
E così, “Cappuccetto
rosso”, “Giufà”, “Ali Babà”, “I tre por-cellini”, sono diventate
canzoncine alle quali Monica dona musica e voce.
In piazza c’è tutto il paese e anche tanti forestieri. Ci
sediamo in settima fila per tenere lontana la tentazione.
Non appena i “concorrenti” iniziano a cantare, Monica non
sta più ferma. Si agita, mi tira il colletto della camicia, fa ca-pire che vuole
andare a cantare sul palco, con il “micofono”,
come gli altri bambini.
Le spiego che non è possibile perché non ha l’età minima
richiesta per partecipare ossia sei anni e non conosce una canzoncina per
intero.
Lei ribadisce, risoluta, il desiderio di cantare la
canzoncina di “cappuccetto rosso” che
ha già cantato all’asilo.
Vista l’insistenza, ci avviciniamo al palco sperando che
quelle luci, l'orchestrina la intimidiscano e la inducano a desistere dall’audace
pretesa.
Monica mi scappa dalle mani e si arrampica sulla scala di
legno. A malapena, riesco a fermarla al quarto scalino.
Più chiara di così non poteva manifestare la sua intenzione!
In ogni caso, per salire doveva attendere la chiamata di
Totò (Sprio), il macellaio, che era l’organizzatore del festival e nostro
parente.
Jolikè gli va a parlare, pregandolo di fare cantare Monica
“fuori concorso”.
Totò acconsente. Monica non sta più nella pelle. Canta,
balla fra le mie braccia. Sta provando.
Finalmente, la presentatrice annuncia:
“Ora è la volta della
piccola Monica Spataro”.
Totò viene a prenderla e lei lo segue verso il palco, per
nulla imbarazzata.
Risponde anche alle domande di rito della presentatrice: “Come ti chiami? Quanti anni hai?
Poi attacca a cantare: ”Un
giorno cappuccetto rosso andò nel bosso (bosco) e poi venne il lupo cattivo che si voleva mangiare la sua nonna…allora, allora cappuccetto rosso disse….(guardò il cielo stellato per
trovare le parole seguenti), allora,
allora la sua nonna malata….”
Applausi del pubblico e fine dell’esibizione. Dal fondo
della piazza, qualche provocatore grida: bis, bis.
Totò le consegna una medaglia a ricordo della sua parteci-pazione
al festival.
Monica è raggiante, orgogliosa per la medaglia che mostra a
tutti: “talè , talè”. Dal siciliano
“taliari” ossia guardare.
Per premiarla anch’io, le offro un bel cono di gelato,
mentre Jolikè piange tra la folla.
Come sono i bambini cinesi?
Dalle date mi accorgo che i miei appunti sono sempre più
rari. Doveva essere un “Diario di Monica”, in realtà hanno una cadenza
episodica, molto saltuaria.
Non sono mancati fatti da annotare (per Monica si potrebbe
scrivere un libro al giorno), ma è lo spirito che manca, a causa di certe
difficoltà che mi stanno creando alcuni bei tipi del Comitato regionale del Partito.
Non ho la testa, il tempo per dedicarmi alla bambina. Come
se avessi perduto i doni della memoria e della scrittura.
Vivo a Palermo in una condizione davvero umiliante. Quel
figo fatto a segretario si sta vendicando del mio sostegno alla candidatura di
Pio La Torre a
segretario regionale (contro la sua) e delle critiche che gli ho rivolto
durante la sua disa-strosa gestione del partito siciliano.
Una situazione praghese, inimmaginabile col mio amico
Occhetto segretario generale del partito.
Amico mio, ma forse più amico del figo che comanda a Palermo
che è suo compare di nozze.
Penso sia chiaro che stia
alludendo a Luigi, Gigi, Gigetto, Gigino Colajanni il quale passerà alla storia
per essere stato l’autore di un grande prodigio letterario: quello di avere
tras-formato il sostantivo “partito” in verbo, in participio passato. Nel senso
che è sempre “partito”, in viaggio.
Ma lasciamolo stare, non ne vale la pena, e torniamo a
Monica che, ormai, è per me la cosa più importante della vita.
Quando posso, scappo a casa per vederla, per giocare con
lei.
Sarà perché la vedo raramente, ma ogni volta mi sembra più
cresciuta, più vivace e intelligente.
Monica con l’ombrello
Ormai facciamo vere discussioni. Abbiamo preso l’abi-tudine
di raccontarci quello che ognuno ha fatto durante l’assenza.
Vuole sapere dove sono stato, con chi, cosa ho fatto. Segue
una sfilza di “perché” ai quali do una risposta, sovente alea-toria.
Come si fa a spiegare a una bambina di tre anni certe caro-gnate
che avvengono a Palermo!
Quando, nei giorni scorsi, sono tornato dal viaggio in Cina,
mi ha chiesto “Chi è la Cina?”, “Come sono i bambini
cinesi?”
Le ho detto che sono belli e che hanno gli occhi a mandorla.
Lei restò colpita per questo riferimento alla frutta secca.
“A mandula? Gli occhi
con la mandula?”
Congiunsi pollice e indice e abbozzai uno schizzo che ap-plicai
al mio volto e le dissi “ecco, così sono
gli occhi dei bambini cinesi”
Monica non mostrò gradire questo modello “Non mi piac-ciono gli occhi così, a
mandula”.
Dalla Cina le ho portato tanti regalini e un vestitino di
seta istoriato con fiori e dragoni.
La domanda che sempre ritorna, alla quale non riesco a dare
una risposta esauriente, è “perché non
vai a prendere il fratellino”.
L’altro giorno, l’avvocato mi ha informato che Claudio era
stato dimesso dall’ospedale dove era ricoverato per una frattura (lieve, lui
assicura) al piede.
Mentre parlavamo con Jolikè di questo ricovero, Monica
s’intromise nella discussione: “Papà
Claudio non è più all’ospedale, perché non lo porti qui, a casa nostra?”
Povera figlia. Ho dovuto inventarle una nuova scusa,
rassicurandola che al più presto saremo andati a prendere il fratellino.
Lo spero anch’io, tantissimo. Purtroppo, le notizie che giun-gono
da Bucarest non sono buone. Pare che il tiranno abbia bloccato le adozioni.
Con Monica e Jolikè siamo andati alle terme “Acqua pia” di
Montevago. La bambina non ha sofferto durante il lungo viaggio in auto.
L’abbiamo buttata nella piscina dei bambini a guazzare come le ochette nello
stagno delle favole.
Si è divertita tantissimo e anche noi. Al ritorno, di sera,
ci siamo messi a cantare in auto. Ognuno canta quel che sa cantare. Esordisco
con “Vitti na crozza”.
Una canzone popolare d’intensa drammaticità, ma anche
un pò bizzarra poiché il suo testo macabro,
funereo è intercalato da un ritornello
molto brioso: “trulla-là, trulla-leru” .
Una frivolezza che mal si concilia con il dolore del vecchio
che parla con una “crozza” (un teschio) ossia con la Morte assisa sopra “nu cannuni”, quasi a monito
contro la guerra.
Un testo antico e di
autore ignoto, divenuto famoso dopo che Pietro Germi l’inserì nella colonna
sonora del suo, indimen-ticabile film “Il
cammino della speranza”.
Dopo il film, è spuntato
un autore agrigentino che se ne è attribuita la paternità. E così iniziata la
ricerca dell’autore. Ad Non a caso ad Agrigento dove è nato il grande
drammaturgo Luigi Pirandello, il creatore dei “Sei personaggi in cerca di autore”.
La questione è finita
in tribunale, nelle mani della magistra-tura che dovrà decidere, con
sentenza, se la canzone è opera di uno o più anonimi o di quel musicista che ne
ha rivendica-to la titolarità e i diritti d’autore. Vedremo.
Il popolo appare diviso e sconcertato. Molti vorrebbero che
la canzone restasse espressione, anche
anonima, del patrimonio culturale del popolo siciliano, come testimonianza del
suo fiero “lamento” per la pace e per la libertà.
A Monica è piaciuto il motivetto e l’ha cantato con me varie
volte e…senza pagare diritti d’autore.
Ogni tanto se ne ricorda e mi fa “Papà cantami quella can-zoncina trulla-là, trulla- leru”.
I morti volanti
Sono sempre più preso dalle mie difficoltà politiche al CR e,
ultimamente, anche finanziarie derivanti dai lavori di amp-liamento della casa.
Con i muratori in casa è difficile concen-trarsi su qualcosa d’altro.
Peccato! Poiché ci sarebbero tante belle cose da annotare e
che rischiano di andare perdute.
Chissà se un giorno la memoria…
Stamattina (1/11) siamo andati al cimitero a visitare i
nostri morti. Non avendo defunti intimi colà residenti, le nostre vi-site si
svolgono serenamente, quasi in allegria.
Per me sono anche l’occasione per rivangare, guardando i
nomi e le foto, le vicende del nostro paesino.
I nostri morti sono nonni, zii e parenti piuttosto larghi,
ai quali portiamo un fiore e accendiamo una candelina, per ravvivarne il
ricordo, come vuole la tradizione.
I nonni paterni, purtroppo, sono finiti nella fossa comune e
non possiamo onorarli. Mi sarebbe tanto piaciuto conoscere mio nonno Calogero
Spataro, amante dei viaggi e del buon vino. Di lui non so nulla, poiché nessuno
ne parla in famiglia,
credo per vergogna.
La vox populi
racconta ch’era un viaggiatore indefesso, un po’ alla buona. Partiva da Joppolo
con pochi soldi e con mezzi di fortuna, per lunghi viaggi in nave o in groppa
ad un ronzino.
Memorabile è rimasto il viaggio in Tunisia dove si recò per
andare a comprare un… asino di una razza speciale ossia di quelli che lavorano
tanto e mangiano poco.
Non lo trovò e ritornò, dopo più di un mese, senza soldi e
senz’asino. Insomma, un vero precursore della cooperazione siculo- araba!
O l’altro, a cavallo, alla volta della Spagna interrotto per
mancanza di viveri e mezzi a Civitavecchia da dove telegrafò alla famiglia per
tranquillizzarla e chiedere soccorso.
Il nome della cittadina laziale colpì talmente la fantasia
dei paesani che glielo appiopparono come “ngiuria”. E fu questo soprannome
l’unica eredità che il nonno lasciò a figli e nipoti, quando mori alla bella
età di 85 anni. Alla faccia dei suoi detrattori e critici che, in gran parte,
lo precedettero nell’uni-co “viaggio” da quale non si torna.
Desideriamo che Monica rispetti le tradizioni locali anche
per non sentirsi esclusa dalla comunità.
Senza, però, farne un feticcio. Sapendo scegliere, quando
sarà più grande, fra quelle da conservare e quelle da scartare, poiché, ve ne
sono alcune davvero aberranti e improponibili.
La bambina indossa un abitino di velluto rosso purpureo, con
sulle spalle una grisaglia bianca di merletto, scarpette nere lucide e calzini
bianchi.
Una “mise” vagamente medievale
davvero incantevole e intonata con il
luogo e con la ricorrenza.
In mano regge un mazzetto di fiori per “i nonni di mio papà che dormono qui”.
Aurora a Joppolo. Sullo sfondo il camposanto e Montefamoso
La sera precedente avevamo parlato di questa visita. Le
avevo detto che se avesse portato i fiori ai nonni la notte successiva questi
sarebbero venuti in volo a portarle tanti regalini. Bastava mettere le scarpine
fuori della finestra.
Le spiegai che i morti volano senza avere le ali, non
entrano nelle case, si avvicinano alle finestre e depositano i regalini
soltanto dentro le scarpe dei bambini bravi.
Monica appariva perplessa non tanto sulla capacità di volare
dei morti, quanto per le sue scarpette che, essendo piccole, non potevano
contenere molti regalini.
Mi propose “perché non
mettiamo anche gli stivali tuoi, della mamma che sono grandi?”
Mi parve una buona idea e così facemmo.
I morti volanti, i loro doni! Una favola bellissima che
ancora resiste (per quanto ancora?), che rinsalda il legame fra i vivi e i
morti e offre della morte una rappresentazione naturale, umana. Da ricordare
non come un evento tragico ma con una festa, per l’appunto.
A nessuno piace morire, tuttavia la morte è ineluttabile e pertanto
bisognerebbe imparare ad accoglierla senza terrore, con naturalezza.
Prima era così. Ho visto vecchi contadini in punto di morte,
serenamente seduti al centro del letto, impartire alle mogli, ai figli e ai
nipoti le ultime raccomandazioni a tutela della famiglia e della proprietà;
inviare saluti ai parenti lontani; ricevere ambasciate e saluti da recapitare
agli amici defunti che sicuramente avrebbero incontrato nel viaggio.
Veri testamenti morali, quando non proprio patrimoniali.
Oggi, temiamo, aborriamo la morte perché ci siamo troppo
innamorati della vita!
Perciò, desidero che Monica viva questa ricorrenza come una
festa. Come l’abbiamo vissuta noi, da bambini.
Ricordo l’attesa dei morti volanti e le suggestioni che
s’impa-dronivano della nostra mente: il fruscio lieve delle loro tuni-che
bianche, la ricerca della scarpa giusta dove infilare il regalo corrispondente.
“Ascolta, ascolta!
Questa mi pare la zia Rosina. Speriamo che non sbagli scarpa! Era sbadata in
vita figurarsi da morta”
In certe notti ventose, ci stringevamo intorno al tavolo, in
cucina. Avevamo paura del vento, del suo atroce sibilo. Mia madre diceva che
quello non era il vento, ma il brusio dei morti che ritornano in paese a
cercare le case dove hanno vissuto, a portare i regali ai loro bambini.
E l’indomani mattina presto tutti a guardare dentro le
scarpe. Ne uscivano pupi di zucchero, melegrane dai chicchi dolcis-simi e
vermigli, taralli e biscotti al vino cotto, panareddri (pa-nierini)
impreziositi con semi di “diavolina” e con un uovo sodo al centro.
Doni semplici
confezionati in casa e frutti della nostra terra generosa.
Soprattutto, c’era grande attesa per i “pupi di zucchero”, una sorta di giocattolo commestibile, nelle
sembianze di vigorosi paladini di Francia o di fieri cavalieri saraceni.
Eroi-pupi, di zucchero o di latta, che ancora si contendono
il nostro destino!
I pupi c’entrano sempre nella tradizione siciliana, nella
vita come nella festa dei morti. Da loro deriva anche un verbo “pupiddriari”
usato per declinare gli effetti cinetici di un barbaglio agli occhi.
Il pupo è la chiave per aprire lo scrigno delle nostre
finzioni, dei nostri camuffamenti, dei nostri trucchi. E’ una maschera, che indossiamo per la vita.
Siamo tutti pupi, secondo
Pirandello. Ancora lui! Non so quanto sia vero tale assunto che potremmo anche
accettare solo se fossimo pupi liberi di vivere nel mondo del fantastico e
schivare la pessima realtà che ci circonda. Ma nemmeno questa libertà ci è
consentita: dietro o sopra i pupi c’è sempre un puparo che tira i fili.
A Palermo sono maestri
nel fabbricare pupi di zucchero e di altro materiale. Ne ho comprato uno per
Monica. Rappresenta una principessa araba e il suo spavaldo cavaliere con elmo
e sciabola.
Domattina, lo troverà
nella sua scarpina, sulla finestra.
La bambina comincia ad
essere impaziente: “Papà quando vengono i
“morticeddri”?
Questo diminutivo lo ha appreso da mia madre che li chiama
così.
§. Monichetta è contenta di frequentare l’asilo.
Monica all’asilo
Nei primi giorni, per lei è stata dura: non appena Jolikè la
lasciava, scoppiava a piangere. Come se l’assalisse la paura dell’abbandono.
Ora, invece, ha socializzato con gli altri bambini ed anche
con le maestre. Giocano, cantano e si divertono. Quando sono a Joppolo, vado io
ad accompagnarla e a prenderla per il pranzo.
Il fratellino per “finta”
Monica continua a parlare del fratellino che deve arrivare.
Ne parla con chiunque: con noi, con i parenti; con le maestre e con i bambini
all’asilo, in piazza. Ogni tanto me lo ricorda “Papà perché non lo vai a prendere il fratellino?”
Poverina, non sa quali e quante difficoltà si stanno accu-mulando
in Romania.
Ceausescu ha chiuso ogni canale confidenziale. Non accetta
più raccomandazioni, segnalazioni da parte di nessuno; ha ordinato il blocco di
tutte le pratiche di adozione con i paesi europei. Chissà cosa pretenderà in
cambio?
Non posso arrendermi. Poiché tutti i tentativi intrapresi
sono andati a vuoto, disturberò il presidente Andreotti. Speriamo che
comprenderà e soprattutto agirà.
Nell’attesa che arrivi Claudio, Monica ha preso a giocare
col suo orsacchiotto che per lei è diventato “il fratellino per finta”. Un’altra pietosa finzione!
Si comporta con l’orsacchiotto come se fosse un bimbo
piccolo bisognoso di cure e di affetto e pretende che anche gli altri, specie i
familiari, si adeguino al trattamento.
La notte lo porta con se nella culla, dove dormirà quando
sarà a casa. Per lei vuole un nuovo lettino grande come quello di Lucrezia.
L’altro giorno, l’ho portata a vedere l’ala della casa in
costru-zione. Le ho mostrato la stanza dei bambini.
Monica era entusiasta e tutta infervorata s’ingegnò a fare
una sorta di ripartizione funzionale:
“Qua dormirò io, lì il fratellino, qui metteremo i giocattoli, là i vestitini,
qua….”
Verso l’una o le due di notte, prima di andare a letto,
prendo in braccio la bambina dormiente e la metto sopra il vasino per la pipì.
Ogni notte, alla stessa ora, la aiutiamo in questa specie di
pipì sonnambolica per evitare che la faccia addosso. Lei continua a dormire. Basta un sollecito (”psi, psii”) e,
dopo pochi attimi, arriva l’atteso tintinnio. Le do un bacio sui capelli e la
rimetto a letto.
Capitolo settimo
Senza didascalia.
“Papà quando porti il fratellino?”
2/1/88. Scrivo
sempre meno di Monica. Forse, perché più lei cresce più viene meno la mia
funzione di supplenza mnemonica che ho esercitato per salvare taluni momenti della
sua prima infanzia che difficilmente potrà ricordare.
La bambina parla, parla sempre, come “un judice poviru” chiosa mia madre.
Chissà perché questo detto? Forse che il giudice ricco parli
di meno? Boh!
Parla e canta, anche se è stonatina. All’asilo ha imparato
tante canzoncine. Altre gliele insegna mia madre, la cara nonna Giovannina. In
questi giorni, le sta insegnando quella che dovrà cantare all’asilo per la Befana, anche se nella
tradi-zione locale non c’è traccia di questa vecchiaccia.
Come già scritto, a Joppolo, il 6 gennaio, si festeggia la Pastorale.
Monica canta, si diverte, senza dimenticare il fratellino
lon-tano. Talvolta sbotta, impaziente: “Papà
quando lo porti il mio fratellino?”
Ancora una bugia per risposta: “E’ di nuovo in ospedale e non lo fanno uscire. Quando guarirà andrò a
prenderlo”.
Povera figlia, non posso dirle la verità.
Le bugie avranno le gambe corte, ma in certi casi sono le
uniche che consentono di fare un passo in avanti. Laggiù le cose si sono
complicate ulteriormente. Le comunicazioni si sono interrotte.
Non giungono più notizie. Non riusciamo a parlare con l’av-vocato
(non si fa trovare); nemmeno con Virgil.
Come se si fossero chiuse le porte dell’inferno: nessuno può
entrare e nemmeno uscire.
Avrei voluto evitarlo, ma, ora, sono costretto a scrivere al
ministro degli Esteri, on. Giulio Andreotti, pregandolo d’in-tervenire in favore del nostro
caso e di quelli di tante altre coppie d’italiani che aspettano da anni.
Purtroppo, non riceviamo notizie nemmeno da lui. Strano. Un
po’ conosco la solerzia e la cortesia del presidente; per non rispondere vorrà
dire che la situazione è davvero difficile, impenetrabile, perfino per
Andreotti.
Con Monica siamo saliti al secondo piano per costatare gli
avanzamenti dei lavori di costruzione. La bambina mi rifece il discorso di
prima: qui dormo io, lì il fratellino, ecc.
Non so perché, ma le risposi che non avevamo i soldi per
comprare i mobili, il suo lettino.
Lei non si scoraggiò:“Io
ho molti soldini nel salvadanaio”.
Un bambino palestinese per giocare con Monica
Sono ad Atene (8/2), in attesa d’imbarcarmi sulla “Nave del ritorno” dei palestinesi alla
volta di Haifa. Sperando che gli israeliani- come hanno minacciato- non
l’affondino prima di toccare terra.
Telefono a casa per comunicare l’arrivo nella capitale greca
e anche perché desideravo sentire la vocina di Monica che ieri sera era rimasta
turbata nell’apprendere che ero in partenza per “portare da mangiare ai bambini palestinesi”.
Jolikè, forse, le aveva detto che in Palestina c’è la guerra
tra palestinesi e israeliani e che molti bambini palestinesi sof-frono la fame
e le altre sventure imposte ai loro genitori.
Purtroppo, a una bambina di tre anni e mezzo non si possono
spiegare le complessità del conflitto mediorientale, l’assurdità della tragedia
del popolo palestinese sottoposto alle espul-sioni, all’occupazione militare
dei suoi territori.
Bisogna semplificare al massimo. In questa guerra assurda,
tutti sono vittime di qualcuno o di qualcosa, tuttavia i “bravi” non sono
quelli che si danno ragione con la forza, ma i più deboli, i vinti, coloro che
subiscono il torto più grave.
Per l’intera serata, Monica si è mostrata nervosa,
insofferente e mi ha chiesto di raccontarle “la
favoletta dei palestinesi bravi e degli israeliani cattivi”.
Tentai di accennarle qualcosa, ma non mi sembrò il caso. La
sviai su un programma tv, dove Renzo Arbore scimmiottava con Nino Frassica,
l’attore siciliano che le piace tanto.
Tuttavia, nemmeno le smorfie di Frassica riuscirono a rasse-renarla,
a farla ridere. La presi di forza e la portai a letto.
Anche qui continuava ad essere nervosa, perfino un po’ dispettosa.
Mi resi conto che in lei c’era qualcosa che non quadrava e
le domandai: “Monica perché fai la
monella?”.
Lei, piangendo, rispose: “Non
voglio che vai in Palestina perché là c’è la guerra”.
Restai esterrefatto. Per rassicurarla le dissi che stavo andando
in Grecia dove non c’era la guerra.
In nottata partii alla volta di Fiumicino, dove m’imbarcai
su un volo per Atene.
Al telefono rispose mia madre stupita che mi trovassi già
nella capitale greca, non voleva crederci.
Jolikè e la bambina erano uscite in piazza per il carnevale.
La sera richiamo e trovo Monica, tutta pimpante, che mi
dice:
“Papà porta qualche
bambino palestinese a Joppolo per giocare con Monica…glielo dici se vuole
giocare con Monica?”
“Sì, certo. Appena ne
incontro uno glielo chiedo”
“Papà non l’ho
dimenticare, portalo qui che lo prendiamo come figlio, oh!”
La gonna con lo spacco
Finalmente, Monica ha
superato il metro di altezza. E' alta centoquattro centimetri per la
precisione.
I vestitini, le scarpe le vanno stretti. Indossa misure per
bambini di 5-6 anni. Una bella notizia, anche se comporterà qualche nuova
spesa.
E’ civettuola, le piace tanto essere ammirata, vantata.
Ieri sera (13/3), dopo una settimana, sono tornato da Roma e
per prima cosa mi ha detto:
“Papà, guarda ho la gonna
con lo jacco (spacco)”.
Una piccola gitana
Si girò, a trottola, per
mostrarmi che anche lei, come le ra-gazze, aveva lo spacco.
Suole anche profumarsi (forse un po’ troppo) prima di uscire
da casa. Insomma, copia, come una scimmia del Borneo, tutto quello che vede
fare a sua madre e alle ragazze che conosce.
E così, a tre anni e mezzo, abbiamo in casa una signorina
che veste alla moda, si cosparge di profumi; che canta e balla come le ballerine in
televisione.
L’altra sera, mi ha
chiesto d’improvvisarmi presentatore per presentare, con belle parole, il suo
show in… cucina. Esattamente, come fa Pippo Baudo che lei chiama Pippo Bau.
Ovviamente, mi sono prestato a questo insolito ruolo e Moni-ca
si è graziosamente esibita, solo per me, in canzoni e balli fra l’antico e il
moderno.
Si è fatto tardi. Lei deve andare a dormire e io a preparare
l’intervento per la conferenza di Praga sulla pace.
Monica per trattenersi ancora mi fa una proposta che non
posso rifiutare.
“Papà se aspetti ti
racconto 4- 5- 10 favolette che ho impa-rato all’asilo, oh!”
Quel “oh!” era come il timbro della sua risolutezza.
Acconsentii. E lei iniziò a narrare spezzoni di favolette in
parte ascoltate e/o in parte improvvisate da lei.
Pur di trattenermi, ripeteva le stesse cose, s'ingarbugliava
spesso, si bloccava su qualche parola e chiedeva l’aiutino.
Una scena davvero commovente che m’indusse a rinviare il
lavoro e stare con lei, ad ascoltare qualsiasi cavolata dicesse o cantasse.
Lei ne fu felice e si fece furba, si strofinò le mani, e mi
disse “Ora raccontami tu le favolette”
Le narrai la favola di Ulisse e Polifemo, le accennai a
quella della “montagna incantata”. Poi volle che le parlassi del prossimo
viaggio in Ungheria, di cosa vedrà e farà. Mi chiese di portarla di nuovo al luna
park di Budapest, allo zoo e a giocare con le amichette all’asilo di Ecser.
Partiremo, insieme, venerdì 18 marzo: io andrò a Praga e da
lì raggiungerò Monica e Jolikè in Ungheria.
Questa mattina, siamo andati in piazza a passeggiare.
Tirava un vento gelido e le strade erano deserte. La gente era
chiusa in casa. Branchi di nuvole candide correvano, scompo-ste, sotto il sole
che stentava a imporsi sulla scena.
Camminavamo, curiosando, per quelle stradine vuote, decre-pite
godendoci quella meravigliosa solitudine.
Ogni tanto una sosta per riposare e, soprattutto, per
spiegarle quelle architetture di gesso, le vicende di miseria e servilismo che
hanno fatto la storia di questo borgo feudale.
Storie di gente nata vinta, alle quali i giovani (e non
solo) si sono ribellati fuggendo, emigrando nelle più lontane contrade del
mondo.
Monica si mostra interessata al discorso e continua a domandare:
“Questo cos’è, perché?” “Qui chi ci sta?”
Si esprime molto bene, con qualche dolcissima storpiatura,
per la gioia di papà: “aprito” per
aperto, “pettacolo” per lo
spettacolo, e via via storpiando.
A Mazara, con i poeti del Mediterraneo
Ieri (15/5), con Monica e Joliké, ci siamo recati a Mazara
del Vallo per partecipare ai lavori del “V
Incontro fra i popoli del Mediterraneo”
nel corso del quale mi conse-gneranno
una medaglia d’oro per il mio libro “Oltre
il Canale- Ipotesi di cooperazione
siculo-araba”, per altro dedicato alle mie donne.
L’altra medaglia è stata conferita al professor Antonino
Zichichi, il fisico trapanese, direttore del Cern di Ginevra.
Fra gli ideatori e gli organizzatori del simposio c’è un
poeta, Rolando Certa, perciò non poteva mancare una sessione interamente
dedicata alla poesia, ai poeti del Mediterraneo.
Idea azzeccata, poiché la poesia è un messaggio potente,
diretto e può dare un contributo rilevante alla comprensione e alla convivenza
pacifica fra i popoli rivieraschi.
Molto di più delle chiacchiere vacue che si fanno nel corso
delle tante delegazioni politiche e commerciali, di tanti con-vegni pseudo culturali.
Quando è autentica, la poesia è creazione pura, è libertà
che non sopporta gabbie, limiti spaziali e culturali, barriere politiche.
Fra gli arabi la poesia è ancora il genere letterario
dominante anche se non si può dire sia il prodotto di una libertà reale e diffusa. Semmai, è un lamento per la libertà
negata da regimi dispotici e corrotti. Tuttavia, la poesia è una delle chiavi
d’oro per aprire il cuore degli arabi, per cogliere e decifrare i loro
sentimenti, i loro eroismi, le loro paure.
Attenti però ai falsi poeti! Soprattutto agli epici, a
quelli che incitano le masse al martirio dal bordo di una piscina di un albergo
a cinque stelle. In giro ne ho incontrati tanti: fra il Cairo, Damasco e
Bagdad.
Qui, a Mazara, sono convenuti poeti da ogni riva del
Mediterraneo, non per competere ma per cercare insieme la via della pace
attraverso una nuova unione attorno a questo mare, culla delle più antiche e
celebrate civiltà.
Fra sessioni e pranzi, Monica se l’è cavata piuttosto bene.
Certo, ha avuto qualche insofferenza. Per non tediarla, ogni tanto l’abbiamo portata
a fare un giretto per le vie Mazara.
Anche perché temevo che, vedendo recitare quei poeti, le
potesse venire in mente di recitare anche lei una poesia.
Infatti, a un certo punto, mi propose: “Papà anch’io so la poesia, quella dell’uccellino. Perché non dici a
quel signore (si riferiva al presidente della sessione) che mi fa dire la poesia dell’uccellino?”
Per fortuna, la cosa non ebbe seguito, si chiuse lì, senza
conseguenze per…l’eccellentissimo simposio.
A parte ciò, tutto è andato per il verso giusto.
Per altro, essendo l’unica partecipante sotto i quattro
anni, Monica divenne la mascotte del convegno.
In particolare, legò con un simpatico poeta libico, Alì
Khader di Sabratha, che la coccolava e le recitava le poesie in arabo.
Fra cui una, improvvisata a tavola, con la quale invitava i
partecipanti “a re-incontrarsi a Mazara fra… un milione di anni. Ognuno
porterà una rosa, per fare della Sicilia un aulentissimo giardino…”
§. Questa sera (8/7), Monica ha voluto inaugurare la sua
stanzetta ossia la mansarda che si affaccia sul giardino.
E’ molto graziosa e comoda, ma ancora spoglia. Non vi sono
mobili. I soldi sono andati tutti per la costruzione della casa.
Tuttavia, la bambina insiste per dormire da sola nella sua
cameretta.
Per accontentarla, Jolikè estrasse il materassino e il
cuscino della culla e le approntò un lettino sul pavimento di cotto rosso
fiorentino.
E ha dormito lì, serenamente. L’indomani si è svegliata tutta
contenta e soddisfatta. Aveva preso possesso della sua stan-zetta dove
coltiverà la sua intimità, conserverà i suoi piccoli segreti. Dove dormirà
anche il fratellino.
Il ventilatore
30/7/88. Ieri è
morto, a Cheratte, in Belgio, mio zio Giu-seppe Cultrera, fratello di mia madre
e figlio di Agostino, sommo poeta di…Joppolo.
E’ morto lontano della sua casa in piazza Picciola e del
castello del duca, dove aveva servito per decenni.
In questa famiglia di poeti e ortolani, lui era il solo a
non possedere il “dono”. In compenso cantava romanze e serenate alla sua “bella Rosa che fiorisce ogni sera”.
Talvolta, anche canzoni amare che rasentavano il nonsenso,
l’assurdo.
Una di queste l’ascoltò mia madre una notte mentre scende-vano
a piedi da Raffadali, dove si erano recati (c’era anche la zia Francesca) alla “Fera Malati”.
Chiarisco che tale “fera” non è un’esposizione di persone
malate, ma la più importante fiera agricola del circondario che si tiene in
occasione della festa della “Madonna dei malati”. Così cantò zio Giuseppe
quella sera.
“Vitti siminari favi
cotti
Ni lu misi di maju
ficu fatti
Vitti lavurari un omu
mortu
L’aratu lu tiravanu du
gatti”
Una canzone assurda, dolente, macabra perfino, che provo a
tradurre per coloro che parlano soltanto col tischi- toschi.
(“Ho visto seminare fave cotte
Nel mese di maggio (ho visto) fichi maturi
Ho visto lavorare (arare) un uomo morto
L’aratro lo tiravano due gatti”)
Una bizzarria! Dove si è mai visto un uomo morto, un cadavere
dissodare la terra per inseminarla con fave cotte, con un aratro tirato da due
gatti poderosi?
Una scena apocalittica nelle terre del duca!
Poi vennero la guerra, l’emigrazione clandestina, il lungo
viaggio fino al Belgio dove l’inghiottì una cupa miniera di carbone che,
lentamente, gli distrusse i polmoni. Oggi, a Cheratte la sua famiglia piange la
sua morte.
Forse, se ne sarà andato col rammarico di non aver potuto
lasciare le ossa alla terra che l’ha generato.
Ma si potrà consolare per il doppio lutto: uno a Cheratte e
l’altro a Joppolo, in casa nostra, pianto da fratelli e sorelle e- come
vedremo- dalla piccola Monica che non lo ha conos-ciuto.
Il “cunsulu” (ossia le visite di consolazione) durerà tre
giorni, come se ci fosse il morto in casa.
I fratelli e i parenti più intimi sono riuniti a circolo nel
sog-giorno di mia madre e attendono le visite di amici e parenti. Qualcuno
annoterà, a mente, le presenze e le assenze per con-traccambiare domani.
Jolikè ha spiegato a Monica cosa stava succedendo giù dalla
nonna.
La bambina ha voluto costatare de visu. Rimase colpita nel
vedere la scena: quei fratelli, vecchi e incanutiti, vestiti di nero, seduti
uno di fianco all’altro, che piangevano un morto che non c’era. Muti, in attesa
di una visita.
Monica, senza parlare, prese la sua sediolina di vimini e
andò a sedersi accanto a mia madre.
A suo modo, partecipava al lutto per la morte del “fratellino della nonna di Joppolo”.
Nella stanza, il caldo torrido di luglio era insopportabile.
Eppure, le imposte dovevano restare chiuse o semichiuse, per segnare il lutto.
Per alleviare l’afa, mia sorella Zina portò il ventilatore e
l’accese.
La bambina, pensando che fosse quello messo in palio alla
festa dell’Unità, si rivolse, contenta, a mia madre: ”Nonna! Nonna! Chi lu vincisti tu il ventilatore?”
Una lettera di Giulio Andreotti
Oggi (8/8) mi è pervenuta una lettera del ministro degli
Esteri, on. Giulio Andreotti. Gli avevo scritto
chiedendogli d’intervenire presso le autorità rumene per sbloccare
l’iter delle pratiche di adozione relative a Claudio e ad altre centinaia di
bambini attesi da coppie italiane.
Come si può leggere dal testo (allegato), il Presidente assi-cura
di essere intervenuto presso il collega rumeno, ma il risultato è stato aleatorio,
deludente.
Sono certo che egli avrà fatto del suo meglio per accelerare
i tempi e favorire l’emissione dei decreti.
Ma- come traspare dalla lettera- in questa vicenda pesano dei
paletti, imposti dal governo di Bucarest, che la politica, la diplomazia non
possono forzare.
Come scrive Andreotti, la questione è delicata e “ impone di procedere con cautela e con senso di responsabilità”.
Aggiungendo, poi, di suo pugno, due righe da me molto
gradite “Stai tranquillo che faccio ogni
sforzo, anche “ufficioso”.
Il gelataio di Aragona
Ascolto sempre le note gioiose del carillon del gelataio di Aragona
che non è la storica regione spagnola, ma un paese confinante col nostro.
Aragona, appunto. Quanta Spagna ab-biamo incorporato noi siciliani!
Ma fermiamoci al
gelato che, da quando i gelatai nostrani sono spariti, lo porta quest’uomo,
alle cinque della sera, col suo furgone colorato.
Non ha bisogno di sgolarsi, di gridare come fanno altri am-bulanti.
Per lui parla la musica, dolcissima, del genio vien-nese: da sette anni, alla
stessa ora, sempre lo stesso brano del “Il bel Danubio blu” di J. Strauss.
Musica e gelato che felice abbinamento! Irresistibile, per
grandi e piccini.
A quell’ora le donne sono riunite nella piazzetta per
pregare e soprattutto per sparlare. Non appena giungono le prime note, i
bambini entrano in agitazione e tormentano le mamme per farsi comprare il
gelato.
Prima che arrivasse Monica, mi accadeva di osservare, da
dietro la persiana, quelle madri avvicinarsi all’allegro furgone con i bambini
afferrati per mano.
Confesso che ho desiderato tanto poter accorrere anch’io, a
quell’ora gioiosa della sera, con un bambino per mano, a comprargli un cono dal
gelataio aragonese.
Passò qualche anno. Oggi c’è Monica e posso farlo. E la
musica del carillon è ancora più bella.
Il gelato del gelataio d’Aragona
Ogni sera, la stessa scena che mi ricorda l’arrivo della
carriola di Giurlanniddru don Nociu con dentro due pozzetti di gelato: uno al
gusto di limone e l’altro misto torrone e
cioccolato.
Candido e secco come un angelo canuto, Giurlanniddru si
annunciava al nostro piccolo mondo in attesa con un “limone è che bellu”. Per noi non era un uomo, ma una luce argentea
che saliva dal Voltano annunciando, con la sua voce tremula, le delizie
contenute nei due pozzetti..
“Al limone e che
bello” era uno slogan commerciale, ma ben presto sostituì il suo patronimico
come elemento d’identi-ficazione. Di Giurlanni, Giurlaniddri ce n’erano tanti,
ma di “limone e che bello” solo lui.
Quando nasce un filo d’erba
Monica ha ripreso a frequentare l’asilo. Jolikè le ha
comprato un grembiulino rosa. Sono circa 35 i bambini iscritti all’asilo di
Joppolo, un edificio ormai vetusto ubicato fuori paese in una zona franosa
chiamata “cugnu nutaru”, un tempo
ricetto d’immondezzai e cacatoi pubblici.
Monica e Jolikè di ritorno dalla passeggiata
E’ stato costruito negli anni ’50, con finanziamenti della
Cassa per il Mezzogiorno, in un’area a dir poco infelice donata dal Comune alla
Chiesa cattolica che intendeva rea-lizzarvi un asilo privato.
Ci vollero venti anni prima che fosse aperto. Il tempo di
una generazione!
Attenzione, però. L’asilo non è gestito dall’istituzione
eccle-siastica, com’era scritto nella richiesta di finanziamento, ma dal Comune
donatore che, ironia del buon senso, deve pagare un canone alla chiesa.
Insomma, un capolavoro di lecita circonvenzione della legge!
Ma andiamo oltre. In un paese minuscolo come Joppolo,
l’asilo costituisce certamente un luogo importante di socializ-zazione.
La bambina comincia a entrare pienamente nella vita di
relazione comunitaria che- com’è noto- ha tanti vantaggi, ma anche qualche
inconveniente.
Nel caso di Monica, notiamo comportamenti inediti, aggres-sivi,
disubbidienti, perfino intolleranti. Per lei, la casa, la famiglia non sono più
il centro principale del suo universo infantile, ma un luogo di conflitto.
In un certo senso, è giusto che sia così, tuttavia il cambia-mento
sembra eccessivo, troppo repentino.
Il fatto si spiega, in parte, con la frequentazione di
bambini adusi a una vita meno ovattata, protetta.
La bambina si sarà dovuta adeguare assumendo come valori
anche i comportamenti aggressivi.
Come dire “Chi pratica
con lo zoppo…zoppica”.
Entro certi limiti, questo “zoppicare”, non mi dispiace
poiché serve per la formazione del carattere della bambina che dovrà vivere e
confrontarsi in questa società.
Certo, il problema di certe asperità comportamentali esiste
e non può essere aggirato, come fanno taluni, portando i figli all’asilo del
capoluogo.
Per quanto possibile, Monica deve crescere come noi: nel
nostro paesino, nelle sue vie, nelle sue scuole; in mezzo alla nostra gente
che, per quanto “arretrata”, è sempre la migliore che ci sia nei paraggi.
Monica con la coppola del nonno
L’unico inconveniente da evitare è la fossilizzazione nel
paese, l’asfissia per mancanza di collegamento col mondo esterno, col mondo
tout court.
Ieri sera (11/10), siamo andati a passeggiare nella campagna
intorno al castello.
Abbiamo giocato sulla terra ammorbidita dalla pioggia e
osservato le manifestazioni della natura.
Il filo d’erba che nasce, e cresce, tra le pietre dure,
avare; la coda spezzata di un serpente contesa da uno sciame di vespe
assatanate e da eserciti di formiche in livrea; i massi di calcare staccatisi
dalla Rocca intrisi di scheletri di molluschi primordiali; campi di meloni
ormai spogli; il volo delle “ciaule” (una specie rara di corvi che vivono
soltanto sulla Rocca del Duca) il loro gracchiare per l’aria tersa della sera;
i fumi dei comignoli nel paese.
In un piccolo spazio sono concentrati presenze e fenomeni
grandiosi che riguardano il mistero della vita e della morte.
Una lezione esemplare, basata sull’osservazione diretta,
senza ricorrere all’enciclopedia.
Una bella “sciampagnata”- disse Monica senza avere bevuto “champagne”.
§. Osservo Monica
disegnare, tracciare linee, schizzi di
uccelli, fiori, cani, pecore, bambini, cavalli ossia il suo piccolo mondo
finora conosciuto, lontano dai fragori di città violente e rumorose.
Le sue manine bianche tracciano sul foglio, con lapis e
penna, le linee essenziali del soggetto. Da Parigi le ho portato una stampa di
un disegno giovanile di Pablo Picasso che abbiamo appeso alla parete della
stanzetta quasi a voler suggerire a Monica un modello.
Lei ha voluto sapere chi avesse fatto quel disegnino.
Le risposi:“Pablito,
un bambino spagnolo emigrato in Francia”.
Alcuni di questi primi disegni di Monica li ho conservati
nel mio disordinato archivio privato.
Disegno di Virgil Preda per Monica
Dal disegno all'aritmetica. La bambina comincia a pren-dere
dimestichezza con i numeri: conta fino a dieci. Sa fare anche
la emme di Monica.
Ogni sera fa “i compiti” sotto lo sguardo benevolo di
Jolikè.
In questi giorni, Monica è costretta a stare in casa perché
l’asilo è chiuso per lavori di restauro e derattizzazione.
E così passa diverse ore davanti al televisore. E questo non
è molto educativo. Bisogna somministrare la tv con parsimo-nia. Per quanto
possibile cerchiamo di distoglierla proponen-dole attività alternative,
passeggiate e giochini vari.
Anche nella conversazione fa progressi, comincia a svolgere
brevi ragionamenti. Non solo chiacchiere ma piccole costru-zioni più o meno
razionali.
E’ sempre curiosa e incalzante con i suoi perché.
Recita le preghiere che le insegnano mia madre e le altre
don-ne della famiglia. Preghiere antiche, tramandate da genera-zioni, che però
ci creano qualche problema.
La bambina, infatti, non capisce perché anche la mamma non
le insegni le preghierine come fa la nonna. Abbiamo deciso di non affrontare il
tema per non turbarla con spiegazioni per lei troppo impegnative.
Anche questa materia è rinviata alla maggiore età.
Lo spirito del “conducator” aleggia su Palermo
L’altro giorno (26/12), ho avuto con Jolikè un breve ma
vivace diverbio a causa delle difficoltà economiche che stia-mo attraversando.
Forse, era la prima volta che Monica assisteva a una lite
fra mamma e papà. L’ho vista cangiata in viso, irrigidita, muta, terrorizzata.
Vedere litigare, a voce alta, mamma e papà, rompersi anche
qualche piatto, è stato per lei un trauma.
Purtroppo, sono stato io a perdere il controllo dei nervi in
questo periodo molto tesi. Accade raramente ma quando suc-cede si crea un po’
di trambusto.
Una sfuriata passeggera, presto placatasi, che fece
scoppiare la bambina in un pianto dirotto, per me molto straziante.
Si schierò dalla parte di Jolikè che le appariva vittima
della mia ira. In effetti, un po’ lo era. I nostri guai non nascono da diverbi
in famiglia, ma discendono dalle ristrettezze econo-miche e dalle
incomprensioni che continuo a subire presso il CR del Partito.
A Palermo c’è una situazione difficile sul piano dell’azione
politica e assurda su quello finanziario che non garantisce nemmeno la
regolarità dei magri stipendi mensili.
E’ vero che c’è la
crisi, ma non è uguale per tutti.
Al segretario regionale lo stipendio arriva, puntuale, diretta-mente
da Roma, mentre gli altri compagni dell’apparato devono accontentarsi di quello che passa il povero convento
di… Palermo.
A ciò bisogna aggiungere una ulteriore discriminazione:
nell’erogazione degli stipendi prima vengono i membri della segreteria e poi gli
altri compagni di più basso grado.
Una condizione assurda, inaudita per un partito che si fonda
sulla fraternità, sullo spirito umanitario e solidale.
Nella mia esperienza di segretario provinciale di Agrigento
avevamo commisurato il trattamento economico e le priorità ai bisogni dei
compagni e non ai gradi.
Invece qui devo fare la fila, attendere giorni e settimane
pri-ma di portare a casa quattro lire.
Per tirare avanti sono stato costretto a cambiare i 1.500
dolla-ri che avevo messo da parte nel caso ci avessero chiamato per andare a
prendere Claudio.
Avevo giurato di usarli esclusivamente per questo fine, ma
fui obbligato a tradire il giuramento.
Temevo, soprattutto per Monica, per Claudio. Non riuscivo a
sopportare l’idea di averli strappati dall’inferno rumeno e ora non poterli
sfamare, farli crescere, educare.
In qualche momento ho pensato a un’atroce beffa del destino.
Come se lo spirito del “conducator” aleggiasse sopra il deca-dente
palazzo baronale del comitato regionale.
Da qui le tensioni, le liti con le mogli, nelle famiglie.
Non potevo spiegare queste cose alla bambina che continuava
a piangere, attaccata alla gonna della madre. Le segnalo non per recriminare,
ma solo sperando che un giorno possa leggerle e capire.
Mi resi conto della situazione, mi calmai e corsi ad
abbracciare Monica per rasserenarla, assicurandole che era tutto passato
La bambina sembrò apprezzare il gesto distensivo, smise di
piangere e mi disse “la mamma è poverina,
è buona, vai a fare “pace paciuzza” con la mamma”.
La coprii di baci ed eseguii l’ordine di pace.
Apparentemente, Monica ha superato lo shock, tuttavia tende
a parteggiare per Jolikè, anche quando non è necessario.
Per accertarmi che mi vuole sempre bene, ogni tanto le
domando: “Moka quanto vuoi bene a papà?”
Lei risponde “Assa,
assa!”
“Assai quanto?” la
incalzo.
“Un milione, un
miliardo di bene”
Mi accontento anche del “milione” e mi sforzerò, per il
futuro, di evitare scenate simili.
Furto in casa, ancora uno zingaro
21 gennaio 1989. Abbiamo
anticipato di un giorno il mio compleanno per festeggiarlo insieme a quello
della zia Fran-cesca.
Nulla di speciale, soltanto una piccola festa in famiglia.
Monica è tutta contenta di avermi aiutato a spegnere le 41
candeline.
Poi chiede alla mamma di prenderle uno dei suoi braccialetti
d’oro conservati nelle scatoline dietro lo specchio dell’arma-dio nella stanza
da letto.
Jolikè apra una scatolina e la trova vuota. Ne apre un’altra
anch’essa vuota. Un’altra ancora, pure vuota. Su tredici solo quattro sono
piene.
Sono spariti quasi tutti i regalini (collanine, braccialetti
d’oro) che Monica aveva ricevuto per il battesimo.
Cerchiamo dappertutto, ma niente. Chiediamo alla bambina se avesse
usato le scatoline per giocare, magari mostrandole a qualche amichetta/o che
frequentano la casa.
Monica rispose che non le ha mai prese. Pensiamo a un ladro.
Però, c’è qualcosa d’illogico: perché il ladro avrebbe dovuto lasciare i
quattro oggettini d’oro? Perché non arraffarli tutti?
Sospettiamo che Monica avesse conservato i gioielli e che
ora non ricordasse più il posto o che, addirittura, li avesse portati all’asilo
e “distribuiti” ai suoi compagnetti di giochi.
Anche questa ipotesi non
regge. La bambina ha ribadito di non averli mai presi. Conoscendola, ci
convinciamo che non avrebbe dilapidato il suo “tesoretto”.
Insomma, la brutta scoperta comincia a tingersi di giallo.
In casa il clima è cambiato: dall’allegria della festa ai
musi lunghi, ai sospetti. Cercai di sdrammatizzare. In fondo, quei gioielli
erano poca cosa; avevano solo un valore affettivo.
Quando restammo soli, Jolikè mi raccontò l’episodio dello
zingarello che, lo scorso 7 gennaio, era entrato in casa di sop-piatto.
Non me l’aveva detto prima perché temeva la mia reazione. Giacché
ha disatteso la mia raccomandazione di non lasciare la porta aperta o la chiave
inserita all’esterno.
La precauzione era giustificata giacché, in questo periodo,
in paese si erano verificati diversi furti in appartamento.
Jolikè, quel giorno,
lasciò la chiave inserita e andò a stendere la biancheria sui balconi della
casa di Klari che dista circa 200
metri dalla nostra.
Sicuramente, in quel frattempo, sarà entrato lo zingarello
che lei incontrò per la scala mentre usciva di corsa dalla nostra casa. Ancora
uno zingaro! A parte il danno subito, continuo a nutrire una certa simpatia per
questo popolo, per la sua musica.
Anche se, confesso, non
riesco ad accettare l’idea, propugna-ta in alcuni ambienti della sinistra
“buonista”, secondo cui lo sfruttamento dei minori, delle loro donne, il
latrocinio prati-cati da taluni zingari (non da tutti, ovviamente), si possono non
condannare in nome di un’improbabile “cultura zigana”.
Una sonora pernacchia al professorone
Stranamente, Monica si concede qualche comportamento
irriguardoso nei confronti dei familiari. Specie verso mia madre e mio padre
che l’adorano.
Qualcosa le scappa anche con noi. Evidentemente, la fre-quentazione
degli altri bambini dell’asilo produce in lei tali effetti, inevitabili nel suo
primo impatto con la vita sociale.
Oggi (10/3), l’abbiamo portata a Palermo per farla visitare
da un professorone dell’Università che ci è stato raccomandato come uno dei
migliori pediatri della Sicilia.
Appena entrati nello studio, Monica si è messa a piangere.
Come il solito, era terrorizzata al solo pensiero d’incontrare un medico.
Il prof. è stato bravo nell’approccio. Tentò di entrare in
confi-denza con la bambina. Per rassicurarla, le disse che non era un medico,
ma uno zio che voleva giocare con lei.
Tutto pareva andare per il meglio, ma non appena il prof.
estrasse lo stetoscopio per auscultarle il petto Monica ne restò sconvolta.
Altro che giochino! Cominciò a urlare e si aggrappò al mio
collo come per essere difesa dal “nemico” in agguato.
Al medico che, con parole suadenti e scherzose, riprese il
tentativo di visitarla, gridò: “Non mi
fai paura…”
Con l’aggravante che alla sfida seguì una sonora pernacchia,
per noi molto imbarazzante.
“La prego di scusarla.
Sa all’asilo…” riuscii a biascicare.
Il professorone stavolta perse la pazienza e se la prese con
noi: “I figli, egregi signori, sono una
responsabilità. Vanno educati per bene.”
Restammo pietrificati, senza parole e rossi di vergogna.
Mise da parte lo stetoscopio e la auscultò con le mani, sia
il petto sia il pancino.
Non so che cosa abbia potuto auscultare, tuttavia ci
assicurò che per lui era tutto regolare, nella norma.
“Semmai- aggiunse
con un' espressione perfida- c’è qualche
problema comportamentale che io non posso curare… 150 mila lire, prego”.
Era questa la tariffa per una visita durata poco più di 20
minuti ossia una cifra corrispondente al salario di tre giornate di duro lavoro
di un edile.
Gli chiesi la ricevuta fiscale. Il professorone si sentì in
dovere di precisare che, in questo caso, l’onorario doveva essere incrementato
di altre 30 mila lire:“Sa, lo Stato ci
tartassa con le tasse. E’ peggio dell’inquisizione spagnola…”
Quando uscii dallo studio vidi l’anticamera piena di gente
in attesa di visita. Ma quanto cavolo guadagnano questi medici?
Gli stava bene la pernacchia di Monica!
Comunque sia, abbiamo parlato con Jolikè della reazione
della bambina. Cercheremo di osservarla più da vicino, di capire meglio la
realtà dei suoi rapporti esterni alla famiglia e quindi assumere le necessarie
precauzioni, sempre mediante il ragionamento e la persuasione.
A parte questo episodio, la bambina viene su bene, educata e
dotata di un equilibrio più che normale.
§. Oggi (16/5), Monica ha disegnato un bimbo, come tanti
disegnati in precedenza. Stavolta, però, ha il “pisellino”.
Sorpresa per tale inedita attribuzione, Jolikè l’ha
interrogata: “Cosa è quella cosina
sporgente fra le gambe del bambino?”
“Serve per fare la
pipì, l’ho visto al gabinetto” rispose, tranquilla, la bambina.
La scoperta del “pisellino” ci ha un po’ turbati, ma anche
un po’ rasserenati. Come ha detto il professorone, la bambina è nella norma.
La vendita dei fac-simili
Siamo allo sprint finale della campagna elettorale per il
rinnovo del Parlamento europeo.
Monica desidera, a tutti i costi, partecipare alla
distribuzione dei fac-simili.
E’ in disaccordo con me che regalo “i fogli alla gente”.
Perché regalarli? Sono così belli, con tutti quei disegnini
colorati.
Propone di venderli 100 lire ognuno. L’altro giorno (15/6),
al mercato si è messa a vendere fac-simili specie ai parenti che incontrava. Ha
racimolato una piccola sommetta che però… non ha versato nelle casse del
Partito.
Appagata del buon esito della vendita, ora vuol venire con
me a fare il giro del paese, a vendere casa per casa i fac-simili.
Insomma, sembra avere intravisto un grande affare.
Le spiego che non è possibile, poiché i fac-simili non si
ven-dono ma si offrono gratuitamente alle persone per farle votare per il
nostro Partito.
Lei non capisce il meccanismo e mi chiede di spiegarglielo.,
Le spiego, ma non la convinco. Insiste: i “foglietti” bisogna venderli, non
regalarli.
Il fiume anidro
Finalmente (13/9), piove come Dio comanda. Si dice così, ma
Dio non c’entra. Se no, bisognerebbe fargli una domanda a dir poco
imbarazzante: perché, nonostante le preghiere e le tante processioni, spesso
dimentica di mandare la pioggia in questa landa semidesertica della Sicilia?
Da giorni, la pioggia, intensa e benefica, paralizza la vita
del piccolo villaggio. I contadini sono costretti a oziare in piazza, a godersi
la pioggia. Quando “scamperà”, e la terra “aggran-gerà”, potranno dar il via
alle semine di fave e frumento.
Nascerà così il buon grano di Joppolo che ha sfamato tanta
povera gente e arricchito l’illustre casata dei duchi Colonna.
Soprattutto di notte, si ode la tumultuosa discesa del ruscello
(vaddruni) Drago, gonfio come un rospo in calore, che corre verso il mare
“africano”.
In realtà, questo fiumiciattolo, anidro per gran parte
dell’an-no, ha un doppio nome, secondo il territorio che attraversa: in quello
di Joppolo si chiama “Drago”, in quello di Agrigento “Akragas”.
Strano. Quasi si fosse voluto ripartire un dominio fra due
en-tità mitiche che abitano la fantasia popolare.
In realtà, il fiume è
uno e rischia una brutta fine a causa delle diverse fogne che vi si riversano.
Qualcuno, ironizzando, prevede che tornerà navigabile come
al tempo dei greci e così potremo andare da Joppolo a San Leone in
barca…solcando una massa di fetidi liquami.
Anche noi siamo chiusi in casa a goderci la pioggia deside-rata
e anche un po' temuta, che evoca ancestrali paure e odori di cibo e di terra
sfumata.
Osserviamo, le gocce d’acqua “giogia”, tonde e rigonfie, correre,
impazzite come magneti, sul vetro della finestra, velato dal respiro di Monica.
“Guarda questa quanto
è grande, e com’è veloce…”
“Anche la mia corre ed
è tanto grande” aggiunge lei, per non essere da meno.
Ormai non dice più “dante”,
ma “grande” bello chiaro.
Da quando frequenta l’asilo, ha abbandonato “dante”, ma non
sa che il Sommo Poeta l’aspetta, paziente ed esigente, alle superiori.
§. Monica è tornata dalla piazza, dove ha imparato due nuove canzoncine che mi canta.
.
Sotto il cappero,
sulla terrazza
La prima: “Oj è
duminica,
tagliamu a testa a
Minica,
Minica nun c’è
tagliamu a testa a u
re
u re è malatu
tagliamu a testa o
surdatu”
La seconda:“Cruci
ferru, cruci ferru,
cu talia sinni va a u
mbernu”
“E ora raccontami tu
una favoletta” dice tutto d’un fiato.
Le ore sono lunghe prima della cena. Le accenno alcuni episodi
di quando bambino, poco più grande di lei, andavo a pascolare la capra a Passo
Raffadali. Allora, non c’era casa senza questo ovino. La capra ci dava il
latte, i formaggi e i capretti che
nascevano fra ottobre e novembre e morivano, sgozzati, a dicembre.
Solo pochi erano sottratti all’atroce destino. Per lo più, a
sal-varsi erano le femmine perché avrebbero dato latte e capretti, mentre in un
gregge di maschio ne bastava uno.
Da millenni, un po’ tutti, uomini e Dei mediterranei, a
comin-ciare da Giove sul monte Ida a Creta, siamo stati svezzati con il buon
latte e i formaggi di capra.
Nella nostra graduatoria zoologica bisognerebbe porre al pri-mo
posto la capra, oggi in via di estinzione, verso la quale i popoli del
Mediterraneo hanno un grande debito di riconos-cenza.
Monica, forse
impressionata dal crudo racconto, mi chiese di cambiare favoletta.
In realtà, non conoscevo molte favole. Da bambini, ci raccon-tavano
solo “passate” ossia episodi veri di miseria o di violenza che capitavano in
paese.
A narrarcele era mia nonna Caterina che conservava una
formidabile memoria. Era cieca, ma i fatti li vedeva.
Non avendo un bagaglio di favole, fui costretto a
inventarle, a improvvisarle, attingendo l’immaginario a me più congeniale:
l’oriente magico, i deserti e le immense orografie che s’interpongono fra
l’Asia, l’Africa e l’Europa.
Cominciai con quella della “bellissima principessa indiana” che s’innamora del suo giovane
cameriere che, però, non può sposare poiché egli appartiene a una casta inferiore.
Per coronare il loro sogno d’amore, i due fuggono,
travestiti da monaci buddisti, verso i monti dell’Himalaya, dove troveranno
rifugio in una caverna…e avranno tante capre e tanti bambini. E “vissero felici e contenti e nantri semu ccà
senza fari nenti”. Era questa la formula conclusiva di ogni favoletta.
La guerra dell’acqua nel deserto infuocato
La bambina ne chiese ancora un’altra. Le accennai quella del “vecchio della montagna”, ma presto mi bloccò perché desiderava ri-sentire
quella de: “I due cammelli e gli uomini
blu” che fa un po’ così.
“Da giorni, una
cammella col suo piccolo avanzavano a stento nel bel mezzo del più grande e
infuocato deserto della Terra chiamato Al- Khalil.
Il piccolo, stanchissimo e senza una goccia d’ acqua
nel pancino, si lamentava di continuo: “
Mamma, ho sete, voglio l’acqua, non posso camminare”.
La sua mamma cammella
lo rassicurò: “Resisti figlio mio! Fra poco incontreremo l’oasi di Sciatt e
potrai bere tutta l’acqua che vorrai.”
Cammina, cammina, ma
dell’oasi, dell’acqua nemmeno un segno. Solo deserto, montagne di sabbia
infuocata, nemmeno un filo d’erba. Il piccolo cammello ora piangeva “Mamma ho
sete, voglio bere”
Per farlo divagare, la
mamma gli raccontò dei suoi lunghi viaggi con le carovane da un oceano all’altro,
attraverso i deserti e le oasi incontrate e delle delizie qui conservate:
l’ombra ricreante della palma con i suoi datteri, l’acqua nitida filtrata dalla
sabbia, il dolce riposo, le notti stellate e il chiaro di luna. Il piccolo
cammello ora sognava…
Camminano ancora sotto il sole implacabile, stanno per morire di sete e
di stenti. Ma guai a fermarsi. Nel deserto chi si ferma muore. Finalmente.
apparve ai loro occhi una mac-chia verde. Non era un miraggio ma un’oasi vera.
“Ecco l’acqua!” esclamò la madre.
“Dov’è?”- disse il cammellino che non ci sperava più.
“Laggiù, in mezzo a
quel palmizio. Sicuramente, troveremo una sorgente, un pozzo, uno stagno
d’acqua. Corriamo…”
Era questo un luogo
fresco e ombroso, un piccolo paradiso in mezzo all’orrido deserto sterminato,
sotto un cielo di palme rigogliose da cui pendevano cascate di datteri neri,
lucidi e grandi come occhi di bue.
Parevano barbe di
faraoni che erano i re dell’Egitto, i figli del Nilo, il fiume più lungo e più
benefico della Terra.
Sotto le palme, a
riposare, altri cammelli, alcuni uomini e un branco di caprette che brucavano dal
canneto che circon-dava uno stagno quasi asciutto.
Acqua e canne vivono
in simbiosi. Come dice l’Antico, sotto la canna c’è l’acqua che dorme.
I due cammelli, madre
e figlio, immersero i loro lunghi musi nello stagno e bevvero a lungo,
prosciugandolo.
Ad un tratto, dal
canneto spuntò una rana gonfia e indignata: “Basta! Non vedete che state bevendo tutta l’acqua? Come faremo noi,
povere rane? Crà, crà, crà”
Monica vista dal pittore giordano Mohanna Durra, Joppolo,
1989
E presto scomparve fra le canne da dove era
venuta.
I due cammelli,
incuranti delle sue lamentele, si
riempirono il pancione per affrontare altri giorni di duro cammino.
Perché, il cammello non
si accontenta, come noi, di un bicchiere d’acqua, ma ne beve grandi quantità
per resistere alla sete per tre, quattro giorni.
Il pancione funziona
come una riserva d’acqua. Come la cisterna che abbiamo sotto la casa.
Madre e figlio, dopo
aver bevuto a sazietà, si sdraiarono sotto una palma, a
dormire.
In quel mentre,
sopraggiunse un pastore che portava il suo gregge all’abbeverata.
Era un uomo magro, dal
viso scuro, mangiato dal sole,
avvolto in una tunica
di lana per ripararsi dal caldo.
Le pecore corsero
verso il punto d’acqua, ma grande fu la loro delusione nel vedere lo stagno quasi
prosciugato. Dopo il lungo cammino trovarono solo un poco d’ acqua nera.
“Meh, meh . Siamo assetate e acqua non ce n’è. Meh, meh”
Così piangevano le pecorelle.
Il pastore andò su
tutte le furie: “Chi ha bevuto l’acqua dello stagno? Ora le mie pecore
moriranno di sete.”
Udendo queste urla
rabbiose, la rana accorse a vedere, col suo pancione rigonfio e due occhi
sgranati.
L’uomo, sempre più
infuriato, se la prese con lei:
“Rana brutta e
cattiva, hai bevuto tutta l’acqua della conca. Ora ti ammazzo a bastonate”
La rana con un balzo
inusitato andò a rifugiarsi sopra un casco di datteri e, una volta al sicuro,
così parlò al pastore: “Non sono stata io. Il sole ti avrà bruciato il
cervello: il mio pancino non può contenere tutta l’acqua dello stagno.
L’hanno bevuta, quei
due cammelli che dormono laggiù sotto la palma…”
Il pastore corse da
loro e col bastone punzecchiò il pancione della mamma cammella che si svegliò
di soprassalto:
“Chi è? Che cosa
succede?”.
“Succede che vi
ammazzo di botte tutte e due”- fece il pastore rosso in viso come un
peperoncino indiano.
“Perché? Cosa abbiamo
fatto di male?”
“Avete bevuto tutta
l’acqua dello stagno e le mie pecore stanno morendo di sete. Per colpa vostra…
Dovete restituire l’acqua, o vi ammazzo”
“E come facciamo?
Anche volendolo non possiamo resti-tuirla.”
“Ci penserò io. Vi
aprirò la pancia con questo coltello e riempieremo le vasche…”
Nel momento in cui il
pastore alzò il coltellaccio si udì una voce perentoria : “Fermati, pastore!
Non toccare i cammelli, altrimenti dovrai assaggiare la vendetta della mia
sciabola!”
Il mandriano si fermò
terrorizzato e si girò verso la voce.
Vide Jibril, il capo
degli “uomini blu”, temutissimo signore del deserto.
Si chiamano così
perché indossano tuniche e lunghi mantelli di tela blu. In realtà, sono “tuareg”,
i figli del deserto infinito. Uomini veri, alti e levigati come la malachite,
generosi e, all’occorrenza, anche spietati, come il deserto che li ha generati.
Vivono sotto tende
nere di pelle. Sono nomadi cioè si spostano da un punto all’altro del deserto
alla ricerca di acqua e di pascoli per le loro capre….”
Narravo, narravo alla ricerca di un finale convincente.
Stranamente, Monica non aveva avanzato nemmeno un “perché”. Forse, si era
addormentata.
Infatti, dormiva, serena e beata, col pollice in bocca.
Meno male. Così non mi scervellai a trovare un finale degno
a questa guerra dell’acqua in pieno deserto.
Ci vogliamo tutti bene
(5/10) All’asilo Monica va sempre contenta. Le abbiamo
spiegato che è come la scuola dove si va per giocare ma anche per apprendere.
Se lei andrà all’asilo ogni mattina, la mamma potrà andare a lavorare ad
Agrigento, al Centro studi mediterranei.
La bambina continua a fare disegni, taluni davvero interes-santi,
e a scrivere alcune lettere dell’alfabeto. Sa contare fino a 20, oltre non
riesce ad andare.
Purtroppo, le maestre si comportano come solerti madri di
famiglia, come brave nonne: mostrano tanta premura verso i bambini, li tengono
a bada, ma insegnano poco in vista del passaggio alle elementari.
Attraverso Monica, cominciamo a prendere coscienza dei
problemi della scuola di Joppolo, dell’esigenza di una sua maggiore
qualificazione, secondo lo spirito della riforma.
Stiamo lavorando per organizzare una conferenza cittadina
sulla scuola.
Per il resto, ci vogliamo tutti molto bene.
Monica continua a crescere sana e perspicace. L’unico suo
problema è la paura del buio: non entra in una stanza, nel bagno se non sono
illuminati. Ora, più che del vento, ha paura del buio.
Di tanto in tanto, pensa al fratellino lontano. Anche noi ci
pensiamo, sempre. Purtroppo, non si riesce a smuovere niente e nessuno. In
Romania la situazione è tragicamente bloccata, ma noi gli vogliamo un gran
bene. Ci vogliamo tutti bene. Lo porteremo a casa!
E questo è Claudio, il fratellino, finalmente a casa, ma di
lui scriveremo alla prossima …puntata.
INDICE
Introduzione....................................................................... III
La nascita di Monica
Capitolo
primo.................................................................... 1
Una visita
Fango,
freddo e fame nel reame di N. Ceausescu
La razione
mensile
L’incontro
con Monica
La dittatura
rumena: non è il nostro socialismo
Dollari e
sigarette americane
All’ospedale col borsone
La
resistenza degli artisti plastici
Solo
Alessandro Natta la può aiutare…
Austerità ferroviaria
Capitolo
secondo................................................................ 31
Monica e Loredana, un destino
parallelo
La Bucarest ritrovata
Regali
coi fiocchi
La
lettera di Pajetta ha funzionato
Monica
sotto un cielo di fiori e di foglie
Lo
zingaro grassone
Finalmente
a casa
Capitolo
terzo..................................................................... 49
Monica
saluta come una candidata a sindaco
Alla
festa de l’Unità
Monica scopre il mare e vi si
tuffa
Il battesimo nella chiesa fra i
templi
Il prete officia, Monica balla
Siamo tutti “ta-tà”
Il primo compleanno di Monica
Primi passi da sola. Dove andrà?
Stasera ha detto “mamma”
La rivoluzione degli affetti
Fra me e Monica è scoppiato
l’idillio
Capitolo
quarto.................................................................. 75
Il secondo capodanno di Monica
Nardu, quando la libertà è
follia
Monica e Loredana si
riabbracciano ad Agrigento
Monica balla al mercatino
Alla Sagra del mandorlo in fiore
In elicottero per abbracciare
Monica
Bau bau si è addormentato
La solidarietà del paese
Monica gioca col “fango
elementare”
Ad Hanna Gheddafi, morta sotto
una bomba Usa
Capitolo
quinto................................................................... 100
La notte dei segni
A-li-li-là
Monica al luna park
Giufà nel castello incantato
Il vento non ha un letto per
dormire
Il secondo compleanno di Monica
Vincenzo Terrana o dell’umanità
del Partito
Il pappagallo di Nzuli
Arrivano due Babbi Natale
Capitolo
sesto.................................................................... 132
La famiglia cresce, la casa si
allarga
Il bambino invisibile
Un
vestitino burlesco
Nell’orto del nonno, a
Montefamoso
Mai sentito tanto “freddo” in un
ufficio dello Stato
Dov’è il fratellino?
La promenade
Un cerbero dantesco al pozzo
Sarrovi
Una riunione di sole donne
A Ifchia
Come sono i bambini cinesi?
I morti volanti
Il fratellino per “finta”
Capitolo
settimo................................................................. 171
“Papà quando porti il
fratellino?”
Un bambino palestinese per
giocare con Monica
La gonna con lo spacco
A Mazara, con i poeti del
Mediterraneo
Il ventilatore
Una lettera di Giulio Andreotti
Il gelataio di Aragona
Quando nasce un filo d’erba
Lo spirito del “conducator”
aleggia sopra Palermo
Furto in casa, ancora uno
zingaro
Una sonora pernacchia al
professorone
La vendita dei fac-simili
Il fiume anidro
La guerra dell’acqua nel deserto
infuocato
Ci vogliamo tutti bene
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