domenica 18 marzo 2012

Leggi il libro di Agostino Spataro "MONICA"

Agostino Spataro



MONICA

Storia di un’infanzia ritrovata



Il prof. Peter Sarkozy si felicita con Monica per la laurea conseguita all’Università “La Sapienza”, Roma 15 dicembre 2011
(foto Camillo Ambruoso)



A Monica, con tutto l’amore di mamma e papà




























In copertina: porcellana di Szàsz Endre, collezione personale.
Avvertenza: quando non diversamente indicato, le foto a corredo di questo volume sono da attribuire all’autore e ai suoi familiari.


Introduzione
La nascita di Monica
Per l’anagrafe, Monica Nicoletta è nata nell’autunno del 1984.
In me, invece, è nata circa nove mesi prima ossia al tempo in cui fu concepita. Esattamente, una mattina di gennaio dello stesso anno da una visione che ebbi in una radura al centro del “bosco della Regina”, nella reggia di Versailles, mentre osservavo un gruppetto di bambine bionde che si rincorreva-no intorno a una fontana.
Nata per partenogenesi si potrebbe dire, da un sogno da tem-po accarezzato che prese le sembianze di una dolcissima bambina.
Figlia mentale di una visione fugace che presto si trasformò in una luce abbagliante, Monica è la protagonista di questa storia umanissima che ha cambiato la nostra vita.
L’avrei capito qualche tempo dopo mettendo in relazione le sensazioni ricevute in quella fredda mattina, le congiunzioni oniriche e le date dei fatti realmente accaduti.
Ipotesi ardua da dimostrare poiché bisognerebbe entrare nelle regioni e nei meccanismi più ignoti della psiche, dove nessu-no si è avventurato con successo.
Proverò, pertanto, a darne una spiegazione partendo da un brano autentico del mio diario relativo, appunto, a quel sog-giorno parigino
Versailles, un sole immenso mi accecò
Da anni, mi propongo di visitare il Palazzo reale di Ver-
sailles. Oggi è domenica, ne approfitto per rimediare a code-sta lacuna.
Il complesso della reggia è di una magnificenza imponente, spettacolare. Compro una guida e mi avvio per il percorso consigliato.
Come molti, sono attirato dalla galleria degli “specchi”.
Di fronte a una superficie di specchi riaffiorano i fondamenti della nostra natura primitiva, naif.
Nello specchio si riflettono, s’intrecciano, i lati oscuri delle nostre vanità e paure, i nostri desideri latenti d’intrigo, di complicità e, soprattutto, d’immortalità.
Figurarsi quali effetti avranno prodotto questi specchi sulle signore della nobiltà del tempo, su principi, duchi, dandy e ci-cisbei, su schiere di adulatori e lacchè obbligati a vivere in quella corte dove il primo loro dovere era quello di piacere a Luigi XIV.
D’altra parte, lo specchio era oltremodo necessario per abbel-lirsi e mostrare i corpi incipriati  agli occhi di quel terribile e gaudente sovrano.
Insomma, scorrono i secoli ma davanti a uno specchio restia- mo tutti figli di Narciso.
Mi colpisce quella curiosa iscrizione posta sopra un corni- cione al centro della sala: “Le roy govverna par lui meme”.
La frase, attribuita al re Sole, fu messa in bella vista nel salo-ne principale delle adunanze per ricordare ai cortigiani che il potere era suo e suo soltanto. Ossia che, morto Mazzarino, non intendeva più condividerlo con altri.
Politicamente, il messaggio è chiarissimo, sul piano gramma-ticale un po’ pasticciato con quel  “govverna” scritto in italia-no e con due “v”.
Errore del decoratore, omaggio al primo ministro italiano o intento rafforzativo della volontà del sovrano?
Lascio il palazzo e m’incammino per il vasto parco. Imbocco un percorso a caso. Osservo, ammirato, i labirinti di siepe, le fontane e i laghetti creati ad arte per addolcire la prospettiva.
A me, che provengo da una zona semi-arida qual è la Sicilia, fa un certo effetto vedere scorrere tutta questa acqua “inutilmente”.
Da un lato m’incanta e dall’altro lato m’indigna. Mi sembra uno spreco, un insulto alla sete degli uomini e dei campi di mezzo pianeta.
Tuttavia, la visione è davvero gradevole, armoniosa.
M' inoltro nel bosco detto “della Regina”.
Gli alberi sono molto alti e incolonnati secondo una simme-tria quasi perfetta. I rami sono spogli del fogliame.
Ai bordi del viale, fusti segati alla radice ricordano che in natura la morte è necessaria affinché continui la vita sulla Terra.
Mentre rimuginavo questi pensieri, mi ritrovai ai margini di una radura, dove scorsi un circolo di bambine riunite a fare merenda attorno a una fontana zampillante.
Ancora l’acqua. La visione dell’acqua a noi negata e qui ad-dolcita da quelle bambine bionde, in divisa bianco celeste. Sono allegre ma non chiassose. Non vidi una maestra in mez-zo a loro.
Mi fermai a una certa distanza per ammirarle con discrezione. Ovviamente, non era la prima volta che incontravo comitive di bambini;  mai, però, come in questa, avevano destato in me tanta attrattiva.
L’ immagine di quelle bambine gioiose presto si trasformò in visione.
Durò pochi attimi. Più fissavo la scena più vedevo sfumarne i contorni, le sue figure inghiottite in un vortice di luce.
Tutto si vaporizzava, si trasformava in una nuvola d’oro.
In quella mattinata gelida e brumosa vidi una grande luce che come un sole immenso mi accecò…


Capitolo Primo





Il primo incontro con Monica


Una visita
Una sera d’ottobre del 1984 vennero a trovarmi (a Joppo-lo), la signora Elena D’Amico e il marito per chiedermi d’in-tercedere presso l’Ambasciata rumena di Roma in favore del-la loro pratica di adozione di un bambino di circa quattro anni.
Tutti i passaggi erano stati compiuti con successo, aspettava-no soltanto la firma del decreto di adozione che, in Romania, è firmato personalmente dal presidente della Repubblica, Nicolau Ceausescu, detto anche il “conducator” del popolo rumeno.
La visita mi era stata preannunciata da suo  fratello Pippo,
avvocato e stimato compagno di Agrigento.
Jolikè si trovava in Belgio da Klari e Lillo.
Mi parlarono del loro problema con angoscia e speranza. Nella loro casa di Palermo tutto era pronto per accogliere il piccolo che chiamavano “nostro figlio”.
Attendono, di mese in mese, la firma di questo benedetto decreto che non arriva.
Soprattutto, la signora appare molto preoccupata per il suo bambino. In lei si sommano il rammarico di non poterlo avere e la pena di saperlo in quelle tristi condizioni di esistenza, anzi di sopravvivenza.
Tuttavia, si contiene nella descrizione; fa soltanto un accenno ai disagi dei bambini orfani o abbandonati che affollano gli istituti rumeni.
Forse, non desidera calcare la mano sulle responsabilità del regime al potere al cospetto di un parlamentare del Pci, partito che mantiene buoni rapporti con Ceausescu presidente della Repubblica e segretario generale del partito comunista rumeno (Pcr).
Intuisco il suo disagio narrativo e la incoraggio ad aprirsi con fiducia. Anzi, la ringrazio per avermi informato di un aspetto che non avevo potuto cogliere visitando il paese.
Infatti, un po’ conoscevo la realtà drammatica della Romania sia per esperienza diretta, acquisita durante alcuni viaggi, sia per le informazioni fornitemi dal pittore rumeno Virgil Preda e da sua moglie Pannika che vive a Budapest.
Una situazione allarmante, inimmaginabile in Occidente,  che segnalai, mediante un dettagliato rapporto, agli organi di dire-zione del Pci.
La signora, rasserenata, racconta altri episodi relativi alla triste condizione dei bambini negli ospedali e negli istituti.
A un certo punto, estrae dalla borsa una foto e me la mostra, dicendomi, a mo di didascalia:
“Vede questa bambina? Si chiama Monica ed è nata mentre noi eravamo laggiù. L’ho vista portare dalla sala parto al reparto maternità dell’ospedale. E’ bellissima, guardi. Noi non possiamo adottarla perché mio marito ha superato il limite massimo dell’età previsto dalla legge italiana. La porto sempre con me chissà dovessi incontrare una coppia di amici che vorrebbero adottarla”
“Mi faccia vedere, per favore”
Fisso quella bimba dalla carnagione bianca, tutta contenta di venire al mondo e ne sono attratto.
Dico alla signora:“Ma lo sa che noi non possiamo avere figli? Non abbiamo pensato all’adozione. Ora… non so. Mia moglie si trova in Belgio. Appena torna gliene parlerò”.
Quella sera ci lasciammo così.
Tornato a Roma, mi recai all’ambasciata rumena per incon-trare il dottor Monda, funzionario addetto alle relazioni col Parlamento (anzi con i parlamentari), il quale mi promise il massimo impegno per “urgentare” la firma del decreto in favore dei coniugi palermitani.
Ai primissimi di novembre, con Jolikè, nel frattempo tornata dal Belgio, andammo a trovare la signora D’Amico per informarla dell’impegno assunto dal dottor Monda in loro favore.
La loro casa è in un quartiere nuovo di Palermo, nei paraggi della Fiera del Mediterraneo.
Chiedemmo di mostrarci la foto di quella bambina. Anche Jolikè ne restò colpita, calamitata. A questo punto, doman-dammo alla signora come e con chi, in Romania, potremo prendere i necessari contatti per chiedere l’adozione.
La signora ci parla dell’avvocato Petrescu, tanto bravo ed ef-ficiente.
“Arriva dovunque- dice- Apre tutte le porte tranne una: quella dell’ufficio del Presidente. Lì non arriva. Perciò, non abbiamo avuto il decreto di adozione”
Domandammo l’indirizzo, il numero di telefono per contat-tarlo. Gentilmente, la signora propose di chiamarlo subito per stabilire il contatto con noi.
Una mezzoretta, il tempo del collegamento internazionale, e udiamo la voce dell’avvocato Petrescu contento di fare la nostra conoscenza e di mettersi al nostro servizio per avviare la pratica di adozione di Monica.
Per lui è una nuova “pratica”. Per noi è un dono supremo che già vedo scorrere nella mia mente in una veloce successione d’immagini: il suo arrivo nella nostra casa, le cure per nutrirla, curarla, per vederla crescere, correre per le vie del nostro villaggio: e poi la scuola, il lavoro, la vita…Seguendo i nostri  percorsi, per i sentieri del mondo.
Un po’ questa è l’idea che ci facemmo di Monica dopo il primo approccio con l’avvocato.
Per noi quella voce lontana, suadente e invisibile, aveva acceso una luce, era come la chiave che riapriva la porta della speranza.


Fango, freddo e fame nel reame di Nicolau Ceausescu
Alla stazione “Keleti” di Budapest fa un freddo cane.
Con Jolikè siamo in partenza per Bucarest per andare a cono-scere Monica e prendere i necessari accordi con l’avvocato.
L’Orient – Express partirà alle 11,45: in 24 ore ci porterà nella capitale del reame di sua maestà il compagno Nicolau Ceausescu.
Viaggiamo in una cabina di vagone-letto a dir poco demodé. I vecchi velluti rossi, sgualciti in più punti, brillano di una luce impropria, ambigua. Probabilmente, effetto del riflesso ebur-neo degli unti attaccati alle pareti.
Insomma, nulla a che vedere col mitico, elegante treno des-critto da Agata Christie.
Il nostro convoglio non trasporta ricconi, avventurieri, spie, e dame stravaganti, ma solo un carico di umanità in pena che si può consentire, con nove dollari e una sporta con birra e panini, il lusso di viaggiare in wagon - lit.
Il confort difetta, in compenso il paesaggio è magnifico: una infinita distesa di neve che si conforma all’orografia dei luoghi. La neve e la luna accendono la gelida notte rumena.
In questi giorni, un’eccezionale ondata di gelo e di neve si è abbattuta sull’intera Europa.
Per i metereologi è la più fredda del secolo.
In alcune regioni carpatiche, le temperature raggiungono
(anzi scendono) i – 20 gradi.
Al confine magiaro-rumeno il treno si ferma per una lunga sosta. Attraversare questo varco è sempre più complicato a causa dei rapporti molto tesi fra Ungheria e Romania ossia due paesi socialisti-fratelli che, però, si guardano in cagnesco.
A farne le spese sono i viaggiatori, specie gli ungheresi in entrata in Romania, costretti a subire controlli esasperanti, davvero eccessivi.
Verso di loro, i rumeni si mostrano pignoli, perfino insolenti. Non so se vi sia reciprocità di trattamento. In ogni caso, è un comportamento  davvero indecente, fra due paesi socialisti.
Pannika ci ha raccontato che, nei giorni fra Natale e Capodanno, a questo stesso varco i rumeni hanno bloccato e rinviato indietro lei e un‘altra ventina di viaggiatori magiari.
Stava andando a Bucarest per festeggiare il capodanno col marito, Virgil Preda famoso pittore e nostro amico.
Vere e proprie vessazioni mirate a scoraggiare le visite ai magiari che vivono in Romania, soprattutto in Transilvania.
Vediamo qualcuno scendere dal treno e avviarsi per i marcia-piedi con le valige in mano.
Sono arrivati a destinazione o sono stati rinviati al punto di partenza?
Jolikè non ha problemi giacché viaggia con il passaporto ita-liano e, come me, ha un visto di servizio rilasciato dall’am-basciata rumena in Italia.
Nonostante l’intoppo alla frontiera, il treno arriva a Bucarest in perfetto orario.
Nella mattinata abbiamo attraversato i Carpazi, i loro stupen-di paesaggi imbiancati, i boschi di conifere, i piccoli villaggi sommersi dalla neve dai quali emergevano tanti comignoli fumanti e un campanile.
Neve, tanta neve, un deserto di neve e di ghiaccio e una dis-tesa di pastrani e di colbacchi neri. Questa è la Romania che ci viene incontro, che ci accoglie alla Gara du Nord della capitale.
In linea con le previsioni, a Bucarest il termometro segna meno 20 gradi.
Troviamo ad attenderci Virgil sorridente e impettito, col suo naso rosso mezzo congelato. Ci abbracciamo e con lui inizia la nostra avventura a Bucarest.
Primo problema: trovare un taxi per raggiungere l’albergo Minerva dove siamo prenotati. La stazione è affollatissima di gente in movimento o in attesa.
Fuori, nel parcheggio dei taxi, non c’è una fila ordinata, ma un assembramento caotico e nervoso.
Ogni tanto arriva un taxi, scassato e sporco di fango, e si scatena la ressa per accaparrarselo.
Saremo una settantina di persone e ognuno ritiene di essere il primo. Tutti primi, nemmeno un secondo, un terzo…
Ed essendo tutti primi, nessuno vuol cedere all’altro la prio-rità. Si accendono discussioni, veri e propri alterchi conditi di parolacce e spintoni.
La ressa rischia di degenerare in rissa.
Virgil è visibilmente imbarazzato, mortificato per quelle scene. Egli è un uomo mite, ben educato e non prova nemmeno a mischiarsi in quella ressa per un taxi.
Ci dice di attendere sotto la pensilina con i bagagli. Lui sarebbe andato a cercare, fuori della stazione, un’auto privata.
Lo vediamo girare intorno piuttosto smarrito; dopo una diecina di minuti tornare senza auto.
Gli propongo di prendere un filobus. Lui vorrebbe insistere per il taxi ma, data la situazione, acconsente alla proposta.
Per raggiungere la piazzola del bus bisogna attraversare, con le valigie in mano, una palude di fango e di neve.
Riusciamo a raggiungere un filobus sgangherato, sporco, freddo e molto affollato. Facciamo tre o quattro fermate e scendiamo in piazza Università dove Virgil ci assicura sareb-be stato più facile trovare un taxi.
Ma anche qui è difficile. Finalmente, riusciamo a prenderne uno al volo e raggiungiamo l’albergo Minerva, vicino alla piazza della Vittoria.
Nel centro, la toponomastica si fregia di nomi altisonanti (Progresso, Rivoluzione, Vittoria, Arco di trionfo, eroi a bizzeffe, ecc) che si contraddicono con la misera realtà “fattuale”, direbbe Sciascia.
Luci di nomi che illuminano i dissesti del regime e rendono più indigesta questa dittatura personale contrabbandata per socialismo.


La razione mensile
Il povero Virgil è ancor più triste perché non ha potuto  festeggiare il Capodanno con la sua cara moglie Pannika.
Il Capodanno è passato, ma lui desidera festeggiarlo lo stesso, con noi. Perciò, ha insistito che andassimo nel suo atelier dove ha preparato uno spuntino e una bottiglia di vino bianco.
Di fronte all’invito a pranzo di un rumeno nasce nell’invi-tato un serio problema di coscienza.
In genere, l’abbiamo sempre declinato per timore di sottrarre all’anfitrione (si fa per dire!) una parte preziosa della propria razione alimentare.
Ne avemmo contezza due anni fa in Transilvania, dove con Jolikè andammo a visitare la regione, in gran parte abitata dalla minoranza magiara, e in particolare una cugina di sua madre, anch’essa originaria di queste contrade.
Era una sera di agosto del 1983 quando giungemmo, in auto, a Cluj, grande città capoluogo della regione, dove vive la zia Jolanda Nagy con un figlio ingegnere. L’altro, sposato, lavora  all’estero.
Cerchiamo un telefono per avvisarla del nostro arrivo e pren-dere accordi per vederci l’indomani.
Le strade sono buie e deserte; solo al centro c’è po’ d’illumi-nazione. Non si trova un telefono pubblico: per fare una telefonata urbana bisogna andare in un albergo, dove tutto è sotto controllo.
La zia è tutta contenta nel saperci arrivati ma anche un po’ imbarazzata per non poterci ospitare per la notte; non può  farlo poiché, non essendo noi parenti di primo grado, la legge lo vieta tassativamente.
Cerchiamo una camera in alcuni alberghi del centro. Sono tutti al completo. Troviamo posto in un camping fuori città.
Mangiare qualcosa manco a parlarne. Tutto chiuso. Pazienza, salteremo la cena.
L’indomani mattina visitiamo alcuni quartieri della città antica. Quasi tutte le persone che incontriamo parlano la lingua ungherese, come dovunque in Transilvania dove il 90% della popolazione è di origine magiara.
A seguito del passaggio della Transilvania alla Romania avvenne nel 1919, in attuazione del Trattato di pace di Trianon, moltissime famiglie furono divise, smembrate, allontanate, distrutte.
Verso mezzogiorno arriviamo a casa della zia di Jolikè. Incontro davvero emozionante fra le due donne che non si erano mai viste prima.
Come mia suocera (Ilona), anche questa vecchia signora appartiene alla nobile famiglia dei Szekely di Turba.
Szekely, dal latino “siculis”, sono detti dai rumeni “siculi” per designare la loro appartenenza all’antica tribù dei Siculi i cui attuali discendenti sono concentrati in Transilvania e in Voivodina.
Le origini di questo popolo sono ancora incerte. Tuttavia, non è da escludere che da esso derivi il ceppo presente nell’Italia settentrionale, un gruppo dei quali discese verso il sud, giun-gendo in Sicilia dove s’insediarono stabilmente, fino al punto di dare il loro nome all’Isola.
Se così fosse davvero, sarebbe una sorprendente combinazio-ne per la nostra famiglia siculo- magiara!
Chiediamo a Jolanda notizie del figlio Gaby, l’ingegnere.
Ci dice che era uscito la mattina presto per andare a ritirare la razione mensile di carne ossia un pollo e  chilogrammo di maiale. Oggi è il loro turno. Guai a saltarlo!
La signora è mortificata perché avrebbe voluto preparare per noi un brodino di pollo, ma Gaby non si vedeva e senza il pollo non si poteva fare il brodo di …pollo.
Si erano fatte le due del pomeriggio e ancora l’ingegnere non era rientrato. La zia tirò fuori dal frigo tre peperoni ripieni di riso e tre fettine di pane e li portò a tavola. Uno a testa.
Insistette perché accettassimo il suo pranzo. Verso le tre, mentre stavamo alzandoci da tavola, arrivò, trafelato, Gaby con una borsa ben stretta al fianco.
“E’ arrivata la carne.”- sospirò la signora - “Stasera venite a cena, preparerò un piatto tipico a base di carne e funghi…”
Rifiutammo seccamente l’invito, poiché non potevamo sot-trarre a quella gentile vecchietta nemmeno un grammo della sua razione mensile.
Madre e figlio ci restarono un po’ male, ma non so fino a che punto.
La miseria, a volte, può far diventare avari, inospitali.
Non era il caso loro. Tuttavia, la situazione mi ricordò la nostra “scarsizza”, agli inizi degli anni ’50, quando la carne, di seconda o di terza scelta, si poteva mangiare soltanto la domenica. Il prezioso fagottino lo portava mio padre di ritor-no da una settimana di duro lavoro nelle vigne della marina o nei cantieri stradali dell’interno.
Persino mangiare un uovo era un problema. In casa nostra c’era un solo uovo per due bambini: io di circa tre anni e mia sorella Zina di poco più di uno.
Zina era “spitittata” ossia non aveva appetito e rischiava di ammalarsi gravemente. A quel tempo, la mortalità infantile mieteva vittime a migliaia.
Mia madre, per assicurarle un minimo di proteine, destinò quell’uovo a lei che, però, lo rifiutava.
Io, che non avevo problemi di appetito, fui “indirizzato” ver-so il pane e la pasta. Dunque, per me niente uovo.
Una decisione per me incomprensibile tanto più che “quella” non lo voleva mangiare, lo sputava addirittura.
E così, ogni mattina la solita scena: mia madre, disperata, che invogliava, supplicava la figlia per farle inghiottire un cucchi-aino di uovo “cirusu” (alla coque) ed io che mi aggiravo nei pressi con la malcelata speranza che lo rifiutasse o ne man-giasse solo un po’ poiché il resto sarebbe andato a me.
Zina lo sputava e mia madre quasi piangeva, mentre io, intimamente, ne gioivo pensando a quel mezzo uovo che mi sarei beccato.
A quel tempo, in Sicilia non c’era il razionamento alimentare, ma una povertà diffusa, implacabile, più odiosa dei decreti di Ceausescu. La nostra miseria, infatti, non era frutto di un er-rore politico, ma conseguenza di una feroce esclusione socia-le. E’ passato tanto tempo ma ne conservo, vivissimo, il ricor-do.
Ma torniamo in via Doammei, a Bucarest, dove con Virgil brindiamo all’Anno nuovo e alla salute sua, nostra, della bambina e di Pannika.
Il nostro amico inizia a parlarci della grave situazione della Romania e delle nefandezze di Ceausescu e “della sua banda al potere”, così chiama i membri dell’ufficio politico del partito.
L’incontro con Monica
Squilla il telefono. E’ l’avvocato Petrescu il quale mi dice che dobbiamo recarci, con urgenza, all’ospedale per vedere la bambina.
Viene a prelevarci in taxi. Andiamo a scomodare, nel suo ufficio, la signora direttrice, dr. Siminescu, la quale, nono-stante fosse di riposo, gentilmente si presta ad accompagnarci al reparto maternità.
L’avvocato mi aveva preavvisato di portare qualche regalo per la direttrice e per le assistenti.
Consegno alla dottoressa due borse di regali vari che lei accetta con signorilità. Le nasconde sotto il tavolo e chiama un’assistente alla quale ordina di portare la bambina.
Dentro un piccolo involucro di panni usurati c’è una bimbetta molto bella che sembra in buona salute.
Restiamo colpiti da quella meraviglia di bambina con le manine incrociate e gli occhi rivolti verso il cielo che non c’è.
Per prima cosa, Jolikè la cambia e le fa indossare il vestitino, la cuffietta e le scarpine di lana. Poi la prende in braccio e me la mostra.
E’ Monica, la piccola Monica che, con gli occhi, cerca la madre e non la trova. O forse, oggi, l’ha trovata? Non si sa. Noi lo speriamo, ardentemente.
Ci mostrano la cartella sanitaria. A parte i dati anagrafici non ci si capisce nulla.
Anch’io la prendo in braccio perché desidero sentire il suo odore di bambina, provare quella sensazione di paternità fino ad oggi negata.
Monica mi sorride. Per me il suo sorriso è più del decreto di adozione. Ci siamo capiti. La do in braccio a Jolikè che si commuove visibilmente.
Non possiamo stare a lungo, la bambina deve tornare in reparto. Tentiamo di fare alcune foto, ma quel maledetto flash fa le bizze. Alla fine qualcuna viene.
Il primo incontro con Monica

Lasciamo la stanza con un’ottima impressione della bam-bina. E’ questo ciò che conta. Molto di più della piaggeria dell’avvocato.
A questo punto, è necessario dire due parole sull’avvocato Petrescu.
Certo, egli offre la sua consulenza legale per mestiere, per soldi, tuttavia mi pare di cogliere nel suo animo, anche quando si mostra un po’ avido, un fondo di umanità a tutela di quei bambini abbandonati o orfani.
Se non capisco male, il suo programma è quello di tirare fuori dagli istituti il maggior numero di bambini, per sottrarli ad una condizione e a un futuro davvero drammatici e affidarli,
mediante l’adozione, a coppie, in genere benestanti, di Paesi occidentali, prevalentemente italiane, francesi e tedesche.
Talvolta, si mostra esoso, petulante, ma forse così deve essere per svolgere al meglio il suo lavoro in quelle circostanze.
Parla discretamente l’italiano e si dichiara appartenente alla grande famiglia latina.
Per apparire più convincente, aggiunge di essere cattolico praticante e cita spesso passi dei vangeli. Amen.
Col suo linguaggio ossequioso, levantino ci istruisce sui vari passaggi che dovremo affrontare e sui relativi regali da con-segnare, a ogni passaggio. Senza regali non si passa o si pas-serà molto lentamente.
E’ molto crudo e diretto in queste cose. Mi verrebbe voglia di lasciar perdere e tornare a casa.
Ma, dopo aver visto quella bambina, non potrei più farlo. Dobbiamo stare al gioco dell’avvocato e di altri che incon-treremo strada facendo.
Sempre in taxi, ci riaccompagna all’hotel e ci da appunta-mento per domattina alle otto per andare dal notaio.
La dittatura rumena: non è il nostro socialismo
Arriva Virgil per ricondurci nel suo atelier dove conti-nuare il pranzo e la conversazione interrotti dalla telefonata dell’avvocato.
La sua è una narrazione interminabile di errori politici, di abusi e malefatte compiuti dal regime. Davvero allucinante il suo racconto. Forse esagera. Spero che esageri.
Altrimenti, si dovrebbe prendere atto che in Romania al pote-re non c’è un partito comunista, ma una dinastia di satrapi che si sono impadroniti del paese.
La situazione economica e finanziaria sono allo sfascio. Le conseguenze, durissime, le paga il popolo in termini di ridu-zione di consumi e di servizi. Tutto è razionato. Eccetto i fiori e i fagiolini in scatola importati dalla Bulgaria. E anche i libri di Ceasusescu e di sua moglie Elena.
A Bucarest, solo queste merci si possono  acquistare libera-mente e senza limiti. 
Virgil ci presenta un quadro indicibile, segnato dalle ristrettezze economiche, alimentari e dalla mancanza assoluta di libertà politica e culturale, sotto un regime personalistico, poliziesco e liberticida.
Le cose che lui dice confermano quanto avevamo visto e sen-tito nel corso del precedente viaggio in Transilvania, fra quel-le montagne bellissime e cariche di storia, che in Occidente conosciamo solo per sanguinarie gesta cinematografiche del principe Vlad ossia Dracula.
Il recente congresso del PCR si è concluso con una parola d’ordine militaresca, dettata da Ceausescu in persona:
“Ordine, disciplina, lavoro e responsabilità fino al 2000”.
Dopo, per il paziente popolo rumeno si schiuderà un’epoca di prosperità, di benessere generale e duraturo.
Da oggi al 2000 ci sono quindici lunghi anni di sofferenze.
Mi domando: in quali condizioni il popolo rumeno arriverà a questo fatale appuntamento con la storia?
Appare evidente che la situazione sia alla deriva, in preda della degenerazione di un tiranno.
La Romania è un caso isolato o i virus dello strapotere, della povertà e dell'illibertà sono penetrati in altri paesi sedicenti “socialisti”?
Per quanto si sa, quello rumeno è il caso estremo di una cate-na unica e debole in più punti.
In ogni caso, non è questo il socialismo che noi abbiamo immaginato, per il quale lottiamo!
Che cosa resterà dell’idea di socialismo quando i rumeni si saranno liberati di questa tirannia?
Temo che persino la parola “socialismo” scomparirà dal loro vocabolario.
Cerco di confortare Virgil con frasi di circostanza:“Bisogna sperare, prima o poi, finirà.” Che altro avrei potuto dirgli?
Virgil Preda, Il cavaliere e la notte, collezione personale

“Ma quando?” replica lui che, nonostante tutto, si sente ancora  comunista: “I compagni italiani devono conoscere le dimensioni della tragedia del popolo e del partito rumeni”.
In hotel troviamo i coniugi Enza e Michele Errore di Agrigento, venuti a Bucarest per conoscere Loredana, la loro bambina e per prendere accordi con Petrescu.
Enza è figlia di Mariano Burgio, di famiglia joppolese impa-rentata con la nostra.
Ci chiedono notizie dell’avvocato; vogliono sapere come comportarsi con lui e con altri.
Anche se lo conosciamo da poche ore, li rassicuriamo: ne abbiamo avuto una buona impressione.
Usciamo insieme alla ricerca di un ristorante per la cena. Fuori, però, ci attendono fango e neve e freddo che, di notte, raggiunge temperature polari.
Impossibile avanzare. Ci rifugiamo nel primo ristorante aperto che incontriamo: il Lido.
E’ ben riscaldato, e già questo è un pregio raro. La cena è allietata da una piccola, assordante orchestrina. Si mangia male, ma in compenso la musica è gradevole.
Gli Errore ci mostrano la lista dei regali portati su consiglio  dell’avvocato.
Notiamo che è più lunga e più ricca della nostra. Anche la somma (in dollari) richiesta per l’onorario è più alta.
E’ il caso di concordare una linea comune di comportamento per non farci spellare troppo dall’avvocato e dalla corte che gli gira intorno.
Insomma, occhi aperti, sapendo però che il gioco lo fa lui e a questo gioco bisogna stare.
Ritorniamo in taxi in hotel. Il taxista al posto dei lei (moneta rumena) ci chiede un pacchetto di sigarette americane.
Dollari e sigarette americane
Sveglia alle sette e colazione in hotel. Chiedo del latte, ma il cameriere risponde che “per il momento” non c’è latte.  Il pane è duro e friabile, forse è stato scongelato e ricongelato più di una volta.
Inutile lamentarsi. Non siamo a “Chez Maxim”, ma in un paese alle prese con una drammatica crisi alimentare; di più non si può pretendere.
E’ giusto così, anche perché ci aiuta a capire il dramma del popolo rumeno.
Prendiamo i documenti e la borsa con i regali e ci prepariamo per recarci nell’ufficio del notaio.
Viene a prelevarci Petrescu con un taxi, anche stavolta guida-to da una donna.
Sembra che al volante egli preferisca solo belle ragazze. Ieri c’era Genoveffa, oggi Maria che, per altro, parla molto bene l’italiano.
L’avvocato ci mette fretta poiché il notaio ci sta aspettando e dopo di noi dovrà accompagnare gli Errore all’ospedale, dove conosceranno Loredana.
Nonostante la fretta, è sorridente e galante. Si scappella più volte dinnanzi alla “signora” (Jolikè) alla quale porta i saluti della sua consorte che- promette- ci farà conoscere.
Sul taxi gli consegno la borsa con i regali per lui e per la sua gentile signora, per l’appunto. Insacca e mi ricorda il cadeau per il notaio che si è mostrato tanto disponibile.
Gli mostro una bella penna stilografica, sperando che sia   adeguata al rango e alla prestazione. Dice che va bene. Se potessi aggiungere qualche pacchetto di sigarette ameri-cane andrebbe meglio.
Purtroppo, con me non ho sigarette. Va bene lo stesso.
Entriamo in un palazzone che tanto somiglia a un tribunale. E’ ben riscaldato e pieno di gente: impiegati, guardie, avven-tori e forse anche tanta povera gente che -mi pare- finga di fare la fila solo per starsene al calduccio.
In quella baraonda, l’avvocato si trova a suo agio, si muove agile e sicuro come un pesce nell’acqua. Supera tutte le file (ce n’è una dietro ogni porta), gli sbarramenti di uscieri in divisa postati agli angoli dei lunghi corridoi, saluta tutti, sorride e passa avanti, entra dappertutto. E noi che stentiamo a stragli dietro.
Finalmente si ferma dietro una porta con la scritta “Notar”.
Dentro quel palazzone cerco Kafka, ma non ne trovo traccia. Non c’è quell’atmosfera inutilmente pignola creata dalla burocrazia del castello, ma solo un turbinio burocratico, una confusione generale nella quale ciascuno cerca di prendere qualcosa per se stesso.
Per noi tutto è facile, agevolato, “urgentato” come dice l’avvocato. In Romania, è molto in voga il verbo “urgentare” (equivalente del nostro “urgenzare”, caduto in disuso).
Più che un verbo è una parola magica, un chiave segreta che, se ben oleata, apre le cento porte del potere della coriacea burocrazia rumena.
Infatti, nemmeno il tempo di accomodarci in anticamera, che spunta l’avvocato, sempre ossequioso verso la signora, che ci introduce dal notaio.
Ci accoglie un funzionario sui 45 anni, alto e gentile, dai modi affettati, che ci fa firmare alcuni moduli già riempiti.
Nel salutarlo e ringraziarlo, gli porgo il piccolo involucro con il cadeau, scusandomi di non avere potuto fare di più per via delle limitazioni doganali.
Lui gira il pacchetto senza profferire parola (nemmeno ringrazia), insacca e dice solo “bon , bon” .
Usciti dalla stanza del notaio, l’avvocato mi chiama da parte e mi fa un discorsetto.
“Sa, io ho delle spese. Chinnici l’avrà informato, vero?”
Metto la mano in tasca e gli porgo una busta con 500 dollari Usa. Lui afferra, rapido, e precisa che è solo un acconto.
Mentre ci spostiamo in taxi verso l’ospedale, Petrescu cerca di giustificare le esose richieste di denaro e di regali.
 “Io devo essere molto generoso con tutti, tutto il mondo aspetta da me qualcosa…senza regali questi documenti, queste firme si fanno dopo settimane, dopo mesi. Invece, lei in un solo giorno fa tutto”.
In effetti, così stanno le cose.
Jolikè chiede se in futuro si potrebbero avere noie, pressioni da parte della ragazza madre della bambina che, a quanto lui dice, conosce le nostre generalità e il nostro indirizzo.
L’avvocato ha come uno scatto d’ira: “Lei mi offende nella mia onorabilità, nella mia professionalità. Questo è un problema mio. Lei non ha fiducia in me…”
La reazione mi sembra eccessiva, intervengo per placarlo, per fargli superare l’impuntatura.
Dopo pochi minuti, tutto sembra essersi chiarito. Petrescu è calmo, ma continua a ripetere: “Voi dovete affidarvi a me che sono il vostro avvocato; la fiducia deve essere totale, completa”.
E noi a rassicurarlo che la nostra fiducia era piena, totale.
Chiediamo a Maria di accompagnarci  all’ospedale, a vedere Monica. Durante il tragitto racconta episodi del suo viaggio in Italia e in Sicilia e ci informa su taluni aspetti della realtà sociale del Paese. I salari, gli stipendi mensili oscillano fra i 2.000 e i 2.500 lei, equivalenti a circa 200 dollari.
La fame di dollari Usa e di valuta straniera deriva dal fatto che sono necessari per viaggiare all’estero e per comprare qualcosa di “sfizioso” negli shopping degli alberghi.
Anche Maria ha fame di dollari; ci propone un cambio a 25 lei per un dollaro ossia il doppio di quello ufficiale.
All’ospedale con il borsone
Giunti all’ospedale, la dottoressa Siminescu ci conduce nel seminterrato per fortuna riscaldato dove, ai lati di un corrido-io buio, si aprono tante piccole celle.
Ci prega di attendere in una di queste, stretta e quasi priva di luce. Dopo qualche minuto, arriva un’infermiera con Monica.
Jolikè la prende in braccio e le dice qualcosa, le parla.
Sembra che la bambina avverta la sensazione di affetto tras-messale con le parole, con il contatto fisico.
Risponde con un sorrisino alle nostre carezze.
L’infermiera rimane lì, in attesa. Sorride anche lei, pare inte-nerita da quella scena che un po’ somiglia a quelle che si svolgono durante i colloqui in carcere dove i parenti in visita possono scambiare saluti e qualche effusione col detenuto en-tro un tempo stabilito e sotto osservazione del custode peni-tenziario.
Anche per noi il tempo è scaduto. Arriva la direttrice alla quale l’infermiera consegna i regali che le aveva dato Jolikè.
Lasciamo quella cella cupa. Altre infermiere si avvicinano e ci fanno capire che desiderano un regalino anche loro.
Purtroppo, il borsone l’avevamo già svuotato.
Nei dintorni si aggira anche qualche puerpera che ci guarda con occhi sbarrati e tristi. Non riesco a decifrare quello sguardo. Mi assale un vago senso di colpa.
Ma la colpa di questo disastro è nostra o di chi lo ha provo-cato? Noi, semmai, potremo alleviarne le conseguenze. Comunque, meglio lasciare quel sotterraneo, quel luogo  triste e tornare in superficie, in albergo.
Ritroviamo gli Errore un po’ sconvolti per quanto avevano visto all’ospedale. Sono contenti per Loredana, ma tutto il resto gli era parso deprimente.
Facciamo una passeggiata verso il centro. Camminare è sempre un’impresa ardua, difficoltosa per via delle pozzan-ghere. Tuttavia, fa meno freddo. La temperatura è salita a – 4.
Lungo i boulevard osserviamo le vetrine, quasi vuote, dei  negozi: vi sono esposti pochi prodotti di scarsa qualità e a prezzi troppo alti per i redditi locali.
Siamo alla ricerca di un ristorante per il pranzo. Entriamo in uno che pare discreto, ma non è riscaldato.
Pensiamo di andarcene. Ma dove? Sembra che la terribile austerità imposta da Ceausescu ai rumeni insegua anche noi, non risparmi nemmeno i ristoranti in centro.
Nella grande sala ci sono pochi avventori; in un angolo un gruppetto di camerieri infreddoliti e anche un po’ svogliati, i quali al nostro arrivo, si muovono, premurosi e sorridenti, verso il nostro tavolo.
Non c’è menù. Il capo cameriere ci elenca due o tre piatti. Prendere o lasciare! Prendiamo.
Una vera schifezza costata 590 lei. Un conto piratesco, corrispondente a un quarto dello stipendio medio mensile di un lavoratore rumeno.
A ben pensarci, noi eravamo i soli stranieri ossia una preda molto ghiotta ed era naturale che ne approfittassero per garantirsi la paga quotidiana.
Nel pomeriggio, torna Virgil per invitarci a prendere un caffè nel suo atelier. In realtà, ha bisogno di parlare, di sfogarsi con persone delle quali si fida.
Riprende la conversazione sulla situazione rumena. Aggiunge nuovi elementi e altri incredibili episodi senza mai nominare Ceausescu che ora chiama con uno pseudonimo spregiativo: Nerone. In particolare, si accanisce contro Elena/Poppea ossia la moglie di “Nerone”.
Gli è particolarmente odiosa, poiché si è spinta a teorizzare in pubblico la sostanziale inutilità degli artisti plastici rumeni, cioè sua e dei suoi colleghi di via Doammei, che “non produ-cono ricchezza per la nazione e pertanto non meritano di essere sovvenzionati dallo Stato”.
Ad eccezione dei servili autori delle grandi tele e busti che immortalano la “divina coppia” presidenziale.
Per non morire di fame e di freddo, diversi artisti hanno rinunciato allo loro libertà creativa per mettersi al servizio della regalità, della gloria e della bellezza di Ceausescu e consorte.
Ovviamente, queste opere sono immediatamente  comprate ed esposte nei migliori musei rumeni.
La resistenza degli artisti plastici
In Romania non esiste un mercato delle opere d’arte. Compra soltanto lo Stato. Le opere non gradite restano inven-dute e i loro autori rischieranno la fame.
Taluni sono decisi a resistere, non vogliono cedere al ricatto della banda al potere.
Virgil è uno di questi. Anche se la resistenza comincia a fiac-carlo. Ogni tanto accusa improvvisi giri di testa e acuti crampi allo stomaco.
Sul futuro nutre qualche dubbio, spesso si chiede, mi chiede: “Ma fino a quando potremo resistere?”
Domanda pertinente, ma nessuno può fare una previsione attendibile.
In questi momenti, ricorda i giorni trascorsi a casa nostra, a Joppolo, gli incontri, le visite, le belle mostre che gli abbiamo organizzato in Sicilia (a Palermo, Agrigento, a Raffadali) che gli hanno procurato notorietà e anche un po’ di soldi per viaggiare in Europa.
Che cosa è successo in Romania? Come mai il partito, il suo gruppo dirigente sono così succubi dei capricci di Nerone?
Dodici anni fa, durante la nostra prima visita a Bucarest, non c’era questo clima di terrore e di miseria.
Virgil dice che il mutamento è avvenuto con l’adozione degli ultimi due piani quinquennali nei quali è stato sancito l’obiet-tivo della “grande Romania” ossia un incremento demogra-fico da 22 a 32 milioni di abitanti e lo sforzo supremo collettivo per affrancare il Paese dal debito con l’estero. Una vera follia, in controtendenza!
Ovvero l’esatto contrario di quanto fanno altri Stati i quali aumentano il debito e cercano di ridurre, di contenere l’incre-mento demografico.
Chi dissente da tali assurdi propositi viene prima emarginato e poi sostituito con uomini fidati e talvolta persino eliminato fisicamente, “con la cicuta”, dice Virgil.
Cita il caso di un anziano fondatore del partito, membro del-l’ufficio politico, arrestato in pieno congresso perché aveva osato criticare le scelte di “Nerone”.
A 83 anni, quel compagno fu ristretto in carcere dove morirà tre mesi dopo l’arresto.
Il vecchio gruppo dirigente del partito non è più al potere. Al suo posto “Nerone” ha collocato la sua banda familiare ossia circa un’ottantina di persone fidatissime che si sono impos-sessate dei posti-chiave del partito e dello Stato e tengono un intero Paese sotto il loro tallone.
Non hanno rispetto per nessuno. Due anni addietro, è stato represso nel sangue uno sciopero di minatori ossia la cate-goria considerata la punta di diamante della classe operaia rumena.
La gente ha paura di manifestare il dissenso. Preferisce subire in silenzio.
Alberi nudi

Mentre così parlava, sopraggiunse Katy, una sua amica pittrice, che fa parte della “congiura” degli artisti plastici.
La signora è impaziente di dire la sua. Ci racconta un epi-sodio, da psicodramma, andato in onda la notte di Capodanno.
Come da tradizione, prima del discorso televisivo di Ceause-scu, dovevano esibirsi alcuni tra i più famosi cantanti rumeni.
Quest’anno, non ci sono state esibizioni individuali ma solo un coro umiliante e un po’ pacchiano che ha suscitato sconcerto e disappunto nei telespettatori.
Lei ha avuto modo di parlarne con il regista della trasmis-sione il quale, mortificato, ha chiarito di non essere stato lui l’autore di quella scelta infelice, ma di avere subito un ordine venuto dall’alto.
“Basta con il divismo, si canta in coro” fu questo l’ordine.
Poiché, a “Nerone” dava fastidio la popolarità di alcuni cantanti, perciò meglio annegare la loro voce nel coro.
Quella notte soltanto lui, poteva permettersi un assolo in televisione….
La pittrice ha portato un ottimo dolce di Natale fatto in casa che assaggiamo con gusto.
Alle pareti dell’atelier vi sono alcune tele di Virgil esposte in una recente mostra intitolata “Capricci siciliani”.
I colori sono interessanti, per me inediti. Dalle forme molto sfumate, ambrate, eleganti, affiora una Sicilia da sogno che purtroppo non riscontriamo nella realtà.
Si sa che l’arte è astrazione, in questo caso mi sembra una felice trasfigurazione!
Virgil è contento del nostro interesse e ci mostra i bozzetti, gli schizzi presi durante il suo viaggio in Sicilia.
Per la via, compro un paio di quotidiani per capire l’aria che tira. Semplicemente disgustosi. Sfogliarli è davvero una sofferenza. In prima pagina, giganteggia una foto del “Conducator” con lo scettro in mano, in terza un’altra sua foto con accanto quella brutta cornacchia della moglie Elena.
“Madre della Romania e dei romeni” scrivono i più rinomati poeti che ne magnificano le eccelse virtù politiche e culturali.
Di spalla, nella prima di “Scientia”, organo del PCR, c’è un lungo saggio di Nicu Ceausescu il rampollo prediletto della coppia presidenziale destinato a una fulminante carriera poli-tica, fino ai massimi vertici del partito e dello Stato. Ovverosia alla successione dinastica.
Nell’ultimo congresso del partito, l’erede designato è stato eletto membro supplente dell’Ufficio politico pur conser-vando la carica di segretario della gioventù comunista.
Basta scorrere questi quattro fogli per rendersi conto del livello di degenerazione in cui è giunto il potere in questo Paese.
Eppure in Italia, in Occidente, Ceausescu è considerato un ”liberal”, un interlocutore privilegiato di tanti esponenti politici e capi di Stato.
Passiamo la serata in albergo a parlare e a giocare a carte con gli Errore.
Solo Alessandro Natta la può aiutare…
Mi alzo presto. Alle otto comincerò il giro degli alberghi alla ricerca di una fotocopiatrice per fare una copia dei visti apposti sui nostri passaporti. 
Li ha richiesti l’avvocato a corredo della pratica.
Mi dicono che una macchina del genere si può trovare solo all’Intercontinental o all’Atheneum ossia i due migliori alberghi di Bucarest.
All’Intercontinetal le possono fare, ma devo pagare la presta-zione in dollari. Una copia un dollaro, questa è la tariffa. In Romania, tutti sono assetati di dollari.
Tutto si fa in cambio di dollari o, in subordine, di altra valuta occidentale. E’ una pratica ossessiva che certo infastidisce, ma fa anche riflettere. Se la gente preferisce la moneta stra-niera a quella nazionale, vuol dire che in quel paese c’è un problema grande quanto il mare.
Le copie escono un po’ sbiadite ma leggibili. Con Petrescu corriamo all’ospedale per vedere un’altra volta la bambina.
Si ripete la scena del giorno precedente: ci conducono nella cella e ci consentono di stare solo pochi minuti con Monica.
Abbiamo portato i regali residui e li offriamo all’infermiera che accudisce Monica pregandola di trattare con attenzione la bambina.
L’avvocato mi comunica che a fine gennaio sarà trasferita dall’ospedale all’istituto vero e proprio.
Non devo preoccuparmi- assicura- poiché ha già parlato con la direttrice, che è una professoressa universitaria in gamba e disponibile, la quale tratterà la bambina con un occhio di riguardo. Però, questo riguardo mi costa 200 dollari, subito.
Consiglia anche di inviare alcune medicine (vitamine, calcio), inesistenti in Romania, per somministrarle alla bambina.
Notiamo che Monica non indossa nessuna delle tre tutine che le aveva portato Jolikè durante la nostra prima visita. Addosso ne ha una vecchia e bucata che non è sua. O forse è la sua, quella d’ordinanza?
Temiamo che le infermiere, la stessa direttrice se le siano già rubate e vendute.
E’ come se avessimo raccomandato la pecora al lupo.
La stessa fine potrebbero fare le medicine e tutto il resto che manderemo per la bambina.
E’ uno schifo, ma non possiamo farci nulla. Dobbiamo stare al gioco, sperando che finisca al più presto.
A marzo, secondo la previsione di Petrescu, la pratica potreb-be andare al Consiglio di Stato che è presieduto da Ceausescu in persona. Soltanto “Lui” può firmare questi decreti. Purtroppo, lui, l’avvocato, non può arrivare così in alto.
In questo gioco di “lui”, maiuscoli e minuscoli, si rivelano le distanze e le miserie che caratterizzano il regime.
Per ottenere la firma è necessario un intervento davvero auto-revole da parte di una personalità alla quale Lui non può rifiutare la cortesia.
Gli accennai ai contatti avuti con l’ambasciata di Roma.
Lasci perdere l’ambasciata di Roma. L’ambasciatore è un piccolo impiegato che non potrà mai arrivare a Ceausescu. Ci vuole ben altro! Nel suo caso, solo un intervento di Ales-sandro Natta, il vostro segretario generale, può sbloccare la situazione”, sostiene Petrescu.
Di ritorno verso l’albergo, il taxi si blocca dietro una fila lunga di tram fermi sui binari, in mezzo a quel mare di fan-ghiglia gelata.
Domando la causa e la taxista (ancora un’altra donna al vo-lante!) risponde che c’è stato un blak out,  evento piuttosto frequente a Bucarest.
I viaggiatori, intabarrati dentro pesanti cappotti e colbacchi di lana o di pelle arricciata, sono scesi dai tram carichi di borse, valige e quant’altro e si avventurano, a piedi, in quella melma di neve e di fango.
Il freddo, la fanghiglia, le valige di cartone, i pacchi sopra le spalle, gli occhi sgranati, le barbe incolte, i colbacchi neri…
Una scena davvero penosa, caotica che ricorda le grandi evacuazione che si vedono in certi film di guerra.
Vagano incerti come anime in pena, dando vita a tanti piccoli esodi senza una meta. 
Bucarest è crollata, non ha retto di fronte a questa eccezionale ondata di freddo polare.
Con Jolikè andiamo a mangiare qualcosa in un self-service lì vicino. Si paga poco, ma il cibo è immangiabile. Difatti, non mangiamo quasi nulla. Prendiamo solo il dessert.
Eppure, noto che in quel lurido posto la gente mangia di tutto e con appetito. Evidentemente, non si possono consentire il lusso di saltare un pasto.
Austerità ferroviaria
Alle 14  rivediamo Virgil che ci accompagna a visitare il museo della città di Bucarest e quello della Repubblica rumena.
Vi sono esposte interessanti collezioni che vanno dal neoliti-co al medio evo. Soprattutto, colpisce la ricchezza e lo sfar-zo del tesoro, custodito  nel museo della Repubblica, dove sono state allestite mostre speciali in onore di Ceausescu.
Chiediamo di poterle visitarle, ma ci dicono che sono mo-mentaneamente chiuse al pubblico perché in fase di rialles-timento per inserire alcuni nuovi trofei ricevuti dal “condu-cator”.
Torniamo in albergo per prepararci alla partenza per Buda-pest. Il treno partirà alle 18,30.
Siamo riusciti a trovare una cabina letto a ventitré dollari. Un prezzo più che doppio rispetto ai nove che abbiamo pagato, a Budapest, per l’andata.
Dalla piazzola antistante all’ingresso dell’albergo tento di prendere un taxi al volo. Non ne passa uno. Saliamo su un filobus. Attraversiamo strade e viali semibui e fangosi.
Anche il servizio di nettezza urbana è andato in tilt. Come il filobus sul quale viaggiamo che, a circa un chilometro dalla stazione, si ferma a causa del solito blak out.
Aspettiamo che riparta, ma non succede nulla. Rischiamo di perdere il treno. Decidiamo di proseguire a piedi, come altri, con valigie e borsoni.
Meno male che le nostre due valigie sono vuote e infilate una nell’altra. Il contenuto lo abbiamo distribuito durante gli incontri. Dentro c’era di tutto: dall’abbigliamento per la bam-bina ai saponi, agli shampoo, ai collant, alle sigarette, al caffè, ad alimenti in scatola, ecc. Insomma, una lunga lista di regali che abbiamo distribuito con l’ occhiuta  assistenza dell’avvocato.
Questo ci consente di muoverci più agevolmente nel fango. Viaggiamo leggeri e contenti di avere conosciuto Monichetta, la più bella bambina del mondo.
La sera è gelida, procediamo a fatica nella fanghiglia. Il treno non è al binario numero cinque come indicato nel tabellone.
Dov’è il nostro treno?  Cominciamo a cercarlo, facendoci lar-go fra una gran ressa di persone in attesa o in movimento per gli  ampi spiazzali della Gara du Nord.
Molti si agitano incalzati più dal freddo che dagli orari. Solo pochi riescono a muoversi in mezzo a quella massa di pastra-ni e di colbacchi neri.
E’ la Romania di Ceausescu che arriva e che parte. Per dove?
Torniamo al binario cinque. Il treno non c’è e la piattaforma è ancora al buio. La quattro e la sei, invece, sono fiocamente il-luminate. Presumo a causa di un guasto elettrico.
Un passeggero mi spiega, come la cosa più banale del mon-do, che il cinque non è stato illuminato a causa del program-ma di austerità ferroviaria che prevede l’illuminazione dei binari a giorni alterni, secondo il  numero: un giorno quelli pari, un altro quelli dispari.
Oggi, la luce spetta ai pari, ai dispari toccherà domani. Evidentemente, non l’avevo capito e lui me lo spiega:
“Lei mi ha chiesto per il  cinque …il cinque è dispari.”
Il treno arriva con un po’ di ritardo. Fatichiamo a trovare la nostra carrozza. Finalmente, partiamo alla volta di Budapest, verso l’abbondanza alimentare.
Pensiamo alla bambina che abbiamo lasciato. Sono deciso a fare di tutto per toglierla di lì, al più presto.
Il convoglio avanza, spedito, in un mare di bianco imma-colato. Fuori, la luna illumina il paesaggio alpino, gli abeti stracarichi di neve, i campanili.
Per fortuna, la luna, a parte qualche eclissi, non subisce i blackout! Al calduccio, dentro una cabina di wagon-lit, è davvero suggestiva, spettacolare questa gelida notte rumena.
Ma, qui, i sogni non durano a lungo, anche sull’Orient –Express, come pomposamente si chiama il nostro treno.
Infatti, dopo qualche centinaio di chilometri, un freddo traditore s’insinua lentamente nello scompartimento.
Ci copriamo con tutti gli indumenti e le coperte disponibili. Non si capisce bene da dove entra il malanno, ma lo sentiamo arrivare, lo palpiamo con mano e… la gran parte del viaggio resta da fare.
Ispeziono la cabina  e scopro che, in alcuni punti, la guarni-zione del finestrino è usurata e lascia entrare addirittura la neve. Intorno si è formata una striscia di gelo che chiude malamente le fessure. Mi affaccio nel corridoio per capire meglio. La gente è fuori degli scompartimenti, alla ricerca di un perché. Si balla dal freddo.
Finalmente, sopraggiunge trafelato, e forse anche un po’ su-dato (nonostante i 20 gradi sottozero), l’addetto al vagone e ci informa che il gelo ha provocato il congelamento dei tubi del-l’acqua e di alimentazione dell’impianto di riscaldamento.
E’ dispiaciuto, ma col treno in corsa non si può fare nulla per eliminare il disagio. Prevede che faremo il resto del viaggio senza acqua e senza “chauffage”.
















Capitolo Secondo





Monica a casa


Monica e Loredana, un destino parallelo
30/5/85. Partiamo, con Joliké, da Fiumicino per Vienna, dove ci imbarcheremo su un aereo dell' Austrian Airlines per Bucarest.
Atterriamo all’aeroporto “Baneasa” alle 14 e 30, in perfetto orario. Purtroppo, si perde un po’ di tempo nell’espletamento delle formalità per via del visto di servizio sui nostri passa-porti.
Invece che agevolare, questo tipo di visto crea quasi sempre problemi negli aeroporti, specie dei Paesi dell’Est europeo.
Ad attenderci c’è una ragazza dell’organizzazione turistica e  un’auto con autista che ci conducono all’Hotel Modern (Boulevard de la Republici), vicino all’Intercontinental.
Saliamo alla camera n. 305 che troviamo invasa da un odore asfissiante di vernice fresca.
Lasciamo le valigie e partiamo alla volta dell’ufficio dello stato civile, dove ci attende Marta per avviare la pratica.
Attraversiamo una città nuova, luminosa, pulita; una sorta di Bucarest ritrovata, bella e alberata, come quella vista tanti anni prima.
Marta ci viene incontro con un largo sorriso. E’ una donna  alta, biondiccia, sui trentacinque anni, indossa una gonna piuttosto corta con un ampio spacco.
Dopo rapide presentazioni, c’introduce in un ufficio, dove comincia a parlare con l’impiegato. Non comprendiamo quel che si dicono. Ma non è necessario.
Sappiamo che in questi incontri la nostra presenza è solo “decorativa”, per mostrare, fisicamente, ai preposti della bu-rocrazia l’urgenza del problema.
Guardo quell’impiegato con le pezze al gomito e vedo un prototipo di burocrazia universale, con la sua mentalità oscillante fra pignoleria e corruzione.
Anche se- è bene precisare- non tutti i burocrati oscillano fra questi due estremi.
Il problema si avverte di più nei regimi illiberali o troppo rilassati dove il burocrate sa che più si mostra severo custode della norma più aumenta il prezzo della sua eventuale corru-zione.
A gesti, l’impiegato ci fa capire di tornare domani per ritirare il certificato di nascita della bambina.
Insomma, non è andata poi tanto male.
E la ragione è chiara: noi siamo degli utenti speciali, molto speciali.
Infatti, il nostro arrivo a Bucarest è stato preceduto da una lettera di Gian Carlo Pajetta al “Conducator” in persona.
Alla Direzione del partito mi hanno assicurato che la lettera era arrivata a destinazione e che Ceausescu ne ha tenuto conto.
In questo periodo, i rapporti fra Pci e Pc rumeno sono buoni per via della comune contrarietà all’installazione dei missili nucleari intermedi all’Est come all’Ovest.
Giancarlo Pajetta  con Nicolau Ceausescu (foto da Google)

Il presidente rumeno è l’unico leader del Patto di Varsavia che dissente dalla decisione di Mosca. Per questo è divenuto il beniamino dei pacifisti e dei governi occidentali.
Tutti corrono a Bucarest a rendere omaggio al coraggioso presidente che ha osato sfidare la volontà di riarmo di Mosca e la subalterna platea dei leader degli altri Paesi socialisti.
Il suo è un pacifismo autentico o è un modo furbesco per non far parlare della terribile situazione in cui versa il popolo rumeno?
Personalmente, propendo per la seconda opzione. In questo senso, due anni addietro, inviai alla segreteria nazionale del Pci un rapporto di fuoco contro il regime di Ceausescu, sulla base di quanto avevo visto e sentito durante un viaggio in Romania.
Tuttavia, ho deciso di non farmi prendere dagli scrupoli, per altro ininfluenti, e di usare tutte le mie conoscenze politiche pur di togliere Monica da quell’inferno e portarla a casa.
Lasciamo quell’ufficio e corriamo (in taxi) a vedere la bambina che si trova alla “Cresc” (Istituto di puericultura), nei pressi dell’Arco di Trionfo.
Jolikè ha portato vestitini e giocattoli. Io, per l’occasione, ho comprato una Rolley automatica per farle le foto.
Il giardino della Cresc è rigoglioso, ben tenuto. Preceduti da Marta, ci immettiamo dentro un vecchio edificio d’epoca, im-merso negli alberi.
Attraversiamo una serie di corridoi-verande e finalmente giungiamo al padiglione in cui si trova la bambina. Nella sala vi sono due infermiere. Monica è nel primo lettino entrando a destra. Sembra riconoscerci, agita le manine e sorride dolce-mente. E’ avvolta in pezze di tela ruvida e sgualcita. L’ambiente sembra salubre, ma odora di stantìo. Perfino i camici delle infermiere sono sgualciti, corrosi dall’uso.
Fa una certa impressione vedere questa bambina bellissima, gracile e bianca come la cera, avvolta dentro quegli stracci, sorridere e tendere le piccole braccia verso di noi.
Immortalo la scena tenerissima con qualche foto. Scatto alcu-ne foto anche a Loredana (Errore) che è nella culla accanto a Monica e a Sorin il bambino assegnato alla nipote di Michele. Prendo in braccio le due bambine, che sembrano accomunate da una sorta di destino parallelo, e me le stringo al petto.
In fondo, Monica è mia figlia e Loredana mia parente.
Loredana Errore e Monica alla Cresc di Bucarest

Vestiamo Monica con la tutina che abbiamo portato e an-diamo nel parco a farle prendere aria.
Stiamo più di un’ora ad ammirare quanto è bella Monica. Bella e fragile e senza colore in viso.
La bambina mostra di gradire le nostre carezze e ricambia con una certa affettuosità.
Siamo davvero felici di rivederla e questa volta per portarcela con noi a Joppolo Giancaxio dove anche lei fisserà le radici. Quando la pianta è piccola, il trapianto riesce quasi sempre.
La Bucarest ritrovata
Telefono a Virgil Preda. Mi assicura che verrà a trovarci in hotel per la cena.
Nell’attesa, facciamo quattro passi nei paraggi. La città ha un aspetto gradevole; non è più quell’immensa fangaia che ave-vamo trovato lo scorso gennaio.
Rivediamo la città conosciuta nel 1973, durante la nostra pri-ma visita, le sue architetture eleganti, i palazzi in stile vaga-mente rinascimentale, la città-giardino con tanti parchi, laghetti e fontane e tanto verde per le vie.
E’ davvero piacevole camminare fra queste antiche dimore e ville immerse nel verde. Anche il clima si dimostra amico, ospitale, soprattutto la sera tira un’aria fresca che giunge dal Mar Nero.
Purtroppo, il delirio di grandeur di Ceausescu ha inflitto una grave ferita al centro storico, dove sono stati cancellati interi quartieri per far posto alla sua mastodontica e costosissima reggia.
Pranziamo in hotel con Virgil. Ci comunica che è in partenza per Budapest a trovare Pannika ammalata.
D’altro non vuole parlare perché teme che sotto il tavolo, nei lampadari o in qualche altro posto ci siano microfoni-spia.
Propongo di andare fuori a passeggiare e a parlare. Virgil mi fa notare che il boulevard de la Repubblici, come l’intera città di Bucarest, sono al buio a causa delle severe misure di auste-rità varate da “Lui” ossia da Ceausescu che, per prudenza, il nostro amico un pittore, d’ora in avanti non nominerà, nem-meno col precedente appellativo di Nerone.
Sappiamo che “Lui” è lui cioè il “conducator”. E tanto basta per capirci.
D’altra parte, la stanchezza si fa sentire e preferiamo andare a letto.
Regali coi fiocchi
31 maggio 1985. Sveglia alle sette e di corsa alla Cresc dove ci attende la signora direttrice che aveva espresso, a Marta, il desiderio di “conoscerci”.
Sapevamo di questo suo “desiderio” e avevamo preparato il borsone con i regali e la busta con i dollari.
Qui non si fidano tanto della lira.
Marta mi aveva istruito, secondo le usanze: in tale ufficio las-ciare questo o quell’altro regalino.
Il valore lo stabiliva lei in base all’importanza del servizio e del ruolo del funzionario.
La direttrice si diffonde sulla magnanimità dello Stato nel prendersi cura di questa massa di bambini abbandonati o orfani. Grazie alle premure della coppia presidenziale sono stati strappati a morte sicura migliaia di bambini.
Omette di dire che, per favorire l’incremento demografico, in Romania  è severamente vietato l’aborto.
La sua Cresc è un istituto all’avanguardia. Passando a Moni-ca, ci assicura che sta bene in salute, anche perché è stata trattata con tutti i riguardi possibili.
Ci sarebbe molto da dire, ma lascio correre.
Siamo qui per portarci la bambina a casa; recriminare non serve. Perciò, ringrazio e metto la busta sopra il tavolo.
La signora direttrice un po’ arrossisce, è sicuramente imba-razzata o finge. Per toglierla dall’imbarazzo le propongo che ci saremmo rivisti l’indomani.
Ci fanno vedere Monica per pochi minuti. Andiamo di fretta.
E’ Marta a sollecitare perché dobbiamo fare il giro dei vari uffici per acquisire i documenti necessari all’espatrio.
Prendiamo un taxi per l’intera mattinata e così comincia la corsa contro il tempo: dovevamo superare almeno quindici passaggi burocratici entro le ore 14,00. L’indomani è sabato e gli uffici sarebbero stati chiusi. Bisognava rinviare a lunedì, e avremo perso l’aereo prenotato per la domenica.
Marta dà le necessarie indicazioni all’autista e a me che porto il borsone. Qui diamo questo pacco col fiocco giallo, oppure quest'altro col fiocco rosso.
A ognuno, secondo il colore del fiocco.
Faceva tutto lei, brava e preziosa questa donna. La nostra presenza serviva soltanto per “urgentare” la concessione del documento.
Con i rumeni tutto funziona a meraviglia; in poche ore riu-sciamo a superare ostacoli burocratici anche difficili. Restavano da fare ancora due, tre cose.
Giunti davanti al cancello del consolato italiano, Marta mi dice di lasciare sul taxi la borsa (con i regali) “con gli italiani non ce ne bisogno”.
Mi rallegro di questa dichiarazione spontanea.
Anch’io ne sono convinto, anzi mi aspetto un’accoglienza di riguardo poiché dal ministero degli Esteri, la segreteria di Andreotti, mi aveva assicurato che avrebbero informato l’am-basciata della mia venuta a Bucarest.
Volevamo avvertire il funzionario di preparare le carte poiché saremmo ripassati, dopo aver ritirato il passaporto della bam-bina al distretto di polizia, per chiedere il visto d’entrata in Italia.
Da dietro l’inferriata, un signore ci risponde, dispiaciuto, di non potere fare nulla perché gli uffici del consolato sono in restauro. A Marta che insiste, replica infastidito e con toni perfino insolenti.
A questo punto, cosa che non faccio quasi mai, gli sbatto in faccia il mio passaporto blu di Stato e aggiungo che stasera ne avrei parlato con l’ambasciatore Santarelli che ci aveva gentilmente invitato.
Pur di portarci a casa Monica ero deciso a usare ogni possi-bilità derivante dal mio status.
Intanto, corriamo all’ufficio traduzioni del ministero di Gra-zia e Giustizia per la vidimazione dei documenti.
Entro le 14,00 riusciamo a completare il giro.
Restano da fare solo due cose: il ritiro del passaporto di Mo-nica e il visto del consolato italiano. Ci è stato promesso che domani mattina, anche se di sabato gli uffici sono chiusi, ce li avrebbero consegnati entrambi.
Pago il taxi con una somma molto superiore alla richiesta. Il ragazzo si è comportato bene. Invito Marta a pranzo con noi. Siamo stanchi, stressati, ma soddisfatti, abbiamo fatto quasi tutto.
In tempi di razionamento alimentare, per un rumeno essere invitato a pranzo al ristorante è un raro privilegio.
Può, infatti, consumare un pasto intero e soprattutto mangiare una bistecca senza aspettare di ritirare la razione mensile con la tessera.
Una condizione vergognosa, umiliante per un paese sociali-sta, per altro con una buona agricoltura, che, invece di dar da mangiare al popolo, esporta all’estero quasi l’intera produ-zione agricola e zootecnica per pagare il debito e i lussi del clan al potere.
Fuori dell’hotel c’è un caldo opprimente. Mi assale uno dei miei tremendi mal di testa. Vado a riposare mezz’ora. Alle 16,30 dobbiamo ritornare alla Cresc a vedere la bambina.
La lettera di Pajetta ha funzionato
1/6/85. Questa di oggi dovrebbe essere una giornata me-morabile, conclusiva: avremo Monica, per sempre con noi.
Durante la notte mi ero svegliato più volte con un terribile mal di testa che nemmeno le mie miracolose “optalidon” rius-civano a placare. Alle 9, 30 arriva Marta che, ormai, conside-riamo una nostra sorella e quindi zia di Monica.
Siamo un po’ tutti più rilassati. Anche se intimamente avver-to la preoccupazione di un imprevisto, di un intoppo che potrebbe impedirci di concludere l’iter burocratico.
Iter vuol dire cammino, ma in questo caso è una corsa ad ostacoli. Un solo intoppo e avremmo dovuto rinviare il tutto a lunedì, saltando la partenza con il volo di domani.
Per prima cosa ci rechiamo al distretto di polizia dove, in via eccezionale, ci avrebbero consegnato il passaporto di Monica.
Il distretto è allocato in una villa ombrosa nel cuore di Bucarest, a due passi dall’ambasciata italiana. I poliziotti sono gentili: dopo pochi minuti ci danno il passaporto. Anche questo importante passaggio l’abbiamo superato.
Tutto è facile, veloce, per noi. Anche nelle ore di chiusura degli uffici.
La lettera di Giancarlo Pajetta al “conducator” ha funzionato. 
Sembra incredibile, c’è persino la foto della bambina. Esultiamo di gioia. Anche Marta è visibilmente felice, soddi-
sfatta del suo lavoro. Cerco di contenere l’esultanza di Jolikè, siamo pur sempre dentro un distretto della polizia rumena.
Ci avviamo, a piedi e col passaporto ben custodito, verso l’ambasciata. Siamo in anticipo di quaranta minuti. Per disposizione dell’ambasciatore, gli uffici apriranno alle 11,30 solo per noi, per rilasciarci il visto d’entrata in Italia per Monica. Nell’attesa, facciamo due passi nei dintorni.
La vecchia Bucarest è davvero bella. Le architetture sono lievi, eleganti. Le abitazioni sono ville antiche, contornate di eleganti giardini, probabilmente appartenute alla ricca bor-ghesia o all’aristocrazia dell’ancien regime.
Incontriamo un’altra Cresc. Marta ci invita a entrare. Oggi le porte sono aperte per la festa internazionale del bambino.
Il mio pensiero corre a Monica che si trova in quell’altra.  Temo un inghippo, un contrattempo. Sarebbe da irresponsa-bili perdere l’appuntamento con l’impiegato dell’ambasciata.
Diamo un'occhiata alla festa già in pieno svolgimento.
Sul palco un attore-pagliaccio canta canzoncine e racconta indovinelli a una platea di bimbi e di genitori. Oggi, la Cresc è aperta a tutti, anche ai bambini non abbandonati e alle loro famiglie.
Nugoli di marmocchi in maschera si accalcano verso il palcoscenico dove, nel frattempo, sono arrivati i regali. Un’atmosfera felice come meriterebbero tutti i bambini rume-ni e del mondo.
Non riesco a staccare il pensiero da Monica.
Dico a Marta che è ora di avviarci verso l’ambasciata.
Qui troviamo l’im-piegato del consolato che avevamo conos-ciuto ieri. E’ seduto dietro una scrivania con la sua cassetta dei timbri.
Ancora il timbro! In questo viaggio credo d’aver capito il valore capitale del timbro. Senza timbro non si va da nessuna parte. E noi dovevamo andare a Joppolo Giancaxio.
Tutto si svolge in un’atmosfera irreale, in un silenzio per tutti imbarazzante rotto dal nostro e dal suo “buongiorno”.
Gli porgo il passaporto e lui appone il timbro. “Buum” un colpo secco che rintrona nella sala disadorna al piano terra.
Preso il visto, saliamo dal dott. La Piana che gentilmente si è offerto di visionare la documentazione che dovremo esibire in uscita dalla Romania e in entrata in Italia.
Nel frattempo, il signor ambasciatore m’invita nel suo ufficio per un caffè. Parliamo della situazione interna della Romania sia politica, ma soprattutto sociale.
L’ambasciatore, seppur con gli accorgimenti tipici del lin-guaggio diplomatico, conferma che la situazione sociale è drammatica, al limite del collasso.
L’inverno è stato molto duro per i rumeni. Anche per loro in ambasciata dove si è lavorato con addosso il cappotto, perché i  riscaldamenti hanno funzionato per poche ore al giorno a causa del razionamento del carburante.
Mi dispiace per i funzionari italiani, ma a sentire questa des-crizione il mio pensiero corre all’inverno di Monica e di altre migliaia di bambini rinchiusi nei brefotrofi.
Come avranno fatto, poveretti, a sopravvivere in condizioni così dure, estreme?
Monica sotto un cielo di fiori e di foglie
Finalmente, tutti i documenti sono pronti e visionati. Possiamo partire tranquilli. Ringraziamo e salutiamo per la gentile disponibilità. Saluto tutti, compreso quell’impiegato del consolato che ieri ci ha un po’ maltrattati e corriamo a prendere Monica. D’ora in avanti sarà sempre con noi.
Compro due mazzi di rose uno per la direttrice e un altro per “zia” Marta. La signora direttrice era visibilmente contenta nel rivederci per le rose ma soprattutto per la busta che le ho passato con i fiori.
Un po’ di dollari che qui hanno un certo valore.
Prendiamo un caffè con le infermiere del padiglione.
Tutto di fretta, perché volevamo prendere Monica e scappare. Trangugio quell’orribile brodaglia e andiamo alla culletta, imbracciamo Monica e via in taxi all’albergo.
Non pareva vero. Finalmente, la bambina era con noi, fuori di quella triste istituzione; poteva viaggiare con noi in Italia, in Sicilia, a Joppolo Giancaxio, nel mondo.
La sistemiamo nel letto grande della camera, la facciamo mangiare e quindi dormire. La nostra felicità è indescrivibile. Siamo emozionati, nervosi, impappinati di trovarci in quel-l’albergo, soli, con la bambina.
Verso le ore 18,00 si sveglia. E’ come un raggio di sole che illumina quell' anonima camera d’albergo al sesto piano.
Jolikè le fa il bagnetto e la veste con un abitino bellissimo, un cappellino in testa e usciamo per fare una passeggiata intorno all’albergo, per le antiche vie di Bucarest.
Monica sta bene e sorride. E’ molto affettuosa, contenta e curiosa. Per lei è cominciata la scoperta del mondo, di quella porzione di mondo che le appartiene.
Sembra incantata dagli alberi, dalle loro cime frementi che ombreggiano il viale. Per lei tutto è nuovo, anche quel cielo di fiori e di foglie.
La serata è fresca, piacevole. Più tardi arriva Virgil che vede per la prima volta la bambina. E’ molto contento. Ci traduce la cartella medica che porteremo ai medici in Italia.
Faccio due passi con Virgil. Parliamo della situazione del Partito in Romania e anche delle sue vicissitudini personali. Ci salutiamo con un forte abbraccio. Un vero amico, un gran-de artista. Lo invito a venirci a trovare in Sicilia. Lo vedo allontanarsi in direzione di via Doammei, verso la sua cella nella Casa degli artistici plastici.
Noi andiamo a letto, l’indomani mattina dovremo prendere l’aereo per Roma.
Sistemiamo Monica sopra una specie di divano adattato a lettino, ma non riesce a prendere sonno.
Anche per lei, nell’aria c’è qualcosa di nuovo, di strano, di bello che la rende inquieta, insonne.
Solo verso l’una di notte si addormenta. Buonanotte Mokina.
Lo zingaro grassone
2/6/85. Alle 7,30 siamo nella hall dell’albergo con la bambina. I turisti, il personale dell’hotel la guardano ammi-rati. Ci spostiamo nella sala del ristorante per la colazione. Alle 8,30 verrà il taxi per portarci in aeroporto. Alle 10,00 decollerà l’aereo per Roma.
In questo frangente, accade un fatto gravissimo che rischiava di mandare a monte la partenza. Jolikè ha dimenticato sulla poltrona della hall la sua borsa, con dentro soldi e passaporto.
All’uscita del ristorante si accorge della mancanza della borsa. Cadiamo nella più totale disperazione.
Dopo tutte quelle corse per ottenere i documenti, a poche ore dalla partenza, non potevamo più partire perché Jolikè non aveva più il passaporto.
Cerchiamo la borsa, domandiamo, imploriamo il personale dell’albergo di aiutarci. Non potevano fare nulla, la borsa era stata rubata.
Il mio pensiero corre all’ambasciata italiana. Ma alle otto di domenica, a due ore dalla partenza del volo, nemmeno l’am-basciatore avrebbe potuto fare il miracolo.
Sono molto arrabbiato con Jolikè che sbotta a piangere con la bambina in grembo. Evidentemente, l’euforia, la felicità di avere in braccio Monica le avevano fatto trascurare tutto il resto. Compresa la borsa.
La dimenticanza era comprensibile, però ci complicava male-dettamente le cose.
Dentro la hall e fuori, tutti ci osservano, vedono la nostra disperazione. Nel frattempo, arriva il taxi per andare all’aeroporto. Prego il taxista di aspettare perché abbiamo il problema del passaporto. Chiedo, di nuovo, a tutti quelli che ci stanno intorno se avessero visto il ladro o se avessero almeno qualche sospetto. Nessuno risponde alla mia richiesta d’aiuto. Nessuno ha visto il ladro. Dall’albergo hanno chia-mato la polizia
Sono veramente desolato, avvilito. Mi sento impotente.
Avevo smosso le montagne per avere Monica al più presto e ora non riesco a recuperare un passaporto. Non so che fare.
A un tratto, ricordai che, mentre eravamo seduti al ristorante, era venuto a salutarci lo zingaro grassone del cambio nero. Solitamente, stava nei paraggi dell’hotel per fare cambio e altre operazioni di contrabbando. Era sempre là, fra i piedi. Ora invece non si vedeva. Lo sospettai del furto.
Mi rivolsi ad un uomo piuttosto giovane, alto e robusto, che si atteggiava a capo dell’organizzazione dei cambisti e gli dissi: “Trovami il passaporto di mia moglie e potrai tenerti la borsa con il denaro dentro.  In più, se me lo porti subito, aggiungerò altri 50 dollari…”
Gli riferii dei movimenti sospetti dello zingaro grassone. L’uomo, che pareva molto sveglio, annuì con la testa. Anche secondo lui poteva essere stato lo zingaro l’autore del furto.
Mi rispose :“ Tu aspettare qui, un momento”
Si consultò con due amici e partirono per diverse direzioni.
Lo vidi scomparire dietro un cantone di strada e con lui un po’ scomparve la nostra speranza di recuperare il passaporto. Quelli erano amici, compari di borseggio, di cambi a nero. Magari si sarebbero messi d’accordo su come dividersi il de-naro contenuto nella borsa o per ricattarmi e tenermi sulle spine per l’intera giornata.
Tuttavia, rimasi in nervosa attesa, scrutando in tutte le dire-zioni.
Non passarono nemmeno tre minuti quando spuntò da una stradina e con la borsa di Jolikè in mano uno dei due ragazzi con i quali il capo si era consultato. Gli corsi incontro, lo abbracciai, lo baciai e gli diedi cinquanta dollari.
Aprii la borsa e vidi che non mancava nulla. C’erano il passaporto, varie cianfrusaglie e le banconote in lire e perfino il cappellino di Monica, quello con la fragolina rossa.
Jolikè piangeva, non voleva credere ai suoi occhi quando le mostrai la borsa con dentro il passaporto. Era stato lo zingaro a rubarla. Ma non c’era tempo per recriminare; bisognava correre all’aeroporto sperando di poterci imbarcare sul volo per Roma.
L’incubo era finito. Eravamo dentro il taxi che correva verso l’aeroporto dove giungemmo in orario. Passiamo i controlli senza difficoltà e ci imbarchiamo su un aereo della “Tarom” diretto a Roma.
Monicuccia sta bene, ride. Ride spesso la bambina.
Mostra un po’ di paura quando l’aereo rulla prima del decollo. Si aggrappa al petto di Jolikè con le sue manine bianche. Quel rumore assordante, sicuramente a lei strano, la spaventa.
Quando giungiamo in quota, si rilassa. L’aereo fila tranquillo nel cielo azzurro sopra i Balcani.
Per rasserenarla ancor di più, la prendo in braccio e la faccio camminare nel corridoio dell’aereo.
La bimba ha un po’ di sciolta e mi caca addosso.
La stendiamo sul sedile per pulirla e cambiarla.
C’è un po’ di puzza e in noi tanto imbarazzo.
“Grazia di Dio” avrebbe detto mia zia Francesca che, non potendo avere avuto figli, chissà quanto desiderava una cacatina del genere. Immortalo la scena con una foto.
Dietro di noi, sono seduti due signori anziani, uno sicuramen-te settantenne con l’accento tedesco, che non sembrano per nulla interessati al nostro problema.
Parlano in italiano e si raccontano avventure amorose in Romania e in altre parti del mondo.
Mi giro e guardo meglio in faccia il vecchio e mi fa schifo moralmente e fisicamente. Il suo racconto mi pare la solita, misera vanteria di chi, avendo quattro soldi, si reca nei paesi poveri per fare turismo sessuale, senza mai considerare il dramma delle sue vittime, la scia di dolore che si lascia dietro.
Finalmente a casa
Giunti a Roma - Fiumicino, troviamo il compagno Monda, il funzionario dell’ambasciata rumena adoperatosi per  inol-trare la lettera di Pajetta a Ceausescu, in attesa di qualcuno imbarcato sul nostro stesso volo.
Lo saluto calorosamente e lo ringrazio per l’aiuto prestato. Vuol vedere la bambina e si mostra contento per come siano andate le cose. Un tempo record: in soli sei mesi eravamo riusciti a portare Monica a casa.
Il controllo alla nostra frontiera non guarda nemmeno i passa-porti della bambina e di Jolikè. Il finanziere apre il mio e ci fa passare con un saluto militare.
Penso alle difficoltà incontrate e superate per avere il passa-porto e il visto di Monica, all’incubo del furto di stamattina. In pratica, non sono serviti per entrare in Italia, grazie al mio passaporto di servizio che qui ha sempre funzionato benissi-mo.
Meglio così. Ci trasferiamo allo scalo nazionale, dove alle ore 13,40 dovremo prendere il volo per Catania.
Ci rifugiamo nella sala Vip, dove si poteva trovare assistenza per la bambina. Infatti, le ragazze sono ben liete di aiutarci.
Alcuni “vip” guardano la scena con la coda dell’occhio. 
Chi se ne frega. Noi badiamo alla bambina che sembra leg-germente inquieta.
La prendo in braccio per portarla fuori fra la folla dei passeg-geri. Ricevo una seconda scarica di diarrea, evidentemente ancora in corso.
Scappo alla toilette per tentare di far sparire il danno, ma  restano tracce evidenti sulla mia giacca.
Una scarica simile se la prenderà, qualche tempo dopo, anche Cicciò Fucà, al bar dei Templi, ad Agrigento. 
Finalmente, decolliamo per Catania, verso la Sicilia, verso la casa di Monica. Fino ad oggi, la bambina non ha avuto una casa sua. Forse, era stata portata dalla sala- parto al reparto e quindi all’istituto. Così mi era parso di capire parlando con l’infermiera dall’aspetto burbero che l’accudiva.
Anche Monica ha il suo biglietto aereo. Per lei abbiamo pagato il 10%.
A Catania ci accoglie un caldo torrido. Partiamo subito, in auto, verso Joppolo, dove ci aspettano mia madre, contenta e ansiosa, e l’intera famiglia.
A causa dell’afa, l’attraversamento della piana di Catania è molto faticoso per la bambina. Non c’è un filo d’aria. Al motel sotto Enna ci fermiamo per farla mangiare e pulirla.
Verso le 18,00 arriviamo a casa.
L’arrivo di Monica era molto atteso a Joppolo. Per il paesino era una sorta di avvenimento.
Da ore, mia madre, mio padre, mia zia Francesca, i sacri vecchi della famiglia, sono davanti alla porta in attesa. Alla vista dell’automobile si precipitano per abbracciare Monica. Ce la tolgono praticamente dalle mani..
Sono sbalorditi per quella bambina così bella e dal tratto gentile. Monica è stanca, accaldata, confusa, ma riesce lo stesso a sorridere. Insomma, un impatto davvero emozionante con la sua famiglia. Una gioia fortissima per tutti noi.
L’arrivo alla casa-madre, a Joppolo Giancaxio

Il primo visitatore “esterno” è Stefano di Tresa il quale corre in piazza a informare il paese:
“Arrivà, arrivà, a figlia dell’onorevole. Che beddra!”.
Nel giro di pochi minuti, infatti, salgono (per venire da noi bisogna fare la Salita Panzera) tutti i compagni che erano in piazza e alcuni del parentado.
Per la casa, intorno alla bambina si crea una confusione gioiosa. Monica è un po’ spaventata: non ha mai visto tutte quelle persone, contente e sorridenti, intorno a lei.
La gioia dei compagni

Ognuno vuole vederla, toccarla, baciarla, prenderla in braccio. A loro rischio e pericolo poiché la sciolta non si è completamente fermata. Monicuccia è confusa e agita la ma-nina come in segno di saluto.
“Talè, saluta. Nni saluta!” .
E’ veramente tardi. Andiamo a letto anche noi.
Che lunga e felice giornata abbiamo vissuto!
Oggi, l’Italia ha festeggiato la ricorrenza della nascita della Repubblica. Noi abbiamo fatto una festa doppia: per la Repubblica e, soprattutto, per la seconda nascita di Monica.


Capitolo terzo



Primi passi da sola


Monica saluta come una candidata a sindaco
Monica fiorisce ogni giorno che passa. In poco più di un mese è cresciuta un chilo e mezzo. Tutta salute, naturalmente. Altro che la “cresc” di Bucarest!
Ha una splendida cera: è più rotondetta, ha preso colore in viso, le gambette si sono rafforzate.
Aiutata da noi, inizia a muovere i primi passi. Ha così   scoperto l’utilità degli arti inferiori e il principio del moto pedestre. Fin quando è rimasta alla Cresc ha usato soltanto   le mani con le quali giocava, comunicava, salutava, spesso le incrociava per divertimento o per scaldarsi.
Si mostra affabile con tutti. Anche se sembra avere deter-minato in se stessa una sorta di graduatoria degli affetti: prima Jolikè, secondo io, poi mia madre, mio padre e dopo ancora il resto della famiglia e degli amici. E’ un piacere vederla. Un sorriso e un saluto con la manina non li nega a nessuno. Saluta come una candidata a sindaco. Avrà capito che il sorriso e il saluto possono aprire anche le porte del paradiso. Con mia madre “discute” di più (a modo suo, ovvi-amente), scherza facendo le imitazioni dei soggetti proposti dalla “nonna”: il coniglietto, l’ uccellino, la farfallina, ecc.
Gradisce molto anche le canzoncine antiche siciliane che le cantano mia madre e mia zia Francesca. Ammetto che, a risentirle dopo tanto tempo, piacciono anche a me.
Il sorriso, il saluto, i primi passi, il cibo, l’affetto, le carezze, le canzoncine…il dolce progresso della sua vita corre veloce.
Monica ha tanta voglia di vivere, come se volesse dimenti-care quegli otto mesi passati in quella gabbietta.
Sì, perché il suo lettino alla Cresc era simile e poco più grande di una cassetta di pomodori. In parte, credo, li abbia recuperati. Dorme bene, due , tre volte al giorno. La notte riposa tranquilla dalle 22,00 circa fino alle 8,30/ le 9,00 del mattino. Quanto è dolce il risveglio di Monica! Per lei e per noi che l’aspettiamo più del sorgere del sole
.
Il dolce risveglio

Si desta, infatti, con un sorrisino dolcissimo che sprizza benessere, gioia di vivere. La sua felicità è per noi la più alta ricompensa. Monica sembra entusiasta della vita.
In questi momenti, penso sempre ai tanti bambini rimasti negli istituti di Bucarest e di altre parti del mondo.
Non riesco a dimenticarli perché non voglio dimenticare questo dramma universale che non risparmia nemmeno le cosiddette “società opulente”.
Anzi, proprio queste sono le più colpevoli poiché le inchioda la loro opulenza, per l’appunto, che non consente loro di ap-pellarsi all’alibi della povertà sul quale si fonda la giustifica-zione dei governi dei Paesi in via di sviluppo.
Jolikè mi spinge ad “aiutare” tutte le coppie che si rivolgono a noi per avere informazioni, aiuto per adottare un bambino rumeno. Ogni adozione è la salvezza di un piccolo essere.
Specie dopo l’arrivo (così rapido) di Monica, sono molte le coppie senza figli che ci vengono a trovare per sollecitare una pratica di adozione in corso e/o per sapere come inoltrare le domande in Italia e in  Romania.
Desiderano essere aiutate a contattare l’avvocato Petrescu o per avere una segnalazione di Giancarlo Pajetta a Ceausescu.
La segretaria di Pajetta mi ha fatto capire che non si può insistere troppo con i rumeni.
Giancarlo è in imbarazzo, vorrebbe aiutare tutti, ma teme che le sue preoccupazioni umanitarie siano scambiate per qualco-sa d’altro.
Sono perplesso sul da farsi. Joliké insiste e alla fine mi con-vince d’inviare a Pajetta un altro elenco con tutte le richieste di adozione segnalatemi. Non dovrà mancare per una mia let-tera. Sarà lui a decidere che cosa fare.
Monica, intanto, continua a familiarizzare anche con gente esterna alla nostra famiglia. Questo paesino, solitamente pig-ro nelle emozioni, ha manifestato una simpatia corale verso la bambina.
Intorno a lei si è creato un clima di diffusa, affettuosa solida-rietà, come se fosse stata adottata dall’intero paese.
Ogni mattina si svolge il rito della passeggiata in carrozzella spinta da Jolikè. La gente, soprattutto le donne e i bambini, conoscono questa abitudine, persino l’orario del suo passag-gio, ed accorrono per vederla, per salutarla.
La bambina si mostra disponibile, affettuosa con tutti. Questo suo carattere affabile fa aumentare la simpatia, la solidarietà della gente nei suoi confronti.
Uno dei commenti più ricorrenti delle persone è il seguente “Che fortuna che hai avuto, figlia mia!”
In realtà, più fortunati ci sentiamo noi.
Da quando è arrivata la bambina, abbiamo ricevuto tantissime visite a casa, come si fa in occasione di un lieto evento, di una nascita. Sono venute anche persone solitamente a noi non molto vicine. Tutte hanno portato un regalino, un pensierino.
Un’affluenza, una partecipazione davvero corale per un paese dove, a parte i funerali, le solidarietà non sono così vaste e sentite.
Sì, perché, qui, se qualcuno muore, tutto il paese partecipa  al suo funerale. Dietro il feretro si forma un corteo più lungo “di quello che andava a occupare le terre del duca Colonna di Cesarò”, disse una volta u zi Cola Leto.
Se invece nasce o si sposa, eventi sempre più rari, interven-gono solo i parenti e gli amici più intimi.
Molti rilevano la somiglianza di Monica con Jolikè. Qualcuno, forse, avrà anche sospettato, maliziosamente, che Jolikè abbia avuto una relazione extra-coniugale con chissà chi.
Alla festa de l’Unità
21 luglio 1985. Nella piazza grande del paese la festa è in pieno svolgimento.
Per Monica è questa la sua prima festa de l’Unità e anche il suo primo impatto con la gente, una sorta di battesimo della folla. In piazza c’è tutto il paese. Ci sono anche tantissimi emigrati e le loro famiglie che ogni estate ritornano per le vacanze.
A luglio, la popolazione di questo paesino quasi raddoppia: da millecinquecento a duemilacinquecento abitanti.
Una rinascita effimera, illusoria che dura poco più di un me-se. A metà agosto svanisce: chi ritorna ai luoghi di emigrazi-one e chi alla grama quotidianità paesana. La piazza si svuo-ta, in attesa del prossimo luglio, quando il ciclo rico-mincerà.
D’estate, Joppolo è uno dei luoghi più internazionalizzati della Sicilia. Come se ci trovassimo in un centro turistico  alla moda. In realtà, non ci sono lussi, solo modeste vacanze familiari, secondo la tradizione: la mattina al mare a “Lido azzurro”, il pomeriggio una partita a tre sette o a briscola, la sera la “mangiata” classica (spaghetti col sugo di pomodoro fresco e carne grigliata).
Dopo cena, tutti in piazza: al bar o a passeggiare, avanti e indietro, a levigare gli ottanta metri di basolato che separa la chiesa dal cinema del signor Gianni, quasi a voler cancellare le orme di un triste passato. O a rivangarle?
In genere, i giovani di seconda e di terza generazione, parlano la lingua acquisita all’estero. E così, la piazza diventa una babele di lingue: francese, tedesco e lo spagnolo del Vene-zuela.
Sopra tutte prevale lo “sbergitano” ossia il francese della Val-lonie (Belgio) imbottito di termini siciliani antichi (da noi or-mai in disuso) che la lontananza non è riuscita a corrompere, a far dimenticare.
Gli "americani" ossia gli emigrati nell'America "bona" (Usa e Canada in unico blocco) parlano una lingua molto vicina  all’inglese. L’altra America, quella del sud, viene scomposta in  tante Americhe quanti sono gli Stati che la compongono:
America-Argentina, America-Paraguay, America-Venezuela,   America- Brasile, ecc.
Comunque sia, questa moltiplicazione è preferibile all’innatu-rale amalgama che identifica gli Usa con “l’America” tout court.
Com’è noto, la storia e la geografia insegnano che le Ameri-che sono almeno tre, ciascuna con le proprie storie, tradizio-ni, caratteristiche e dignità nazionali.
Ma torniamo a Joppolo, alle sue case, alle sue vie e piazze a luglio piene.
A vedere tutta quella gente non c’è che rallegrarsi. Talvolta anche interrogarsi: che cosa potrebbe accadere se gli emigrati decidessero di restare in paese per sempre?
Un’eventualità remota, praticamente impossibile, che se si dovesse verificare potrebbe trasformare il paese in campo di battaglia, dove ci massacreremmo l’un l’altro per accaparrar-ci le poche risorse e strutture, oppure lo potrebbe far rinascere grazie all’afflusso di tante professionalità, competenze ed an-che d’investimenti. Ma forse sto sognando.
Conviene tornare a Monica, alla festa che tanto somiglia a una sagra  religiosa.
Tutte le feste si somigliano perché sono figlie della stessa cultura. Oltre ai simboli, la differenza sostanziale fra la festa politica e quella religiosa sta nel fatto che noi, dopo il corteo, facciamo il comizio dal palco davanti alla chiesa, mentre il prete, dopo la processione, fa la sua predica all’interno della chiesa.
All’angolo, sul marciapiede, c’è lo stand gastronomico, dove le compagne propongono panini con salsiccia arrostita.
Sul lato opposto, il circolo dei pensionati è affollatissimo: i soci e le loro famiglie hanno diritto a una sedia proprio sotto il palco ossia in prima fila per assistere allo spettacolo di canzoni e al grande ballo popolare.
Verso le 22,00, arriva Jolikè con la carrozzina gialla di Monica. Si fa largo fra due ali di gente ammirata, curiosa di vedere la bambina.
Monica è bella, straordinariamente bella e contenta. Indossa un abitino di tela bianca, finemente ricamato.
La usciamo dall’abitacolo e fa segno di volersi avvicinare alle coppie che stanno ballando.
Per precauzione, ci teniamo a una certa distanza. Le danze sono davvero scatenate.
Molti la scorgono e si avvicinano per salutarla. Per primi arri-vano i giovani compagni e le compagne. Vengono anche  al-cuni anziani e altre persone che desiderano vederla da vicino.
Si forma come una coda per vedere Monica. Non sto esage-rando. A uno ad uno, si avvicinano, fanno una carezzina, un saluto. Qualcuno le bacia la manina. Secondo una sana tradizione contadina, a un bambino è preferibile baciare la mano anziché il visino. E’ più sobrio e igienico.
La gente del paese ama Monica; intorno a lei c’è una grande solidarietà umana, davvero commovente.
La bambina è fra le mie braccia e si lascia baciare, anzi porge lei stessa la manina.
La scena un po’ mi ricorda quella della notte di Natale quando, in chiesa, “si vasa u piduzzu a u Bammineddru”.
Monica appare felice per l’accoglienza. Ora, però, non riesce a distogliere gli occhi e le orecchie dal palco, dove si sta esibendo un complesso musicale. E’ attratta dalla musica.
La tengo in braccio e sento che si dondola come se stesse  ballando. In effetti, balla. La gente lo scopre e si avvicina per vederla ballare.
Con i suoi occhietti vivaci, la bambina si guarda intorno. Scopre la festa, la folla, la musica, il ballo e il semenzaio (zio Luigi di Carlo) che prepara coppi di “nuciddri” e “simenta” e vende giocattoli e palloncini colorati. 
Monica scopre il mare e vi si tuffa…
28 luglio 1985. In questi giorni, Monica è stata un po’ disturbata per via dei dentini che le stanno spuntando.
Nonostante ciò, non ha perduto la buona cera acquisita in questi due mesi. La sua pelle chiara ora è rosea, leggermente abbronzata. C’è un’armonia perfetta fra il biondo dei suoi capelli (che cominciano ad ondularsi) e il roseo del suo corpi-cino oramai sodo, vigoroso.
Riesce ad alzarsi dentro il box, tende ad acquistare l’equili-brio. Di questo passo, è prevedibile che, fra qualche settima-na, potrà reggersi da sola, anche fuori del box.
Mia madre continua ad ammaestrare Monica per farle svilup-pare le sue capacità imitative.
Sa fare quasi tutto quello che la nonna le insegna: batte le manine, balla, scherza, apre la porta, il rubinetto dell’acqua, fa le capriole sul letto, ecc.
A modo suo, parla con i giocattoli, soprattutto con le pupe e gli animaletti, e talvolta si arrabbia con loro e un po’ li mal-tratta. Invano ho cercato di capire la causa di questi suoi ac-canimenti.
Evidentemente, non saranno accondiscendenti ai suoi voleri.
Nel sonno è un po’ irrequieta. Spesso si gira su se stessa, muove gli arti in modo quasi liberatorio.
Solitamente, preferisce dormire in una posizione scomposta.
Almeno in ciò mi assomiglia.
In queste notti calde e afose, giustamente rifiuta le coperte, anche il lenzuolino di tela che Jolikè vuole imporle a tutti i costi, contro le zanzare.
Per il mare va pazza. Più che la vastità dell’acqua, credo l’at-
tiri la libertà d’immergervisi e di guazzarvi dentro.
L’altro giorno, l’abbiamo portata alla spiaggia di Giallonardo dove, tutta nuda, si è messa a guazzare in quelle acque tiepide e pulite.
Nella sua breve vita, è la prima volta che la bambina vede il mare e vi s’immerge.
Per lei è stata come un’esplosione di gioia, di benessere. Monica si è divertita tanto con le sue ochette gialle.
Si è poi cimentata in un gioco impossibile: quello di afferrare le onde.
Appariva spazientita, un po’ anche contratta, poiché non rius-civa ad afferrare nemmeno uno di questi diavoletti spumeg-gianti che correvano sopra il mare e presto svanivano.
Muoveva le gambette come le rane in acqua. Da quei movimenti ho preconizzato per lei un futuro stile di nuoto.
Insomma, la bambina era felice di giocare in quella stermi-nata bagnarola.
Molto più grande di quella in plastica nella quale, ogni sera, fa il bagnetto in pubblico, davanti casa.
Ogni tanto, verifico l’andamento della sua graduatoria degli affetti. Non ci sono variazioni di rilievo: al primo posto c’è Jolikè, al secondo io, al terzo mia madre, al quarto mio padre e poi tutti gli altri.
E’ sempre molto cordiale con la gente. Le piacciono tanto i gattini randagi che girano intorno alla casa, i muli e il cavallo di zio Giovanni e Oscar, il cane dei Fucà.
Il battesimo nella chiesa fra i templi
15 agosto 1985. Pur non essendo credenti, decidemmo subito di battezzare la bambina.
Con l’approvazione generale dei nostri compagni e amici e con la grande felicità di mia madre e degli altri familiari che temevano lo scandalo di lasciarla senza battesimo, in preda al peccato originale.
Ma quale peccato poteva aver commesso una bambina che già aveva subito eventi così traumatici?
Tuttavia, secondo la dottrina religiosa e il senso comune che ne è derivato, un bambino non battezzato e come una bestioli-na senza i sacramenti. Nella società diventerà un paria, un diverso.
Specie crescendo in un paese un po’ bigotto, Monica rischia-va di subire, anche pesantemente, le conseguenze di tale “diversità” che sarebbe andata ad aggiungersi a quella relati-va allo status anagrafico.
Talvolta, l’anomalia di tipo  religioso marchia gli individui in maniera indelebile.
Il battesimo era, dunque, necessario per evitare l’emargina-zione e farla accettare, a pieno titolo, dalla comunità e, in primo luogo, dai coetanei che avrebbe frequentato.
Come padrini scegliemmo mio fratello Lillo e sua moglie Klari.
Jolikè propose di battezzarla nella chiesa di Joppolo con tanto di corteo al seguito; a una festa in grande, tipo matrimonio per intenderci. L’idea non dispiacque neanche a me.
Tuttavia, tememmo che il parroco locale, tale don Verde, es-sendo un vetero anticomunista, e per giunta stolido, potesse guastare la festa con un clamoroso rifiuto o con una predica al vetriolo. Ne sarebbe capace.
Per altro, in fatto di battesimo, per la chiesa io ho un prece-dente da scontare.
Successe una ventina d’anni fa, dopo il rifiuto dell’arciprete Alfonso Conti, di consentirmi di battezzare una bimba (Rita Russo) perché ero comunista e pluri scomunicato da lui medesimo.
In effetti, nemmeno lontanamente pensavo di dover fare da padrino in un battesimo o in una cresima.
Avevo acconsentito alla richiesta del signor Luigi Russo che era davvero “augurioso” di avermi per “compare e San Giu-vanni” (ossia compare di battesimo) e mia sorella Zina per comare.
Per non deluderlo cercai la via per aggirare l’ostacolo.
Andai da padre Parisi, parroco della chiesa di San Vito ad Agrigento e mio ex insegnante di religione al Magistrale, al quale chiesi di potere fare il battesimo, senza però informarlo del rifiuto dell’arciprete Conti.
Il buon prete, pur conoscendomi fin dagli anni della scuola come dirigente provinciale della Fgci, che non è l’acronimo della Federazione gioco calcio, ma quello della Federazione giovanile comunista italiana, non pose alcun problema. Anzi  accettò di buon grado di officiare il battesimo, per la prossi-ma domenica.
Organizzammo le cose in un clima di semiclandestinità. Mio compare Luigi era intenzionato a infliggere una lezione al Conti per quella negativa fatta anche a lui.
La domenica pomeriggio, con un ristretto gruppo di parenti e senza farlo sapere in giro, partimmo per Agrigento e battez-zammo la bambina nella chiesa di san Vito.
Solo a cose fatte, al ritorno, in casa di mio compare ci fu festa grande. Musica a tutto volume, dolci e rosolio a volontà. Alla faccia dell’arciprete!
Così il paese seppe dell’avvenuto battesimo di Rita e tanti vennero a congratularsi per la risposta data all’arciprete, accettando volentieri un tarallo e un bicchierino di rosolio.
Il Conti, furente per lo smacco subito, si rivolse al vescovo per chiedergli di sanzionare il comportamento dell’ignaro padre Parisi.
Il vecchio prete, rancoroso e prepotente com’era, ne fece una questione di principio. Pretese dal prelato perfino l’annul-lamento dell’atto di battesimo e una presa di posizione pubblica di condanna.
Il vescovo, non so quanto di buon grado, diramò ai parroci della diocesi una lunga circolare con la quale disapprovava  (ma non annullava) quel battesimo avente per padrino un noto comunista scomunicato e ingiunse ai parroci di essere più vigilanti in futuro.
Si ricordava che erano ancora in vigore le norme della scomunica dei comunisti, emanate nel 1948 dal papa Pio XII, secondo le quali a tali soggetti non si dovevano amministrare i sacramenti, nessun sacramento. Pertanto, per i comunisti dichiarati niente battesimi, cresime, matrimoni e funerali in chiesa. E- restava sottinteso- nemmeno una “buona parola” per ottenere il visto per l’espatrio, soprattutto negli Usa.
Con tali precedenti e direttive, c’era il rischio che il padre Verde rifiutasse il battesimo di Monica.
Tuttavia, mandammo mia madre a sondarne gli umori.
Stranamente, si dichiarò disponibile a officiare il battesimo.
Tutto bene, dunque? Quando mai!
L’indomani il parroco incontrò Jolikè in piazza e le fece uno strano discorso.
Pur sapendo benissimo che non siamo religiosi (io sono un deputato nazionale del Pci), cominciò a chiederle se credes-simo in Dio, nei sacramenti e le ricordò che per fare il battesimo era necessaria la frequenza dei genitori agli esercizi preparatori.
Jolikè, seccata, gli rispose che non era il caso né il luogo di parlare di queste cose.
Viste le intenzioni del parroco, era preferibile non battezzare la bambina in paese.
Ci rivolgemmo a don Pino Argento, un giovane prete di Joppolo, operante nella vicina Raffadali, per domandargli se poteva officiare il battesimo.
Pino si dichiarò ben felice (ed era sincero) di battezzare la bambina, ma temeva le ire di don Verde per cui consigliò di battezzarla in una chiesa di Agrigento.
Fra i tanti preti che conoscevo nel capoluogo, don Biagio Alessi mi parve il più aperto per capire una situazione simile.
Egli, per altro, era parroco della bellissima chiesa di san Nicola, nella Valle dei Templi, un luogo magnifico per battezzare la bambina.
Come previsto, si dichiarò disponibile e diede disposizioni al sagrestano per le ore 18,00 del quindici agosto.
La giornata prescelta, domenica di metà agosto, non era molto indicata per un battesimo. La gente pensava al mare, alla campagna, alle grigliate in famiglia, ai falò.
Jolikè voleva la “grande festa”. Io ero perplesso, anche per via dei costi che potevano risultare troppo elevati.
Si decise per una festa tradizionale, senza grandi pretese.
Stilammo la lista di tutto l’occorrente per un menù decente e abbondante: venticinque teglie di pizza che zi Turiddru Curiale ci preparò il pomeriggio del 15 agosto, sacrificando il suo meritato riposo; diverse guantiere di tortine con salame e maionese; alcune cassette di pere, pesche e meloni gialli; tre-dici chilogrammi di dolci vari preparati da Mommino Vizzì della pasticceria “Le Cuspidi” di Raffadali, vino, spumante, birra e bibite a volontà; tre tipi di confezione di confetti.
Il prete officia, Monica balla
Alle ore 18,00, siamo a san Nicola con un nutrito seguito di parenti, amici e compagni. La piccola chiesa si riempie.
Vi sono pure alcuni turisti curiosi di assistere a una cerimonia tipica e soprattutto incantati dalla bellezza dei luoghi e dell’antico tempio cristiano sorto a pochi metri dall’oratorio detto di Falaride, il truce tiranno di Akragas rimasto famoso per il suo “toro” dentro il quale arrostiva i suoi nemici.
Crudeltà o follia? Forse, una miscela di entrambe. In ogni caso, un’esecrabile, rara forma di dissolutezza che colpì la sensibilità di Erasmo da Rotterdam il quale la usò come incipit del suo “Elogio della follia”.
Durante la cerimonia, Monica si è comportata benissimo, pareva ammaestrata.
Indossava un abitino bianco, lungo e ricamato, confezionato da Klari, scarpette anch’esse bianche e una cuffia che, in verità, mal sopportava. Davvero splendida! La bambina  sorrideva, compiaciuta, forse, capiva che la festa era per lei.
Il battesimo

Mentre don Pino officiava, parlando al microfono, Monica iniziò a ballare (a suo modo ovviamente), forse pensando che il prete stesse cantando una canzoncina.
La bambina ballava, mentre noi, genitori e padrini, in piedi al primo banco, eravamo imbarazzati e muti di fronte alle domande che l’officiante ci poneva, secondo la liturgia.
Mia madre intuì il disagio e, come se volesse rimediare al nostro mutismo, si spostò dal suo banco al nostro e cominciò a rispondere ad alta voce. In pratica, rispondeva per noi.
Il sagrestano guardava allibito, scandalizzato. Non capiva cosa stesse accadendo. Forse, era la prima volta che serviva un battesimo così stravagante nel quale genitori e padrini non rispondevano cristiana-mente alle domande dell’officiante.
Era, a dir poco, perplesso ma muto, anche perché l’avevo già gratificato con una banconota da 50.000 lire.
Don Pino preferiva guardare in alto, la volta lignea della chiesa, per alleviare il nostro, e il suo, disagio.
Per Monica tutto bene. Pianse solo quando il prete asperse la testolina con l’acqua benedetta.
Dopo la cerimonia, saluti, ringraziamenti e foto sul sagrato della chiesa e via verso Joppolo, per la festa.
Monica con la famiglia, all’uscita della chiesa di San Nicola

I tavoli e le sedie erano stati predisposti davanti casa nostra, di quella semidiroccata di zi Turiddru Infantino e perfino nel cortile di Stefano di Tresa.
Erano presenti oltre cento persone, fra le quali alcune che non erano state invitate. Alcuni non trovarono posto a sedere.
Il servizio ha funzionato a dovere, anche grazie alla collabo-razione di alcuni compagni fra cui i fratelli Lillo e Ciccio Fucà, Stefano e Totò Portella e tanti altri.
Vi erano cibo e beveraggio per tutti. Molta roba resterà sui tavoli, inutilizzata.
Verso le ore 22,00, Stefano, il nostro vicino, accese il man-giadischi e diede inizio alle danze. Soprattutto, ballabili e tarantelle siciliane. Qualche coppia profittò dell’occasione per fare quattro salti.
Stefano era scatenato, cantava e ballava senza mai stancarsi.
Mpari Ntò (Greco) ci deliziò con alcune canzoni dell’epoca d’oro di Adriano Celentano.
La musica era necessaria per mettere allegria, altrimenti non poteva considerarsi una vera festa.
Restammo a scherzare e a ballare fino alle due di notte.
Durante la serata, ci fu anche un recital di poesie dialettali. Il primo a esibirsi fu mio zio Angelo Cultrera, seguito da mia cugina Maria Sacco, venuta dal Belgio.
Intorno ai due poeti si formarono gruppi d’invitati che, per quella sera, chiesero soltanto poesie ironiche e strambotti.

31/8/85. Monica continua a crescere bene. Aumenta di peso e in vigore fisico. E’ sempre più bella e accattivante. Le sono spuntati altri quattro dentini superiori. Ora ne ha sei in totale. Continua a essere disturbata nella bocca, forse ne stanno spuntando altri.
Monica con le nonne Giovanna e Ilona e zia Ciccia

Comincia a muoversi più agevolmente, ad alzarsi da terra, anche da sola. Cammina eretta anche se ancora sorretta da noi.
Il suo repertorio imitativo si arricchisce con nuovi soggetti. Va matta per i cani, i gatti e i muli.
Recentemente, ha scoperto le galline di zia Luigia di Scia-verio. È molto impressionata dal canto del gallo.
Mia madre le ha insegnato a imitare il verso del gallo (chicchirichì) e Monica lo ripete con un impegno davvero ammirevole e con esiti a dir poco sorprendenti.
In famiglia siamo tutti in attesa che pronunci le parole fatidiche “mamma” e “papà”.
A furia di richiederglielo, la bambina avrà interiorizzato le due parole magiche e credo le pronunci, a modo suo, senza darle voce.
Continua la dieta del dottore, ma notiamo che preferisce la pasta col sugo di pomodoro fresco e altre pietanze prelibate della cucina siciliana.
Siamo tutti “ta-tà”
In questo mese e mezzo, a parte il dolce rigoglio di Moni-ca, non ci sono stati fatti degni di nota. Ho trascurato tutto, un po’ anche il mio lavoro parlamentare, per dedicarmi preva-lentemente alla bambina.
Mai avrei pensato che la sua presenza potesse sconvolgermi la vita. Sto in casa cercando di leggere o di scrivere qualcosa, ma non appena Monica si sveglia corro da lei a giocare.
Alla bambina piace giocare nel lettone. E a noi pure.  Giochiamo bene insieme. Ci divertiamo a rincorrerci, a coprirci di baci.
Mia madre continua a esercitarla, a incitarla a dire “pa, pà”, “ma, mma”. Forse, ritiene che pronunciando le fatidiche paroline la bambina entri in piena sintonia con la famiglia.
Monica riesce a dire “Ta- tà”. Meglio di niente! Quando ne ha voglia, lo ripete, applicandolo alle persone e anche alle cose a lei piacevoli. Insomma, siamo tutti “ta - tà”.
In questi giorni ha piovuto e la temperatura si è abbassata. Monica ha risentito del cambiamento: accusa una debole tosse che ha messo in allarme l’intera famiglia e il vicinato.
Per non prendere freddo, le hanno fatto indossare la tutina rossa da ginnastica. E’ un amore con quella tutina. Oggi ha scoperto nella stalla di zio Giovanni di Filippa Porta, di fronte casa nostra, un cavallo dal manto bianco, punteggiato di nero. Un cavallo a pois. Sembra impazzita. Gesticola perché vuole essere condotta nella stalla a vedere il cavallo. La accontento.
Siamo accolti da uno sciame di mosche sataniche (dette “cavalline”) e da un odore acre di piscio stagionato che certo non sono di buon auspicio per proseguire la visita al povero animale là dentro legato.
Grosso modo, fra me e Jolikè c’è una sostanziale, tacita divi-sione dei compiti: io, quando posso, bado all’intrattenimento, allo svago della bambina, lei  a tutto il resto che riguarda l’assistenza, la cura della persona. Talvolta, è stanca ma felice di potersi dedicare a Monica.
Il primo compleanno di Monica
Festeggiamo il primo compleanno di Monica insieme con quello di mia madre che, ieri, ha compiuto sessantaquattro primavere. Klari ha preparato una bella torta di mele. Una piccola festa in famiglia, davvero speciale.
Primo compleanno di Monica


Negli ultimi giorni, Monica ha compiuto sensibili pro-gressi nei movimenti.
L’altro, memorabile e attesissimo progresso è stato quello di essere riuscita, finalmente, a trasformare quel dolce “ta-tà” in “pa-pà”. Jolikè è felice di tali progressi, ma forse si aspettava che prima di “papà” chiamasse “mamma”. In fondo, sarebbe stato più giusto.

§ Siamo ad Agrigento al festival de l’Unità. Avremmo vo-luto portare anche Monica, ma all’ultimo momento abbiamo rinunciato poiché deve cenare alle 20 e andare a letto.
Dati i nostri impegni politici e operativi al festival (Jolikè era addetta allo stand dell’Arci) non potevamo accudirla.
Vengono a parlarmi i coniugi Civiltà. Il marito (taxista agri-gentino) era di ritorno da Bucarest, dove aveva avviato la pratica di adozione di una bambina di cinque anni. Chiedono aiuto per sollecitare la firma del decreto per portare a casa la  “loro” bella bambina.
Il signor Civiltà racconta che era molto affezionata a lui, gli si attaccava al collo e lo chiamava: “ta-tà”.
Mi sovvengono il “ta-tà” di Monica e un piccolo dubbio. Gli domando il significato di questa dolce parolina.
Se la sua bambina, a cinque anni, ancora la usa, potrebbe avere il medesimo significato del “ta-tà” di Monica.
Lui sostiene che in rumeno “ta-tà” vuol dire “papà”.
Restai colpito dalla notizia. Poiché, vorrebbe dire che il “ta-tà” di Monica non è un’imperfezione vocale, ma il corrispon-dente rumeno di “papà”.
La bambina mi chiama nella sua lingua nativa e, per accon-tentarci, ha tradotto il suo “ta-tà” nell’italiano “papà” .
A questo punto, gli chiedo come si dice “mamma “ in rumeno. “Mamica”, assicura il signor Civiltà.
Vedremo se Monica chiamerà Jolikè “mamica” o “mamma“.


Primi passi da sola. Dove andrà?
Questa sera (11/10), Monica ha mosso i primi passi, da sola. Mostra ancora qualche incertezza, un po’ di paura, ma credo che oramai si sia lanciata nella sua avventura per la casa, per il mondo. Prima di avviarsi, chiede che qualcuno le stia accanto ma senza toccarla. Più che assistenza chiede conforto.
La facciamo esercitare nella stanza da letto sopra la  morbida moquette. La osservo mentre muove i suoi primi, incerti passi. Avanza come un robot: prima un piede, poi l’altro. Vuole essere sicura che il primo sia ben piantato sul pavimento e solo dopo muove il secondo.
Nel pomeriggio, l’abbiamo portata in campagna, sulle colline sabbiose di Sarrovi. La bambina sta bene all’aria aperta. Sembra gustare, inghiottire l’aria buona delle nostre colline.
Tenendola per mano abbiamo camminato sopra la terra morbida, spugnosa.
Joliké voleva afferrarla per l’altra mano, ma Monica ha rifiu-tato l’aiuto, forse desiderava mostrarci che ormai sa cammi-nare… da sola.

§ E’ notte. Scendo dal mio studio per osservare, nella penombra della camera da letto, Monica nel suo lettino. La bambina dorme rannicchiata in posa fetale, come se stesse ancora nel grembo materno.
Anche Jolikè dorme profondamente per riprendersi della stanchezza di una giornata dietro Monica che ha tante esigenze. Le donne dormano ed io come un sonnambulo mi aggiro per la casa.


Monica ascolta la ninna-nanna
Stasera ha detto “mamma”
Questa sera (25/11, alle ore 22,00), si è verificato l’evento tanto atteso: Monica ha finalmente pronunciato l’attesissima parola  “ma- mma”.
Le sillabe non sono scandite secondo i dettami grammaticali, ma quella parolina magica ha sbloccato una situazione angos-ciante che si trascina da tempo.
Jolikè è incredula e continua a parlare con Peppe Costanza.
La interrompo: “Ma non hai sentito che cosa ha detto la bambina?”.
Mi giro verso Monica, che ho in braccio, e le ordino:
“Monica, chiama la mamma!”
La bambina non si fa pregare: “Ma…mma”.
Jolikè resta come scioccata. Io insisto con Monica che rispon-de a comando: “Ma…mma”, “Ma…mma”.
Il significato è chiaro, perfetto, commovente. A questo punto, Jolikè corre ad abbracciarla, a baciarla mentre Monica conti-nua a chiamarla.
E’ una scena davvero toccante per entrambe: per Jolikè che finalmente è chiamata come merita e per Monica che, quasi per recuperare il ritardo, continua a chiamare “ma..mma”.
Sembrano essersi ritrovate dopo una lunga assenza.
La rivoluzione degli affetti
Ho trascorso gli ultimi due giorni interamente con Monica. Dopo dieci giorni di assenza, ne sentivo tanto il bisogno. Sono stato in Marocco. Le avevo telefonato più volte da Ra-bat e da Roma, ma la bambina al telefono si sentiva gabbata.
Quando sono rientrato a casa, Jolikè mi ha detto che Monica aveva avvertito, forse anche riconosciuto, il rumore dell’auto in arrivo e insieme erano corse al balcone per verificare.
In effetti, ero io che arrivavo da Roma, accompagnato da Lillo Graci. Appena mi scorse, Monica non stava più nella pelle, era felice di rivedermi.
Forse, dopo tanto tempo, non ci sperava più.
Corsi per la scala ad abbracciarla. Mi saltò addosso e mi si strinse forte al collo.
Notai che era più leggera (di peso) di quando l’ho lasciata e che in viso era piuttosto smunta.
Jolikè, per telefono, mi aveva detto che la bambina era stata male, aveva avuto tosse e un po’ di febbre. 
Ci tenemmo stretti. Provai sensazioni bellissime. Quelle sue manine strette al mio collo, quella boccuccia (già piena di denti) che mi baciava in viso. Sensazioni mai provate prima.
La misi in piedi per vedere quanto era cresciuta durante la mia assenza.
E’ un po’ smunta, ma un tantino più sfilata e sempre “più bellissima” la nostra, cara Monica.
Le mostrai il pacchetto col regalo e le dissi di aprirlo. Tentò più volte, ma invano. E così le diedi un aiutino.
Spuntò un televisore di plastica, azionato da una manopola, sul cui monitor scorre l’immagine di due bimbi che rincorro-no una palla. Il tutto con un contorno di  uccellini, farfalline, tartarughe, gatti, ecc.
Il suono dolcissimo di un carillon accompagna lo svolgi-mento della scena. Monica ne restò ammirata e cominciò ad azionare la manopola. Giocammo con il “televisore” fino a mezzanotte. Poi, sul letto, a fare le capriole.
Ero stanco, dormii profondamente quella notte. La mattina fui svegliato dalla dolce vocina di Monica.
Da dentro il suo lettino ci vedeva dormire, forse anche ci sentiva russare, e rideva, rideva.
La presi in braccio e la portai nel lettone, a giocare.
Sarei dovuto andare in Federazione, ma decisi di restare con lei. Da quando c’è Monica, vivo momenti prima sconosciuti. E’ sorprendente come questa bambina sia riuscita a passare in cima ai miei pensieri, ponendosi perfino al di sopra del Parti-to che per me è stato tutto: la famiglia,  la speranza, la vita.
La rivoluzione degli affetti sta soppiantando quella proletaria o, forse, è vero che “L’addrivari (allevare) fa l’amuri”?
In realtà, l’adozione può produrre un’affettività così intensa,  una solidarietà umana, talvolta, superiore a quella fondata sui legami di sangue. A ben pensarci, stiamo costruendo una fa-miglia internazionale, al di fuori di ogni canone clanico, pri-mitivo di consanguineità.
Questa, sì, che sarebbe una rivoluzione!
Ora la tosse è scomparsa. La bambina si sta riprendendo. Mangia molto e ha sempre voglia di giocare. Ogni tanto mi fa “Vuum, vuum”. Capisco che vuol fare un giretto in auto. Le piace stare in macchina. Quando posso, la accontento.
Pomeriggio siamo stati al campo sportivo a giocare a palla. Era uno spettacolo vederla rincorrere la sfera e calciarla, an-che se in modo goffo. Ci siamo divertiti tantissimo. Improvvisamente, arrivò la pioggia e ci rifugiammo nell’auto ad ammirarla.
Forse, questa era la prima volta che Monica vedeva la pioggia da vicino. Era molto incuriosita del fenomeno, di tutte quelle gocce che tamburellavano sui vetri e poi correvano verso il basso.
Fuori c’erano tre caprette inzuppate (che la bambina chiama “mè, mè”) che volevano andarsi a riparare sotto un secolare  carrubo, la grande casa vegetale per uomini e bestie.
Purtroppo, erano legate al suolo con una corda corta e non riuscivano a raggiungerlo. Con questa immagine si chiuse la nostra gita al campo.
Fra me e Monica è scoppiato l’idillio
20 dicembre 1985. Arrivo a casa a tarda sera, proveniente da Pantelleria dove ero stato con la delegazione della com-missione Difesa della Camera per una visita agli impianti mi-litari.
Corro ad abbracciare Monica e Jolikè. Non appena la bambi-na mi vede spuntare in casa, smette di mangiare e mi si attac-ca al collo, mi guarda in viso e sorride.
E’ visibilmente felice di rivedermi, mi chiama “papà”. Poi, di nuovo, mi carezza le guance con le sue manine e stringe il suo visino contro il mio. Ci abbracciamo teneramente, ripetu-tamente. Fra me e Monica è scoppiato l’idillio.
Mi stacco un attimo dall’affettuosa stretta perché desidero scoprire quali progressi ha fatto nei giorni della mia assenza.
In genere, quando arrivo mi appare più pienotta, più pesante. Anche il suo faccino è più rotondo e roseo.
Giù nella strada, aspetta l’autista militare che da Palermo mi ha portato a Joppolo. Devo scendere per salutarlo e ringra-ziarlo, ma Monica non lo consente.
Forse, teme che riparta e mi si riattacca al collo con tutta la forza che possiede.
Fuori c’è freddo, ma sono costretto a portarla con me (dopo averla ben coperta con un plaid) a salutare il militare.
Il ragazzo la saluta e lei risponde chiamandolo “Totò”.
Per lei tutti gli uomini con i baffi o con la barba si chiamano “Totò”, come Totò Portella, nostro amico e compagno.
Aiutato da mia madre, porto in casa i bagagli e i pacchi con i regali per Monica.
Ci sediamo sotto il bellissimo albero di Natale, scoppiettante di luci e carico di caramelle al miele.
Ci voleva Monica perché si preparasse l’albero; è la prima volta in casa nostra. La bambina comincia a spacchettare.
Per primo viene fuori un cagnolino che gira su se stesso (favoloso!), poi un tipo che suona il tamburo. Seguono una serie di ninnoli per addobbare l’albero.
Monica è tutta infervorata. Alla fine sceglie il cagnolino. Le piace di più e lo chiama “bau- bau”.
Mi allontano un attimo per andare al bagno a lavarmi le mani. Dietro di me la bambina, col suo cagnolino, corre a strappare la carta igienica e me la porge, senza che, per altro, ce ne fosse bisogno.
E’ un modo per rendersi utile agli altri. Tale gesto l’avrà visto fare tante volte a suo favore e ora lo ripete a mio vantaggio. Associa la carta igienica all’uso del gabinetto.
Siamo pur sempre nella fase imitativa.
La cosa succede anche quando mi sto vestendo in camera da letto. La bambina mi porta le scarpe, i calzini. Si rende utile, quasi volesse ricambiare i servizi che noi le rendiamo per vestirla, nutrirla.
Passiamo le ore a giocare intorno all’albero di Natale. Fino alle 22 e 30 quando l’orologio ungherese segna, implacabile, l’ora di andare a nanna.
Noto che il suo piccolo, delizioso vocabolario si è arricchito di qualche parola. Ora chiama “nonno”, “nonna” e “sci, sci” mia zia Francesca alias zia “Cì”.
Dice anche qualche parolina in ungherese per la gioia di Jolikè che si è messa in testa d’insegnarle a parlare la sua lingua.
La bambina accusa ancora qualche disturbo per via dei denti che continuano a spuntarle, ma sopporta dignitosamente. Nei giorni scorsi, ho finito l’ultima stesura del mio libro “Oltre il Canale- Ipotesi di cooperazione siculo-araba” che ho deciso di dedicare alle mie donne ossia a Monica e a Jolikè. Se lo meritano.
















Capitolo quarto



A Lido Azzurro, Porto Empedocle


Il secondo Capodanno di Monica
1/1/86. Ieri notte, a Monica è stato consentito di attendere con noi l’arrivo dell’Anno nuovo.
Il suo secondo capodanno. Il primo l' ha trascorso nei locali della Cresc. Sola e abbandonata, in condizioni davvero terri-bili. Spero solo che quella notte la bambina abbia dormito.
Perciò abbiamo voluto che restasse sveglia per festeggiare con noi, in famiglia.
La festa è di tutti, ma tutti ci eravamo riuniti per festeggiare la bellissima Monica Nicoletta Spataro in questo secondo capodanno della sua vita.
Nel pomeriggio aveva dormito per quasi cinque ore, pertanto reggeva bene l’attesa della mezzanotte. Gli altri, i miei fami-liari e qualche amico, giocavano a tombola, io ho trascorso la serata a giocare con Monica. Ci siamo divertiti un sacco.
Giunta l’ora, stappammo le bottiglie e brindammo alla salute di Monica.
Per farla partecipare al brindisi, demmo alla bambina un bicchiere d’acqua. Non volle bere. Giustamente! Cercò, con insistenza, il nostro bicchiere. Evidentemente sentiva l’odore dello spumante.
E così, io, Jolikè e Monica bevemmo spumante dagli stessi bicchieri. Una sorta di rito primitivo, quasi a voler sancire un legame indissolubile.
La bambina sembrò gradire la nuova bevanda, si leccò le labbra e dopo qualche minuto rallegrò la tavola con un paio di ruttini.
Verso l'una andò a dormire e io feci un salto in casa di com-pagni, dove era stato organizzato una specie di veglione.
Oggi, starò con Monica, per l’intera giornata.
Per altro, fuori piove e non si può uscire. Restiamo in casa e dalla finestra ammiriamo la pioggia che batte, fitta e inces-sante, sul tetto di “canala” (tegole di terracotta).
La bambina è molto attratta da quel tintinnio soave che tanto somiglia a una musichetta.
Le gocce s’infrangono sul vetro, si frantumano e si perdono, veloci, verso il basso. Lei le segue con lo sguardo, gesticola come se volesse afferrarle per la coda.
Ormai, Monica sa fare molte cose: sale e scende i gradini, strimpella al piano-forte, gioca con la palla, balla e tante altre cose belle.
E’ sempre molto affettuosa. Ogni tanto mi si stringe al collo e questo, per me, è regalo più bello.
Nel pomeriggio, ascoltiamo un po’ di musica di Strauss e di Rossini. La prendo in braccio e iniziano le danze, con lei che volteggia con la testolina.
Il nuovo gioco le piace, ascolta la musica e ride divertita.
Ogni tanto mi fermo per riposare, ma lei desidera continuare. Le chiedo: “arre?” (di nuovo?) 
“Scì” risponde, con un sorrisetto complice nel quale si sciog-lie la sua vocina.
E così riprende il vorticoso ballo, con Monica in braccio che si sta sganasciando dalle risate.
Sono stanco e mi gira la testa, ma sono felice di ballare con questa “dama di gran classe”.
Il gioco dura a lungo. A ogni pausa, lei sussurra quel dolce “scì”, con la esse biascicata.
Il valzer riprende, mentre fuori continua a piovere.
Nardu, quando la libertà somiglia alla follia
6/1/86. Alle ore 13,30 portiamo Monica in piazza per farla assistere alla “pastorale”, una manifestazione etno-religiosa della nostra tradizione popolare ispirata alla “Natività”.
Dopo anni di sospensione, è stata riproposta (dal vivo) grazie all’impegno di  un gruppo di giovani del luogo.  
I personaggi sono tanti e interpretano una serie di scene agro-pastorali. Ci sono i tre Magi che, essendo re, devono essere belli, alti e impettiti sui loro cavalli regalmente bardati; la santa coppia (S. Giuseppe e la Madonna) molto più dimessa, povera, generalmente impersonata da un uomo anziano con la barba posticcia (mio zio Salvatore Cultrera) e da una bella giovinetta; seguono i cacciatori armati di fucili a guardia di un gregge di pecore vere. Esigenze del copione o un modo  per scoraggiare l’abigeato?
Il personaggio principale è il “Nardu” ossia un pastore ubri-aco il quale, invece di badare alle pecore, si diverte a moles-tare, a insolentire la gente assiepata sui marciapiedi.
Grazie al vino, in questo giorno, al Nardu è consentita una libertà insperata, disinibita, senza freni.
Domani ricomincerà la sua vita di schiavo. Soltanto in questo giorno può fare tutto quello che gli aggrada. Anche sfidare il campiere armato di “scopetta”, sputare in faccia a gente “im-portante” boccate  di ricotta. Nessuno si deve offendere e tan-to meno replicare. Al malcapitato non resta che ridere, mostrare di gradire il divertimento.
In fondo, il Nardu recita una parodia della triste condizione dei siciliani i quali solo nella pazzia, e per qualche ora, pos-sono sentirsi veramente liberi.
Qui, infatti, la libertà è follia, non pratica di vita civile!
Monica, che a quell’ora fa il riposino, è un po’ intorpidita. La vista di quelle scene la incuriosisce, l’attira.
Quella massa di persone, soprattutto giovani, che ondeggia da un lato all’altro della piazza, che corre di qua e di là per
scansare i lanci del Nardu, è per lei uno spettacolo inedito, esilarante.
Le indico i cavalli che lei chiama “Clò, clò”, poi le pecore “me, me, meh” oppure “me mmè”.
Accanto passa un asino giulivo e lei fa “stò, stò”.
Con tali monosillabi (ripetuti) lei indica gli esemplari più comuni che popolano il piccolo zoo del villaggio.
Ci stacchiamo dalla folla assiepata intorno alla “mannira” e ci dirigiamo verso i re Magi  appollaiati, all’angolo della Chie-sa, pronti a entrare in scena.
Monica alla Pastorale

Monica mi fa segno di volere toccare, carezzare il “clò, clò”. La accontento con vero piacere, mentre Jolikè prende una foto.
Tira un vento gelido di tramontana. E’ meglio rientrare a casa. Monica deve riposare anche perché più tardi andremo ad Agrigento a vedere Loredana, la bambina degli Errore, arrivata ieri sera da Bucarest.
Monica e Loredana si riabbracciano, ad Agrigento
Come già annotato, Monica e Loredana erano ricoverate nello stesso padiglione della Cresc, anzi nella stessa stanza. Povere bimbette, entrambe bionde e malnutrite.
Ora, anche Loredana è a casa, bianca e allegra, coi suoi occhi colore del cielo.
Ho come un moto istintivo, le prendo entrambe in braccio e me le stringo al cuore.
Finalmente, si sono ritrovate, ad Agrigento. Che la fortuna le assista nella vita.
Monica soffre il mal d’auto e dopo pochi chilometri vomita. Per prevenire tale disagio, Joliké (che n’ è la principale vittima) non la fece mangiare e così arrivammo indenni a casa di Michele Errore.
Intorno a Loredana c’è tanta amorevole confusione.
Con zio Mariano Burgio, il suo nuovo nonno, si commenta l’avvenimento:“Augustì, vi hanno dato scheletri e voi li dovete fare cristiani”.
Avvicinammo Monica a Loredana e le dissi di farle una ca-rezzina. Monica allungò la manina. Le due creaturine, figlie dello stesso dramma, si abbracciarono, si baciarono nella commozione generale.
L’abbraccio tra Monica e Loredana Errore

In quel momento gioioso, il mio pensiero andò ai bambini rimasti negli istituti; ai tanti che ancora non sono stati tratti dai guai della loro misera vita. Non riesco a dimenticarli!


Monica balla al mercatino
13/1/86. Siamo in piazza, al mercatino del lunedì. La giornata è fredda ma mitigata da un sole bello e gagliardo.
Monica è superprotetta: indossa un berrettino giallo di lana e un lungo giubbotto imbottito di piume d’oca che le cade un po’ largo. Sembra un pesce-palla colorato.
La bambina, oramai, conosce la piazza e i luoghi adiacenti e le persone che più incontriamo o frequentiamo.
E’ amica anche di “Oscar”, il pastore tedesco dei Fucà, che si  diverte a carezzarlo, a chiamarlo “bau, bau”. Talvolta, il cane  le risponde scuotendo la testa e agitando la coda.
All’ufficio postale Monica ormai è di casa. S’infila nella porticina che immette sul bancone di servizio al pubblico e va a salutare gli impiegati e il direttore, il signor Fucà.
Mi afferra la mano e mi tira verso la bancarella di un ragazzo  del Senegal che vende chincaglieria per la gioia dei poveri.
E’ alto, asciutto come una canna e sfoggia una pelle levigata e lucida come una cote di granito sotto l’acqua cristallina di un ruscello; indossa una tunica blu lunga fino ai piedi e sor-ride a tutti come se fosse l’uomo più felice della terra.
Monica è attratta da quell’uomo blu, unico fra la massa che affolla il mercato, e soprattutto dalla merce che propone.
Improvvisamente, dal banco accanto, quello del “catanese” venditore di musica, si libera una vivace tarantella siciliana.
Una “ballabile” come qui si dice, per distinguerla da altri pez-zi esotici, sconosciuti e pertanto “non ballabili”.
E, difatti, Monica si mette a ballare, ancheggiando e battendo le manine.
Ogni tanto, alza anche la gambetta come avrà visto fare alle ballerine in televisione. Uno spettacolo inatteso per la gente intorno. Il giovane senegalese sorride, ancor più di prima.
La bambina, per nulla inibita, continua a ballare in mezzo alla gente riunita in circolo.
Ogni volta che ode una musica, sembra scattare in lei come un meccanismo istintivo, il demone della danza.
A quindici mesi, si regge a malapena in piedi, ma quando c’è musica balla.
Per il resto, c’è da annotare che ama mangiare spesso e con appetito, come se volesse riempire un grande vuoto.  Digerisce bene e va di corpo 4-5 volte il giorno.
Cerchiamo di contenere il suo appetito. Perciò, quando ha fame e nessuno si preoccupa di sfamarla, lei trascina il suo seggiolone in cucina e, orgogliosa della riuscita impresa,  fa segno di volerci entrare per iniziare a mangiare. Qualcosa la ottiene sempre.
Come detto, la bambina continua a imitare i gesti di animali e persone, soprattutto i nostri.
Imita e ironizza; scherza molto anche con se stessa.
Talvolta, finge di piangere e subito dopo scoppia a ridere, divertita.
Ormai riesce, a modo suo, a chiamare per nome tutti i mem-bri della famiglia e anche qualche nostro amico.
Non sa pronunciare correttamente soltanto il nome di Lucre-zia che chiama con una stranissima espressione vocale:
“A-li-li-là”.
Alla Sagra del mandorlo in fiore
2/2/86. Da qualche tempo non scrivo di Monica. La legge finanziaria mi ha trattenuto a Roma per alcune setti-mane. Ho parlato con lei ogni giorno, per telefono.
Ogni volta che squilla il telefono, la bambina corre gridando “papà” e comincia a raccontarmi le sue avventure.
Le sue espressioni non sono sempre comprensibili, ma in esse si coglie un afflato, una sorta di ansia di comunicazione.
La bambina vorrebbe dirmi qualcosa ma non riesce a farlo, chiaramente. L’altro giorno, tutta agitata, mi ha ripetuto “me, me” che nel suo gergo significa pecora, pecorella.
Non capii cosa volesse significare. Jolikè mi chiarì che la bambina mi aveva informato di un avvenimento eccezionale cui aveva assistito la mattina quando una pecora di zio Giovanni si era introdotta nel cortile di casa nostra.
A volte, mi dice anche “dri, dri, vuum, vuum” che tradotto significa: andiamo a spasso in automobile.
Finalmente, ieri sera, sono rientrato a casa. Vista la lunga as-senza, confesso che ero un po’ preoccupato se Monica mi avrebbe riconosciuto o confuso con mio fratello Lillo (che vi-ve in Belgio e mi somiglia tanto) in questo periodo in vacan-za a Joppolo.
Preoccupazione superflua: appena mi vide corse ad abbrac-ciarmi forte, chiamandomi “papà”.
Per me, quest' abbraccio fu la più bella ricompensa per quelle dure giornate trascorse alla Camera.
A Roma ho fatto sviluppare le foto di Monica. La più espres-siva l’ho fatta incorniciare e l’ho affissa alla parete. Durante la notte mi capita di guardarla e baciarla.
In questi momenti, penso al dramma degli affetti che colpisce le famiglie degli emigrati sparsi per il mondo.
Come fanno, e cosa sentono, questi uomini che per anni non vedono i loro figli? Sarà un dolore straziante, inconsolabile!
Ho portato a Monica un giocattolo sovietico col quale si è messa a giocare, tutta contenta.
E’ rimasta con noi sul lettone fino a mezzanotte a scherzare, a fare le capriole.
Si divertiva, ma con un occhio spiava le mie mosse. Forse, temeva che ripartissi. Per sentirsi tranquilla ha preteso che le stessi seduto accanto, fianco a fianco.
Stamattina, abbiamo fatto “vuum, vuum” ossia, in auto, siamo andati a “dri dri” al campo sportivo a giocare con la palla.
La sera siamo stati a casa dagli Errore a visitare Loredana. Jolikè prende in braccio Loredana e comincia a giocare con lei. Monica sbotta a piangere, disperata. E’ gelosa o teme di perdere la sua mamma?
Nei bambini queste forme di gelosia, di egoismo solitamente derivano dall’insicurezza, dal bisogno, dalle paure di perdere qualcuno o qualcosa cui tengono.
Poi, ci trasferimmo al viale della Vittoria ad assistere agli spettacoli folcloristici del Mandorlo in fiore. 
Il lungo viale, ritenuto uno dei più belli d’Europa, è strapieno di gente, soprattutto famiglie con al seguito bambini masche-rati di carnevale che agitano per l’aria palloncini colorati.
Monica guarda, ma non chiede nulla. Le compro un pallon-cino rosso, a forma di cuore.
Ora desidera andare a piedi per far volare il palloncino come gli altri bambini. E’ bellissima e felice.
Anche questa volta è arrivata ad Agrigento senza vomitare il cibo ingerito.
In elicottero per abbracciare Monica
27/3/86. Monica cresce splendidamente. Ormai, capisce quasi tutto. Il suo vocabolario si arricchisce. Dice molte cose con parole quasi comprensibili.
Le piace ascoltare le favolette. Talvolta, per accontentarla invento qualche storiella di animali a lei familiari.
In particolare, desidera che le racconti favolette su Cesar, il cagnolino, che ama tanto. Talvolta, la sentiamo chiamare, anche nel sonno, “co, co, bau, bau”.
La bambina mantiene il suo carattere scherzoso: si diverte a fare i dispetti e poi ride, ride, ride.
Si mostra un po’ infastidita per le troppe effusioni (baci e abbracci) che riceve durante le passeggiate in strada.
La gente le vuol davvero bene. Il suo rapporto affettivo sta diventando selettivo. In testa alla sua graduatoria ci siamo, sempre, io e Jolikè, ex equo.
Da noi desidera essere abbracciata, tenuta stretta.  
Le piace assai uscire da casa, scoprire il mondo, il nostro piccolo mondo contadino. Nonostante soffra ancora il mal d’auto, desidera sempre fare un giretto. L’accontento con piacere anche per aiutarla a farle superare il mal d’auto.
L’altro giorno, sono arrivato a Joppolo in elicottero. Un vero avvenimento per il paese dove mai era atterrato un velivolo.
La faccenda è andata così.
Per l’intera giornata ero stato a Pantelleria in visita agli im-pianti e ai mezzi militari colà allocati.
In serata, rientrammo a Palermo, ma non potevo raggiungere Joppolo in auto poiché le strade d’accesso erano bloccate dagli “abusivi” che protestavano contro il governo che mi-nacciava di abbattere le loro case costruite senza regolare concessione edilizia.
Il generale Cacciola, comandante della regione militare sici-liana, dispose il mio accompagnamento con un elicottero dei carabinieri.
Telefonai a Jolikè per dirle che in venti minuti sarei arrivato a Joppolo in…elicottero, pregandola di farmi trovare un’auto al campo sportivo dove sarei atterrato.
E così lei, Monica e tante altre persone si precipitarono allo stadio. Il velivolo tagliò dritto sulla linea dei monti sicani e in venti minuti fu sopra la Rocca del Duca, sul campo di sabbia arenaria.
Alcuni, vedendo volteggiare sul paese un elicottero dei cara-binieri, forse pensarono che stesse cercando o che avessero catturato gli autori di un abigeato che era stato consumato la notte precedente nelle campagne di Montefamoso.
Perciò si accrebbe la curiosità e molti accorsero per vedere planare l’elicottero che- come detto- era la prima volta che  atterrava a Joppolo.
Monica si spaventò nel vedere quel “grande uccello” così rumoroso che trasportava papà e che minacciava di cadere sopra le loro teste.
Quando mi vide scendere e correre verso di lei sorrise e mi tese le braccine.
Confesso che avevo accettato l’offerta del generale Cacciola soprattutto perché desideravo rientrare presto a casa, per stare con Monica.
In questi giorni, è uscito il mio libro“Oltre il Canale”  che ho dedicato a “Monica e a Joliké”.
In quarta di copertina c’è una mia foto. La bambina la guarda e dice “papà” e ogni tanto le da un bacino.
Purtroppo, in questo periodo è infastidita per via di altri den-tini che stanno spuntando.
La bocca si sta vestendo”, dice mia madre. Che bella espressione! Altrimenti, senza i denti, la bocca è nuda. Jolikè mi racconta che quando esce per le strade con Monica elegantemente vestita la gente si avvicina a salutare, ammirata della sua bellezza e cordialità.
In effetti, è in forma. Ha raggiunto un certo livello di benessere fisico. Ora, il suo corpicino è ben proporzionato, non presenta più il pancino rigonfio, i lineamenti del viso appaiono rasserenati. C’è armonia fra il suo sorriso e il suo visino di madreperla, incorniciato dentro una cascatella di riccioli biondi.
Come detto, mostra una straordinaria sensibilità per la musica e per il ballo. Ogni occasione è buona per mettersi a ballare, dando spettacolo davanti a tutti. Non ha inibizioni.
Monica al pianoforte

Ha paura soltanto del buio e del vento. Per altro, intorno alla nostra casa, situata nella parte più elevata del paese, il vento tira spesso e con un certo impeto.
Fischia e urla emettendo sibili davvero inquietanti. In certe notti ventose, abbastanza frequenti in questo periodo, la bambina si sveglia di soprassalto e ci vuole al suo capezzale.
Per rasserenarla e farla dormire, e anche un po’ riscaldarla, cerchiamo di portarla nel lettone, ma lei vuol restare nel suo lettino.
Nel lettone viene con piacere solo per giocare, per fare le capriole. Per dormire, preferisce accucciarsi nella sua culla.
Simpatiche anche le sue “litigate” (finte) con zia Francesca che, talvolta, la richiama con tono deciso, autoritario, persino  urlando. Monica replica alzando anche lei la voce, gridando  cose incomprensibili.
Lei sa che è un gioco, uno scherzo, tuttavia reagisce alla vio-lenza delle parole, senza lasciarsi intimidire.
Una manifestazione di carattere che da queste parti è sempre d’apprezzare.
Bau bau si è addormentato…
9/4/86. Stamattina, dopo un’atroce agonia, è morto Cesar, il nostro cagnolino. Soprattutto, il bau bau a cui Monica era tanto affezionata. Giocava con lui, lo coccolava come se fos-se un bambino.
Aveva tre mesi appena. Era venuto su bene. Gli avevamo costruito anche la cuccia giù in cortile. Insomma, aveva tutto il necessario per la vita di un cane: casa, famiglia e tanto cibo. Nonostante ciò,  è morto, improvvisamente.
Non riusciamo a capirne la causa. Sarà stata qualche malattia (tipo vermi o altro) oppure sarà stato avvelenato? 
Ieri sera, perdeva sangue dall’ano, ma non emetteva un guai-to, un lamento. Tutti dissero che era finito, che gli restavano poche ore di vita. Lo abbiamo accucciato sopra un letto di paglia per farlo morire più comodo, tranquillo.
Ricordo i suoi occhi languidi, la sua rassegnazione alla morte. Jolikè ha pianto a dirotto.
Ora c’è il problema di comunicare a Monica la ferale notizia.
La bambina ne avrebbe sofferto tantissimo. Il cagnolino era uno dei suoi pochi affetti che la morte le strappava, crudel-mente.
Le diciamo che “Bau, bau si è addormentato in un lungo sonno dal quale non si sveglierà più e mentre dorme non bisogna disturbarlo”.
Ogni tanto, Monica ci avverte:“Bau, bau, do, do, ssst, ssst…”
Si porta il ditino al naso per raccomandarci di fare silenzio e non disturbare Cesar dormiente.
La solidarietà del paese
2/5/86. Che vergogna! Da più di un mese non scrivo di Monica. Eppure ci sarebbero state tante cose da annotare. Ormai è “grande”. Ho cominciato a chiamarla “la ragazza”. Il suo vocabolario continua ad arricchirsi di nuove parole. Ora tende a comporre le frasi. Saltando i verbi, però.
Papà passi” che vorrebbe dire “papà facciamo due passi”. Oppure “papà pau punf”ossia “papà giochiamo con la palla”.
Soprattutto, quando è al telefono si scatena. Parla senza fer-marsi, fa lunghi discorsi che francamente non capisco. Bellissimo questo dialogo fra chi non sa parlare e chi non sa capire!
La bambina ha acquisito l’importanza del linguaggio come principale mezzo di comunicazione, ma non possiede gli stru-menti idonei (le parole) per comunicare correttamente.
Tuttavia, noi tutti continuiamo a parlarle normalmente.
Quasi a volerla “riempire” di parole e di frasi che andranno ad ampliare il suo vocabolario.
Non sono parole inutili. Prima o poi, si sbloccherà e le userà.  
“Stu problema è comu u mustu cu lu vinu”- dice mio padre- Se nella botte ci metti il mosto avrai il vino. E così sono l’addrevi, i carusi…Si c’insigni qualcosa poi te la rende-ranno…”
L’insistenza, quasi nervosa, della bambina a voler parlare, il suo ciarlare, lascia ben sperare. Fra non molto potrebbe sbloccarsi ed esprimersi in una lingua più vicina agli umani.
Aspetto, con ansia, questo momento per fare con lei lunghe chiacchierate.
Jolikè continua a parlarle anche in ungherese. Noto che la bambina comincia a capire, e a ripetere, qualcosa di quella lingua astrale che… evoca gli afflati delle sterminate praterie intorno ai monti Altai.
Purtroppo, in questo periodo, non ho molto tempo da dedi-carle. Ogni volta che torno a casa è una gioia immensa per me e per la bambina.
Se qualcuno, per strada, le chiede “Monica, dov’è papà”, lei risponde “vuum, vuum” (facendo segno d’imbracciare il vo-lante) e poi aggiunge “dra dra”. Traduzione: papà ha preso l’auto e se ne andato là, lontano.
Probabilmente, la bambina di me si sarà fatta l’idea di uno che arriva e riparte continuamente e sempre in auto.

§ Nel paese tutti le vogliono bene, credo sinceramente. Dalle espressioni degli anziani e anche dei più giovani si coglie un senso di vera solidarietà, di gioia per una bambina sottratta a un triste destino. Un sentimento raro di letizia, di umanità e di solidarietà. Come se fosse la figlia di tutti. Speriamo che tutto ciò duri nel tempo.
Di notte, continua a dormire disordinatamente. Mostra una certa intolleranza verso le coperte. Si scopre spesso e Jolikè è costretta ad alzarsi per coprirla. Si rifiuta di dormire con noi nel lettone. Forse, non ha tutti i torti.
Quando dorme, è un amore. Talvolta, mi fermo ad ammirarla. Dorme con grazia nella penombra dell’abatjour; il suo visino splende di una luce morbida e intensa, come in una tela di pittori fiamminghi.
Nella culla

Si agita soltanto quando ode il vento ululare come una belva ferita.
Quando arriva il vento, lei corre ad aggrapparsi alle nostre gambe, gridando, terrorizzata, “uhh, uhh, uhh” come volesse imitare il misterioso sibilo.
La turba anche il continuo latrare notturno del cane di zia Filomena, nostra vicina di casa.
L’altra notte si svegliò spaventata e chiamò aiuto: “papà”, “mamma”. Si attaccò al petto e ripeteva “bau, bau”.
Per farla riaddormentare le ho tenuto la manina e le ho rac-contato una favoletta improvvisata e a lieto fine. Soprattutto in questi frangenti, desidera sentirsi protetta.


Monica gioca col “fango elementare”
15 maggio 1986. Dopo dieci giorni, sono rientrato a Roma da un giro elettorale in Svizzera e in Belgio. Monica ha molto avvertito la mia assenza, questa volta più prolungata del solito.
Jolikè mi ha detto che la bambina ha preso una mia fotografia e si è messa a parlare con “papà”, a raccontare le sue piccole avventure della giornata, le cose e la gente che aveva visto.
Dall’aeroporto di Fiumicino, telefonai a Jolikè per dirle che avrei preso il volo per Palermo per rientrare in nottata.
Monica, che era nei paraggi, tirò la gonna alla mamma per farsi passare il magico apparecchio e parlare con papà. Jolikè non glielo passò subito come richiesto e Monica scoppiò in un pianto disperato che non riuscii a placare nemmeno dopo trentacinque scatti in interurbana.
Un pianto straziante, intercalato da parole incomprensibili, da cui riuscii a cogliere la parola “papà”.
All’aeroporto di Punta Raisi trovai la sorpresa di una panna all’auto. Pensai di dormire a Palermo e l’indomani far ripa-rare il guasto e quindi partire per casa.
Il pianto di Monica mi fece accantonare il problema del-l’auto. Presi il treno e arrivai intra (a casa) dopo mezzanotte.
La bambina dormiva placidamente nella culla. Non volli svegliarla. La mattina dopo, alle 7, 30  come il solito, Monica si destò e scoprì ch’ero nel lettone a dormire.
Prese a chiamarmi finché non mi svegliai. Un po’ stonato, mi alzai e corsi a prenderla dal suo lettino e ci abbracciammo.
Sarà ché mi vede poco o perché con me è sempre divertimento, fatto sta che la bambina è molto attaccata a me; la qualcosa mi procura un piacere immenso.
Decido di passare con lei l’intera giornata. Verso le 10, uscia-mo a fare “due passi” per le strade.
Monica indossa i pantaloncini rossi che le ho comprato l’altro giorno a Basilea.
E’ molto contenta e li mostra a tutti, dicendo “papà”ossia me li ha portati papà. Il nostro viaggio (“dri dri”) prosegue lentamente per le strette vie del paese, per la piazza grande.
Nei giorni scorsi, ha avuto gli “orecchioni”, ma ormai è quasi del tutto guarita. Ha solo la gota sinistra un po’ rigonfia. Le domando dove ha la “bubù” (la malattia) e m' indica col ditino sotto l’orecchio.
Tornati a casa, Monica mi fa “papà pa…”  ossia chiede di giocare con la palla. La porto nella piazzetta davanti casa e giochiamo con la palla colorata.
L’acchiappa farfalle

Là vicino c’è la fontanella e Monica mi dice “papà bua” (ossia voglio bere). Prendo un bicchiere di plastica e le mostro come riempirlo.
L’intento è di farle acquisire una certa capacità di auto approvvigionamento.
Infatti, apprende subito la tecnica, vuol tenere in mano il bicchiere sotto il filo liquido e si fa una gran bevuta d’acqua fresca che viene dalla sorgente del Voltano, dalle placide montagne della Quisquina.
Beve più volte non perché abbia sete, ma per il gusto di riempire il bicchiere. Il gioco le è piaciuto, perciò a fatica riesco a strapparla dalla fontanella.
Alla bambina piace giocare con lo “sterro” (polveri e terra) che abbonda sulla piazzola antistante il “recipiente”,  l’edifi-cio destinato a riserva idrica del paese.
La lascio giocare liberamente, anche a rischio di sporcarsi il vestitino nuovo.
Affonda le manine nella polvere e ne lancia un pugno per aria creando una nuvoletta biancastra. Poi mi fa segno di volere toccare il filo d’acqua e il fango sottostante.
Mi tira verso la poltiglia come se subisse il richiamo degli elementi primordiali che qui ancora persistono nella loro integrità chimica.
In realtà, è attratta dalle anatre di zia Pippina “surda”che guazzano nei pressi della fontana.
Le vuole toccare, prendere. Il gioco è creativo, ma il panta-loncino da rosso è diventato a strisce rossonere.
Niente ci fa: sono i colori del Milan, la mia squadra preferita. Una mutazione cromatica che Jolikè sicuramente bollerà con una solenne ramanzina.
Monica è contenta, vorrebbe continuare a invischiarsi nel fango, a inseguire le anatre ancheggianti.
Osservo la scena e penso a quanto ci sarebbe da imparare da questo quadretto un po’ naif che rispecchia la natura, la bene-fica realtà del Pianeta.
Monica ha scoperto lo “sterro”, è attratta da questo impasto primordiale che J. L. Borges chiama “fango elementare”, che qui, dove non è arrivato l’asfalto annientatore, ancora abbon-da.
L’acqua, la terra, il fango, le anatre, le capre, gli asini, le vacche e gli uccelli, gli uomini, le donne, i bambini sono tutti riuniti in questo borgo, come nell’arca della salvezza, in attesa del diluvio.
E la sera lo spettacolo degli uccelli che, a  migliaia, rientrano a dormire sugli alberi, sui fianchi della grande madre roccia che da millenni da ricetto a uomini e bestie, a fiori ormai rarissimi, sopravvissuti ai veleni della chimica fine.
Qui, ancora vediamo gli uccelli, viviamo con loro in simbio-si. Li osserviamo volare e cantare in libertà, amoreggiare, an-dare e venire dal nido, cibare i loro piccoli, emigrare e ritor-nare da continenti lontani.
Con Monica non ci perdiamo il canto melodioso, struggente della cinciallegra (“pispisinu”) quando, raramente, ci viene a trovare.
L’uccello (“anceddru”, in siciliano) è ancora sinonimo di libertà, di spensieratezza. Da anceddru deriva “anciddriari” un verbo fascinoso che solo pochi eletti possono declinare.
Non vuol dire, infatti, uccellare ossia dare la caccia agli uc-celli, ma vivere liberi come gli uccelli, spaziare, spensierati, nelle praterie del piacere fisico e mentale.
E noi che qui di libertà ne abbiamo solo lo stretto necessario, a volte, osservando gli uccelli, ci vien voglia di prenderli a modello. Ma, non abbiamo le ali per volare.
Insomma, gli uccelli vivono con noi, sono a portata di mano. Perché tenerli in gabbia?
In questa specie di colonia avicola, c’è un “carcarazzu” (gazza) col quale sono entrato in confidenza.
Volteggia sempre nei paraggi, fra la casa e la roccia.
Mi sta simpatico e, senza saperne il sesso, gli ho imposto il nome di “Vicenzu”.
Basta mostrargli una briciola di pane o qualche seme di gira-sole per vederlo calare in picchiata a beccare, anche dalle  mani.
Con Vicenzu siamo amici, anche se il suo istinto è sempre un po’ ladronesco come tutti quelli della sua razza. L’altro gior-no si è beccato un orecchino. Chissà dove l’avrà portato?
Siamo a maggio, il mese mariano.
Oltre la villetta del Voltano, si ode il coro delle pie donne che cantano le laudi alla Madonna intorno ad un altare montato davanti la casa di Gertrude.
Le voci non sono più fresche e intonate, ma il canto ci giunge sempre gradevole.
Sopra la testa di Monica vola un gruppo di farfalle divertite. La bambina non se ne accorge perché è tutta presa a giocare con lo sterro.
Gliele faccio notare e lei ne resta ammirata. Forse, è la prima volta che vede le farfalle volare in gruppo, così belle, così variopinte, così gaie.
Abbandona lo sterro e si alza per prenderle. Invano.
Acchiappare le farfalle: sarà questo uno dei suoi nuovi giochi preferiti.
Le svelo il nome di queste giulive visitatrici che, per lei, scandisco: far- fal - le, far – fal – li - ne.
Lei comincia a chiamarle “fa, fa”, ma quelle vanno per la loro strada, alla ricerca dei fiori più belli.
Si posano sui gerani rossi e viola che scendono, a cascata, dalla parete del nostro giardino, intrecciandosi con le “pale” spinose dei vecchi fichidindia.
Sopra i gerani, il nespolo, alto e solenne come una ballerina di flamenco, stracarico di grappoli dorati.
Un piccolo mondo di delizie, un incanto di cose semplici che non si possono acquisire col denaro ma solo col buon gusto.  
Intanto, Monica ha smesso d’inseguire le farfalle ed è intenta a imbucare pietruzze fra le sbarre della caditoia per ascoltarne il tintinnio metallico.
Ormai è ora di tornare a casa dove ci attende Jolikè con la cena e con una ramanzina.


Ad Hanna Gheddafi morta sotto una bomba Usa
17/5/86. Monica è in fermento per la passeggiata serotina. Mi tira fuori dalla porta, ma dobbiamo aspettare Jolikè che non è pronta.
L’aspettiamo affacciati all’inferriata che da sulla piazza del Calvario. La serata è chiara e tiepida, il cielo pieno di stelle.
Monica guarda in alto e col ditino m’indica “nu, nu”.
Alzo gli occhi e scopro, sopra di noi, una fetta di luna bianca.
Capisco cosa volesse dirmi col suo “nu, nu”: la luna.
“Sì, questa è la nostra luna, la più bella al mondo.”- feci io, come per premiare il suo spirito indagatore.

La luna a “Milione”

Effettivamente, quando sono in viaggio, guardo sempre la luna degli altri e la confronto con la nostra di Joppolo, della Sicilia.
Sarà un' illusione ottica o un eccesso di patriottismo, ma a me la luna siciliana, specie quando è piena, appare la più grande, la più chiara, la più sorridente.
Luna beata, lontana dal nostro mondo, caotico e ingiusto, an-che se ad esso incatenata.
Col tempo, ho imparato ad amare, a riverire la luna. M’incan-ta e mi spaventa, al tempo stesso.
Certe notti, quando la vedo spuntare, immensa, da dietro la montagna di Comitini, mi fermo a osservarla salire, fino a quando non raggiunge il centro del “cratere” ossia la corona di colline che cinge il paese.
Un po’ adoro la luna, come i sudditi di Bilqis, la leggendaria  regina di Saba.
Nel pantheon astrale degli antichi sabei la luna, Illumquh, era  il dio principale e lo sposo del (la) sole, sua consorte.
Un rovesciamento di ruoli celesti che evoca lo Yemen favo-loso, mitico che, talvolta, ritrovo nel sogno, nella notte malin-conica di questa nostra Isola inquieta che sempre risente della sua fatale arabità.
Una notte, scendendo da Caltabellotta verso Agrigento, all’al-tezza del castello Diana di Ribera, mi apparve una luna im-mensa, placida e ridente, che illuminava i sottostanti giardini di fragole e d’aranci.
Un inebriante profumo di zagara saliva dalla valle del Ver-dura, verso la luna. Era passata mezzanotte, fermai  l’auto e mi sedetti per terra, in adorazione. 
Mentre fantasticavo su queste cose, Monica sorrideva e conti-nuava a ripetere: “papà, nu, nu
Raccontai a Jolikè della scoperta di Monica. In realtà, la sco-perta era avvenuta la sera prima. La bambina ne rimase colpi-ta. Per tutta la serata cercò la luna che nel frattempo si era dileguata.
Andammo a passeggio per le vie fino alla piazza “picciola” nel quartiere storico. Monica è uno splendore di bellezza.
Mentre scrivo quest' appunto penso al dolore di Muammar Gheddafi che, l’altro giorno, ha perduto la figlia di 18 mesi sotto i  bombardamenti Usa di Tripoli. Si chiamava Hanna e aveva la stessa età di Monica e come Monica era figlia adottiva.
Povera, piccola Hanna! Una vita innocente spezzata sul nascere da una volontà criminale che pretende di agire in nome della civiltà. Forse, scriverò a Gheddafi una lettera di condoglianze, di solidarietà e gli allegherò una foto di Monica.

26/5/86. Oggi ho comprato un’auto nuova di zecca: una Lancia prisma 1.500. Per inaugurarla (qui si dice“sbagnarla”) chiamai Monica a madrina.
Facciamo un giretto per il paese e nelle strade intorno, verso la campagna di Montefamoso.
La bambina sembra elettrizzata, saluta tutti quelli che incontra per la via, anche i tacchini di zia Rosa alla Fonta-nazza, imita la mia guida muovendo le manine come se stesse impugnando uno sterzo.
Questa volta, vuole sedersi davanti e indossare la cintura di sicurezza. A mia madre che sta per salire fa segno di acco-modarsi sul sedile posteriore.
Monica è molto attaccata a me. Quando, per strada, incontria-mo qualcuno, lei fa “papà cà” (per dire papà è qua con me). Jolikè sostiene che la stia viziando. Sarà vero, ma non riesco a dirle di no. Monica, per me, è quasi tutto. Prevedo che, fra non molto, potrebbe divenire “il tutto”.


Capitolo quinto




Budapest, al caffè New York


La notte dei segni
8 giugno 1986. Questo pomeriggio mi sono svegliato in sogno. Un sogno tenerissimo e crudele. Era notte fonda e nella strada illuminata vedo salire una giovane donna trafe-lata con un bimbo in braccio.
Di primo acchito, mi parve una zingara come tante che girovagano nei nostri paesi e città. Anche se mi parve strano a quell’ora della notte.
Sbarrai la porta d’ingresso innescando l’intera serratura e mi ritirai nelle stanze interne, sperando che la donna passasse oltre. Quando… udii uno, due, tre colpi alla porta.
Restai atterrito, pur confidando nella resistenza della serra-tura antiscasso di recente applicata.
La porta, invece, si aprì lentamente e senza alcuna forzatura.
Imprecai contro il falegname che aveva garantito il massimo di sicurezza. Decisi, comunque, di affrontare la situazione. Strappai dalla parete il bastone polacco, comprato a Zako-pane, e andai verso il soggiorno, all’incontro della misteriosa visitante.
Con somma meraviglia, vidi in piedi una creatura dal profilo nordico, dentro una tunica azzurra lunga fino ai piedi.
In un braccio teneva un borsone, nell’altro un bambino.
Gettai il bastone e la invitai ad accomodarsi in poltrona. Osservai attentamente la donna e il bambino.
Provai vergogna per il cattivo pensiero. Le domandai chi fosse, ma lei non rispose. Fece una smorfia, un po’ seccata, e mi allungò un album da disegno.
Nel primo foglio c’era disegnato il suo volto bello e lentig-ginoso, colori intensi e linee marcate, un sorriso triste appena accennato. Confrontai i suoi due volti e notai che c’era una corrispondenza quasi perfetta.
Mi fece cenno di sfogliare ancora. Apparve il visino di un bimbetto un po’ emaciato e, di lato, ancora lei col suo sorriso amaro.
Continuai a parlarle, a domandarle e lei a non rispondere.
Chi erano? Da dove venivano? Perché quella visita inattesa? Perché da me e a quell’ora?
La donna mi porse un “notes”. Lo aprii. Ogni foglio era diviso da una linea mediana verticale.
Era quella la notte dei segni.
A sinistra un testo in inglese, a destra la traduzione in ita-liano.
Lessi e appresi che quella ragazza era muta e disperata. Non era sordomuta, ma solo muta. Girava il mondo portandosi dietro il suo bambino che non riusciva più a sfamare. Domandava aiuto. Alla fine del foglio c’era, in stampatello, la preghiera di prendersi il bambino, per salvarlo.
Monica e Jolikè dormivano nella stanza da letto e non si erano accorte della visita.
Restai perplesso davanti alla ragazza che con gli occhi m’im-plorava. Quando lei tirò fuori dal borsone una collana d’am-bra nera e mi fece cenno di accettarla. Credo per invogliarmi a prendere il bambino. Rifiutai con dolcezza la collana.
Lei ne restò delusa. Ero confuso, incerto, desideravo aiutare quella donna e il suo bambino.
A questo punto del sogno, decisi di svegliare Jolikè per valu-tare insieme la situazione...
In realtà, mi svegliai dal sonno e il sogno svanì.
A-li-li-là
18 giugno 1986. Il lessico di Monica è in costante progresso. La bambina parla fluidamente, molti termini sono comprensibili.
All’inizio la mamma era “ta, ta” poi “ma, mma”, la luna era “nu, nu” , Lucrezia era “a-lì- lì- là” ora la chiama “ lù, lù”.
Il grillo lo chiama “lillo”. La cosa non sarà gradita a mio fratello Lillo che non ci tiene a essere, in qualche modo, assi-milato a un grillo.
Alcune parole comincia a pronunciarle nelle due, delle tre, lingue di casa: italiano e ungherese. Per esempio: no e nem.
Per controbilanciare l’iniziativa del fronte magiaro, mia madre e mia zia Francesca continuano a insegnarle parole e motti in siciliano (la terza lingua), soprattutto alcune tratte dal frasario religioso:“Dè, dè” (dio), “bammineddru Gesù”, ecc.
In famiglia c’è come una sana competizione per inculcare alla bambina parole e gesti della vita quotidiana, appartenenti a culture così diverse e lontane, con le quali dovrà convivere.
Tutto ciò mi sembra giusto e lascio fare.
Jolikè si è spinta anche nel campo della politica. Le ha inse-gnato a dire “Natta” (Alessandro).
In fondo, Natta è facile a dirsi. Qualche problema, forse, l’avrebbe avuto se avesse dovuto pronunciare il nome di “Berlinguer”, il nostro caro compagno Enrico, precocemente scomparso.
Se domandi a Monica: “Come si chiama il segretario del Partito?” lei risponde, agitando il pugno chiuso, con la sua vocina scherzosa “Na…tta, Na…ttaa”.
La bambina continua a fare ottime imitazioni. Riesce a cogliere gli aspetti più caricaturali di taluni personaggi visti in televisione.
L’altra sera, restò colpita dal curioso gesticolare dell’on. Totò Sciangula a Teleacras.
Parlava a gesti, puntava il dito contro nessuno, beveva di continuo. Accalorato o aveva mangiato salato?
Basta chiedere a Monica: “Come fa Sciangula?”
Lei agita il ditino e dice “bua, bua” (ossia beve).
Un’altra parola che mi piace sentirle pronunciare è
babuluci”, cioè babbaluci (siciliano) ovverosia lumaca.
Invece di bimbo dice “mimmo”. L’altro giorno ero a telefono con Mimmo Barrile della segreteria della Federazione Pci e lo salutai “ciao Mimmo”.
Monica, che era nei pressi, si convinse che stessi parlando con qualche bambino, mi tirò la giacca e mi fece segno di volere parlare anche lei con “mimmo”, “papà.. mimmo”.
Capii, ma non potevo passarle l’apparecchio. Sbottò in un pianto nervoso, convinta che non la volessi fare parlare con il bimbo.
L’altra sera la portammo in pizzeria, alle “Dune” di San Leone. Gli odori che il forno sprigionava l’avranno inebriata, tanto da spazientirsi per l’attesa.
Ogni tanto, ricordava al cameriere “zio, zio pizza, ccà”.
Ne assaggiò un pezzetto e le piacque assai.
Ieri pomeriggio siamo andati in campagna a raccogliere le fave secche per l’inverno. Monica era tutta infervorata e desiderava partecipare al lavoro insieme a mia madre, mio padre e a Jolikè.
Monica  nella campagna dei nonni a Montefamoso

In realtà, creava soltanto un po’ di confusione, a mio padre non molto gradita, il quale, da vecchio contadino, voleva fini-re il lavoro senza impicci.
Tuttavia, non osando arrabbiarsi con la bambina e con Jolikè che la incoraggiava a raccogliere fave, se la prese con mia madre che- a suo dire- non faceva nulla per tenere Monica lontana dal “lavoro”.

28 luglio 1986. In questi quaranta giorni, non ho preso ap-punti poiché mi sono imposto un periodo di fermo biologico mentale.
Sono stato molto teso a causa dell’andamento degli eventi politici. In questi casi, non potendo reagire (per carità di par-tito) preferisco autocensurarmi, staccare la spina, fare soltan-to le cose essenziali.
Tornando a Monica, rilevo un dato importante della sua evo-luzione espressiva.
La bambina sembra essersi sbloccata e comincia a parlare in modo sciolto, chiaro.
Ormai compone le frasi, ancora senza verbi, ma con sostanti-vi, aggettivi e qualche avverbio più o meno appropriati, intel-ligibili.
Esempio: “foco mani mai”, traduzione:“mai toccare il fuoco con le mani”.
Oppure: “Moka uva ccà”: traduzione“Monica uva in bocca”.
Nel riferirsi a se stessa, la bambina usa la terza persona. Una prerogativa concessa solo agli infanti e ai grandi della storia.
Mentre scrivo, salgono dalla strada voci esagitate. E’ zia Lilla Batariana che sta imprecando contro la vicina che avrebbe voluto aprire un balcone sulla parete di sua pertinenza.
La qualcosa non è consentita dalla legge e difatti è stata impedita. Solo che la vicina, per dispetto, ha ordinato ai muratori di lasciare sporgenti i ferri ormai superflui.  
Da qui il sospetto che accende il conflitto che sfocerà in una classica “vaniddrata” condita di minacce e gastime (male-dizioni) fra le due donne: una barricata in casa e l’altra che impreca nella via.
Sento intervenire Rosalia, un’altra vicina, per placare gli animi, ma inconsapevolmente li aizza:
”Zia Lì lasci perdiri. Queste cose di masculi sunnu. Stasira ca veni so maritu si l’arraggiuna cu so maritu”.
La vecchia replica ancora più inviperita:“ Me maritu! Chid-dru babbu (babbeo) è. No, nun mi nni vaju si prima nun taglia li ferri.”
La tensione sale. Arrivano i carabinieri, ma nemmeno loro riescono a sedare la controversia.
Zia Lilla, prima di ritirarsi sotto braccio a un appuntato, lancia un’ultima gastima: “Si nun ci po’ la leggi, u Signuri ci havi a pensari” 
Episodi minimi ma frequenti che riporto come elementi del contesto nel quale Monica dovrà crescere e vivere.
Monica al luna park
2 agosto 1986. Siamo a San Leone, al piccolo luna park.
Monica va pazza per la “giotra” (giostra), ma quando vide correre le macchinine elettriche, guidate da bambini, senza esitare optò per queste.
Mi tirò più volte la camicia, indicandomi quelle diavolerie.
Alla sua età non era possibile montarvi da sola. Così fui costretto a salirci anch’io. La tenevo in  braccio e schiacciavo lentamente l’acceleratore, mentre lei guidava ossia mano-vrava, a vanvera, il volante.
Qualcuno che mi aveva riconosciuto se la rideva di sottecchi: non capita tutti giorni vedere un  onorevole alla guida di una macchinetta per bambini.    
Francamente, non mi curai dei sorrisini ironici e continuai a girare con Monica felice di guidare la sua prima automobile.
La bambina era come gasata: gridava, sprizzava gioia da tutti i pori, non riusciva a star ferma, sterzava a destra e a manca.
Il problema sorse alla fine del terzo gettone: non voleva staccarsi dal volante.
Per farla scendere, Jolikè le promise che saremmo andati a vedere le barche sul mare.
Monica era contenta, felicissima per quell' avventura. In fondo, anch’io mi ero divertito tanto.
A trentotto anni suonati, era questa la prima volta che andavo sulle macchinine. Ai tempi nostri non c’erano e quando arri-varono ero fuori tempo massimo per salirvi.
Nella darsena sono ancorate una fila di barche colorate che  ondeggiano lievemente sulle placide acque del porticciolo.
Un pescatore, da poco rientrato, armeggia per sistemare gli attrezzi e le cassette di pescato.
Monica, forse pensando che anche la barca facesse parte del luna-park e che quell’uomo stesse giocando, mi fece segno di volervi salire. Impossibile, per svariate ragioni.
La dirottai verso il carrettino del venditore di noccioline. Jolikè gliene comprò un sacchetto.
Ne mangiò alcune e poi prese a distribuirle in parti uguali: una a papà, una alla mamma, una a Monica. Poi daccapo, invertendo l’ordine di distribuzione.
A termine dell’effervescente serata è un po’ stanca e si addormentò subito. Ormai, sull’auto non ha più problemi.
Giufà nel castello incantato
13 agosto 1986. Monica progredisce a vista d’occhio, in tutti i sensi. E’ sempre più bella, dolce e un po’ paffutella.
Sorride a tutti e scherza. E’ una giocherellona. Fraseggia con una certa logica. Se non intendiamo o fraintendiamo qualche parola la ripete, scandendola lentamente.
La sera quando va a letto mi chiede di raccontarle una favoletta per addormentarsi.
Per non spaventarla, evito quella di “Cappuccetto rosso”.
Mi sono sempre chiesto: che razza di sogni può fare una bambina dopo essersi sorbito un “horror” tanto truce quanto  assurdo?
In genere, per Monica invento storielle semplici di animali a lei familiari. E, quasi, sempre a lieto fine. Cerco di coinvol-gerla il più possibile nel racconto utilizzando figure e luoghi a lei noti. Talvolta, accostando, come nel caso che segue, a una regina svedese personaggi della favolistica araba.
Lei è tutta orecchie. Fino a quando il sonno non la vince e si addormenta, talvolta, prima di finire la storiella. Meglio così, perché non sempre mi è facile trovare un finale convincente.
Una favoletta improvvisata, a sfondo morale:


Giufà nel castello incantato”
“Una mattina, Giufà e suo cugino Alì Babà giunsero a scuola in ritardo e trovarono il portone chiuso.
Nessuno venne ad aprire e così restarono fuori.
Tutto, per  colpa di Giufà che si era alzato tardi.
Alì Babà, che era un bravo bambino, scoppiò a piangere: ”Ora, la mia mamma si arrabbierà e mi punirà”
Giufà, che era un bambino monello, invece rideva e lo incoraggiò: ”Non ti preoccupare, inventeremo una bella scusa e la tua mamma non ti punirà”
Alì Babà, però, continuava a piangere. A questo punto a Giufà venne un’idea.
“Senti che facciamo! Invece di tornare a casa, ce ne andremo nel bosco a giocare e torneremo a casa per il pranzo. Come sempre… Le nostre mamme non si accorgeranno di nulla…”
“No, io ho paura. E poi cosa diremo domani alla maestra?”- rispose, singhiozzando, Alì Babà.
“Ma non ti preoccupare. Inventeremo una scusa anche per lei… diremo che siamo rimasti a casa per il raffreddore”
Alì Babà era indeciso: a casa non voleva tornare perché temeva l’ira della madre e nel bosco non voleva andare per paura dei serpenti e del lupo cattivo.
“Non avere paura, nel bosco non c’è nessun pericolo. Io ci sono stato tante volte! Su andiamo…”, l’esortò Giufà.
Giufà era un bugiardo, perché non era mai stato,  da solo, nel bosco.
Per questo il naso gli si allungò come quello di Pinocchio.
Cammina, cammina e finalmente giunsero ai piedi di una montagna alberata.
“Ecco il bosco- disse Giufà- entriamo”
Il bosco era grande e fitto, il sole entrava a malapena, la luce era debole, tremula.
Salirono fin sulla cima della montagna e videro, in un' ampia radura, un castello cintato di mura e di torri, con al centro una grande cupola d’oro, come quella della moschea di Al-Quds.
Un castello più grande di quello di Joppolo – aggiunsi, per dare a Monica l’idea di un castello.
Di fronte a quella visione i due cugini si bloccarono.
Alì Babà non volle fare un passo avanti: “No, non vengo. Ho paura dei fantasmi che abitano nei castelli.”
”Va bene. Aspettami qui. Il tempo che io entri, veda e torni.” gli disse Giufà mentre varcava la soglia del portone spa-lancato. Nella gran corte vide tante cose bellissime: fiori multicolori sui quali si posavano le api in cerca di miele, farfalline e uccelli di ogni specie. 
Al centro, un giardino rigoglioso pieno d’alberi esotici, pro-venienti da ogni parte del mondo, carichi di frutti succulenti: arance, mandarini, mele, pere, melograni, papaya, cedri del Libano, e poi ananas, fichidindia nataline, zorbe, uva e tante, tante fragoline rosse.
Insomma, descrissi una sorta di giardino delle delizie con i frutti che più piacevano alla bambina.
In questo paradiso terrestre non c’erano quattro stagioni, ma una sola eterna primavera che creava una sorta di micro-clima, unico al mondo.
Giufà vi si addentrò e, con grande meraviglia, scoprì una fontana zampillante di miele purissimo, prodotto da milioni di api che corrono di fiore in fiore per alimentare la fontana,  annoverata fra le sette meraviglie del mondo.
Tornò indietro a chiamare il cugino :“Alì, Alì, vieni qua, cor-ri. Non ci sono fantasmi, ma solo tante cose bellissime.
E’ come il Paradiso. Su, vieni…”
Monica col pulcino

Si presero per mano e iniziarono l’esplorazione.
All’improvviso, dalla torre apparve una donna alta e bellissima, dentro una tunica gialla.
Uno splendore abbagliante che brillava come oro puro.
Per primo la vide Alì: “Guarda lassù, sembra la Madonna!”
“Aspetta che domandiamo”- fece Giufà, anch’egli impres-sionato dall’apparizione.
“Ah, Ah! Non fatemi ridere. No, non sono la Madonna, ma  Cristina di Svezia, regina di questa  montagna. Vi piace il mio castello?”
“Certo, non abbiamo mai visto tanta magnificenza, tanta abbondanza e varietà di frutti e, soprattutto, mai conosciuto una signora tutta d’oro”- rispose l’intraprendente Giufà.
“Non sono d’oro, ma di carne e di ossa come voi. Purtroppo, sono obbligata a vivere qui da sola. Questo è il mio regno e anche la mia prigione; da qui non posso uscire, fino allo fine dei giorni”
“Vorresti dire che non puoi andare in città?” domandò Alì.
 “Non posso fare un passo fuori del bosco. Resterei pietrificata, diventerei una statua…In un attimo, perderei tutto: ricchezza, potenza, bellezza, giovinezza e la stessa vita.
Sono vittima di un incantesimo fattomi dalla mia matrigna per impedirmi di vivere con mio padre nella sua nuova reggia in Danimarca. Sono ricca e potente, ma sola. Prigioniera.”
“Maestà, possiamo visitare il vostro giardino e anche il castello?” chiesero timidamente i due cugini.
“Certo che potete. Se lo desiderate, potete anche mangiare tutta la frutta che volete…”
Senza farselo dire due volte, i due cuginetti si riempirono le pance di fragole, di arance e di altre delizie che pendevano dai rami.
“Ora vi mostrerò l’interno del castello, i saloni e tutte le magnificenze contenute. E, se vi comporterete bene, ci sarà per voi una sorpresa finale che vi farà ricchi…”
Così parlò la regina mentre varcava la soglia del salone degli arazzi.
Alì Babà e Giufà la seguirono, impazienti di scoprire la sorpresa finale.
Nelle stanze c’erano le più grandi meraviglie dell’arte d’Oriente e d’Occidente che i due cugini guardavano a bocca aperta e con occhi sbarrati.
Cristina, sfavillante di bellezza, disse: “Ora vi mostrerò la camera del tesoro dove troverete la più grande sorpresa.   
Per entrarvi è  necessario pronunciare due volte la parola magica che solo io conosco. Vi troverete in un grande salone pieno d’oggetti d’oro, d’argento, d’avorio, di perle e di gioielli raffinati, di diamanti, di rubini, di monete d’oro coniate nei più grandi reami. Però, ricordate: potrete prendere solo il necessario per aiutare le vostre famiglie a vivere bene. Non di più! Avrete un minuto di tempo, sessanta secondi, per entrare, prendere e uscire. Un secondo dopo la porta si chiuderà e resterete imprigionati  dentro e presto  sarete trasformati in statue d’oro e andrete ad accrescere il mio tesoro... Perciò, ricordatevi, 60 secondi, non uno di più!”
I due si guardarono felici e sgomenti e le chiesero di aprire la porta. La regina pronunciò la parola magica.
“Abrahacalamiram,  Abrahacalamiram”
Si udì un cigolio sinistro, la pesante porta si aprì liberando un soffio di vento gelido li investì.
L’oro e l’argento illuminavano a giorno la camera, altri-menti buia. I due esitarono,Cristina li invogliò a entrare.
Una volta dentro, i due cugini ebbero l’imbarazzo della scelta. Arraffarono a destra e a manca. Chi un calice d’oro massiccio, chi una maschera d’oro e una collana di finissime perle d’Arabia, una spada tempestata di diamanti.
Con quello che avevano già preso, potevano campare ricchi e felici. Giufà però, non contento, si diresse verso i sacchi contenenti le  monete d’oro.
“No, lascia stare. Abbiamo preso già abbastanza e il tempo stringe. Usciamo…”, disse Alì al cugino.
“Abbiamo altri 4 secondi: ne prendo due pugni e andiamo via. Saremo ricchissimi…”
Non ebbe il tempo di affondare le mani nel sacco che il portone si richiuse, con loro  dentro, per sempre.
Bussarono alla porta, gridarono disperati. Implorarono la pietà della regina, ma quella rispose con una risata sadica, con una voce cavernosa,:”Ah, Ah, Ah! Anche voi siete cascati nel mio tranello. Io non sono la regina di Svezia, ma la terribile maga Stoppina che promette ricchezza e invece da morte. Siete stati ingordi, avete voluto prendere oltre il necessario. Non io, ma la vostra cupidigia vi ha  puniti. Ora sarete trasformati in statue d’oro e andrete ad accrescere il mio tesoro…Ah, ah, ah.”

§ In questi giorni, siamo andati al mare sulle belle spiagge del Lido Azzurro a Porto Empedocle e di “Giallonardo” a Siculiana.
Lei ha portato le sue ochette gialle per farle guazzare in quelle acque tiepide e cristalline.


Il vento non ha un letto per dormire
18/8. Oggi è domenica. Ci svegliamo con calma. Dopo la colazione, Monica mi chiede di andare a “dri dri”, ossia a spasso fuori.
Jolikè la veste con una camicia a quadri e una gonna jeans, le calze rosse e le scarpette nere e il cappellino di paglia, ele-gantissimo, che le avevo comprato lo scorso anno in quel negozietto per bambini in fondo a via della Vite, a Roma.
Fino ad oggi, non aveva potuto indossarlo poiché era troppo ampio per la sua testolina. Ora, le cade bene.
Monica e la zucca gigante

Così addobbata, Monica è un incanto di bambina. In fami-glia siamo felici e orgogliosi di lei.
Camminando per le strade, le persone si fermano ad am-mirarla. Parlano fra loro a bassa voce; sicuramente per commentare i progressi compiuti in così poco tempo.
In fondo, occuparsi di Monica è anche un loro diritto, poiché è un po’ anche figlia di questa comunità che l’ha accolta a braccia aperte.
Nel pomeriggio è voluta salire in terrazza a fare il “baglietto” (bagnetto) nella piscina di gomma.
C’era un gran caldo e l’acqua era tiepida e invitante. Stranamente, però, non volle restare immersa a lungo. Dopo pochi minuti, mi disse: papà do, do, là.
Capii che desiderava spostarsi nell’altra terrazza, quella più fresca che guarda a tramontana, per andare a giocare con i cuscini di piuma.
Qui c’era un’ombra fresca, ricreante che invitava alla medita-zione o a farsi una bella dormita.
Dissi a Monica: “A do, do”. Lei eseguì l’ordine, si stese sopra i cuscini e fece per dormire. Anch’io chiusi gli occhi.
Improvvisamente, mi si aggrappò forte, impaurita.
Le chiesi il motivo di tanta paura.
“Papà, fuu, fuuu!” rispose. Di nuovo la paura del vento. Cercai di calmarla “Non avere paura, non c’è vento! Dov’è il vento?”
In effetti, tirava una leggera brezza di maestrale per altro gra-devole, salutare.
Monica col ditino m’indicò, come prova, la ghirlanda di fiori del cappero che dolcemente frusciavano sulla parete della roccia.
Una carezza, un alito di vento che s’insinuava in quella cas-cata di fiori candidi e brillanti.
Ad agosto, sulla roccia non fiorisce nulla. Solo l’iris selvatico e il cappero che danno i fiori più belli e delicati.
“Là, là, fuu, fuuu, vento” tradusse per farmi capire e si strinse ancora più forte.
Fiore di cappero con ape

Cercai di spiegarle che non c’era d’aver paura di questo vento. Anzi, che era un refrigerio sentirlo arrivare.
Le dissi anche di parlare col vento per placarlo. In ogni caso, c’ero io a proteggerla.
La bambina prese a parlare col vento: “Vento do, do”
Il vento persisteva e lei passò dall’invito alla minaccia: “Ven-tu papà ammazza, oh!”; oppure “Moka non c’è, ammuccia papà”; “Ventu babbu”.
Il vento non rispondeva agli insulti della bambina, anzi inten-sificò il soffio e scosse le grandi foglie del nespolo, accuccia-to giù in cortile.
“Vento, do, do, casa tua! Papà dov’è la casa del vento?”
Avrei voluto rispondere nelle isole Lipari alla corte di Eolo o  nella Sardegna di “Canne al vento “ di Grazia Deledda, ma non mi parve il caso.
Le spiegai che il vento non ha casa, non ha un letto per dor-mire.
E’ come un cavallo pazzo, condannato a vagare in eterno nel cielo e per mare e per terra. Il vento non si ferma mai, si sposta in continuazione. Fischia per avvisare del suo arrivo. Il vento è buono, è un amico che ci porta le belle e le brutte notizie…da Paesi lontani.
Dopo cena, sedemmo Monica sul vasino, a forma di tartaru-ga, per fare la cacchina.
Attese un po’, si sforzò anche, ma senza esito. Si alzò e venne a trovarci in cucina: “Papà pipì no, cacca no”.
Probabilmente, non aveva stimoli. Ma quella era l’ora: e  doveva provvedere. L’ordine di Jolikè non ammetteva dero-ghe. Per invogliarla, trovai un diversivo.
Le diedi in mano un bambolotto di pezza e le dissi: “Fai la cacca insieme al pupo”.
Monica si ri-sedette. Dopo qualche minuto chiamò:
“Papà veni”
“Hai fatto la cacca?”
“Sci” (si) rispose.
“Brava Monica”
“Pupo cacca no” fece lei un po’ delusa.
Il pupo aveva disobbedito. Scoppiai in una grande risata e con questa sì chiuse la nostra bella giornata.
Il secondo compleanno di Monica
Questa sera grande riunione di famiglia per festeggiare il secondo compleanno di Monica.
Sono venuti anche Enza e Michele Errore, con Loredana e Massimo, e Totò Portella.
Sui tavoli pizze, dolci di mandorla preparati da Klari e da mia suocera, Ilona Szekely, spumante e una gran torta confezio-nata dal bar Costa con la scritta in cioccolato: “Buon com-pleanno Monica”.
Sopra brillavano due candeline dall’incerta fiamma.
Da una settimana, stiamo preparando la bambina a spegnere le candeline. Ora è arrivato il momento fatidico e deve spe-gnerle contornata da una ressa di parenti e di amici.
Monica le spense con un lungo soffio. Un po’ aiutata da Loredana e Massimo.
Seguirono applausi, baci e foto a volontà. Una festa semplice e bella, fatta in casa come tutte le cose buone della vita.
Compleanno di Monica

Monica si è divertita tanto assieme a Loredana e a Massi-mo: hanno ballato, cantato e tanto cicalato.
La bambina è divenuta una gran chiacchierona. Sembra avere scoperto il dono della parola. Ormai, si può dire che sa espri-mersi piuttosto bene o quasi.
E’ sempre molto affettuosa con noi e non desidera che sia turbata la pace familiare. Se capita qualche diverbio coniuga-le, lei implora:“Papà, la mamma no” o, viceversa, “Mamma, papà no”.
Spesso, il suo affetto si manifesta sotto forma di ansia pos-sessiva. Mamma e papà, tutti i parenti sono suoi, nel senso notarile del termine.
Se qualcuno, per scherzo, minaccia di prendersi papà o la mamma o anche la nonna, Lucrezia o zia Klari o altre persone della famiglia a lei care, sbotta a piangere e corre a stringersi al petto della persona minacciata di “rapimento”.
Gioca spesso con Carmelino, il figlio di Masi di Carminu di Giuannina di Masi, che sa ricambiare l’amicizia.
Monica non appena scorge “Canellino” esprime una gioia davvero incontenibile.
Monica, Carmelino e Nagymamà

Un altro passatempo sono gli animali che vede intorno alla casa. L’ultimo che ha scoperto è la rana che lei chiama in due modi: “beka” in ungherese e qualche volta “giurana” in sici-liano.
Così, la furbetta, accontenta entrambi.
Da noi, le rane escono la sera: camminano, saltellano, si bagnano, amoreggiano, e gracidano per l’intera  notte.
Sovente le bestioline sono le vittime prelibate di giovinastri che si divertono a farle soffrire, anche a  ucciderle.
Per risparmiarle da questa violenza gratuita, si ricorda ai male intenzionati che le “ giurane portano l’ogliu o Signuri”  e, dunque, chi le uccide commette un’imperdonabile empietà.
In casi estremi, si ricorre alla minaccia più grave, diretta:
Se ammazzi sta giurana, ci siccanu li minni a to mà.”
(Se uccidi questa rana, seccheranno le mammelle a tua madre) 
Una minaccia apocalittica che penderà sulla discendenza, sui figli neonati e su quelli che verranno.
Un castigo terribile poiché col seno secco una madre non potrà allattare, svezzare la prole. 
Nonostante ciò, le povere rane soccombono lo stesso.
Monica sta seguendo una rana saltellante intorno alla fonta-nella. Vedendo avvicinare la bambina, la rana preferisce allontanarsi di gran lena.
La bambina la insegue e la chiama: “beka, beka, ccà…”
“Oibò! Con chi ce l’ha questa bimbetta?”,  avrà pensato la rana che prima d’ora nessuno aveva chiamato “beka”.
Non conoscendo l’ungherese, la bestiolina temette che la stesse minacciando e scomparve in una buca.
Il gioco è bello, ma si sono fatte le undici di sera.
E’ ora di andare a letto. La notte è tiepida, invitante; lei vorrebbe continuare a rincorrere la rana spaventata o, forse, anch’essa divertita.
L’afferro e me la carico in groppa e la trasporto a casa. Vorrebbe stare sveglia e giocare nel letto con noi. Cerco di convincerla che è veramente tardi e deve andare a do, do.
Per tutta risposta, lei ci abbraccia e sorride felice. Forse, è un tentativo di corruzione per ottenere una deroga sull’orario.
Taglio corto, le dico “Ora dormi. Papà deve andare lassù, nella stanzetta, a lavorare” Monica conosce la stanzetta e sa che ci vado a scrivere, con la penna.
Questa volta si arrabbia: “Papà, penna no”, “Penna basta!”
E’ una dolce protesta per chiedere di restare con lei a giocare nel lettone. Le spiego che devo lavorare nella stanzetta per fare mangiare lei e la famiglia. Forse qualcosa capisce, poi-ché diventa tutta riflessiva e mi autorizza “papà lavoiare”.
Per addormentarsi, vuole che Jolikè le canti la solita canzon-cina ungherese “Este”.

§.  Ormai, in casa nostra ogni occasione è buona per far festa. Questa sera abbiamo brindato alla “nascita” ufficiale di Monica Nicoletta Spataro.
Non si tratta della sua terza nascita, ma del decreto di ado-zione definitiva della bambina, notificatoci ieri dal Tribunale dei minorenni di Palermo.
Domani lo porterò all’ufficio anagrafe del Comune dove sarà registrata con questo nome.
Si tratta di un altro passaggio burocratico, di un nuovo bollo, che conferma, in via definitiva, che Monica è nostra figlia, a tutti gli effetti di legge. E guai a chi ce la tocca!
Monica con Lillo e Klari
La bambina è contenta della festa; ogni tanto batte le manine e grida “bavi, bavi”, “aguri”.
Noto che Monica usa prevalentemente il siciliano, anzi la parlata agrigentina. A seguire vengono l’italiano e il magiaro.
La graduatoria non è casuale, ma risponde a una certa idea che abbiamo noi dell’integrazione culturale.
Quasi a volerle tracciare un percorso di vita: Sicilia, Italia, Ungheria, Mondo. Buona fortuna!
Per altro, quando si esprime in siciliano, è davvero dolcis-sima. Ogni tanto dice tutta contenta:“Papà Moka sapi ungheresi”. Lo fa anche per accontentare Joliké.
Sono le ore ventidue. Monica ha già fatto il bagnetto serale e viene a giocare con me sul lettone.
Mi esibisco in varie pantomime e lei ride a crepapelle. Verso le ventitré, accenno di volere uscire in piazza a trovare gli amici per farmi una partita a bigliardino.
Monica protesta: “Papà fogliati (spogliati) e fai do, do!”
Deliziosa e inviperita nel suo accappatoio giallo.
Mi accorgo che mi riesce difficile staccarmi da lei.
A casa non riesco più a concentrarmi, a lavorare con l’inten-sità solita, come sarebbe necessario.
Ora capisco perché il Vaticano non intende abrogare l’obbli-go del celibato per i sacerdoti!
Anche quando sono nel mio studio, non appena sento la vocina di Monica, non resisto alla tentazione di scendere a giocare con lei.
Sono cosciente di trascurare un po’ ìl mio lavoro politico e parlamentare. Tuttavia, sento che se dovessi perdere questi momenti dolcissimi non li potrei più recuperare.
Perciò, me li godo.
Per altro, mi accorgo che gli ideali per i quali abbiamo lottato (la rivoluzione, il socialismo,) si allontanano sempre di più dalla nostra prospettiva.


Vincenzo Terrana o dell’umanità del Partito
Fin dal suo arrivo, la salute di Monica è stata seguita dal dottor Vincenzo Terrana, primario pediatra dell’ospedale di Agrigento e nobilissimo compagno originario di Grotte.
Uomo generoso e sapiente, grande medico, con una espe-rienza vasta e un’umanità infinita.
Per altro, la sua generosità ci crea un qualche imbarazzo, giacché continua a non volere pagato il meritato onorario.
Più che per me- dice - lo fa per la bambina. Credo sia sincero.
Soprattutto nella prima fase, ci è stato di grande aiuto per curare le conseguenze evidenti della malnutrizione e gli scompensi psicologici e affettivi della bambina.
Ora che l’ha portata nella “norma”, continua a seguirla perché desidera che diventi una “bella signorina”.
Quando si dice un “compagno”! Ogni volta che pronunciamo questa  parola bisognerebbe soppesarla e non attribuirla gra-tuitamente a chicchessia, giacché con essa evochiamo un vin-colo ideale, universale più forte dell’amicizia, della stessa parentela.
Compagno è anche il suggello, la sintesi più alta dell’umanità del partito.
E’ qualcosa di più della “fraternité” coniata durante la rivolu-zione francese, la madre delle Rivoluzioni moderne.
Il Pci è grande e potente perché è stato ben guidato da  perso-nalità del calibro di Gramsci, Togliatti e Berlinguer, ma soprattutto perché ha avuto, ha, nelle sue file milioni di lavo-ratori, di intellettuali, di compagne e compagni  fedeli e generosi come Terrana.
Senza di loro cosa saremmo noi, tutti noi, che sembriamo predestinati al comando? 
L’umanità del partito, l’umanità tout court!
Valori che altri ci invidiano. Qualcuno si potrà meravigliare, ma per questa umanità abbiamo sognato e lottato, anche nei momenti di maggiore asprezza. Sul nostro cammino avremo compiuto errori, forse ci saremo un po’ illusi, ma questa uma-nità è stata sempre il fine ultimo della nostra meta.
Alcuni, magari, avranno deviato per la facile via “dell’anti-utopia” o del “realismo opportunista”, ma questa è devianza, per l’appunto, è l’eccezione non la regola.
Torniamo a Monica che è il soggetto e, al contempo, l’ogget-to di questo strampalato diario.
Il suo linguaggio è in continua evoluzione; si arricchisce di nuovi termini ed espressioni.
In pratica, riesce a chiamare, più o meno correttamente, tutto ciò che le appartiene o di cui ha bisogno. A cominciare dal suo nome: non più “Moka”, ma “Monica”.
Confesso che sono rimasto affezionato al primo.
Per essere sicura di non sbagliare, lo pronuncia bello tondo e scandito: “Mo- ni- ca”.
Anche in ciò vedo uno sforzo per affermare la sua personali-tà. Vuole essere Monica, com' è giusto che sia.
Maria Giovanna non è più “Ja, ja”, ma Mahia Giovanna.
Continua a dire “Lucezia”, ma credo ancora per poco.
Quando vede passare zio Peppi Cacciatore, il fontaniere, lo saluta con un “buongiorno zi Pè”, come salutiamo noi.
Sono contento che apprenda il siciliano. Tuttavia, deve impa-rare bene anche l’italiano per evitare difficoltà in futuro, a scuola e nella vita.
Ancora per la mia generazione, la prima lingua è stata il sici-liano. Per imparare l’italiano (non sempre bene) abbiamo faticato tantissimo. In ogni caso, psicologicamente, l’italiano resta pur sempre la seconda lingua.
C’è, infatti, come un meccanismo mentale ineliminabile che scatta ogni qual volta conversiamo in lingua. Ogni parola, prima di pronunciarla o di recepirla, necessita di una tradu-zione simultanea dal siciliano all’italiano e viceversa. 
Inoltre, bisogna stare attenti ad alcuni termini “impropri” acquisiti dalla parlata locale corrente.
Un esempio. Stasera Monica mi ha detto:“questa cosa m’im-parà Lucezia”. Voleva dire: “ me l’ha insegnata Lucrezia”.
Nella parlata locale il verbo “insegnare” è usato raramente.
Come se il popolo dovesse solo imparare (dagli altri) e mai potere insegnare qualcosa a qualcuno.
Nella lingua siciliana parlata vi sono anche queste perfide sottigliezze. La più clamorosa è l’assenza di futuro, del tempo futuro. Non insegnare, non sperare, non progettare…. Che cosa resta? Obbedire, subire, pagare, servire, non vedere, non udire, non parlare, ecc.
Il pappagallo di Nzuli
Questa mattina Jolikè e Klari sono andate al mercato e hanno comprato un paio di abitini e maglioncini invernali per Monica la quale li ha voluti provare subito, davanti allo spec-chio.
Da perfetta vanitosa qual è, a ogni capo indossato ha preteso i complimenti e l’applauso.
Desidero precisare che si tratta di roba “non firmata”. Jolikè, generalmente, compra al mercato poiché rifuggiamo dal vezzo, costoso e provinciale, della firma a tutti i costi.
Verso le 21,00, usciamo a passeggiare per il paese. La serata è fresca e le strade sono quasi deserte.
Monica vuole bussare alla porta di una stalla dove abitano i “chicchirichì”. Le spiego che, a quell’ora, le galline dormono e non si possono disturbare nel sonno, altrimenti impazzisco-no e si mangeranno l’ovetto destinato ai bambini.
La bambina ha memorizzato i vari luoghi di residenza degli animali suoi conoscenti: qui ci abita “chicchirichì”, là “bee, bee”, lì “clò, clò” il cavallo, “bau, bau”, miau miau”.
Gli uccelli (“ciu ciu”) stanno in cielo, fanno compagnia a Ge-sù, come le ha insegnato mia madre.
Ma per Monica l’attrazione fatale, il vero fenomeno è l’uc-cello parlante ossia il pappagallo di Nzuli, il pittore.
E’ un esemplare coloratissimo, originario della foresta amaz-zonica, che parla e canta di continuo, chiuso in gabbia come un re mapuche in cattività.
Ha imparato tre o quattro parole e le ripete come un bimbo piccolo, con la sua voce contratta, gutturale.
Spesso chiama per nome i suoi padroni. Ogni tanto dice una parola strana, incomprensibile.
Che cosa vorrà dire? Nemmeno Nzuli lo sa.
Forse, come il pappagallo di Humboldt, (citato da Charles Darwin) è “l’unico che sa dire una parola nella lingua di una tribù estinta”.
Scendiamo lentamente verso il castello dei duchi Colonna di Cesarò. In realtà, è un palazzo signorile, una residenza estiva appoggiata a un’enorme roccia calcarea e circondato da un parco, un tempo florido e ricco di piante rare, esotiche.
Da qui, saliamo per la via Pastori, il primo nucleo abitato sorto intorno al castello nel 1696, anno della fondazione, del paese che allora contava 87 “fuochi” ossia famiglie.
Oggi, questa strada è dedicata a “Jonson” ossia a uno dei presidenti Usa più odiati, in patria e nel mondo, a causa dei terribili bombardamenti in Vietnam e dei sospetti che su di lui si appuntano per l’ assassinio del presidente John Kenne-dy, di cui era vicepresidente.
Eppure, quest’uomo è riuscito, da vivo e senza saperlo, ad avere dedicata una via in uno sperduto borgo siciliano, anche  
se gli hanno storpiato il nome. Manca, infatti, la acca. Forse, essendo una consonante muta, fu ritenuta superflua dal  ragioniere Barresi che ebbe la  brillante idea della intito-lazione col solo fine di  ottenere il visto per emigrare in Usa.
Ricorse, infatti, a tale, furbesco espediente per ingraziarsi i funzionari del consolato di Palermo, i quale poterono comu-nicare a Washington che a Joppolo Giancaxio, unico caso al mondo, era stata dedicata al presidente in carica la principale via del centro-storico. Nientedimeno!
E così Jonhson ottenne la sua via e il furbetto il visto conso-lare. Demeriti e bisogni, un binomio insolito, che quando s’incontrano producono bassezze di questo tipo.
A parte ciò, è rasserenante passeggiare per queste vie con Monica sempre più curiosa.
“Papà cosa è esto? Papà chi c’è qua, lì?”
Per lei la vita è una continua scoperta. Nei giorni scorsi, il suo interesse si è applicato ai colori. E’ molto attratta dai nos-tri colori solari, splendidi. Alcuni già li distingue e li chiama per nome: blu, janco (bianco), jallo, rosso. Quando ne scopre uno nuovo, vuol saperne il nome.
Siamo alla vigilia della festa dei morti. Sissignori. La festa dei morti!
Non si tratta di un rituale macabro, ma di una festa, per l’ap-punto, nella quale si presentano ai bambini i familiari defunti come portatori di gioia e di delizie, per rinsaldare il legame fra i vivi e i morti.
In fondo, è anche un modo di presentare la morte per quello che è: un evento naturale, per altro ineluttabile.
E, visto che non si può evitare, meglio trattarla bene.
Succede. Anche con altri “mali”che ineluttabili non sono!
Abbiamo detto a Monica di lasciare le scarpine sul davanzale della finestra, perché stanotte verranno i morti e vi metteran-no i regalini.
La bambina ha un’idea ancora molto confusa della morte, dei morti. L’unica morte alla quale ha assistito è stata quella di una lucertola massacrata da alcuni ragazzini.
Per lei la differenza fra la vita e la morte è legata al concetto di mobilità: da viva la lucertola correva, da morta non più, rimase immobile sull’acciottolato. Da questa esperienza ha tratto un teorema: tutto quello che si muove è vivo, quello che non si muove è morto.
Desiderosa dei nuovi regali promessi, la bambina, prima di andare a letto, volle lasciare le scarpine fuori della finestra. Più volte mi disse: “Papà metto sciappe fora, Monica cò cò”.
Le prometto che domani, dopo l’apertura dei regali, l’avrei  portata al cimitero a visitare i nostri morti che le porteranno altri regali.
§. Stare con Monica, ormai, è per me l’unico piacere. Perciò, mi organizzo il lavoro in modo da restare il più possibile con lei. Solo in questi momenti ritrovo il senso della vita, mi scarico del peso delle angosce, dei contrasti politici interni al partito.
Quando sto con lei, dimentico ogni altra cosa e sono felice.
Quasi percepisse il mio stato d’animo, la bambina s'ingegna per farmi stare allegro. Giochiamo insieme per la casa, sul letto e per strada. Dovunque, e senza ritegno.
In genere, usciamo noi due da soli. I luoghi sono quasi sempre gli stessi: la campagna di Montefamoso e il campo sportivo dove la bambina può sbizzarrirsi a correre, a giocare e a… cadere.
Ho notato che in alcune espressioni comincia ad abbandonare la terza persona e a parlare in prima. Come se cominciasse a prendere coscienza, a impossessarsi del suo nome, a identi-ficare Monica con se stessa.
Esempio: prima diceva “Monica voli esto” ora “io voli esto”. Mi pare un passaggio importante di appropriazione dell’io. Chissà cosa sta frullando nella sua testolina bionda?

§. Lascio Monica a letto col raffreddore: ha perso un po’ di smalto, ma nulla di grave.
Mi reco al municipio per la registrazione all’anagrafe della bambina. C’è qualche difficoltà che parrebbe superabile.
Ieri, Jolikè e Klari hanno addobbato il pino che abbiamo nel giardino per il Natale. Col buio, è davvero molto suggestivo vedere quell’albero (vivo) carico di addobbi e luminarie colo-rate.
Monica vuole essere rialzata per vederlo anche lei dalla finestra. Ma non è finita qui. C’è un altro alberello, un abete spiantato, che metteremo, addobbato, nella stanza da pranzo, dove Monica potrà ammirarlo, in attesa di aprire i regalini che sicuramente le porterà…Babbo Natale.
Chissà perché ai bambini i regali non li debbano portare i genitori, i nonni, gli uomini e le donne in carne e ossa che li amano, ma queste estranee entità funambolesche!
In questo clima festoso, decidiamo d’informare Monica che presto potrebbe arrivare un fratellino nicu nicu (piccolino) come lo desidera lei, da tempo. Tutte le sue amichette hanno un fratellino o una sorellina. Solo lei à figlia unica.
Ora ne parla come se il fratellino fosse in viaggio verso Joppolo: “Appena viene gli do il mio lettino per farlo dor-mire, l’aiuto a mangiare col cucchiaio, lo faccio giocare con i miei giocattoli.”
Quando telefono mi ricorda sempre di “portare il fratellino”, caramelle, cioccolati e giocattoli.
Insomma, anche il “fratellino” fa parte della lista aggiornata dei regali. Oggi, abbiamo deciso d’inoltrare la domanda.
Arrivano due Babbi Natale
Questo è il secondo Natale di Monica: il primo l’ha pas-sato laggiù, il secondo con noi. La bambina è un po’ frastor-nata per la festa, per i tanti regali ricevuti. Bacia tutti per ringraziare.
Anche per mio fratello Lillo è festa grande: dopo 25 anni, festeggia il Natale in casa sua a Joppolo, con la sua famiglia. Per un quarto di secolo, ha lavorato in Belgio, emigrato, co-me tantissimi joppolesi.
Fuori c’è freddo intenso, quasi nevica. Sarebbe bello un Natale con la neve, in Sicilia!
Ovviamente, Monica è il centro di attrazione della festa.
E’ un piacere vederla “scodinzolare” fra i piedi col suo sorri-so dolcissimo e farfugliare parole e frasi in siciliano.
Ripete in continuazione che vuole andare a “sciola (scuola) come Lucezia”.
L’altro giorno, Jolikè l’ha portata veramente a scuola e l’ha fatta sedere sul banco accanto a Lucrezia fra libri, quaderni, penne. Hanno anche cantato in coro una “canzoncina”.
La bambina, entusiasta, racconta a tutti l’esperienza vissuta come il massimo di ciò che si può sperare dalla vita.
Ieri pomeriggio, la grande sorpresa: due Babbi Natale sono venuti a casa nostra, a bordo di un calesse tirato da un cavallo vero. A Monica hanno portato un pacco di caramelle e un panettone.
Monica tra due Babbi Natale

Per lei si è avverato il sogno che in questi giorni le abbiamo raccontato.
Dunque, Babbo Natale esiste davvero, in carne e ossa, con la barba bianca e lunga. Addirittura, sono venuti in due a por-tarle i doni e a baciarla con le loro barbe morbide e intrise di molliche di panettone.
A Monica piace anche “scivere” ovverosia disegnare. Traccia piuttosto bene il cerchio che, chissà perché, chiama “papà”, mentre la mamma è il coniglietto, e lei il gattino.
La raffigurazione mi lusinga: il cerchio è la perfezione… Scherzo, ovviamente. Per altro, credo che la bambina muova da un punto di vista a noi ignoto.
Bisognerebbe osservare meglio, analizzare questi segni e  forme per capirne il significato.
Anche a  Monica piace tanto scherzare, ironizzare.
Ogni qual volta incontra Giovanni Vecchio, alias “straviatu”, che sfottiamo perché non si decide a prendere moglie, lei lo invita sorridente:“maitati” (maritati!).
Ormai, in paese tutti sanno di questo infantile sfottò e le chiedono: “Monica cosa dici a Giovanni Vecchio?”
Lei, sorniona, risponde a tono: “Maitati!”.

§. Questa notte (28/12), Monica ha dormito, per la prima volta, senza pannolino e non si è bagnata.
Jolikè considera questo fatto davvero straordinario e de-gno di nota, poiché segna il superamento di un serio disagio per la bambina e per noi costretti a portare in casa pacchi di pannolini.


Capitolo sesto



Joppolo la casa-madre: la scala


La famiglia cresce, la casa si allarga
Stamattina (6/1/87), Monica è andata con Klari, Lillo e mia madre ad assistere alla “pastorale” che, per antica tradi-zione, si svolge nella piazzetta detta “ncapu i morti”.
Un tempo, prima della costruzione del cimitero (1882), in questa piazzetta erano sepolti i defunti, così alla rinfusa: un fosso e un po’ di terra addosso per riparo.
La giornata è fredda e ventosa. Temiamo per la sua salute, anche perché in questi giorni ha avuto un po’ di raffreddore.
Dopo circa un’ora, scendo in piazza per riportarla a casa, al calduccio.
Monica non ne vuole sentire di rientrare perché - mi dice- desidera vedere “cosa fa Narduzzu”.
Dopo un po’, Lillo la riportò a casa, con una scusa e cosi lei ci raccontò tutto, per filo e per segno: il cavallino con i bam-bini sopra, Narduzzu “monello”che sputava la ricotta, le pe-corelle, la “cosaaa”, la Madonnina, Gesù piccolino che pian-geva.
Noto che Monica ricorre a questo termine generico “la cosa”, quando ha difficoltà a specificare l’oggetto della sua osser-vazione; lo usa per proseguire il discorso senza bloccarsi. Un espediente che le  potrà tornare utile agli esami di stato.
A pranzo è svogliata, non mostra interesse per il cibo. Eppur si deve! Per invogliarla le abbiamo promesso che dopo l’avrem-mo portata a ri-vedere Narduzzu.
Solo a questa condizione prese il brodino di carne.

§. Questa sera siamo stati con Jolikè dal notaio per l’ac-quisto della vecchia casa di mio zio Carmelo Sacco, attacca-ta alla nostra. E’ tempo di ampliare la casa, la famiglia sta crescendo.
Vorremmo demolirla e costruire una stanza da letto per noi e sopra due stanzette: una per Monica e l’altra per il fratellino   che dovrebbe arrivare.
Abbiamo spiegato a Monica il progetto, la quale ha com-mentato: “Fratellino dorme qua”- indicò la sua culla- e Monica dorme nel letto nuovo”.
“Che cosa farai al fratellino?”.
“Monica porta al fratellino in cucina per fare mangiare latte”
“E poi?”
“Poi, Monica mette fratellino nella carrozzella e Monica spinge…”
“E poi?”
“Poi Monica canta “Estee fratellino dorme, qua”
Come in tutte le piccole donne, anche in lei c’è verso il fra-tellino uno slancio materno più che fraterno.
Ormai, la bambina l’aspetta con impazienza. Se non dovesse arrivare, sarebbe un vero guaio, una forte delusione.
Giù da mia madre abbiamo brindato al nuovo acquisto. Monica era effervescente come le bollicine dello spumante. Col suo bicchierino in mano ripeteva “Aguri, aguri” facendo cin cin con tutti.
Si scolò avidamente le poche gocce di spumante concesse per poi passare ai nostri fondi dei bicchieri.
Nonostante il suo carattere allegro, scherzoso, talvolta mani-festa, anche nei nostri confronti, una certa volontà di contra-sto, risponde di no ai nostri inviti.
Di fronte a tale “insorgenza oppositiva”, ci siamo precipitati a consultare il prontuario del famoso pediatra Benjamin Spook il quale assicura che un tale comportamento è normale nei bambini che hanno superato i due anni di vita.
Pertanto, bisogna evitare ogni accanimento correttivo, preve-nendo l’insorgere del contrasto mediante la spiegazione razionale e attendere, fiduciosi, il superamento di questa fase.
Speriamo che così sia. Per altro, non si tratta di manifestazio-ni gravi.
Da profano, mi sembra, piuttosto, una forma d’irrobustimento del carattere, della sua personalità.

§. Questa sera (18/1) è accaduto un fatto inusuale: per la prima volta ho rifilato un buffetto a Monica. Per giunta, come dopo mi accorsi, senza essercene ragione.
La piccola, dolcissima Monica punita ingiustamente. Questo pensiero continua a tormentarmi.
Non vedo l’ora che si svegli per abbracciarla e fare “pace, paciuzza” col ditino.
Tutto è successo a causa di un equivoco, quando la vidi armeggiare con un bastone fra un groviglio di fili elettrici, posto dietro il frigorifero di mia madre.
Temetti che potesse provocare un contatto. Perciò, la sgridai dicendole di non toccare mai i fili. Lei insistette e io le mollai uno schiaffetto per farla desistere.
In realtà, voleva prendere la scopa per “pulire la casa della nonna”,  come mi disse piangendo.
Più per il dolore, piangeva per il torto ingiustamente subito.
La presi in braccio e mi accorsi della scopa. Tentai di conso-larla, le chiesi scusa. Lei continuò a piangere e corse da Klari e con lei salì dalla mamma.
Restai molto dispiaciuto dell’equivoco che spero di poter chiarire domattina.
Il bambino invisibile
Sono tornato da Roma nella tarda serata (23/1). Monica già dormiva. Sono rimasto un po’ deluso poiché speravo di trovarla sveglia per abbracciarla e giocare un pochino.
Jolikè, che ha intuito il mio desiderio, va al capezzale della bambina sussurrandole all’orecchio: Mo, Mo, è venuto pa-pà”.
Lei si destò come un fiore che si schiude al primo raggio di sole del mattino. Si stropicciò gli occhi e mi guardò smarrita. Poi, aprì le braccia con un dolcissimo sorriso.
Ci abbracciammo a lungo. Nel frattempo, Jolikè era andata a prendere un sacchetto e lo agitò sopra la culla.
Monica ricordò ciò che doveva fare, lo afferrò e me lo porse: “Aguri, aguri papà”.
“Che cos’è?” feci io.
“Questo te l' ha comprato Monica”, rispose, porgendomi una busta con dentro una bellissima cravatta.
Era il regalo per il mio 39° compleanno caduto ieri.
Poi volle venire a giocare con me a fare “bau, bau”.
Si tratta di un giochino nel quale ci divertiamo a rincorrerci nella stanza imitando il cane.
Ero stanco e dissi di volere andare a letto. Monica si prenotò per trasferirsi nel lettone.
Prese una busta e mi disse: ”guarda papà, qua dentro c’è il bimbo”.
Guardai, ma non vidi nulla.
“Papà affetta (aspetta) che porto bimbo a letto”
Con le manine prese a mimare una scena materna: lo prese in braccio e lo depose nel letto poi mi avvertì “papà stai atten-to, non fare bu bù al bimbo perché piange”.
Paradossale! Non sapevo cosa pensare. Domandai spiega-zioni a Jolikè.
Mi rispose che, da qualche giorno, la bambina gioca con questo bambino invisibile e si comporta come se fosse reale .
L’idea le è venuta dopo aver visto il pancione di Enza, la mo-glie di Totò Camilleri (Borsellino), ch’ era stata a casa nostra.
Incuriosita da quella pancia enorme, prominente, Monica le domandò: “Che c’è qua dentro?”
Enza le spiegò che c’era un bimbo piccolo, piccolo.
Monica, non vedendolo, avrà pensato che era un bambino invisibile. Come la signora, anche lei poteva avere un bimbo invisibile col quale giocare.
Enza lo teneva nascosto nella pancia, lei in quella busta. Semplicemente, fantastico!

§. Siamo in Federazione (6/2), al ricevimento in onore dei gruppi folkloristici della Jugoslavia e dell’Ungheria che  partecipano alla Sagra internazionale del folklore.
Invitare alcuni gruppi provenienti dai Paesi socialisti è dive-nuta una piacevole tradizione per i compagni agrigentini.
L’abbiamo introdotta agli inizi degli anni ’70, da quando  disponiamo di una sede adeguata, acquistata con una sottos-crizione popolare e con un mutuo.
Monica è arrivata un tantino frastornata a causa degli effetti della supposta assunta contro il mal d’auto.
Tuttavia, quando vide tutti quei ragazzi, allegri e coloratis-simi, danzare e cantare si destò dal torpore e prese a ballare anche lei. In braccio a me.
Jolikè salutò gli ungheresi e si mise a conversare con loro. Monica voleva conoscerli tutti. Era strano vedere tanti ragaz-zi e ragazze che parlavano come la mamma e zia Klari.
L’altra sera, sul tardi, Monica si fece male con qualcosa. Pianse tanto in braccio a Jolikè che non riusciva a placarla. Dal mio studio udii i lamenti, ma pensai non fosse il caso di sospendere la lettura delle carte.
La bambina continuava a lamentarsi: “Ahi, papà”.
Quell’invocazione fu per me un’emozione intensissima, anche perché solitamente tutti invochiamo la mamma per lenire il dolore. Lasciai carte, cartelle e quant’altro e scesi di corsa ad abbracciare Monica e non la lasciai fino a quando il dolore non se ne fu andato.


Un vestitino burlesco
E’ arrivato (27/2) il Carnevale. Anche Monica ha un vestitino burlesco che, ieri, ha indossato per girare il paese con  Lucrezia e con Maria Luisa vestite da arabe.
Maria Luisa, Monica e Lucrezia

La bambina si sente grande e desidera partecipare ai gio-chi dei bambini più cresciuti.
Questa mattina ero ancora a letto, mentre la vedevo prepa-rarsi per andare all’asilo dove erano in corso i preparativi per il Carnevale dei bambini.
Nella stanza c’era anche Lucrezia che, per scherzo, cominciò a darmi manate sui piedi.
Monica protestò vibratamente contro Lucrezia e insorse a mia difesa: “A papà no botte”
Poiché continuava a picchiarmi, la sgridò con un tono secco, ultimativo: ”Lucezia, a papà no botte, ti ho detto
Lucrezia per indispettirla disse “Papà è mio”
“No, è mio” replicò Monica.
Lucrezia con più forza “No, papà è mio”.
A questo punto, Monica con fare persuasivo, quasi imploran-te, e la vocina quasi rotta, si rivolse alla cugina:
”Lucezia, papà è mio, poi io non ho più papà”.
A sentire queste parole, davvero commoventi, mi alzai dal letto e intimai a Lucrezia di smetterla; lo scherzo si era fatto pesante e poteva danneggiare la bambina.
Al che, Lucrezia per tranquillizzarla, le disse sorridente: “Papà è tuo. Io ho il mio papà che si chiama Franco”.
Monica si rasserenò e mi saltò addosso, stringendosi al collo forte, forte.
In serata, vennero a casa nostra un gruppo di ragazzini orren-damente mascherati capeggiati da Lucrezia travestita da sceicco.
Alla vista di quei diavoletti scatenati, taluni con maschere davvero mostruose, la bambina restò come interdetta dalla paura.
Li scrutò a uno a uno, forse sperando di riconoscerne qual-cuno e così assicurarsi che era soltanto uno scherzo carnas-cialesco.
Quelli, di rimando, volevano prenderla in braccio, carezzarla, ma lei, spaventata, ancor più si stringeva al mio collo.
Finalmente, Lucrezia la chiamò per nome. Monica riconobbe la voce della cugina e prese coraggio, sorrise e si mischiò nel mucchio di quei bambini chiassosi e un po’… mostruosi.
Congedati i “mascherati”, siamo andati a cercare “Cibesi” il cane di Lillo che quel giorno non si era fatto vedere.
Monica e Jolikè temevano che se ne fosse andato via per sempre o che qualcuno l’avesse rinchiuso per poi portarselo in campagna. Succede quando un cane è ben cresciuto e soprattutto è “guardiano”.
Lo cercammo per le strade, fin laggiù al castello. Monica lo chiamò a voce alta “Cibesi, Cibesi”.
E il cane, che forse vagabondava nel sentiero detto “sutta u granatu”,  avrà udito il richiamo e corse all’incontro.

§. Ieri (11/3), Monica ha fatto più volte la pipì addosso. Davvero un fatto strano, forse causato dal freddo intenso di questi giorni. Però, lei, oramai, si sa autoregolare. Negli ultimi mesi, soltanto una o due volte era successo.
Valutiamo se non sia il caso di farla vedere dal medico.
Prima, però, la mettiamo sotto osservazione, per capire meglio.
Solitamente, la bambina quando avverte lo stimolo ci chiama per essere aiutata. Invece, ieri non ha chiesto aiuto. E neanche oggi. La cosa un poco mi preoccupa e la seguo nel bagno.
La vedo, in piedi, davanti al water muovere il bacino in avanti, senza abbassare gli indumenti, come fanno pipì i maschietti.
Ovviamente, se la fa addosso. Ed ecco scoperto l’arcano che ci stava facendo correre da uno specialista urologo.
Probabilmente, la bambina, avendo visto, magari da dietro, i compagnetti al bagno avrà pensato che anche lei potesse fare la pipì in piedi.
Nell’orto del nonno, a Montefamoso
Nel pomeriggio (24/3), con Monica siamo andati ad accompagnare mio padre nella sua campagna di Monte-famoso. A 75 anni suonati, zio Pitrinu ancora coltiva il suo pezzo di terra (meno di un ettaro) acquistato con i tanti sacri-fici dell’emigrazione in Belgio e in Germania.
L’ironia della storia ha voluto che comprasse questa quota a poche spanne da quella che gli era stata assegnata (gratuitamente) dalla legge di riforma agraria nel 1947. 
In quegli anni, la legge Gullo (ministro comunista dell’agri-coltura) provocò nel sud una sorta di rivoluzione agraria.
Anche a Joppolo, poverissimo borgo alle spalle di Agrigento, i braccianti senza terra occuparono i due feudi appartenenti alla famiglia del Duca di Cesarò e ne ottennero l'esproprio.
Un ettaro a capofamiglia. A mio padre toccò nella collina di Montefamoso o Fanusu.
La gioia per quella “conquista” fu davvero grande. Tutti corsero a seminare il lotto per ricavarne la “mancia” per l’inverno ossia la quantità necessaria di grano e di legumi per sfamare la famiglia.
Oltre al frumento, in magazzino non dovevano mancare le fave per l’alimentazione umana e per quella degli animali domestici: l’asino, la capra, il maiale, le galline, ecc.
Oggi, le fave hanno perduto un po’ valore, ma da millenni costituiscono l’anello principale della catena alimentare mediterranea.
Nell’antichità, dovevano essere un alimento davvero impor-tante visto che se ne occuparono i più grandi filosofi: da Pita-gora a Empedocle.
Nel suo “Poema fisico e lustrale”, il filosofo akragantino lan-cia un monito severo e minaccioso, contro qualcuno (chi?): “Miseri, miserrimi, tenete via le mani dalle fave!”
Per i senza terra, nostri contemporanei, avere o non avere la “mancia” era il vero dilemma.
Senza la “mancia”, la famiglia rischiava le malattie, cadeva nella disperazione, nell’umiliazione, vittima dei soprusi, delle ruberie dei  commercianti e degli strozzini che ingrassavano sulle miserie dei “jurnatara”.
Inaspettatamente, a Palermo, in quella lasciva capitale degli intrighi e degli inganni, le carte s’imbrogliarono e il decreto di assegnazione fu revocato. Con la terra, i braccianti asseg-natari persero le fatiche e le sementi. Il raccolto lo fecero i nuovi padroni, i prepotenti, un’accozzaglia di mafiosi e lec-capiedi.
Delle quote di Montefamoso, tutte “affaccio suli”, se ne acca-parrò, a un prezzo vile, un mafioso di Aragona che, insieme ai suoi compari, aveva intrigato, minacciato per far revocare il decreto.
Mio padre, come altre centinaia di assegnatari, ritornò un jurnataru “senza terra” e, da li a poco, sarà costretto a emi-grare.
Fu questo il benvenuto della patria, ora antifascista, ai tanti reduci di una guerra infame alla quale mio padre diede sette anni della sua vita, fra servizio di leva e richiamo alle armi.
Di cui due di durissima prigionia in Germania a lavorare come “schiavo di Hitler”, com’erano chiamati i soldati non fascisti internati nei lager nazisti che, dopo l’8 settembre 1943,  si rifiutarono di combattere negli esercizi nazifascisti.
E per non tornare ad essere schiavo in patria, preferì emigra-re, ritornare nell’odiata Germania.
Dopo il raggiro venne la beffa: con quei quattro soldi guada-gnati all’estero, comprò da quel mafioso la quota che la legge gli aveva assegnato gratuitamente.
Terra sudata e amata, dunque, che egli non abbandona nean-che per un giorno. 
In questo periodo, si preparano le buche per la semina del pomodoro. Fra qualche giorno, sarà la volta dei meloni gialli.
In estate, su queste aride colline d’argilla si rinnoverà il miracolo dell’orto dei meloni. A Joppolo, ogni contadino coltiva il suo orto.
Meloni, pomodori, zucchine, verdure, bellissimi girasoli, ecc, per il consumo familiare e anche per venderne nei paesi vicini, dove i contadini l’orto non lo sanno coltivare.
Solitamente, mio padre fa a piedi i tre chilometri di sentiero. E’ stato sempre un camminatore formidabile.
Questa volta, ha accettato di essere accompagnato in auto-mobile perché c’erano da trasportare gli attrezzi di lavoro (verrina, zappa e piccone) e i bidoni con l’acqua per inu-midire le buche prima di calarvi i semi.
La giornata è bella, ma tira vento. Consigliai a Monica di starsene in casa per timore che il vento la potesse spaventare.
Lei, però, rifiutò con decisione. Scoppiò a piangere. Il pianto, in questi casi, è la forma di ricatto infantile più efficace. Voleva venire in campagna per “vedere come lavora il nonno”.
Piccola, deliziosa creatura, dopo quelle parole, mi fu impos-sibile lasciarla a casa.
In campagna il vento divenne più furioso e irregolare.
Mio padre non perse tempo e si mise a lavoro. Mi disse solo che “non desiderava mpidugliapedi” (ostacoli) sul terreno.
Gli ostacoli, evidentemente, eravamo noi che restammo in auto, a guardare.
Il vento proveniva da ovest, dalle montagne spoglie di “Lupo Nero” e del “Cattà”, dalle lontane solitudini che evocano i trascorsi arabi della vicina Raffadali (Rahal di Alì).
Il vento portava l’odore del timo e il canto allegro di un contadino le cui parole, a tratti, percepivo nitidamente.
Ero un canto d’amore e di sdegno, di quelli dedicati alla bella amata che fa rodere il fegato prima di accordare la promessa di matrimonio.
Provai una bellissima sensazione. Dissi a Monica “ascolta la canzoncina che porta il vento”.
Anche per farle capire che il vento porta anche il canto, le canzoni, i profumi di fiori lontani.
La bambina, s’incuriosì e mi domandò: ”Papà chi canta?”
Cercai di scoprirlo, ma non scorsi nessuno nei paraggi. Eppure, la voce non era lontana.
Sembrava provenire da dietro la verde immensità dei campi di grano, ondeggianti e tinteggiati di ciuffi di fiori gialli e di papaveri rossi.
Nel cielo, a volteggiare, le rondini, arrivate da chissà dove. Colori e odori della primavera siciliana che, quest’anno, è esplosa all’improvviso.
Laggiù, nascosta, si ode ancora quella voce, quel canto.
Monica vuol sapere perché il nonno lavora in campagna.
Per seminare i pomodori per il sugo che a te tanto piace sulla pasta”.
Visto l’interesse, le spiego anche l’utilità delle altre colture. Quel mare verde ondeggiante sono le piantine di frumento col quale facciamo il pane, la pizza e “Monica fa gnam gnam”.


Mai sentito tanto “freddo” in un ufficio dello Stato
(7/4) In questi giorni, alla gioia che Monica ci infonde si alterna l’avvilimento per alcuni problemi burocratici insorti a proposito della sua registrazione all’anagrafe del comune di Joppolo Giancaxio.
La situazione è divenuta davvero avvilente a causa di un  contrasto interpretativo insorto fra i diversi uffici interessati: Municipio e Procura della Repubblica.
Tutti i decreti sono in regola, ma i capi di questi istituti non sono d’accordo su come registrare un certificato, rilasciato dall’autorità rumena e tradotto e vidimato da quella consolare italiana, nel quale sta scritto che la bambina si chiama Moni-ca Nicoletta Spataro ed è nata a Joppolo Giancaxio, in Italia.
In effetti, Monica è nata a Bucarest, ma la legge rumena dis-pone che l’adottando, oltre al cognome, acquisisca come luogo di nascita la città di residenza del genitore adottivo.
Una norma di una sensibilità straordinaria, a tutela dei minori ai quali, specie nei primi anni della loro vita, potrà essere evitata la pena di dover giustificare la diversità dei loro natali.
Il problema esiste specie a contatto di coetanei cattivelli,  tal-volta perfino spietati, che usano l’aggettivo “adottato” come un insulto, come una clava per colpire, emarginare, isolare il bambino. Sarà colpa loro o della maleducazione ricevuta, ma fanno tanto male a chi subisce questo trattamento stupido e violento.
Purtroppo, la controversia rischiava di vanificare lo spirito benefico della legge e, soprattutto, di bloccare la procedura. Si giunse al punto che il dottor Rosario Livatino, sostituto procuratore di Agrigento, diffidò formalmente il sindaco dal registrare il certificato rumeno, poiché poteva incorrere in una sventola di reati fra i quali: omissioni in atti d’ufficio e falso in atto pubblico.
Ormai, sono sei mesi che vado dietro questo problema. L'intento è quello di ottenere, come previsto dalla legge ru-mena e senza forzare quella italiana, solo una migliore tutela anagrafica per Monica e anche per le decine, centinaia di altri bambini che dalla Romania verranno in provincia di Agri-gento e in Italia. 
Perciò andai a parlare col giudice Livatino per chiarire il mio punto di vista. Ma questi non volle sentire ragioni. Mi rispose  con una freddezza burocratica che non ammetteva repliche: la legge rumena è in contrasto con quella italiana, applicarla costituisce un reato. Punto.
Ricordo che mi salutò a malapena, senza nemmeno togliersi il guanto di lana.
Confesso che quel comportamento un po’ mi turbò.
Ne accennai al procuratore capo, dottor Serafino Tumminello  il quale chiamò il suo sostituto non per fargli cambiare pare-re, ma solo per dirgli, bonariamente: “ma lo sai che mi hai spaventato l’onorevole Spataro?”.
Prima d’ora, nei miei rapporti con un magistrato, non avevo mai provato sensazioni di apprensione e d’impotenza.
Ed ero un deputato nazionale in carica. Figurarsi cosa poteva capitare a un poveraccio!
Mai avevo sentito tanto “freddo” in un ufficio dello Stato!
Nemmeno, ai tempi del glorioso ’68, quando fui più volte convocato in questura o in tribunale per rispondere a diverse denunce per occupazione del liceo classico di Agrigento e, nella veste di corrispondente de l’Unità, per diffamazione a mezzo stampa (fra le quali una, molto pesante, dell’on. Giu-seppe La Loggia, potente ex presidente della regione) dalle quali fui prosciolto in istruttoria.
O quando, una sera, a seguito di uno scontro, anche fisico, coi fascisti in via Atenea, fummo fermati dalla polizia e condotti in questura. Ricordo che ci volle “ricevere” nel suo ufficio il questore in persona. Mi pare si chiamasse Ugo Macera, un poliziotto dai modi spicci e dotato di uno spiccato fiuto inda-gatore, il quale ci (in) trattenne per rifilarci una paternale oscillante fra il senso del dovere e i piaceri dell’alcova. Ai quali lui non rinunciava: “nemmeno in questa piccola, bigotta città… dove io scopo e voi, invece di studiare, divertirvi, vi azzuffate per niente”. Ci rilasciò, senza farci identificare, verso le due notte. Ci parve che il signor questore soffrisse  d’insonnia.
A parte ciò, stasera è arrivata una buona notizia. Jolikè ha telefonato all’avvocato Olaru, il nostro nuovo procuratore a Bucarest, il quale le ha comunicato di avere individuato un bambino, Claudio, di oltre un anno d’età, per il quale c’è la disponibilità all’adozione.
Finalmente, il fratellino che Monica attende ha cominciato il suo viaggio verso Joppolo, verso casa.
A Pasqua andremo a Bucarest per conoscerlo e avviare le pratiche di rito.

§. Siamo a Ecser (12/4) in visita ai parenti e anche per   andare a Bucarest a vedere Claudio.
Monica  con le cuginette Viky e Marci, a Ecser, Ungheria

Piove, piove, piove. Sempre piove in questo periodo, per giornate intere.
Non c’è confronto con i nostri acquazzoni violenti ma rapidi. In Sicilia, dove ancora il sole comanda, le nuvole si fermano solo il tempo necessario per scaricare e poi spariscono.
Dopo la pioggia benefica, si sprigionano gli odori e gli umori della terra; l’aria, lavata da ogni impurità, diffonde  profumi di creta e di paglia, la vita riprende nella via.
Qui non è così. Dalla terra putrida di pioggia salgono vermi mollicci, informi, senza testa né coda. Alcuni senza occhi.
Si muovono, attorcigliati, smarriti e lenti come pachidermi.
Con Monica, un po’ triste perché non può uscire da casa, osserviamo lo spettacolo deprimente della pioggia e di questi mostriciattoli che sono risaliti sulla terra, ma non sanno che fare.
Si legge che è in atto una mutazione genetica di talune fami-glie d’invertebrati. Resistono alla chimica, anzi si sono assuefatti ad essa e la usano per accelerare la loro mutazione.
Taluni potrebbero assumere forme gigantesche, mostruose e soppiantare l’uomo nel suo ruolo guida sul pianeta.
Che orrore: il mondo dominato dai vermi giganti!
Ci costringerebbero a lavorare per loro, a  coccolarli, servirli, leccarli e, quando si stancherebbero, ci stritolerebbero fra le loro spire viscide e mollicce.
Per vendetta della specie o per diletto. Esattamente, come facciamo noi con loro, calpestandoli.
Per fortuna, Monica non sembra turbata da queste visioni. Ieri sera, è andata a letto tutta speranzosa.
“Papà vado a dormire così domani mattina ci sarà la bella giornata e andiamo allo zoo.”
Stamattina, appena sveglia, è andata a sbirciare dal foro della finestra. Vide un po’ di luce e mi chiese “Papà, c’è la bella giornata?”
Mi affaccio e vedo un cielo plumbeo, fitto di nuvole che con-tinuano a scaricare una pioggia sottile ma insistente come le gocce della tortura cinese.
Chissà quale delusione proverà la dolcissima Monica con le sue treccine già incrociate per uscire?
L’altra notte ha parlato nel sogno. Diceva “Andiamo a casa, a casa”. Credo avesse nostalgia di Joppolo, del suo piccolo mondo di giochi e di colori, del nostro sole che non delude mai i bambini.
Lei pensa a Joppolo. Io penso ai detenuti che passano in prigione anni della loro vita, privati della libertà di uscire a farsi una passeggiata ai templi o a San Leone.
Non c’è nulla da fare. Questi comunisti siamo davvero incor-reggibili: dovunque andiamo ci portiamo addosso tutti i pro-blemi del mondo.
Dov’è il fratellino?
La mattina di Pasqua (25/4) siamo tornati da Bucarest, do-ve abbiamo conosciuto Claudio e avviato le pratiche per l’adozione. A Ecser troviamo Monica ad attenderci nel  giar-dino, raggiante di gioia e impaziente di conoscere il fratellino..
Monica a Ecser

Purtroppo, Claudio non è con noi e non poteva esserci. La bambina un poco si guasta in viso e ci spara un paio di domande a raffica: “Dov’è il fratellino? Perché non l’avete portato?”
Interrogativi diretti, imbarazzanti ai quali bisognava rispon-dere in modo convincente per non urtare la sua sensibilità.
Ricorsi a una pietosa bugia. Le dissi che “il fratellino ha la bubù  e non può viaggiare. Arriverà in estate, a casa nostra a Joppolo”.
Monica mostrò di capire e informò i parenti “il fratellino ha la bubù, verrà a Joppolo, poi…”
In salotto comincia l’interrogatorio vero e proprio. La bam-bina vuol sapere tutto di Claudio.
“Com’è? Piccolo, piccolo, vero? Cosa fa: gioca, piange? Mangia il latte?"Quando viene a Joppolo, io al fratellino do tanti bacetti, do il latte, lo faccio camminare, giocare con i miei giocattoli, poi lo porto all’asilo per giocare con gli altri bambini”
Con poche parole espresse un vasto programma di assistenza.
L’indomani portai Monica al luna park di Budapest.
Indossava una gonna a quadri grandi, tipo scozzese, con un fermaglio laterale che la chiude, una camicetta celeste, scarpette rosse laccate. Era bella ed elegante, come il solito.
E’ vero: l’affetto fa stravedere. Tuttavia, così io la vidi e così la descrivo.

§. Monica e Jolikè sono tornate dall’Ungheria(18/5). Le avevo precedute di qualche giorno per impegni inderogabili in Parlamento.
La bambina desidera vedere dove lavora papà. Vengono a trovarmi nel mio ufficio alla Camera dei Deputati.
Nel mio ufficio alla Camera dei Deputati

Il commesso che le ha accompagnate si è voluto compli-mentare con me: “Onorè, questa bambina è bella come una dea”.
Io mi schernii del complimento, ma in realtà lo condividevo appieno.
Quando in un piccolo essere si ritrovano, armonizzate, bel-lezza, intelligenza e affettuosità credo si possa dire che ha raggiunto il massimo cui un genitore possa aspirare.
Sono trascorsi pochi giorni, ma ho tanto avvertito la man-canza della bambina.
Ora siamo all’aeroporto di Fiumicino in partenza per Paler-mo, verso casa.
Nella sala Vip, le solite scene di ammirazione per Monica. Ha i capelli tirati e annodati in una civettuola codina di cavallo che mette fuori il suo visino bellissimo e sereno.
Io non mi sento vip; sono sempre l’umilissimo compagno Spataro, che mai ha dimenticato le sue origini povere e contadine.
Frequento questa “sala” per usufruire di certi vantaggi pro-cedurali che, per chi viaggia spesso, aiutano a risolvere tanti problemi pratici.
In ogni caso, desidero precisare che accanto a Monica mi sento più importante di un Vip ossia l’uomo più fortunato della Terra.
Alcuni guardano la bambina con la coda dell’occhio, non si capisce se per discrezione o per invidia.
Poco importa. Per me è solo gioia. La gioia per questa pater-nità acquisita per decreto, ma vissuta con la passione di un amore paterno sconfinato.
Durante il volo la bambina non ha sofferto; così in automo-bile per arrivare a Joppolo.
Ha dormito fra le braccia di Jolikè per l’intero viaggio.
All’arrivo, a casa, appare un poco frastornata. Non si rende conto di come, in così breve tempo, abbia potuto superare distanze così grandi, cambiato mondi: Ecser, Budapest, Ro-ma, Palermo, Joppolo.
A Monica sembra che nulla è cambiato, che i luoghi e le persone a lei cari si trovano tutti nelle vicinanze; più tardi Marzi, nagymamà sarebbero venute da Ecser a trovarla nella sua stanzetta, a Joppolo.
In Ungheria, la bambina è rimasta un mese intero e ha appreso tante parole della lingua magiara e può insegnarle  anche a me che non riesco a introiettarle.
La promenade
In paese tutti hanno saputo del ritorno di Monica e alcuni sono venuti a salutarla.
La bambina appare più cresciutella. Durante la lunga vacanza ha preso un chilo e mezzo, il visino è più rotondetto.
L’ho portata in piazza a passeggiare avanti e indietro com’è nella nostra usanza. Per mostrarla al pubblico. Poiché una lunga assenza dalla piazza autorizza ogni congettura. Non era il caso di Monica, ma non si sa mai.
La piazza, l’antica agorà dei greci, è ancora il luogo privile-giato dell’incontro, dello scambio e anche della legittimazio-ne delle relazioni interpersonali.
Gli occhi dei compaesani sono giudici severi e le lingue forbici affilatissime che tagliano anche l’acciaio temperato.
A una certa età, si viene in piazza anche per confermare la propria esistenza in vita.
E’ questo il caso del professor Lacagnina che ama vivere rintanato nella sua casa con giardino, fra i suoi libri e con una coppia di sontuosi pavoni.
E’ un misantropo che rifugge da ogni contatto superfluo con il “consorzio umano”.
Dicono che la sua misantropia sia una malattia grave. In realtà, egli se la gode, stuzzicando la fantasia malata di amici e compaesani che pensano tutto il male possibile, per lui.
Per esorcizzarlo, il vecchio professore si presenta in piazza, in media ogni due settimane, per mostrarsi, vivo, agli amici che allungano il collo da dietro le tende antimosche dei vari circoli di compagnia.
Una passeggiata soltanto, avanti e indietro, e torna a rintanar-si in casa.
Una sera, incontrandolo, gli chiesi la ragione di questa sua bizzarra abitudine. Mi guardò dal basso verso l’alto, non per modestia ma perché era basso di statura, e così mi rispose:
“E che faccio, mi vengo a rinchiudere in questi circoli di vecchi catarrosi e oziosi, divorati dal vizio e da sciami di mosche assatanate?
No, amico mio. Preferisco starmene in casa, solo, coi miei i libri e i miei due pavoni che quando fanno la ruota mi sento trasportare nel“Genuard”, nell’aulico paradiso degli antichi  persiani, dove, un giorno, il più lontano possibile, mi piacerebbe andare a riposare.
Se faccio questa “promenade” non è per diletto, ma per met-tere firma di presenza. Sì, firma di presenza! Perché devi sapere che se passano quindici giorni senza che mi faccia vedere tutte le malelingue del paese, in primis quei galantuo-mini che ci stanno osservando con la lente d’ingrandimento, ci mettono poco a darmi per morto insepolto ossia cadavere puzzolente che nessuno raccoglie”.
Il professore consiglia vivamente la promenade anche a tutte quelle coppie di cui si sospetta qualche frizione o addirittura una relazione adulterina.
Senza volerlo, si andò a finire a parlare di corna, di un argomento scabroso, pruri-ginoso che, come quello dei pupi, sempre ritorna a tormentare questo nostro mondo sospeso fra il facile sospetto e l’intima compiacenza.
Per bandire ogni diceria, non c’è miglior rimedio che una passeggiata in piazza, sottobraccio al marito sorridente. Meglio se di domenica, all’uscita della terza messa di mezzo-giorno o la sera al passeggio popolare. Anche se ci sarà sem-pre qualcuno che commenterà, impietoso: “Guardate quello, cornuto e contento!”
Un cerbero dantesco al pozzo Serrovi
E’ una tiepida mattinata primaverile (14/5), con Monica ci sediamo al bar nuovo di “Bianchino” e prendiamo un gelato.
Nel pomeriggio, facciamo una bella corsa in auto verso “Ma-nica Lunga” per farle prendere un po’ d’aria pura di campa-gna. Tutto procede a meraviglia.
Camminiamo lungo il sentiero che conduce al pozzo di Serrovi, alla ricerca di farfalle e di margherite da portare alla mamma.
Improvvisamente, compare un gregge di pecore belanti, fret-tolose come un fiume in piena. Restiamo bloccati nel mezzo. Conviene aspettare, fermi, in attesa che passi la piena.
Come recita il famoso detto siciliano:“Calati juncu ca passa la china”. Le pecore vanno a valanga, sospinte dai cani.
Monica, inconsapevole del pericolo, vuole toccarne qualcuna: “ papà faccio una carezzina a mè, mè”.
In questo frangente, si avvicina, un grosso cane bianco, rin-ghioso come il Cerbero dantesco, che ci mostra una dentatura compatta, vagamente vampiresca.
Il cagnaccio si fermò a pochi metri da me che stringevo la bambina. Provai una paura intensa, drammatica, soprattutto temetti per Monica.
Di fronte a un cane non si scappa mai- consigliano i nostri  contadini- se mostri d’aver paura quello s’incoraggia e ti as-sale. Poiché la tua paura fa il suo coraggio. Succede anche con gli uomini.
Bisogna, fermarsi e cercare di reagire, magari fingendo di tirargli contro qualcosa.
Il cane, per quanto inferocito, sa che l’uomo è la bestia più feroce vivente sulla Terra, perciò lo teme. Speriamo.
Intanto, la bestiaccia, ferma e risoluta, continua digrignare i denti. Forse, vuole solo difendere il “suo”gregge da questi intrusi piazzatisi lungo il suo cammino.
Seguono attimi drammatici.
Io e il cane ci guardammo negli occhi, entrambi decisi a difendere il bene che ci era stato affidato: a me la bambina e a lui il gregge.
Finalmente, sopraggiunse, trafelato, zi Giovanni di Filippa, il pastore, che dalla testa del gregge aveva assistito alla scena. Col suo grosso bastone colpì il cane sulle spalle e lo sgridò per farlo allontanare.
In quei terribili momenti, Monica rimase muta, contratta nel fisico e sgomenta. Terrorizzata e silenziosa.
Non appena il cane si fu allontanato scoppiò a piangere “questo cane cattivo mi ha fatto paura”, “Papà andiamo a casa”, “qua non ci veniamo più”.
Cercai di rasserenarla, ma continuava a piangere.
Confesso di aver provato una grande paura. Se quel cane ci avesse aggrediti sarebbero potute derivarne gravi conseguen-ze per la bambina.
Durante il viaggio di ritorno, Monica, con la vocina rotta dall’emozione, ripeteva “Mi ha fatto spaventare quel cane cattivo, cattivo…”


P.S.
Dimenticavo di annotare una cosa importante. Ho fatto sviluppare le foto di Claudio prese a Bucarest.
Finalmente, Monica ha “visto” il fratellino. In alcune è in lacrime per via del dolore all’orecchio che lo tormentava not-te e giorno.
Si è mostrata tutta intenerita per il fratellino sofferente, annunciando un programma speciale di divertimenti, per farlo diventare “contento” quando arriverà a casa.
Una riunione di sole donne
6/6/87. Monica è diventata una piccola, assennata ciarla-tana. Le capita ancora d’inciampare in qualche parola, ma non si blocca. Ripete quella parola fino a quando non la pronuncia correttamente oppure la sostituisce con una gene-rica “cosa” e passa avanti.
E’ sempre divertente sentirla parlare. Qualche esempio. Invece di “ho messo” dice “ho mettito”, di “ho raccolto “ “ho raccoglito”.
Monica col girasole, con Jolikè, Nagymamà e zia Ciccia
Ieri sera, è andata con Jolikè al municipio, alla riunione delle donne.
Una riunione di sole donne, al municipio! Potrebbe essere l’inizio di una rivoluzione culturale in questo paesino che nemmeno le carte geografiche si son prese la briga di regis-trare.
Al ritorno le ho chiesto dov’era stata.
Lei, prontamente, ha risposto “alla iunonione delle donne”.
Poi mi domanda, bruciapelo: “Papà, hai lavato i piatti?”
Una domanda leggermente perfida scaturita dal clima “ever-sivo” di quella riunione.
Le spiegai che, generalmente, i piatti li lavano le donne della casa e non i papà.
Candidamente, la bambina replicò: “Perché?”
Confesso che mi trovai in grande imbarazzo. Non seppi risponderle e rinviai il discorso a dopo, all’indomani mattina. Sperando che la notte ne cancelli il ricordo.
A Ifchia
Siamo a Ischia (28/6) per una breve vacanza. Nell’isola non vi sono tanti svaghi, ma l’atmosfera è molto riposante.
Abbiamo viaggiato in vagone-letto fino a Napoli e da lì in aliscafo fino all’isoletta.
Il mare era un po’ mosso e Monica ne ha sofferto. Ha vomi-tato un paio di volte. Eravamo preparati alla “rimessione” e l’abbiamo fronteggiato con perizia.
Sbarcati, commentò: “La nave è cattiva perché ha fatto soffrire Monica”.
Ritorna la terza persona, come se non fosse stata lei la vittima di quel disagio.
Soffrì anche a bordo dello stravagante mini-taxi ossia una coloratissima moto ape a tre ruote che volle prendessimo per andare all’Hotel Regina Palace.
Non ci fu verso di farle cambiare idea.
Scendemmo subito in spiaggia, dove si divertì tanto a giocare con la sabbia . Ogni tanto, domandava:“Papà quando viene il fratellino lo porti qui, a Ifchia?”
I nostri pochi giorni di vacanza trascorsero fra mare e belle passeggiate nei magnifici parchi dell’isola.
Monica a Ischia

La bambina era contenta per quella gita. Scopriva luoghi nuovi, gente nuova. Soprattutto bambini sulla spiaggia.
La sera si andava a passeggiare nel corso principale (via Roma) dove si concentrava la gran massa di turisti.
C’era chi ammirava le vetrine dei negozi aperti fino a notte, chi cenava nei ristoranti sulla strada e chi, seduto sulla terrazza di un bar, si godeva la passeggiata degli altri.
Insomma, le tipiche abitudini di una cittadina turistica piut-tosto rinomata.
Monica divenne una gioiosa conoscenza specie per alcuni turisti tedeschi che abitavano nel nostro albergo.
Una bella vacanza, rasserenante, nel corso della quale visi-tammo, in autobus, le principali località dell’isola: Lacco Ameno, Maranti, Forio, Casamicciola, Barano, ecc.
Tutto bene, anche ogni tanto la prendeva la nostalgia di casa. Anche a Ischia!
“Papà mi porti a Joppolo” oppure “Papà quando andiamo nella nostra casa a Joppolo?”.
Il richiamo nostalgico mi parve un sintomo evidente del suo attaccamento al paese, dove evidentemente aveva già piantato le sue teneri radici.
Canta Monica
Questa sera (12/7), in piazza si svolge il “1° Festival canoro dei bambini joppolesi”, dai sei ai dodici anni.
Monica sapeva dell’evento perché gliene aveva parlato più volte Lucrezia e da giorni ripete che vuole cantare alla festa.
Anche se non sa una canzoncina per intero. Canta volentieri qualche brano di “Este” (sera), in ungherese. Per il resto canticchia strane canzoni che inventa lei stessa.
Si potrebbe definire un’autrice molto precoce.
Da quel che intuisco, mi sembrano traduzioni, da lei arran-giate, di favolette ascoltate da me o da mia madre.
E così, “Cappuccetto rosso”, “Giufà”, “Ali Babà”, “I tre por-cellini”, sono diventate canzoncine alle quali Monica dona musica e voce.
In piazza c’è tutto il paese e anche tanti forestieri. Ci sediamo in settima fila per tenere lontana la tentazione.
Non appena i “concorrenti” iniziano a cantare, Monica non sta più ferma. Si agita, mi tira il colletto della camicia, fa ca-pire che vuole andare a cantare sul palco, con il “micofono”,  come gli altri bambini.
Le spiego che non è possibile perché non ha l’età minima richiesta per partecipare ossia sei anni e non conosce una canzoncina per intero.
Lei ribadisce, risoluta, il desiderio di cantare la canzoncina di “cappuccetto rosso” che ha già cantato all’asilo.
Vista l’insistenza, ci avviciniamo al palco sperando che quelle luci, l'orchestrina la intimidiscano e la inducano a desistere dall’audace pretesa.
Monica mi scappa dalle mani e si arrampica sulla scala di legno. A malapena, riesco a fermarla al quarto scalino.
Più chiara di così non poteva manifestare la sua intenzione!
In ogni caso, per salire doveva attendere la chiamata di Totò (Sprio), il macellaio, che era l’organizzatore del festival e nostro parente.
Jolikè gli va a parlare, pregandolo di fare cantare Monica “fuori concorso”.
Totò acconsente. Monica non sta più nella pelle. Canta, balla fra le mie braccia. Sta provando.
Finalmente, la presentatrice annuncia:
“Ora è la volta della piccola Monica Spataro”.
Totò viene a prenderla e lei lo segue verso il palco, per nulla imbarazzata.
Risponde anche alle domande di rito della presentatrice: “Come ti chiami? Quanti anni hai?
Poi attacca a cantare: ”Un giorno cappuccetto rosso andò nel bosso (bosco) e poi venne il lupo cattivo che si voleva mangiare la sua nonna…allora, allora cappuccetto rosso disse….(guardò il cielo stellato per trovare le parole seguenti), allora, allora la sua nonna malata….”
Applausi del pubblico e fine dell’esibizione. Dal fondo della piazza, qualche provocatore grida: bis, bis.
Totò le consegna una medaglia a ricordo della sua parteci-pazione al festival.
Monica è raggiante, orgogliosa per la medaglia che mostra a tutti: “talè , talè”. Dal siciliano “taliari” ossia guardare.
Per premiarla anch’io, le offro un bel cono di gelato, mentre Jolikè piange tra la folla.
Come sono i bambini cinesi?
Dalle date mi accorgo che i miei appunti sono sempre più rari. Doveva essere un “Diario di Monica”, in realtà hanno una cadenza episodica, molto saltuaria.
Non sono mancati fatti da annotare (per Monica si potrebbe scrivere un libro al giorno), ma è lo spirito che manca, a causa di certe difficoltà che mi stanno creando alcuni bei tipi  del Comitato regionale del Partito.
Non ho la testa, il tempo per dedicarmi alla bambina. Come se avessi perduto i doni della memoria e della scrittura.
Vivo a Palermo in una condizione davvero umiliante. Quel figo fatto a segretario si sta vendicando del mio sostegno alla candidatura di Pio La Torre a segretario regionale (contro la sua) e delle critiche che gli ho rivolto durante la sua disa-strosa gestione del partito siciliano.
Una situazione praghese, inimmaginabile col mio amico Occhetto segretario generale del partito.
Amico mio, ma forse più amico del figo che comanda a Palermo che è suo compare di nozze.
Penso sia chiaro che stia alludendo a Luigi, Gigi, Gigetto, Gigino Colajanni il quale passerà alla storia per essere stato l’autore di un grande prodigio letterario: quello di avere tras-formato il sostantivo “partito” in verbo, in participio passato. Nel senso che è sempre “partito”, in viaggio.
Ma lasciamolo stare, non ne vale la pena, e torniamo a Monica che, ormai, è per me la cosa più importante della vita.
Quando posso, scappo a casa per vederla, per giocare con lei.
Sarà perché la vedo raramente, ma ogni volta mi sembra più cresciuta, più vivace e intelligente.
Monica con l’ombrello

Ormai facciamo vere discussioni. Abbiamo preso l’abi-tudine di raccontarci quello che ognuno ha fatto durante l’assenza.
Vuole sapere dove sono stato, con chi, cosa ho fatto. Segue una sfilza di “perché” ai quali do una risposta, sovente alea-toria.
Come si fa a spiegare a una bambina di tre anni certe caro-gnate che avvengono a Palermo!
Quando, nei giorni scorsi, sono tornato dal viaggio in Cina, mi ha chiesto “Chi è la Cina?”, “Come sono i bambini cinesi?”
Le ho detto che sono belli e che hanno gli occhi a mandorla. Lei restò colpita per questo riferimento alla frutta secca.
“A mandula? Gli occhi con la mandula?”
Congiunsi pollice e indice e abbozzai uno schizzo che ap-plicai al mio volto e le dissi “ecco, così sono gli occhi dei bambini cinesi”
Monica non mostrò gradire questo modello “Non mi piac-ciono gli occhi così, a mandula”.
Dalla Cina le ho portato tanti regalini e un vestitino di seta istoriato con fiori e dragoni.
La domanda che sempre ritorna, alla quale non riesco a dare una risposta esauriente, è “perché non vai a prendere il fratellino”.
L’altro giorno, l’avvocato mi ha informato che Claudio era stato dimesso dall’ospedale dove era ricoverato per una frattura (lieve, lui assicura) al piede.
Mentre parlavamo con Jolikè di questo ricovero, Monica s’intromise nella discussione: “Papà Claudio non è più all’ospedale, perché non lo porti qui, a casa nostra?”
Povera figlia. Ho dovuto inventarle una nuova scusa, rassicurandola che al più presto saremo andati a prendere il fratellino.
Lo spero anch’io, tantissimo. Purtroppo, le notizie che giun-gono da Bucarest non sono buone. Pare che il tiranno abbia bloccato le adozioni.
Con Monica e Jolikè siamo andati alle terme “Acqua pia” di Montevago. La bambina non ha sofferto durante il lungo viaggio in auto. L’abbiamo buttata nella piscina dei bambini a guazzare come le ochette nello stagno delle favole.
Si è divertita tantissimo e anche noi. Al ritorno, di sera, ci siamo messi a cantare in auto. Ognuno canta quel che sa cantare. Esordisco con “Vitti na crozza”.
Una canzone popolare d’intensa drammaticità, ma anche un   pò bizzarra poiché il suo testo macabro, funereo è intercalato da un  ritornello molto brioso: “trulla-là, trulla-leru” .
Una frivolezza che mal si concilia con il dolore del vecchio che parla con una “crozza” (un teschio) ossia con la Morte  assisa sopra “nu cannuni”, quasi a monito contro la guerra.
Un testo antico e di autore ignoto, divenuto famoso dopo che Pietro Germi l’inserì nella colonna sonora del suo, indimen-ticabile film “Il cammino della speranza”. 
Dopo il film, è spuntato un autore agrigentino che se ne è attribuita la paternità. E così iniziata la ricerca dell’autore. Ad Non a caso ad Agrigento dove è nato il grande drammaturgo Luigi Pirandello, il creatore dei “Sei personaggi in cerca di autore”.
La questione è finita  in tribunale, nelle mani della magistra-tura che dovrà decidere, con sentenza, se la canzone è opera di uno o più anonimi o di quel musicista che ne ha rivendica-to la titolarità e i diritti d’autore. Vedremo.
Il popolo appare diviso e sconcertato. Molti vorrebbero che la  canzone restasse espressione, anche anonima, del patrimonio culturale del popolo siciliano, come testimonianza del suo fiero “lamento” per la pace e per la libertà.
A Monica è piaciuto il motivetto e l’ha cantato con me varie  volte e…senza pagare diritti d’autore.
Ogni tanto se ne ricorda e mi fa “Papà cantami quella can-zoncina trulla-là, trulla- leru”.
I morti volanti
Sono sempre più preso dalle mie difficoltà politiche al CR e, ultimamente, anche finanziarie derivanti dai lavori di amp-liamento della casa. Con i muratori in casa è difficile concen-trarsi su qualcosa d’altro.
Peccato! Poiché ci sarebbero tante belle cose da annotare e che rischiano di andare perdute.
Chissà se un giorno la memoria…
Stamattina (1/11) siamo andati al cimitero a visitare i nostri morti. Non avendo defunti intimi colà residenti, le nostre vi-site si svolgono serenamente, quasi in allegria.
Per me sono anche l’occasione per rivangare, guardando i nomi e le foto, le vicende del nostro paesino.
I nostri morti sono nonni, zii e parenti piuttosto larghi, ai quali portiamo un fiore e accendiamo una candelina, per ravvivarne il ricordo, come vuole la tradizione.
I nonni paterni, purtroppo, sono finiti nella fossa comune e non possiamo onorarli. Mi sarebbe tanto piaciuto conoscere mio nonno Calogero Spataro, amante dei viaggi e del buon vino. Di lui non so nulla, poiché nessuno ne parla in famiglia,
credo per vergogna.
La vox populi racconta ch’era un viaggiatore indefesso, un po’ alla buona. Partiva da Joppolo con pochi soldi e con mezzi di fortuna, per lunghi viaggi in nave o in groppa ad un ronzino.
Memorabile è rimasto il viaggio in Tunisia dove si recò per andare a comprare un… asino di una razza speciale ossia di quelli che lavorano tanto e mangiano poco.
Non lo trovò e ritornò, dopo più di un mese, senza soldi e senz’asino. Insomma, un vero precursore della cooperazione siculo- araba!
O l’altro, a cavallo, alla volta della Spagna interrotto per mancanza di viveri e mezzi a Civitavecchia da dove telegrafò alla famiglia per tranquillizzarla e chiedere soccorso.
Il nome della cittadina laziale colpì talmente la fantasia dei paesani che glielo appiopparono come “ngiuria”. E fu questo soprannome l’unica eredità che il nonno lasciò a figli e nipoti, quando mori alla bella età di 85 anni. Alla faccia dei suoi detrattori e critici che, in gran parte, lo precedettero nell’uni-co “viaggio” da quale non si torna. 
Desideriamo che Monica rispetti le tradizioni locali anche per non sentirsi esclusa dalla comunità.
Senza, però, farne un feticcio. Sapendo scegliere, quando sarà più grande, fra quelle da conservare e quelle da scartare, poiché, ve ne sono alcune davvero aberranti e improponibili.
La bambina indossa un abitino di velluto rosso purpureo, con sulle spalle una grisaglia bianca di merletto, scarpette nere lucide e calzini bianchi.
Una “mise” vagamente medievale davvero incantevole e  intonata con il luogo e con la ricorrenza.
In mano regge un mazzetto di fiori per “i nonni di mio papà che dormono qui”.
Aurora a Joppolo. Sullo sfondo il camposanto e Montefamoso

La sera precedente avevamo parlato di questa visita. Le avevo detto che se avesse portato i fiori ai nonni la notte successiva questi sarebbero venuti in volo a portarle tanti regalini. Bastava mettere le scarpine fuori della finestra.
Le spiegai che i morti volano senza avere le ali, non entrano nelle case, si avvicinano alle finestre e depositano i regalini soltanto dentro le scarpe dei bambini bravi.
Monica appariva perplessa non tanto sulla capacità di volare dei morti, quanto per le sue scarpette che, essendo piccole, non potevano contenere molti regalini.
Mi propose “perché non mettiamo anche gli stivali tuoi, della mamma che sono grandi?”
Mi parve una buona idea e così facemmo.
I morti volanti, i loro doni! Una favola bellissima che ancora resiste (per quanto ancora?), che rinsalda il legame fra i vivi e i morti e offre della morte una rappresentazione naturale, umana. Da ricordare non come un evento tragico ma con una festa, per l’appunto.
A nessuno piace morire, tuttavia la morte è ineluttabile e pertanto bisognerebbe imparare ad accoglierla senza terrore,  con naturalezza.
Prima era così. Ho visto vecchi contadini in punto di morte, serenamente seduti al centro del letto, impartire alle mogli, ai figli e ai nipoti le ultime raccomandazioni a tutela della famiglia e della proprietà; inviare saluti ai parenti lontani; ricevere ambasciate e saluti da recapitare agli amici defunti che sicuramente avrebbero incontrato nel viaggio.
Veri testamenti morali, quando non proprio patrimoniali.
Oggi, temiamo, aborriamo la morte perché ci siamo troppo innamorati della vita!
Perciò, desidero che Monica viva questa ricorrenza come una festa. Come l’abbiamo vissuta noi, da bambini.
Ricordo l’attesa dei morti volanti e le suggestioni che s’impa-dronivano della nostra mente: il fruscio lieve delle loro tuni-che bianche, la ricerca della scarpa giusta dove infilare il regalo corrispondente.
“Ascolta, ascolta! Questa mi pare la zia Rosina. Speriamo che non sbagli scarpa! Era sbadata in vita figurarsi da morta”
In certe notti ventose, ci stringevamo intorno al tavolo, in cucina. Avevamo paura del vento, del suo atroce sibilo. Mia madre diceva che quello non era il vento, ma il brusio dei morti che ritornano in paese a cercare le case dove hanno vissuto, a portare i regali ai loro bambini.
E l’indomani mattina presto tutti a guardare dentro le scarpe. Ne uscivano pupi di zucchero, melegrane dai chicchi dolcis-simi e vermigli, taralli e biscotti al vino cotto, panareddri (pa-nierini) impreziositi con semi di “diavolina” e con un uovo sodo al centro.
Doni semplici confezionati in casa e frutti della nostra terra generosa.
Soprattutto, c’era grande attesa per i “pupi di zucchero”, una sorta di giocattolo commestibile, nelle sembianze di vigorosi paladini di Francia o di fieri cavalieri saraceni.
Eroi-pupi, di zucchero o di latta, che ancora si contendono il nostro destino!
I pupi c’entrano sempre nella tradizione siciliana, nella vita come nella festa dei morti. Da loro deriva anche un verbo “pupiddriari” usato per declinare gli effetti cinetici di un barbaglio agli occhi.
Il pupo è la chiave per aprire lo scrigno delle nostre finzioni, dei nostri camuffamenti, dei nostri trucchi. E’ una maschera,  che indossiamo per la vita.
Siamo tutti pupi, secondo Pirandello. Ancora lui! Non so quanto sia vero tale assunto che potremmo anche accettare solo se fossimo pupi liberi di vivere nel mondo del fantastico e schivare la pessima realtà che ci circonda. Ma nemmeno questa libertà ci è consentita: dietro o sopra i pupi c’è sempre un puparo che tira i fili.
A Palermo sono maestri nel fabbricare pupi di zucchero e di altro materiale. Ne ho comprato uno per Monica. Rappresenta una principessa araba e il suo spavaldo cavaliere con elmo e sciabola.
Domattina, lo troverà nella sua scarpina, sulla finestra.
La bambina comincia ad essere impaziente: “Papà quando vengono i “morticeddri”?
Questo diminutivo lo ha appreso da mia madre che li chiama così.

§. Monichetta è contenta di frequentare l’asilo.
Monica all’asilo
Nei primi giorni, per lei è stata dura: non appena Jolikè la lasciava, scoppiava a piangere. Come se l’assalisse la paura dell’abbandono.
Ora, invece, ha socializzato con gli altri bambini ed anche con le maestre. Giocano, cantano e si divertono. Quando sono a Joppolo, vado io ad accompagnarla e a prenderla per il pranzo.
Il fratellino per “finta”
Monica continua a parlare del fratellino che deve arrivare. Ne parla con chiunque: con noi, con i parenti; con le maestre e con i bambini all’asilo, in piazza. Ogni tanto me lo ricorda “Papà perché non lo vai a prendere il fratellino?”
Poverina, non sa quali e quante difficoltà si stanno accu-mulando in Romania.
Ceausescu ha chiuso ogni canale confidenziale. Non accetta più raccomandazioni, segnalazioni da parte di nessuno; ha ordinato il blocco di tutte le pratiche di adozione con i paesi europei. Chissà cosa pretenderà in cambio?
Non posso arrendermi. Poiché tutti i tentativi intrapresi sono andati a vuoto, disturberò il presidente Andreotti. Speriamo che comprenderà e soprattutto agirà.
Nell’attesa che arrivi Claudio, Monica ha preso a giocare col suo orsacchiotto che per lei è diventato “il fratellino per finta”. Un’altra pietosa finzione!
Si comporta con l’orsacchiotto come se fosse un bimbo piccolo bisognoso di cure e di affetto e pretende che anche gli altri, specie i familiari, si adeguino al trattamento.
La notte lo porta con se nella culla, dove dormirà quando sarà a casa. Per lei vuole un nuovo lettino grande come quello di Lucrezia.
L’altro giorno, l’ho portata a vedere l’ala della casa in costru-zione. Le ho mostrato la stanza dei bambini.
Monica era entusiasta e tutta infervorata s’ingegnò a fare una sorta di ripartizione funzionale: “Qua dormirò io, lì il fratellino, qui metteremo i giocattoli, là i vestitini, qua….”
Verso l’una o le due di notte, prima di andare a letto, prendo in braccio la bambina dormiente e la metto sopra il vasino per la pipì.
Ogni notte, alla stessa ora, la aiutiamo in questa specie di pipì sonnambolica per evitare che la faccia addosso. Lei continua  a dormire. Basta un sollecito (”psi, psii”) e, dopo pochi attimi, arriva l’atteso tintinnio. Le do un bacio sui capelli e la rimetto a letto.
















Capitolo settimo




Senza didascalia.


“Papà quando porti il fratellino?”
2/1/88. Scrivo sempre meno di Monica. Forse, perché più lei cresce più viene meno la mia funzione di supplenza mnemonica che ho esercitato per salvare taluni momenti della sua prima infanzia che difficilmente potrà ricordare.
La bambina parla, parla sempre, come “un judice poviru” chiosa mia madre.
Chissà perché questo detto? Forse che il giudice ricco parli di meno? Boh!
Parla e canta, anche se è stonatina. All’asilo ha imparato tante canzoncine. Altre gliele insegna mia madre, la cara nonna Giovannina. In questi giorni, le sta insegnando quella che dovrà cantare all’asilo per la Befana, anche se nella tradi-zione locale non c’è traccia di questa vecchiaccia.
Come già scritto, a Joppolo, il 6 gennaio, si festeggia la Pastorale.
Monica canta, si diverte, senza dimenticare il fratellino lon-tano. Talvolta sbotta, impaziente: “Papà quando lo porti il mio fratellino?”
Ancora una bugia per risposta: “E’ di nuovo in ospedale e non lo fanno uscire. Quando guarirà andrò a prenderlo”.
Povera figlia, non posso dirle la verità.
Le bugie avranno le gambe corte, ma in certi casi sono le uniche che consentono di fare un passo in avanti. Laggiù le cose si sono complicate ulteriormente. Le comunicazioni si sono interrotte.
Non giungono più notizie. Non riusciamo a parlare con l’av-vocato (non si fa trovare); nemmeno con Virgil.
Come se si fossero chiuse le porte dell’inferno: nessuno può entrare e nemmeno uscire.
Avrei voluto evitarlo, ma, ora, sono costretto a scrivere al ministro degli Esteri, on. Giulio Andreotti,  pregandolo d’in-tervenire in favore del nostro caso e di quelli di tante altre coppie d’italiani che aspettano da anni.
Purtroppo, non riceviamo notizie nemmeno da lui. Strano. Un po’ conosco la solerzia e la cortesia del presidente; per non rispondere vorrà dire che la situazione è davvero difficile, impenetrabile, perfino per Andreotti.
Con Monica siamo saliti al secondo piano per costatare gli avanzamenti dei lavori di costruzione. La bambina mi rifece il discorso di prima: qui dormo io, lì il fratellino, ecc.
Non so perché, ma le risposi che non avevamo i soldi per comprare i mobili, il suo lettino.
Lei non si scoraggiò:“Io ho molti soldini nel salvadanaio”.
Un bambino palestinese per giocare con Monica
Sono ad Atene (8/2), in attesa d’imbarcarmi sulla “Nave del ritorno” dei palestinesi alla volta di Haifa. Sperando che gli israeliani- come hanno minacciato- non l’affondino prima di toccare terra.
Telefono a casa per comunicare l’arrivo nella capitale greca e anche perché desideravo sentire la vocina di Monica che ieri sera era rimasta turbata nell’apprendere che ero in partenza per “portare da mangiare ai bambini palestinesi”.
Jolikè, forse, le aveva detto che in Palestina c’è la guerra tra palestinesi e israeliani e che molti bambini palestinesi sof-frono la fame e le altre sventure imposte ai loro genitori.
Purtroppo, a una bambina di tre anni e mezzo non si possono spiegare le complessità del conflitto mediorientale, l’assurdità della tragedia del popolo palestinese sottoposto alle espul-sioni, all’occupazione militare dei suoi territori.
Bisogna semplificare al massimo. In questa guerra assurda, tutti sono vittime di qualcuno o di qualcosa, tuttavia i “bravi” non sono quelli che si danno ragione con la forza, ma i più deboli, i vinti, coloro che subiscono il torto più grave.
Per l’intera serata, Monica si è mostrata nervosa, insofferente e mi ha chiesto di raccontarle “la favoletta dei palestinesi bravi e degli israeliani cattivi”.
Tentai di accennarle qualcosa, ma non mi sembrò il caso. La sviai su un programma tv, dove Renzo Arbore scimmiottava con Nino Frassica, l’attore siciliano che le piace tanto.
Tuttavia, nemmeno le smorfie di Frassica riuscirono a rasse-renarla, a farla ridere. La presi di forza e la portai a letto.
Anche qui continuava ad essere nervosa, perfino un po’ dispettosa.
Mi resi conto che in lei c’era qualcosa che non quadrava e le domandai: “Monica perché fai la monella?”.
Lei, piangendo, rispose: “Non voglio che vai in Palestina perché là c’è la guerra”.
Restai esterrefatto. Per rassicurarla le dissi che stavo andando in Grecia dove non c’era la guerra.
In nottata partii alla volta di Fiumicino, dove m’imbarcai su un volo per Atene.
Al telefono rispose mia madre stupita che mi trovassi già nella capitale greca, non voleva crederci.
Jolikè e la bambina erano uscite in piazza per il carnevale.
La sera richiamo e trovo Monica, tutta pimpante, che mi dice:
“Papà porta qualche bambino palestinese a Joppolo per giocare con Monica…glielo dici se vuole giocare con Monica?”
“Sì, certo. Appena ne incontro uno glielo chiedo”
“Papà non l’ho dimenticare, portalo qui che lo prendiamo come figlio, oh!”
La gonna con lo spacco
Finalmente,  Monica ha superato il metro di altezza. E' alta centoquattro centimetri per la precisione.
I vestitini, le scarpe le vanno stretti. Indossa misure per bambini di 5-6 anni. Una bella notizia, anche se comporterà qualche nuova spesa.
E’ civettuola, le piace tanto essere ammirata, vantata.
Ieri sera (13/3), dopo una settimana, sono tornato da Roma e per prima cosa mi ha detto:
“Papà, guarda ho la gonna con lo jacco (spacco)”.
Una piccola gitana

Si girò, a trottola, per mostrarmi che anche lei, come le ra-gazze, aveva lo spacco.
Suole anche profumarsi (forse un po’ troppo) prima di uscire da casa. Insomma, copia, come una scimmia del Borneo, tutto quello che vede fare a sua madre e alle ragazze che conosce.
E così, a tre anni e mezzo, abbiamo in casa una signorina che veste alla moda, si cosparge di profumi; che  canta e balla come le ballerine in televisione.
L’altra sera, mi ha chiesto d’improvvisarmi presentatore per presentare, con belle parole, il suo show in… cucina. Esattamente, come fa Pippo Baudo che lei chiama Pippo Bau.
Ovviamente, mi sono prestato a questo insolito ruolo e Moni-ca si è graziosamente esibita, solo per me, in canzoni e balli fra l’antico e il moderno.
Si è fatto tardi. Lei deve andare a dormire e io a preparare l’intervento per la conferenza di Praga sulla pace.
Monica per trattenersi ancora mi fa una proposta che non posso rifiutare.
“Papà se aspetti ti racconto 4- 5- 10 favolette che ho impa-rato all’asilo, oh!”
Quel “oh!” era come il timbro della sua risolutezza.
Acconsentii. E lei iniziò a narrare spezzoni di favolette in parte ascoltate e/o in parte improvvisate da lei.
Pur di trattenermi, ripeteva le stesse cose, s'ingarbugliava spesso, si bloccava su qualche parola e chiedeva l’aiutino.
Una scena davvero commovente che m’indusse a rinviare il lavoro e stare con lei, ad ascoltare qualsiasi cavolata dicesse o cantasse.
Lei ne fu felice e si fece furba, si strofinò le mani, e mi disse “Ora raccontami tu le favolette”
Le narrai la favola di Ulisse e Polifemo, le accennai a quella della “montagna incantata”. Poi volle che le parlassi del prossimo viaggio in Ungheria, di cosa vedrà e farà. Mi chiese di portarla di nuovo al luna park di Budapest, allo zoo e a giocare con le amichette all’asilo di Ecser.
Partiremo, insieme, venerdì 18 marzo: io andrò a Praga e da lì raggiungerò Monica e Jolikè in Ungheria.
Questa mattina, siamo andati in piazza a passeggiare.
Tirava un vento gelido e le strade erano deserte. La gente era chiusa in casa. Branchi di nuvole candide correvano, scompo-ste, sotto il sole che stentava a imporsi sulla scena.
Camminavamo, curiosando, per quelle stradine vuote, decre-pite godendoci quella meravigliosa solitudine.
Ogni tanto una sosta per riposare e, soprattutto, per spiegarle quelle architetture di gesso, le vicende di miseria e servilismo che hanno fatto la storia di questo borgo feudale.
Storie di gente nata vinta, alle quali i giovani (e non solo) si sono ribellati fuggendo, emigrando nelle più lontane contrade del mondo.
Monica si mostra interessata al discorso e continua a domandare: “Questo cos’è, perché?” “Qui chi ci sta?”
Si esprime molto bene, con qualche dolcissima storpiatura, per la gioia di papà: “aprito” per aperto, “pettacolo” per lo spettacolo, e via via storpiando.


A Mazara, con i poeti del Mediterraneo
Ieri (15/5), con Monica e Joliké, ci siamo recati a Mazara del Vallo per partecipare ai lavori del “V Incontro fra i popoli del Mediterraneo” nel corso del quale mi  conse-gneranno una medaglia d’oro per il mio libro “Oltre il Canale- Ipotesi di cooperazione siculo-araba”, per altro dedicato alle mie donne.
L’altra medaglia è stata conferita al professor Antonino Zichichi, il fisico trapanese, direttore del Cern di Ginevra.
Fra gli ideatori e gli organizzatori del simposio c’è un poeta, Rolando Certa, perciò non poteva mancare una sessione interamente dedicata alla poesia, ai poeti del Mediterraneo.
Idea azzeccata, poiché la poesia è un messaggio potente, diretto e può dare un contributo rilevante alla comprensione e alla convivenza pacifica fra i popoli rivieraschi.
Molto di più delle chiacchiere vacue che si fanno nel corso delle tante delegazioni politiche e commerciali, di tanti con-vegni pseudo culturali.
Quando è autentica, la poesia è creazione pura, è libertà che non sopporta gabbie, limiti spaziali e culturali, barriere politiche.
Fra gli arabi la poesia è ancora il genere letterario dominante anche se non si può dire sia il prodotto di una libertà reale e  diffusa. Semmai, è un lamento per la libertà negata da regimi dispotici e corrotti. Tuttavia, la poesia è una delle chiavi d’oro per aprire il cuore degli arabi, per cogliere e decifrare i loro sentimenti, i loro eroismi, le loro paure. 
Attenti però ai falsi poeti! Soprattutto agli epici, a quelli che incitano le masse al martirio dal bordo di una piscina di un albergo a cinque stelle. In giro ne ho incontrati tanti: fra il Cairo, Damasco e Bagdad.
Qui, a Mazara, sono convenuti poeti da ogni riva del Mediterraneo, non per competere ma per cercare insieme la via della pace attraverso una nuova unione attorno a questo mare, culla delle più antiche e celebrate civiltà.
Fra sessioni e pranzi, Monica se l’è cavata piuttosto bene. Certo, ha avuto qualche insofferenza. Per non tediarla, ogni tanto l’abbiamo portata a fare un giretto per le vie Mazara.
Anche perché temevo che, vedendo recitare quei poeti, le potesse venire in mente di recitare anche lei una poesia.
Infatti, a un certo punto, mi propose: “Papà anch’io so la poesia, quella dell’uccellino. Perché non dici a quel signore (si riferiva al presidente della sessione) che mi fa dire la poesia dell’uccellino?”
Per fortuna, la cosa non ebbe seguito, si chiuse lì, senza conseguenze per…l’eccellentissimo simposio.
A parte ciò, tutto è andato per il verso giusto.
Per altro, essendo l’unica partecipante sotto i quattro anni, Monica divenne la mascotte del convegno.
In particolare, legò con un simpatico poeta libico, Alì Khader di Sabratha, che la coccolava e le recitava le poesie in arabo.
Fra cui una, improvvisata a tavola, con la quale invitava i partecipanti “a re-incontrarsi  a Mazara fra… un milione di anni. Ognuno porterà una rosa, per fare della Sicilia un aulentissimo giardino…”

§. Questa sera (8/7), Monica ha voluto inaugurare la sua stanzetta ossia la mansarda che si affaccia sul giardino.
E’ molto graziosa e comoda, ma ancora spoglia. Non vi sono mobili. I soldi sono andati tutti per la costruzione della casa.
Tuttavia, la bambina insiste per dormire da sola nella sua cameretta.
Per accontentarla, Jolikè estrasse il materassino e il cuscino della culla e le approntò un lettino sul pavimento di cotto rosso fiorentino.
E ha dormito lì, serenamente. L’indomani si è svegliata tutta contenta e soddisfatta. Aveva preso possesso della sua stan-zetta dove coltiverà la sua intimità, conserverà i suoi piccoli segreti. Dove dormirà anche il fratellino.

Il ventilatore
30/7/88. Ieri è morto, a Cheratte, in Belgio, mio zio Giu-seppe Cultrera, fratello di mia madre e figlio di Agostino, sommo poeta di…Joppolo.
E’ morto lontano della sua casa in piazza Picciola e del castello del duca, dove aveva servito per decenni.
In questa famiglia di poeti e ortolani, lui era il solo a non possedere il “dono”. In compenso cantava romanze e serenate alla sua “bella Rosa che fiorisce ogni sera”.
Talvolta, anche canzoni amare che rasentavano il nonsenso, l’assurdo.
Una di queste l’ascoltò mia madre una notte mentre scende-vano a piedi da Raffadali, dove si erano recati (c’era anche la zia  Francesca) alla “Fera Malati”.
Chiarisco che tale “fera” non è un’esposizione di persone malate, ma la più importante fiera agricola del circondario che si tiene in occasione della festa della “Madonna dei malati”. Così cantò zio Giuseppe quella sera.
“Vitti siminari favi cotti
Ni lu misi di maju ficu fatti
Vitti lavurari un omu mortu
L’aratu lu tiravanu du gatti”
Una canzone assurda, dolente, macabra perfino, che provo a tradurre per coloro che parlano soltanto col tischi-  toschi.
(“Ho visto seminare fave cotte
Nel mese di maggio (ho visto) fichi maturi
Ho visto lavorare (arare) un uomo morto
L’aratro lo tiravano due gatti”)
Una bizzarria! Dove si è mai visto un uomo morto, un cadavere dissodare la terra per inseminarla con fave cotte, con un aratro tirato da due gatti poderosi?
Una scena apocalittica nelle terre del duca!
Poi vennero la guerra, l’emigrazione clandestina, il lungo viaggio fino al Belgio dove l’inghiottì una cupa miniera di carbone che, lentamente, gli distrusse i polmoni. Oggi, a Cheratte la sua famiglia piange la sua morte.
Forse, se ne sarà andato col rammarico di non aver potuto lasciare le ossa alla terra che l’ha generato. 
Ma si potrà consolare per il doppio lutto: uno a Cheratte e l’altro a Joppolo, in casa nostra, pianto da fratelli e sorelle e- come vedremo- dalla piccola Monica che non lo ha conos-ciuto.
Il “cunsulu” (ossia le visite di consolazione) durerà tre giorni, come se ci fosse il morto in casa.
I fratelli e i parenti più intimi sono riuniti a circolo nel sog-giorno di mia madre e attendono le visite di amici e parenti. Qualcuno annoterà, a mente, le presenze e le assenze per con-traccambiare domani.
Jolikè ha spiegato a Monica cosa stava succedendo giù dalla nonna.
La bambina ha voluto costatare de visu. Rimase colpita nel vedere la scena: quei fratelli, vecchi e incanutiti, vestiti di nero, seduti uno di fianco all’altro, che piangevano un morto che non c’era. Muti, in attesa di una visita.
Monica, senza parlare, prese la sua sediolina di vimini e andò a sedersi accanto a mia madre. 
A suo modo, partecipava al lutto per la morte del “fratellino della nonna di Joppolo”.
Nella stanza, il caldo torrido di luglio era insopportabile. Eppure, le imposte dovevano restare chiuse o semichiuse, per segnare il lutto.
Per alleviare l’afa, mia sorella Zina portò il ventilatore e l’accese.
La bambina, pensando che fosse quello messo in palio alla festa dell’Unità, si rivolse, contenta, a mia madre: ”Nonna! Nonna! Chi lu vincisti tu il ventilatore?”
Una lettera di Giulio Andreotti
Oggi (8/8) mi è pervenuta una lettera del ministro degli Esteri, on. Giulio Andreotti. Gli avevo scritto  chiedendogli d’intervenire presso le autorità rumene per sbloccare l’iter delle pratiche di adozione relative a Claudio e ad altre centinaia di bambini attesi da coppie italiane.
Come si può leggere dal testo (allegato), il Presidente assi-cura di essere intervenuto presso il collega rumeno, ma il risultato è stato aleatorio, deludente.
Sono certo che egli avrà fatto del suo meglio per accelerare i tempi e favorire l’emissione dei decreti.
Ma- come traspare dalla lettera- in questa vicenda pesano dei paletti, imposti dal governo di Bucarest, che la politica, la diplomazia non possono forzare.
Come scrive Andreotti, la questione è delicata e “ impone di procedere con cautela e con senso di responsabilità”.
Aggiungendo, poi, di suo pugno, due righe da me molto gradite “Stai tranquillo che faccio ogni sforzo, anche “ufficioso”.
Il gelataio di Aragona
Ascolto sempre le note gioiose del carillon del gelataio di Aragona che non è la storica regione spagnola, ma un paese confinante col nostro. Aragona, appunto. Quanta Spagna ab-biamo incorporato noi siciliani!
 Ma fermiamoci al gelato che, da quando i gelatai nostrani sono spariti, lo porta quest’uomo, alle cinque della sera, col suo furgone colorato.
Non ha bisogno di sgolarsi, di gridare come fanno altri am-bulanti. Per lui parla la musica, dolcissima, del genio vien-nese: da sette anni, alla stessa ora, sempre lo stesso brano  del “Il bel Danubio blu” di J. Strauss.
Musica e gelato che felice abbinamento! Irresistibile, per grandi e piccini.
A quell’ora le donne sono riunite nella piazzetta per pregare e soprattutto per sparlare. Non appena giungono le prime note, i bambini entrano in agitazione e tormentano le mamme per farsi comprare il gelato.
Prima che arrivasse Monica, mi accadeva di osservare, da dietro la persiana, quelle madri avvicinarsi all’allegro furgone con i bambini afferrati per mano.
Confesso che ho desiderato tanto poter accorrere anch’io, a quell’ora gioiosa della sera, con un bambino per mano, a comprargli un cono dal gelataio aragonese.
Passò qualche anno. Oggi c’è Monica e posso farlo. E la musica del carillon è ancora più bella.
Il gelato del gelataio d’Aragona

Ogni sera, la stessa scena che mi ricorda l’arrivo della carriola di Giurlanniddru don Nociu con dentro due pozzetti di gelato: uno al gusto di limone e l’altro misto torrone e  cioccolato.
Candido e secco come un angelo canuto, Giurlanniddru si annunciava al nostro piccolo mondo in attesa con un “limone è che bellu”. Per noi non era un uomo, ma una luce argentea che saliva dal Voltano annunciando, con la sua voce tremula, le delizie contenute nei due pozzetti..
Al limone e che bello” era uno slogan commerciale, ma ben presto sostituì il suo patronimico come elemento d’identi-ficazione. Di Giurlanni, Giurlaniddri ce n’erano tanti, ma di “limone e che bello” solo lui.
Quando nasce un filo d’erba
Monica ha ripreso a frequentare l’asilo. Jolikè le ha comprato un grembiulino rosa. Sono circa 35 i bambini iscritti all’asilo di Joppolo, un edificio ormai vetusto ubicato fuori paese in una zona franosa chiamata “cugnu nutaru”, un tempo ricetto d’immondezzai e cacatoi pubblici.
Monica e Jolikè di ritorno dalla passeggiata

E’ stato costruito negli anni ’50, con finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno, in un’area a dir poco infelice donata dal Comune alla Chiesa cattolica che intendeva rea-lizzarvi un asilo privato.
Ci vollero venti anni prima che fosse aperto. Il tempo di una generazione!
Attenzione, però. L’asilo non è gestito dall’istituzione eccle-siastica, com’era scritto nella richiesta di finanziamento, ma dal Comune donatore che, ironia del buon senso, deve pagare un canone alla chiesa.
Insomma, un capolavoro di lecita circonvenzione della legge!
Ma andiamo oltre. In un paese minuscolo come Joppolo, l’asilo costituisce certamente un luogo importante di socializ-zazione.
La bambina comincia a entrare pienamente nella vita di relazione comunitaria che- com’è noto- ha tanti vantaggi, ma anche qualche inconveniente.
Nel caso di Monica, notiamo comportamenti inediti, aggres-sivi, disubbidienti, perfino intolleranti. Per lei, la casa, la famiglia non sono più il centro principale del suo universo infantile, ma un luogo di conflitto.
In un certo senso, è giusto che sia così, tuttavia il cambia-mento sembra eccessivo, troppo repentino.
Il fatto si spiega, in parte, con la frequentazione di bambini adusi a una vita meno ovattata, protetta.
La bambina si sarà dovuta adeguare assumendo come valori anche i comportamenti aggressivi.
Come dire “Chi pratica con lo zoppo…zoppica”.
Entro certi limiti, questo “zoppicare”, non mi dispiace poiché serve per la formazione del carattere della bambina che dovrà vivere e confrontarsi in questa società.
Certo, il problema di certe asperità comportamentali esiste e non può essere aggirato, come fanno taluni, portando i figli all’asilo del capoluogo.
Per quanto possibile, Monica deve crescere come noi: nel nostro paesino, nelle sue vie, nelle sue scuole; in mezzo alla nostra gente che, per quanto “arretrata”, è sempre la migliore che ci sia nei paraggi.
Monica con la coppola del nonno

L’unico inconveniente da evitare è la fossilizzazione nel paese, l’asfissia per mancanza di collegamento col mondo esterno, col mondo tout court.
Ieri sera (11/10), siamo andati a passeggiare nella campagna intorno al castello.
Abbiamo giocato sulla terra ammorbidita dalla pioggia e osservato le manifestazioni della natura.
Il filo d’erba che nasce, e cresce, tra le pietre dure, avare; la coda spezzata di un serpente contesa da uno sciame di vespe assatanate e da eserciti di formiche in livrea; i massi di calcare staccatisi dalla Rocca intrisi di scheletri di molluschi primordiali; campi di meloni ormai spogli; il volo delle “ciaule” (una specie rara di corvi che vivono soltanto sulla Rocca del Duca) il loro gracchiare per l’aria tersa della sera; i fumi dei comignoli nel paese.
In un piccolo spazio sono concentrati presenze e fenomeni grandiosi che riguardano il mistero della vita e della morte.
Una lezione esemplare, basata sull’osservazione diretta, senza ricorrere all’enciclopedia.
Una bella “sciampagnata”- disse  Monica senza avere bevuto “champagne”.
§. Osservo Monica disegnare, tracciare  linee, schizzi di uccelli, fiori, cani, pecore, bambini, cavalli ossia il suo piccolo mondo finora conosciuto, lontano dai fragori di città violente e rumorose.
Le sue manine bianche tracciano sul foglio, con lapis e penna, le linee essenziali del soggetto. Da Parigi le ho portato una stampa di un disegno giovanile di Pablo Picasso che abbiamo appeso alla parete della stanzetta quasi a voler suggerire a Monica un modello.
Lei ha voluto sapere chi avesse fatto quel disegnino.
Le risposi:“Pablito, un bambino spagnolo emigrato in Francia”.
Alcuni di questi primi disegni di Monica li ho conservati nel mio disordinato archivio privato.
Disegno di Virgil Preda per Monica
Dal disegno all'aritmetica. La bambina comincia a pren-dere dimestichezza con i numeri: conta fino a dieci. Sa fare   anche la emme di Monica.
Ogni sera fa “i compiti” sotto lo sguardo benevolo di Jolikè.
In questi giorni, Monica è costretta a stare in casa perché l’asilo è chiuso per lavori di restauro e derattizzazione.
E così passa diverse ore davanti al televisore. E questo non è molto educativo. Bisogna somministrare la tv con parsimo-nia. Per quanto possibile cerchiamo di distoglierla proponen-dole attività alternative, passeggiate e giochini vari.
Anche nella conversazione fa progressi, comincia a svolgere brevi ragionamenti. Non solo chiacchiere ma piccole costru-zioni più o meno razionali.
E’ sempre curiosa e incalzante con i suoi perché.
Recita le preghiere che le insegnano mia madre e le altre don-ne della famiglia. Preghiere antiche, tramandate da genera-zioni, che però ci creano qualche problema.
La bambina, infatti, non capisce perché anche la mamma non le insegni le preghierine come fa la nonna. Abbiamo deciso di non affrontare il tema per non turbarla con spiegazioni per lei troppo impegnative.
Anche questa materia è rinviata alla maggiore età.
Lo spirito del “conducator” aleggia su Palermo
L’altro giorno (26/12), ho avuto con Jolikè un breve ma vivace diverbio a causa delle difficoltà economiche che stia-mo attraversando.
Forse, era la prima volta che Monica assisteva a una lite fra mamma e papà. L’ho vista cangiata in viso, irrigidita, muta, terrorizzata.
Vedere litigare, a voce alta, mamma e papà, rompersi anche qualche piatto, è stato per lei un trauma.
Purtroppo, sono stato io a perdere il controllo dei nervi in questo periodo molto tesi. Accade raramente ma quando suc-cede si crea un po’ di trambusto.
Una sfuriata passeggera, presto placatasi, che fece scoppiare la bambina in un pianto dirotto, per me molto straziante.
Si schierò dalla parte di Jolikè che le appariva vittima della mia ira. In effetti, un po’ lo era. I nostri guai non nascono da diverbi in famiglia, ma discendono dalle ristrettezze econo-miche e dalle incomprensioni che continuo a subire presso il CR del Partito.
A Palermo c’è una situazione difficile sul piano dell’azione politica e assurda su quello finanziario che non garantisce nemmeno la regolarità dei magri stipendi mensili.
E’ vero che c’è  la crisi, ma non è uguale per tutti.
Al segretario regionale lo stipendio arriva, puntuale, diretta-mente da Roma, mentre gli altri compagni dell’apparato devono  accontentarsi di quello che passa il povero convento di… Palermo.
A ciò bisogna aggiungere una ulteriore discriminazione: nell’erogazione degli stipendi prima vengono i membri della segreteria e poi gli altri compagni di più basso grado.
Una condizione assurda, inaudita per un partito che si fonda sulla fraternità, sullo spirito umanitario e solidale.
Nella mia esperienza di segretario provinciale di Agrigento avevamo commisurato il trattamento economico e le priorità ai bisogni dei compagni e non ai gradi.
Invece qui devo fare la fila, attendere giorni e settimane pri-ma di portare a casa quattro lire.
Per tirare avanti sono stato costretto a cambiare i 1.500 dolla-ri che avevo messo da parte nel caso ci avessero chiamato per andare a prendere Claudio.
Avevo giurato di usarli esclusivamente per questo fine, ma fui obbligato a tradire il giuramento.
Temevo, soprattutto per Monica, per Claudio. Non riuscivo a sopportare l’idea di averli strappati dall’inferno rumeno e ora non poterli sfamare, farli crescere, educare.
In qualche momento ho pensato a un’atroce beffa del destino.
Come se lo spirito del “conducator” aleggiasse sopra il deca-dente palazzo baronale del comitato regionale.
Da qui le tensioni, le liti con le mogli, nelle famiglie.
Non potevo spiegare queste cose alla bambina che continuava a piangere, attaccata alla gonna della madre. Le segnalo non per recriminare, ma solo sperando che un giorno possa leggerle e capire.
Mi resi conto della situazione, mi calmai e corsi ad abbracciare Monica per rasserenarla, assicurandole che era tutto passato
La bambina sembrò apprezzare il gesto distensivo, smise di piangere e mi disse “la mamma è poverina, è buona, vai a fare “pace paciuzza” con la mamma”.
La coprii di baci ed eseguii l’ordine di pace.
Apparentemente, Monica ha superato lo shock, tuttavia tende a parteggiare per Jolikè, anche quando non è necessario.
Per accertarmi che mi vuole sempre bene, ogni tanto le domando: “Moka quanto vuoi bene a papà?”
Lei risponde “Assa, assa!”
“Assai quanto?” la incalzo.
“Un milione, un miliardo di bene”
Mi accontento anche del “milione” e mi sforzerò, per il futuro, di evitare scenate simili.
Furto in casa, ancora uno zingaro
21 gennaio 1989. Abbiamo anticipato di un giorno il mio compleanno per festeggiarlo insieme a quello della zia Fran-cesca.
Nulla di speciale, soltanto una piccola festa in famiglia.
Monica è tutta contenta di avermi aiutato a spegnere le 41 candeline.
Poi chiede alla mamma di prenderle uno dei suoi braccialetti d’oro conservati nelle scatoline dietro lo specchio dell’arma-dio nella stanza da letto.
Jolikè apra una scatolina e la trova vuota. Ne apre un’altra anch’essa vuota. Un’altra ancora, pure vuota. Su tredici solo quattro sono piene.
Sono spariti quasi tutti i regalini (collanine, braccialetti d’oro) che Monica aveva ricevuto per il battesimo. 
Cerchiamo dappertutto, ma niente. Chiediamo alla bambina se avesse usato le scatoline per giocare, magari mostrandole a qualche amichetta/o che frequentano la casa.
Monica rispose che non le ha mai prese. Pensiamo a un ladro. Però, c’è qualcosa d’illogico: perché il ladro avrebbe dovuto lasciare i quattro oggettini d’oro? Perché non arraffarli tutti?
Sospettiamo che Monica avesse conservato i gioielli e che ora non ricordasse più il posto o che, addirittura, li avesse portati all’asilo e “distribuiti” ai suoi compagnetti di giochi.
Anche questa ipotesi non regge. La bambina ha ribadito di non averli mai presi. Conoscendola, ci convinciamo che non avrebbe dilapidato il suo “tesoretto”.
Insomma, la brutta scoperta comincia a tingersi di giallo.
In casa il clima è cambiato: dall’allegria della festa ai musi lunghi, ai sospetti. Cercai di sdrammatizzare. In fondo, quei gioielli erano poca cosa; avevano solo un valore affettivo.
Quando restammo soli, Jolikè mi raccontò l’episodio dello zingarello che, lo scorso 7 gennaio, era entrato in casa di sop-piatto.
Non me l’aveva detto prima perché temeva la mia reazione. Giacché ha disatteso la mia raccomandazione di non lasciare la porta aperta o la chiave inserita all’esterno.
La precauzione era giustificata giacché, in questo periodo, in paese si erano verificati diversi furti in appartamento.
Jolikè, quel giorno, lasciò la chiave inserita e andò a stendere la biancheria sui balconi della casa di Klari che dista circa 200 metri dalla nostra.
Sicuramente, in quel frattempo, sarà entrato lo zingarello che lei incontrò per la scala mentre usciva di corsa dalla nostra casa. Ancora uno zingaro! A parte il danno subito, continuo a nutrire una certa simpatia per questo popolo, per la sua musica.
Anche se, confesso, non riesco ad accettare l’idea, propugna-ta in alcuni ambienti della sinistra “buonista”, secondo cui lo sfruttamento dei minori, delle loro donne, il latrocinio prati-cati da taluni zingari (non da tutti, ovviamente), si possono non condannare in nome di un’improbabile “cultura zigana”.
Una sonora pernacchia al professorone
Stranamente, Monica si concede qualche comportamento irriguardoso nei confronti dei familiari. Specie verso mia madre e mio padre che l’adorano.
Qualcosa le scappa anche con noi. Evidentemente, la fre-quentazione degli altri bambini dell’asilo produce in lei tali effetti, inevitabili nel suo primo impatto con la vita sociale.
Oggi (10/3), l’abbiamo portata a Palermo per farla visitare da un professorone dell’Università che ci è stato raccomandato come uno dei migliori pediatri della Sicilia.
Appena entrati nello studio, Monica si è messa a piangere. Come il solito, era terrorizzata al solo pensiero d’incontrare un medico.
Il prof. è stato bravo nell’approccio. Tentò di entrare in confi-denza con la bambina. Per rassicurarla, le disse che non era un medico, ma uno zio che voleva giocare con lei.
Tutto pareva andare per il meglio, ma non appena il prof. estrasse lo stetoscopio per auscultarle il petto Monica  ne restò sconvolta.
Altro che giochino! Cominciò a urlare e si aggrappò al mio collo come per essere difesa dal “nemico” in agguato.
Al medico che, con parole suadenti e scherzose, riprese il tentativo di visitarla, gridò: “Non mi fai paura…”
Con l’aggravante che alla sfida seguì una sonora pernacchia, per noi molto imbarazzante.
“La prego di scusarla. Sa all’asilo…” riuscii a biascicare.
Il professorone stavolta perse la pazienza e se la prese con noi: “I figli, egregi signori, sono una responsabilità. Vanno educati per bene.”
Restammo pietrificati, senza parole e rossi di vergogna.
Mise da parte lo stetoscopio e la auscultò con le mani, sia il petto sia il pancino.
Non so che cosa abbia potuto auscultare, tuttavia ci assicurò che per lui era tutto regolare, nella norma.
“Semmai- aggiunse con un' espressione perfida- c’è qualche problema comportamentale che io non posso curare… 150 mila lire, prego”.
Era questa la tariffa per una visita durata poco più di 20 minuti ossia una cifra corrispondente al salario di tre giornate di duro lavoro di un edile.    
Gli chiesi la ricevuta fiscale. Il professorone si sentì in dovere di precisare che, in questo caso, l’onorario doveva essere incrementato di altre 30 mila lire:“Sa, lo Stato ci tartassa con le tasse. E’ peggio dell’inquisizione spagnola…”
Quando uscii dallo studio vidi l’anticamera piena di gente in attesa di visita. Ma quanto cavolo guadagnano questi medici?
Gli stava bene la pernacchia di Monica!
Comunque sia, abbiamo parlato con Jolikè della reazione della bambina. Cercheremo di osservarla più da vicino, di capire meglio la realtà dei suoi rapporti esterni alla famiglia e quindi assumere le necessarie precauzioni, sempre mediante il ragionamento e la persuasione.
A parte questo episodio, la bambina viene su bene, educata e dotata di un equilibrio più che normale.

§. Oggi (16/5), Monica ha disegnato un bimbo, come tanti disegnati in precedenza. Stavolta, però, ha il “pisellino”.
Sorpresa per tale inedita attribuzione, Jolikè l’ha interrogata: “Cosa è quella cosina sporgente fra le gambe del bambino?
“Serve per fare la pipì, l’ho visto al gabinetto” rispose, tranquilla, la bambina.
La scoperta del “pisellino” ci ha un po’ turbati, ma anche un po’ rasserenati. Come ha detto il professorone, la bambina è nella norma.
La vendita dei fac-simili
Siamo allo sprint finale della campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo.
Monica desidera, a tutti i costi, partecipare alla distribuzione dei fac-simili.
E’ in disaccordo con me che regalo “i fogli alla gente”.
Perché regalarli? Sono così belli, con tutti quei disegnini colorati.
Propone di venderli 100 lire ognuno. L’altro giorno (15/6), al mercato si è messa a vendere fac-simili specie ai parenti che incontrava. Ha racimolato una piccola sommetta che però… non ha versato nelle casse del Partito.
Appagata del buon esito della vendita, ora vuol venire con me a fare il giro del paese, a vendere casa per casa i fac-simili.
Insomma, sembra avere intravisto un grande affare.
Le spiego che non è possibile, poiché i fac-simili non si ven-dono ma si offrono gratuitamente alle persone per farle votare per il nostro Partito.
Lei non capisce il meccanismo e mi chiede di spiegarglielo.,
Le spiego, ma non la convinco. Insiste: i “foglietti” bisogna venderli, non regalarli.
Il fiume anidro
Finalmente (13/9), piove come Dio comanda. Si dice così, ma Dio non c’entra. Se no, bisognerebbe fargli una domanda a dir poco imbarazzante: perché, nonostante le preghiere e le tante processioni, spesso dimentica di mandare la pioggia in questa landa semidesertica della Sicilia?
Da giorni, la pioggia, intensa e benefica, paralizza la vita del piccolo villaggio. I contadini sono costretti a oziare in piazza, a godersi la pioggia. Quando “scamperà”, e la terra “aggran-gerà”, potranno dar il via alle semine di fave e frumento.
Nascerà così il buon grano di Joppolo che ha sfamato tanta povera gente e arricchito l’illustre casata dei duchi Colonna.
Soprattutto di notte, si ode la tumultuosa discesa del ruscello (vaddruni) Drago, gonfio come un rospo in calore, che corre verso il mare “africano”.
In realtà, questo fiumiciattolo, anidro per gran parte dell’an-no, ha un doppio nome, secondo il territorio che attraversa: in quello di Joppolo si chiama “Drago”, in quello di Agrigento “Akragas”.
Strano. Quasi si fosse voluto ripartire un dominio fra due en-tità mitiche che abitano la fantasia popolare.
In realtà,  il fiume è uno e rischia una brutta fine a causa delle diverse  fogne che vi si riversano.
Qualcuno, ironizzando, prevede che tornerà navigabile come al tempo dei greci e così potremo andare da Joppolo a San Leone in barca…solcando una massa di fetidi liquami.
Anche noi siamo chiusi in casa a goderci la pioggia deside-rata e anche un po' temuta, che evoca ancestrali paure e odori di cibo e di terra sfumata.
Osserviamo, le gocce d’acqua “giogia”, tonde e rigonfie, correre, impazzite come magneti, sul vetro della finestra, velato dal respiro di Monica.
“Guarda questa quanto è grande, e com’è veloce…”
“Anche la mia corre ed è tanto grande” aggiunge lei, per non essere da meno.
Ormai non dice più “dante”, ma “grande” bello chiaro.
Da quando frequenta l’asilo, ha abbandonato “dante”, ma non sa che il Sommo Poeta l’aspetta, paziente ed esigente, alle superiori.
§. Monica è tornata dalla piazza, dove ha  imparato due nuove canzoncine che mi canta.
.
 Sotto il cappero, sulla terrazza

La prima: “Oj è duminica,
tagliamu a testa a Minica,
Minica nun c’è
tagliamu a testa a u re
u re è malatu
tagliamu a testa o surdatu”
La seconda:“Cruci ferru, cruci ferru,
cu talia sinni va a u mbernu”
“E ora raccontami tu una favoletta” dice tutto d’un fiato.
Le ore sono lunghe prima della cena. Le accenno alcuni episodi di quando bambino, poco più grande di lei, andavo a pascolare la capra a Passo Raffadali. Allora, non c’era casa senza questo ovino. La capra ci dava il latte, i formaggi e i  capretti che nascevano fra ottobre e novembre e morivano, sgozzati, a dicembre.
Solo pochi erano sottratti all’atroce destino. Per lo più, a sal-varsi erano le femmine perché avrebbero dato latte e capretti, mentre in un gregge di maschio ne bastava uno.
Da millenni, un po’ tutti, uomini e Dei mediterranei, a comin-ciare da Giove sul monte Ida a Creta, siamo stati svezzati con il buon latte e i formaggi di capra.
Nella nostra graduatoria zoologica bisognerebbe porre al pri-mo posto la capra, oggi in via di estinzione, verso la quale i popoli del Mediterraneo hanno un grande debito di riconos-cenza.
Monica, forse impressionata dal crudo racconto, mi chiese di cambiare favoletta.
In realtà, non conoscevo molte favole. Da bambini, ci raccon-tavano solo “passate” ossia episodi veri di miseria o di violenza che capitavano in paese.
A narrarcele era mia nonna Caterina che conservava una formidabile memoria. Era cieca, ma i fatti li vedeva.
Non avendo un bagaglio di favole, fui costretto a inventarle, a improvvisarle, attingendo l’immaginario a me più congeniale: l’oriente magico, i deserti e le immense orografie che s’interpongono fra l’Asia, l’Africa e l’Europa.
Cominciai con quella della “bellissima principessa indiana” che s’innamora del suo giovane cameriere che, però, non può sposare poiché egli appartiene a una casta inferiore.
Per coronare il loro sogno d’amore, i due fuggono, travestiti da monaci buddisti, verso i monti dell’Himalaya, dove troveranno rifugio in una caverna…e avranno tante capre e tanti bambini. E “vissero felici e contenti e nantri semu ccà senza fari nenti”. Era questa la formula conclusiva di ogni favoletta.
La guerra dell’acqua nel deserto infuocato
La bambina ne chiese ancora un’altra. Le accennai quella del “vecchio della montagna”, ma presto mi bloccò perché desiderava ri-sentire quella de: “I due cammelli e gli uomini blu” che fa un po’ così.
“Da giorni, una cammella col suo piccolo avanzavano a stento nel bel mezzo del più grande e infuocato deserto della Terra chiamato Al- Khalil.
Il piccolo,  stanchissimo e senza una goccia d’ acqua nel  pancino, si lamentava di continuo: “ Mamma, ho sete, voglio l’acqua, non posso camminare”.
La sua mamma cammella lo rassicurò: “Resisti figlio mio! Fra poco incontreremo l’oasi di Sciatt e potrai bere tutta l’acqua che vorrai.”
Cammina, cammina, ma dell’oasi, dell’acqua nemmeno un segno. Solo deserto, montagne di sabbia infuocata, nemmeno un filo d’erba. Il piccolo cammello ora piangeva “Mamma ho sete, voglio bere” 
Per farlo divagare, la mamma gli raccontò dei suoi lunghi viaggi con le carovane da un oceano all’altro, attraverso i deserti e le oasi incontrate e delle delizie qui conservate: l’ombra ricreante della palma con i suoi datteri, l’acqua nitida filtrata dalla sabbia, il dolce riposo, le notti stellate e il chiaro di luna. Il piccolo cammello ora sognava…
Camminano ancora sotto il sole implacabile, stanno per morire di sete e di stenti. Ma guai a fermarsi. Nel deserto chi si ferma muore. Finalmente. apparve ai loro occhi una mac-chia verde. Non era un miraggio ma un’oasi vera.
“Ecco l’acqua!” esclamò la madre.
“Dov’è?”- disse il cammellino che non ci sperava più.
“Laggiù, in mezzo a quel palmizio. Sicuramente, troveremo una sorgente, un pozzo, uno stagno d’acqua. Corriamo…”
Era questo un luogo fresco e ombroso, un piccolo paradiso in mezzo all’orrido deserto sterminato, sotto un cielo di palme rigogliose da cui pendevano cascate di datteri neri, lucidi e grandi come occhi di bue.
Parevano barbe di faraoni che erano i re dell’Egitto, i figli del Nilo, il fiume più lungo e più benefico della Terra.
Sotto le palme, a riposare, altri cammelli, alcuni uomini e  un branco di caprette che brucavano dal canneto che circon-dava uno stagno quasi asciutto.
Acqua e canne vivono in simbiosi. Come dice l’Antico, sotto la canna c’è l’acqua che dorme.
I due cammelli, madre e figlio, immersero i loro lunghi musi nello stagno e bevvero a lungo, prosciugandolo.
Ad un tratto, dal canneto spuntò una rana gonfia e indignata: “Basta! Non vedete che state bevendo tutta l’acqua? Come faremo noi, povere rane? Crà, crà, crà”

Monica vista dal pittore giordano Mohanna Durra, Joppolo, 1989

E  presto scomparve fra le canne da dove era venuta.
I due cammelli, incuranti delle sue lamentele,  si riempirono il pancione per affrontare altri giorni di duro cammino.
Perché, il cammello non si accontenta, come noi, di un bicchiere d’acqua, ma ne beve grandi quantità per resistere alla sete per tre, quattro giorni.
Il pancione funziona come una riserva d’acqua. Come la cisterna che abbiamo sotto la casa.
Madre e figlio, dopo aver  bevuto a  sazietà, si sdraiarono sotto una palma, a dormire.
In quel mentre, sopraggiunse un pastore che portava il suo  gregge all’abbeverata.
Era un uomo magro, dal viso scuro, mangiato dal sole,
avvolto in una tunica di lana per ripararsi dal caldo.
Le pecore corsero verso il punto d’acqua, ma grande fu la loro delusione nel vedere lo stagno quasi prosciugato. Dopo il lungo cammino trovarono solo un poco d’ acqua nera.
“Meh, meh . Siamo assetate e acqua non ce n’è. Meh, meh”
 Così piangevano le pecorelle.
Il pastore andò su tutte le furie: “Chi ha bevuto l’acqua dello stagno? Ora le mie pecore moriranno di sete.”
Udendo queste urla rabbiose, la rana accorse a vedere, col suo pancione rigonfio e due occhi sgranati.
L’uomo, sempre più infuriato, se la prese con lei:
“Rana brutta e cattiva, hai bevuto tutta l’acqua della conca. Ora ti ammazzo a bastonate”
La rana con un balzo inusitato andò a rifugiarsi sopra un casco di datteri e, una volta al sicuro, così parlò al pastore: “Non sono stata io. Il sole ti avrà bruciato il cervello: il mio pancino non può contenere tutta l’acqua dello stagno.
L’hanno bevuta, quei due cammelli che dormono laggiù sotto la palma…”
Il pastore corse da loro e col bastone punzecchiò il pancione della mamma cammella che si svegliò di soprassalto:
“Chi è? Che cosa succede?”.
“Succede che vi ammazzo di botte tutte e due”- fece il pastore rosso in viso come un peperoncino indiano.
“Perché? Cosa abbiamo fatto di male?”  
“Avete bevuto tutta l’acqua dello stagno e le mie pecore stanno morendo di sete. Per colpa vostra… Dovete restituire l’acqua, o vi ammazzo”
“E come facciamo? Anche volendolo non possiamo resti-tuirla.”
“Ci penserò io. Vi aprirò la pancia con questo coltello e riempieremo le vasche…”
Nel momento in cui il pastore alzò il coltellaccio si udì una voce perentoria : “Fermati, pastore! Non toccare i cammelli, altrimenti dovrai assaggiare la vendetta della mia sciabola!”
Il mandriano si fermò terrorizzato e si girò verso la voce.
Vide Jibril, il capo degli “uomini blu”, temutissimo signore del deserto.
Si chiamano così perché indossano tuniche e lunghi mantelli di tela blu. In realtà, sono “tuareg”, i figli del deserto infinito. Uomini veri, alti e levigati come la malachite, generosi e, all’occorrenza, anche spietati, come il deserto che li ha generati.
Vivono sotto tende nere di pelle. Sono nomadi cioè si spostano da un punto all’altro del deserto alla ricerca di acqua e di pascoli per le loro capre….”
Narravo, narravo alla ricerca di un finale convincente. Stranamente, Monica non aveva avanzato nemmeno un “perché”. Forse, si era addormentata.
Infatti, dormiva, serena e beata, col pollice in bocca.
Meno male. Così non mi scervellai a trovare un finale degno a questa guerra dell’acqua in pieno deserto.
Ci vogliamo tutti bene
(5/10) All’asilo Monica va sempre contenta. Le abbiamo spiegato che è come la scuola dove si va per giocare ma anche per apprendere. Se lei andrà all’asilo ogni mattina, la mamma potrà andare a lavorare ad Agrigento, al Centro studi mediterranei.
La bambina continua a fare disegni, taluni davvero interes-santi, e a scrivere alcune lettere dell’alfabeto. Sa contare fino a 20, oltre non riesce ad andare.
Purtroppo, le maestre si comportano come solerti madri di famiglia, come brave nonne: mostrano tanta premura verso i bambini, li tengono a bada, ma insegnano poco in vista del passaggio alle elementari.

Attraverso Monica, cominciamo a prendere coscienza dei problemi della scuola di Joppolo, dell’esigenza di una sua maggiore qualificazione, secondo lo spirito della riforma.
Stiamo lavorando per organizzare una conferenza cittadina sulla scuola.
Per il resto, ci vogliamo tutti molto bene.
Monica continua a crescere sana e perspicace. L’unico suo problema è la paura del buio: non entra in una stanza, nel bagno se non sono illuminati. Ora, più che del vento, ha paura del buio.
Di tanto in tanto, pensa al fratellino lontano. Anche noi ci pensiamo, sempre. Purtroppo, non si riesce a smuovere niente e nessuno. In Romania la situazione è tragicamente bloccata, ma noi gli vogliamo un gran bene. Ci vogliamo tutti bene. Lo porteremo a casa!
E questo è Claudio, il fratellino, finalmente a casa, ma di lui scriveremo alla prossima …puntata.


INDICE
Introduzione....................................................................... III
La nascita di Monica
Capitolo primo.................................................................... 1
Una visita
Fango, freddo e fame nel reame di N. Ceausescu
La razione mensile
L’incontro con Monica
La dittatura rumena: non è il nostro socialismo
Dollari e sigarette americane
All’ospedale col borsone
La resistenza degli artisti plastici
Solo Alessandro Natta la può aiutare…
Austerità ferroviaria
Capitolo secondo................................................................ 31
Monica e Loredana, un destino parallelo
La Bucarest ritrovata
Regali coi fiocchi
La lettera di Pajetta ha funzionato
Monica sotto un cielo di fiori e di foglie
Lo zingaro grassone
Finalmente a casa
Capitolo terzo..................................................................... 49
Monica saluta come una candidata a sindaco
Alla festa de l’Unità
Monica scopre il mare e vi si tuffa
Il battesimo nella chiesa fra i templi
Il prete officia, Monica balla
Siamo tutti “ta-tà”
 Il primo compleanno di Monica
Primi passi da sola. Dove andrà?
Stasera ha detto “mamma”
La rivoluzione degli affetti
Fra me e Monica è scoppiato l’idillio
Capitolo quarto.................................................................. 75
Il secondo capodanno di Monica
Nardu, quando la libertà è follia
Monica e Loredana si riabbracciano ad Agrigento
Monica balla al mercatino
Alla Sagra del mandorlo in fiore
In elicottero per abbracciare Monica
Bau bau si è addormentato
La solidarietà del paese
Monica gioca col “fango elementare”
Ad Hanna Gheddafi, morta sotto una bomba Usa
Capitolo quinto................................................................... 100
La notte dei segni
A-li-li-là
Monica al luna park
Giufà nel castello incantato
Il vento non ha un letto per dormire
Il secondo compleanno di Monica
Vincenzo Terrana o dell’umanità del Partito
Il pappagallo di Nzuli
Arrivano due Babbi Natale
Capitolo sesto.................................................................... 132
La famiglia cresce, la casa si allarga
Il bambino invisibile
Un vestitino burlesco
Nell’orto del nonno, a Montefamoso
Mai sentito tanto “freddo” in un ufficio dello Stato
Dov’è il fratellino?
La promenade
Un cerbero dantesco al pozzo Sarrovi
Una riunione di sole donne
A Ifchia
Come sono i bambini cinesi?
I morti volanti
Il fratellino per “finta”
Capitolo settimo................................................................. 171
“Papà quando porti il fratellino?”
Un bambino palestinese per giocare con Monica
La gonna con lo spacco
A Mazara, con i poeti del Mediterraneo
Il ventilatore
Una lettera di Giulio Andreotti
Il gelataio di Aragona
Quando nasce un filo d’erba
Lo spirito del “conducator” aleggia sopra Palermo
Furto in casa, ancora uno zingaro
Una sonora pernacchia al professorone
La vendita dei fac-simili
Il fiume anidro
La guerra dell’acqua nel deserto infuocato
Ci vogliamo tutti bene


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